martedì 26 dicembre 2017

Russia: Navalny formalmente escluso da elezioni


La Commissione elettorale non permette la candidatura al maggiore oppositore di Putin alle Presidenziali del 2018. Alexei Navalny è già stato arrestato tre volte nel corso dell'anno.

Le autorità responsabili delle prossime elezioni presidenziali in Russia hanno formalmente escluso dalla corsa elettorale il leader d'opposizione Alexei Navalny, che ora fa appello al boicottaggio del voto del prossimo anno. La Commissione elettorale centrale russa ha deciso all'unanimità che l'attivista anti-corruzione non è idoneo alla candidatura.

Navalny era già implicitamente escluso d'ufficio dalla corsa elettorale, a causa di una condanna in un caso di frode che è però stato considerata dall'opposizione come una decisione politica. Avrebbe potuto partecipare se gli fosse stata data una dispensa speciale o se la sua condanna fosse stata annullata.

I 12 componenti della Commissione elettorale ad unanimità hanno votato contro la candidatura del principale oppositore di Vladimir Putin a causa della controversa condanna a carico di Navalny, con pena sospesa, a 5 anni per appropriazione indebita. L'avversario di Putin, comunque, aveva raccolto le firme necessarie per la candidatura. Il politico d'opposizione la definisce come una 'sentenza politica' ma il verdetto implica che lui non possa partecipare alle presidenziali.

Navalny, che ha 41 anni, è stato incarcerato tre volte quest'anno e accusato formalmente di violazione della legge per avere ripetutamente organizzato incontri pubblici, comizi non autorizzati, proteste anti-corruzione. Il principale oppositore di Putin, a questo punto, l'unico uomo che avrebbe potuto mettere in difficoltà l'uscente presidente ha invitato tutti i suoi sostenitori a non partecipare al voto, proclamando: "Stiamo dichiarando uno sciopero degli elettori. Chiediamo a tutti di boicottare queste elezioni. Non riconosceremo il risultato di queste elezioni".

In una ventina di città russe i sostenitori di Navalny sono scesi in piazza per sostenere la sua candidatura per le prossime elezioni presidenziali del marzo 2018 nonostante sia stato giudicato ineleggile.

La gente si è mobilitata a supporto di Navalny, da Vladivostok a Rostov sul Don a Mosca e San Pietroburgo, per un totale di una ventina di città, i sostenitori del carismatico avvocato e blogger anticorruzione dai toni a volte nazionalisti, si riuniscono per fare di Navalny il loro candidato davanti alle autorità elettorali locali.

Secondo i sondaggi l'attuale presidente russo Vladimir Putin, che ha annunciato che si ricandiderà per la quarta volta, riuscirà facilmente a ottenere la rielezione, il che significa che rimarrà al potere fino al 2024. I concorrenti di Putin, allontanato Navalny, sono Pavel Groudinine (Partito Comunista), Vladimir Jirinovski (estrema destra) e Ksenia Sobchak, la trentaseienne giornalista televisiva del Partito per l'iniziativa civile russa.

Durante i loro rispettivi congressi di partito a Mosca, sia la formazione di centrosinistra "Russia Giusta", sia i conservatori di "Piattaforma civica", hanno deciso di non presentare alcun candidato alle prossime elezioni presidenziali del marzo 2018, ma di sostenere la candidatura dell'attuale presidente, Vladimir Putin, che corre come candidato indipendente.

Sergey Mironov, leader di Russia Giusta, nel suo comizio ha spiegato le ragioni della decisione: "Era di fondamentale importanza per noi che Vladimir Putin partecipasse non per conto di "Russia Unita", ma come candidato indipendente. In questo modo, ha chiamato a raccolta le forze politiche e sociali russe per supportarlo, ed è proprio così che noi risponderemo."

Lo stesso concetto che ha espresso il leader di "Piattaforma Civica", Rifat Shaykhutdinov: "Il nostro partito storicamente supporta Vladimir Putin. Quando cominciò la crisi della Crimea, come ricordate, siamo entrati in un periodo molto difficile per la nostra maturità politica, supportando la riunificazione della Crimea".

Intanto la sfidante di Putin, Ksenia Sobchak, ha presentato ufficialmente la sua candidatura alla commissione elettorale centrale a correre alle presidenziali per il partito "Iniziativa civile Russa", formazione non rappresentata in Parlamento.




sabato 16 dicembre 2017

Corea del Sud: "Il regime di Kim Jong-un ha hackerato milioni di Bitcoin"



L'intelligence sudcoreana è convinta che la Corea del Nord abbia condotto una serie di attacchi hacker alle criptovalute, in particolare Bitcoin, accumulando così milioni in valuta virtuale. Gli hacker si sarebbero inoltre impadroniti dei dati personali di almeno 30mila persone. Secondo gli esperti, l'obiettivo dell'attacco è quello di evadere le sanzioni fiscali a cui è sottoposto il regime di Pyongyang.

E' quanto ha riferito la Bbc.

Almeno 7 milioni di dollari sono stati rubati, oggi hanno un valore decuplicato di 82,7 milioni. Inoltre, gli hacker si sono impadroniti dei dati personali di almeno 30.000 persone.

Secondo gli esperti, l'obiettivo dell'attacco è quello di evadere le sanzioni fiscali a cui è sottoposto la Corea del Nord.

Secondo gli esperti, citati dalla Bbc, l'obiettivo dell'attacco era quello di evadere le sanzioni fiscali a cui è sottoposto il regime nordcoreano. Da tempo si sospettava infatti che Kim Jong-un avesse accumulato un tesoretto di Bitcoin da usare contro le pesanti sanzioni imposte al Paese.

Diversi gli attacchi informatici. Il primo è stato compiuto lo scorso febbraio e ai danni di Bithumb, network fondato in Corea del Sud e il quinto al mondo per volume di transazioni. Dopo la violazione, gli hacker hanno chiesto un riscatto milionario alla compagnia per restituire i dati personali rubati. Un altro attacco, a settembre, ha preso di mira la piattaforma Coinis. Un ultimo attacco invece è stato sventato lo scorso ottobre.

Da tempo si sospetta che Kim Jong-un abbia accumulato un presunto tesoretto di Bitcoin da usare contro le pesanti sanzioni imposte al Paese.

La Corea del Nord gestisce quello che la Corea del Sud crede sia un esercito di hacker che ha spostato la sua attenzione dallo spionaggio militare al furto in campo finanziario. L’Ufficio Reconnaissance General Bureau del regime, risponde direttamente a Kim Jong Un e  tratta dalle operazioni di crimine-cibernetico in tempo di pace, allo spionaggio, alle interruzioni di rete ed impiega circa 6000 persone, come risulta da un rapporto del 2016 del Centro Internazionale di Cyber Policy presso l’Australian Strategic Policy Institute.

Nei recenti attacchi, la Corea del Sud potrebbe essere diventata un buon obiettivo non solo per la sua vicinanza a Pyongyang e per la lingua condivisa, ma anche perché, quest’anno, il paese è diventato uno dei centri di negoziazione più attivi con le cripto-valute . Il Bithumb di Seul, è il punto di scambio più grande del mondo per gli scambi ethereum. A giugno, sembra che gli hacker abbiano rubato informazioni sui clienti dal computer di un dipendente, senza che gli attaccanti siano stati identificati.


martedì 12 dicembre 2017

Arabia Saudita: 35 anni dopo riaprono i cinema



Dopo 35 anni l'Arabia Saudita riaprirà i cinema. A partire dal marzo del 2018 si potrà andare di nuovo al cinema in Arabia Saudita. Oggi il ministro della Cultura Awad al-Awad ha annunciato la fine del divieto entrato in vigore negli anni Ottanta, in seguito ad una svolta di carattere ultraconservatore: «In qualità di regolatore del settore, la Commissione generale per i mezzi audiovisivi ha avviato il processo di concessione delle licenze ai cinema nel Regno. È un momento di grande sviluppo dell’economia culturale del Paese». Sempre ha affermato al Awwad "l'apertura dei cinema fungerà da catalizzatore per la crescita economica e la diversificazione", osservando che "lo sviluppo del settore culturale aprirà nuove opportunità di impiego e formazione, oltre ad arricchire le opzioni di intrattenimento del regno". I primi cinema dovrebbero aprire a marzo 2018 ed entro il 2030 si prevede che saranno in funzione circa duemila sale in tutto il Paese, oltre a 300 teatri.

La decisione è stata presa nell’ambito del programma di riforme economiche e sociali Vision 2030 sostenute dal principe ereditario Mohammed Bin Salman. I cinema nel regno saudita vennero chiusi negli anni Ottanta, in seguito ad una svolta di carattere ultraconservatore. Per il muftì dell’Arabia Saudita le sale cinematografiche spingono alla depravazione perché favoriscono la promiscuità.

La revoca del divieto, rigidamente osservato dagli anni Ottanta con rarissime eccezioni, fa parte dell'ampio programma di riforme, denominato 'Vision 2030', con il quale il potente principe ereditario, Mohammed Bin Salman, sta scuotendo la monarchia del Golfo nonostante l'opposizione degli ultraconservatori che considerano le svolte una minaccia per l'identità culturale e religiosa.

L’apertura dei cinema integra due pilastri fondamentali del programma Vision 2030: incoraggiare una società vivace, compreso un settore dell’intrattenimento e alimentare un’economia fiorente che crea opportunità per tutte la popolazione. Per le autorità saudite l’industria cinematografica avrà un forte impatto economico che aumenterà le dimensioni del mercato dei media, stimolerà la crescita economica e la diversificazione contribuendo con oltre 23,9 miliardi di dollari al prodotto interno lordo, creando oltre 30mila posti di lavoro permanenti e oltre 130mila posti di lavoro temporanei entro il 2030.

Nei mesi scorsi la massima autorità religiosa del Paese, il gran mufti Sheikh Abdul Aziz al-Sheikh, ha sostenuto che la musica, i concerti, i film e le sale cinematografiche sono fonte di "depravazione" e, se tollerate, potrebbe diventare elementi di corruzione per gli abitanti del regno.

Nonostante il divieto sia ancora in vigore, il cinema saudita miete successi all’estero. La commedia romantica Barakah meets Barakah, il primo lungometraggio del regista 33enne Mahmoud Sabbagh, è stato proiettato alla Berlinale e Wadjda (La Bicicletta Verde) di Haifaa Al-Mansour aveva partecipato agli Oscar tra i film stranieri.

Negli ultimi mesi ha abrogato alcune misure restrittive imposte alle donne, dando loro più libertà. Lo scorso settembre è stato loro permesso di recarsi in uno stadio e nel giugno 2018 verrà concesso loro di guidare. Mercoledì scorso, inoltre, le saudite hanno potuto partecipare per la prima volta al concerto dell’artista libanese Hiba Tawaji che si è esibita al King Fahd Cultural Center nella capitale saudita.





mercoledì 6 dicembre 2017

Bitcoin per cosa lo si può usare?



Il Bitcoin è una valuta digitale creata da computer che risolvono problemi matematici, con un processo che viene definito mining. A differenza delle valute tradizionali, i Bitcoin sono completamente decentralizzati, perché il mining non avviene per conto di un istituto centrale con funzioni di garanzia.

Il modo più semplice per comprare criptomonete è affidarsi ad un servizio di wallet digitale, come Luno, Coinbase, Kraken o molti altri. Quasi tutti i servizi di questo tipo offrono un’app per smartphone che rende molto più semplice e diretta la gestione del proprio account. Con il proprio wallet, dopo un processo di verifica dell’identità, si possono inviare, ricevere e conservare Bitcoin e altre criptovalute.

I Bitcoin disponibili nel wallet si possono inviare a qualsiasi altro utente, utilizzare per i pagamenti, o conservare come investimento. Una soluzione più avanzata è il cosiddetto hardware wallet, che non è connesso ad internet e offre un livello di protezione ulteriore.

E bene ricordare che i Bitcoin si possono scambiare con valuta tradizionale in quasi tutti i paesi del mondo. Il modo più semplice per farlo è ricorrere ad una delle numerose piattaforme che facilitano le transazioni di compravendita di Bitcoin e altre criptomonete. La maggior parte dei wallet provider offrono la possibilità di scambiare Bitcoin, Litecoin ed altre criptomonete direttamente dall’applicazione. I soldi che finiscono sul conto in valuta tradizionale si possono poi trasferire con un bonifico su un qualsiasi conto corrente.

Come creare e spendere i Bitcoin

Fase 1: procurarsi un Wallet – La prima cosa è scaricare il client, il tuo portafogli virtuale (appunto, Wallet) grazie a cui si potrà custodire e spendere il denaro che genererai o che ti verrà dato. È disponibile per PC, Mac e Linux). Si può gestire il portafoglio anche tramite smartphone Android, un metodo comodo per pagare in valuta virtuale anche nei negozi tradizionali.

Aprendo il wallet si vedrà sull’interfaccia un codice alfanumerico, che è il tuo primo indirizzo Bitcoin (Bitcoin address, di 34 caratteri alfanumerici). È importantissimo non perdere questo numero: copialo in un posto sicuro. Se lo perdi, i tuoi Bitcoin contenuti in esso saranno persi per sempre, e scompariranno dalla rete.

Una precisazione importante: il Bitcoin address (indirizzo Bitcoin) e il wallet (portafogli) non sono la stessa cosa. Il primo è un codice univoco, e puoi generarne tanti quanti ne vuoi, in base a pratiche di comportamento consigliate di cui abbiamo parlato nel primo paragrafo di questo articolo. Il secondo, il wallet, è il portafogli a cui puoi associare tutti i Bitcoin address che generi, e in cui finiscono quindi tutti i soldi che su quegli indirizzi ricevi.

Fase 2: come si genera i Bitcoin – L’attività di reperimento di Bitcoin si chiama Mining.

La prima cosa da fare per procurarsi monete è unirsi ad un Pool. Un Pool è una specie di consorzio, a cui ogni persona cede una parte delle risorse del proprio computer per eseguire dei calcoli estremamente complessi. Più precisamente, per risolvere delle crittografie. In Internet ci sono molti di questi gruppi, a cui ci si può unire facilmente.

Ma questo conferimento di risorse, come avviene? È semplice. Una volta che uno si sarà associato ad un Pool e avrà creato il proprio account personale, e si potrà scaricare un piccolo programma in Java.

Quando si eseguono, parte delle risorse di calcolo del proprio computer vengono messe a disposizione del gruppo. Grazie a questa unione di forze, le crittografie vengono risolte più facilmente. Un singolo PC, infatti, non riuscirebbe a portare a termine il task.

Ogni volta che un Pool trova la soluzione alla crittografia, il sistema gli conferisce uno o più pacchetti da 50 Bitcoin, e le monete virtuali vengono ripartite tra tutti i membri in base al contributo di risorse dato.

Il ruolo primario di una valuta è quello di strumento di scambio. Anche il bitcoin è nato per questo, per garantire un sistema sicuro e senza autorità centrali per le transazioni. Ma il meccanismo stesso delle criptovalute, basato sulla certificazione decentrata da parte dei “miners” per ogni singola transazione, ha dato vita a un sistema macchinoso e lento: la trasparenza e la sicurezza della blockchain hanno come contropartita tempistiche che mal si conciliano con un denaro digitale che si muove in tempo reale. Alla ricerca di un sistema più efficiente sono nate quest'anno le “scissioni” del bitcoin cash e del gold.

Altro compito di una moneta è la riserva di valore. Da questo punto di vista nei primi anni di vita il bitcoin ha funzionato in maniera egregia, mettendo al riparo da un'inflazione irreale. Come l'oro diventa quindi un bene rifugio, adatto per i momenti di crisi: non è un caso che tensioni internazionali come quella coreana coincidano con accelerazioni delle quotazioni. Se è difficile pensare al bitcoin come sostituto delle monete nazionali, non è escluso che qualche Banca centrale possa utilizzarlo come strumento per le proprie riserve.

Con i suoi rendimenti da favola il bitcoin si è imposto come asset class, sia pur ad altissimo rischio, costringendo la grande finanza di Wall Street a rincorrere un mercato per sua natura al di fuori delle regole. Anche il Nasdaq e il broker Cantor Fitzgerald, secondo il Wall Street Journal, stanno valutando il lancio di contratti future sulla criptovaluta, sulle orme del Chicago Mercantile Exchange che entro fine anno aprirà le contrattazioni ai derivati: questi nuovi strumenti, con contratti regolati del tutto per contanti, permetteranno di ridurre il rischio e allargheranno la platea di investitori.

Sempre più spesso le rimesse dei migranti in patria, soprattutto laddove il valore della moneta locale è minato da iperinflazione o sistemi bancari traballanti, viaggiano su bitcoin. Ne è un esempio lo Zimbabwe. Ma in tutta l'Africa ci sono più cellulari che conti correnti. E per trasferire il bitcoin non serve nulla di più di uno smartphone e della connessione internet.

In Cina la criptovaluta sarebbe stata utilizzata a piene mani per esportare capitali uscendo da un sistema a cambio fisso. Il deflusso di capitali ha alla fine provocato il bando decretato da Pechino a settembre per gli scambi sugli exchange locali, che per un attimo ha fatto traballare il bitcoin.

L’anonimato che copre il bitcoin viene sfruttato facilmente per nascondere attività illecite: dai traffici illegali nel deep web, dove si può acquistare di tutto, dalle armi agli stupefacenti, alle richieste di riscatto degli hacker informatici per “liberare” computer e file sensibili, fino al sospetto di riciclaggio di montagne di denaro da parte delle grandi organizzazioni criminali.

Le criptovalute sono anche alla base delle Ico, le offerte iniziali di valute che hanno spopolato quest'anno con oltre 3 miliardi di dollari raccolti: il lancio di token, di nuove criptovalute, è utilizzato per finanziare progetti e startup innovative garantendo l'accesso a servizi, prodotti o a partecipazioni societarie, con la costituzione di fondi di venture capital aperti anche a piccoli investitori. Pur sempre in un clima opaco che rischia di favorire vere e proprie truffe.


mercoledì 29 novembre 2017

Record Bitcoin da 10mila a 11mila dollari in poche ore


Si è ripetuto diverse volte nella storia, quando le promesse di strabilianti guadagni hanno gonfiato le quotazioni di beni e azioni, fino ad arrivare al duro ritorno alla realtà. È quello che molti temono si stia ripetendo con il bitcoin, la criptovaluta che ha superato per la prima volta prima i 10mila dollari, poi addirittura gli 11mila dollari poche ore dopo.

Un anno fa era poco sopra 700 dollari, a inizio anno ha superato i mille e solo un mese e mezzo fa ha sfondato la soglia di 5.000. Oggi è su livelli pari a oltre il doppio. In termini percentuali la progressione è ancora più chiara: +20% nel corso dell’ultimo fine settimana, quasi 70% nelle ultime due settimane e 900% in dodici mesi.

Il record di quseti giorni è dipeso da diversi fattori. Primo fra tutti l'apertura sulla piattaforma Coinbase, il più grande exchange Usa, di oltre 100.000 nuovi conti nei giorni della Festa del Ringraziamento, tra il 22 e il 24 novembre. Il numero totale di account sulla piattaforma ha così raggiunto quota 13,1 milioni.  A trainare il recente balzo del Bitcoin è stato anche l'annuncio di Shinhan Bank, la seconda banca commerciale sudcoreana, che verso la metà del prossimo anno attiverà un sevizio di custodia dei Bitcoin, dando ai clienti la possibilità di usare un 'wallet' (applicazione dedicata che permette di acquistare e vendere Bitcoin) realizzato dallo stesso istituto.

Alcuni analisti suggeriscono che l'exploit del Bitcoin riflette la decisione di indirizzarsi verso un'alternativa rispetto ai mercati globali tradizionali, ma mettono in guardia dal rischio di una bolla valutaria. "C'è molta schiuma", ha avvertito Mike Novogratz, un gestore di hedge fund, "e secondo me questa sarà la più grande bolla delle nostre vite".

I bitcoin e le criptovalute sono delle "attività, dei contratti, vulnerabili a crisi di sfiducia che possono essere repentine". Lo afferma il vice dg della Banca d'Italia Fabio Panetta in audizione alla Commissione finanze della Camera. Per Panetta si tratta di fenomeni difficili da regolamentare, come ha dimostrato l'esperienza della Cina. "Non vorrei essere nei panni di chi dovrà scrivere le norme". Peraltro non "abbiamo nessuna visibilità sul volume delle transazioni tranne quanto vengono convertite in euro ma queste sono la 'punta dell'iceberg'".

La Federal Reserve sta "iniziando a pensare a un'offerta" di valute digitali. Lo dice, secondo l'agenzia Bloomberg, William Dudley, presidente della Fed di New York, il quale precisa che "è prematuro" sostenere che ci sia ancora qualcosa di concreto in proposito. A chi gli chiede dei bitcoin, le criptovalute il cui prezzo dall'inizio dell'anno è cresciuto del 900% arrivando da meno di mille dollari a oltre 11.000, Dudley replica: "Sono molto scettico, penso che si tratti più che altro di un'attività speculativa".

La corsa della moneta virtuale non è una novità e procede ormai da tempo. La questione che si pone per i mercati è se questa moneta, che non si "batte" ma si "estrae", che un anno fa valeva mille dollari o poco meno e oggi ha superato gli 11mila, che oggi conta 16 milioni e mezzo di criptomonete e che mai potrà superare quota 21 milioni (di criptomonete), sia una nuova bolla speculativa. Il premio Nobel all'Economia Joseph Stiglitz dice in un'intervista a Bloomberg che il Bitcoin "ha successo solo per il suo potenziale di aggirare le regole e per la mancanza di supervisione: dovrebbe essere vietato. Non ha alcuna funzione sociale. E' una bolla che regala emozioni forti a molte persone andando su e giù".

A quanto pare rischia di non avere confronti nella storia, superando di gran lunga tutte le bolle dell’ultimo secolo, compresa quella della net economy a cavallo del nuovo secolo. Ma che, performance alla mano, si confronta con quella pià grande della storia, quella che colpì i tulipani nel 1.600, quando l’”esuberanza irrazionale” aveva fatto lievitare le quotazioni dei bulbi multicolori sull’onda di speranze rivelatesi poi assolutamente irrealistiche. Tanto da provocare una precipitosa caduta verticale dei prezzi.

È stato Convoy Investments a fare i conti mettendo a confronto le quotazioni degli ultimi tre anni prima dello scoppio di ciascuna bolla. Il bitcoin ha visto lievitare le quotazioni di 50 volte nell’ultimo triennio, arrivando ormai al picco dei tulipani, ma superando qualsiasi altra del passato.

D’altra parte il fatto che il bitcoin abbia comportamenti “non normali” fa parte del suo appeal che ha scatenato la nuova “corsa all’oro digitale”: la criptovaluta ha in qualche modo ridefinito il concetto di denaro e creato un concetto, al momento inesistente di asset digitale scaro (si sa già che i bitcoin non saranno più di 21 milioni, oggi siamo a oltre 16 milioni in circolazione.
Come sottolinea il report di Convoy, sono due i fattori che identificano le bolle finanziarie. Da una parte l’aumento a ritmi in rapida accelerazione e insostenibili delle quotazioni: “Se bitcoin proseguisse a questi ritmi per un altro paio d’anni arriverebbe a una capitalizzazione di mercato superiore al Pil americano”.

Dall’altra parte un ritorno dell’investimento sproporzionato rispetto al reddito reale generato dal bene: per le azioni è il dividendo, per le valute il tasso d’interesse, per i bond la cedola. Se teniamo presente che il bitcoin non ha alcun valore intrinseco e che non può generare alcun reddito se non la speranza di ulteriori apprezzamenti della quotazione, il report conclude facilmente che “il bitcoin è nel mezzo di una enorma bolla speculative”, anche se Convoy non si spinge a fare previsioni su quando (e se) potrà scoppiare.
Come sottolinea il report, “questa bolla assomiglia molto per natura a quella tecnologica della fine degli anni 90: alla fine internet ha cambiato qualsiasi aspetto della nostra vita, ma questo non significa che aziende come pets.com non fossero al tempo decisamente sopravvalutate”.

Il bitcoin non è altro che la prima, più visibile applicazione di una tecnologia che promette di trasformare tanti settori, la blockchain, il registro pubblico distribuito che elimina la necessità di un certificatore per qualsiasi tipo di transazione che implichi un trasferimento di valore. Che potrebbe essere il vero valore che rimane se e quando scoppierà la bolla.



Brexit: il conto per uscire dall'Europa



I quotidiani inglesi non parlano d'altro: è stato raggiunto l'accordo finanziario tra il Regno Unito e l'Unione Europea con il quale il primo si assume la responsabilità di pagare fino a 100 miliardi di euro per uscire dall'Europa, anche se il costo per la Brexit oscilla tra i 44 e i 55 miliardi di euro.

Il costo del divorzio tra Londra e Bruxelles ammmonterà fra i 45 e i 55 miliardi di euro. Una fattura che il Regno Unito dovrà pagare all'Europa per poter uscire dall'Unione. L'accordo sulla cifra sarebbe stato già raggiunto. La notizia è rimbalzata questa mattina sulle prime pagine di diversi quotidiani britannici ed è stata confermata dalla televisione di Stato. Ma come si arriva a questa cifra?

30 miliardi
Ogni anno il budget europeo prevede degli stanziamenti pluriennali per il finanziamento di diversi progetti. Al momento dunque Londra deve saldare almeno 30 miliardi di euro per i progetti a venire.

20 miliardi
Ma Londra sarà costretta a versare nelle casse dell'UE almeno 20 miliardi per gli impoegni legali assunti per il periodo 2014-2020. Poi ci sono altri impegni economici assunti nel passato che il Regno Unito dovrà rispettare.

Gli altri 'spiccioli'
Bruxelles vorrebbe anche almeno 7 miliardi di euro per pagare una parte delle pensioni dei funzionari europei, oltre al contributo per la politica migratoria o quella relativa agli investimenti strategici.

Secondo alcuni analisti in realtà la somma totale potrebbe facilmente superare i 100 miliardi di euro. Il prossimo 4 dicembre è previsto un incontro tra il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, il capo dei negoziati per la Brexit Michel Bernier e la premier britannica Theresa May.

Si tratta di una prima importante fase prodromica a quella dei negoziati necessari per definire gli accordi commerciali tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea.

Come ha affermato, cautamente, il capo negoziatore dell'Ue, Michel Barnier “ci stiamo ancora lavorando duramente, spero di poter annunciare presto un'intesa”, sebbene tale tipologia di accordo si configuri certamente come una sconfitta per il Regno Unito.

Sulla base di tale preliminare accordo la premier britannica Theresa May e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker si incontreranno a pranzo lunedì 4 dicembre, sue giorni prima che la Commissione discuta sullo stato dei negoziati.

Non vi sono commenti a tale accordo né dal governo britannico né tantomeno dalla Commissione europea, ma quello che è certo è che intanto il prezzo della sterlina sale a 1,33 dollari e nei confronti dell'euro a 0,89.

Il calcolo viene effettuato in questo modo: 10 miliardi all'anno per i due anni di transizione dopo Brexit chiesti da Londra tra il 2019 e il 2021, (che i Ventisette sono pronti a concederle), a cui bisogna aggiungere 20-30 miliardi che sono gli impegni finanziari promessi ma non ancora versati inclusi nel bilancio comunitario 2014-2020. A questo totale bisogna sommare alcuni miliardi fuori bilancio per pagare tra le altre cose le pensioni dei funzionari europei.

Oltre al nodo finanziario, su cui si stanno facendo progressi, restano aperte due altre questioni: il diritto dei cittadini e il rapporto tra la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord. Quest'ultimo aspetto è diventato particolarmente difficile da risolvere dopo che il governo irlandese ha deciso di alzare la posta, chiedendo specifiche garanzie a Londra. Dublino vuole che nell'Ulster ci sia nei fatti uniformità regolamentare per preservare i vantaggi del mercato unico sull'intera isola. «Vogliono una soluzione che valga per l'intera isola, tale da preservare gli strettissimi scambi commerciali sui due lati della frontiera», nota un diplomatico nazionale. Per il Regno Unito, la richiesta irlandese appare difficile da accettare. In ballo, c'è la sovranità stessa della Gran Bretagna. «D'altro canto – spiega ancora l'esponente comunitario –, dietro a Brexit c'è proprio la volontà di staccarsi dall'Unione, abbandonare l'assetto regolamentare comunitario».

Molti diplomatici ammettono che il governo irlandese ha deciso di fare la voce grossa, nel timore che rinviando la questione all'accordo definitivo Dublino rischi di dover accettare la posizione inglese. Ufficialmente, l'Irlanda può contare sull'appoggio dei suoi partner, ma nella sostanza la posizione irlandese è molto particolare. Agli altri governi preme soprattutto trovare una soluzione sulle finanze e sui diritti dei cittadini. «La questione irlandese è tale: prettamente irlandese», ammette un altro diplomatico.

Per Londra, garantire l'unità regolamentare sull'intera isola significherebbe avere due regimi in uno stesso paese. Sarebbe anche interpretato come un primo passo verso una clamorosa riunificazione dell'isola. In un recente vertice europeo l'allora premier Enda Kenny aveva ottenuto che fosse precisata la possibilità per l'Irlanda del Nord, una volta eventualmente inglobata nella Repubblica d'Irlanda, di aderire direttamente all'Unione, come la DDR in occasione della riunificazione tedesca.


venerdì 24 novembre 2017

Putin, missione compiuta in Siria: la regia del dopo Sato Islamico è sua



Gli accordi di Sochi normalizzeranno la situazione in Medio Oriente. Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin che definisce costruttivo l’incontro con il presidente iraniano, Hassan Rohani e quello turco Recep Tayyip Erdogan.

Sulla composizione del Congresso di dialogo nazionale promosso dal Cremlino, la Turchia continua a rifiutare la presenza dei rappresentanti curdi.

“L’azione militare su vasta scala contro i gruppi terroristici in Siria sta volgendo al termine – ha detto Putin – Sottolineo che grazie agli sforzi di Russia, Iran e Turchia, siamo riusciti a prevenire il crollo della Siria”. L’intesa è totale ha aggiunto Erdogan, ma non specifica se siano state prese decisioni sulla presenza dei curdo-siriani. “L’accordo che abbiamo raggiunto è importante, ma non è ancora abbastanza – ha aggiunto Erdogan – è fondamentale che tutte le parti interessate contribuiscano a trovare una soluzione politica permanente e accettabile per il popolo siriano”.

Nei giorni scorsi il presidente siriano Bashar Assad era salito a Sochi, la capitale diplomatica di Putin sul Mar Nero, per rendere omaggio all’uomo che gli ha salvato il regno e il posto. C’è ancora molto da fare prima di ottenere una vittoria completa sui terroristi», ha ammesso Putin. Ma ciò che conta per lui è annunciare che si torna a casa; avviare il ridimensionamento della missione in Siria mantenendo comunque la base navale di Tartous e quella aerea di Latakia. Nel frattempo, l’imperativo di un’uscita di scena di Assad sembra finito in disparte, anche se il leader siriano ha pochi margini di manovra: a Sochi non ha potuto far altro che cedere all’ospite la gestione del dopoguerra nel suo Paese.

E Putin ha iniziato a definirlo due giorni dopo - mercoledì - con gli altri due vincitori: il presidente turco Recep Tayyep Erdogan e l’iraniano Hassan Rohani. L’esito del conflitto li ha portati vicini, strana coppia a cui Putin è riuscito a strappare l’appoggio comune a un Congresso di “dialogo nazionale” che si svolgerà per l’appunto a Sochi, e che mira a riuscire dove americani ed europei finora hanno fallito: mettere di fronte il governo siriano e l’opposizione, fargli costruire la nuova Siria insieme dopo sei anni di massacri.

Dopo aver affiancato Turchia e Iran, convincere a collaborare quel che resta dell’opposizione ad Assad sarà la prova del nove per Putin che in qualche modo vuole strappare l’iniziativa alle Nazioni Unite, affiancandosi ai negoziati che riprenderanno a fine mese a Ginevra. Con il presidente russo parlano tutti: dopo aver visto Assad, Putin ha telefonato a Donald Trump e all’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al re saudita Salman. Con ciascuno di loro Putin sottolinea gli interessi comuni, in particolare con l’Arabia che con Mosca sta gestendo una fase delicata di ripresa dei prezzi del petrolio: altro terreno dall’equilibrio scivoloso, dove anche il punto di vista di due grandi produttori come russi e arabi non sempre coincide. In Siria, Putin dovrà far coesistere il consolidamento di Teheran con il ridimensionamento di Riad, che ha armato l’opposizione ad Assad. La guerra starà finendo, ma la partita diplomatica inizia ora.

I vertici della repubblica islamica degli ayatollah, hanno dichiarato che la guerra al Califfato è vinta: un segnale che secondo loro può cominciare la spartizione in zone di influenza.

L’agenda però la dettano i russi, entrati in guerra a fianco di Damasco nel settembre 2015, mentre i turchi sono soddisfatti dalla presenza militare nel Nord della Siria in funzione anti-curda e Israele continuerà a occupare le alture del Golan conquistate nel 1967. Gli iraniani puntano a mantenere quell’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah che rende furibondi i sauditi e nervosi gli israeliani. Il casus belli è sempre questo da oltre tre decenni: la repubblica islamica sciita, persiana ed erede di un impero millenario.

Gli Stati Uniti con la Russia dovrebbero sancire questa spartizione dove convivono in un affollato condominio militare. L’accordo tra Putin e Trump (ieri i due presidenti hanno avuto un colloquio telefonico di circa un’ora) potrebbe essere il risultato della dichiarazione di Da Nang, al vertice asiatico dell’Apec, quando in un raro comunicato congiunto hanno affermato di concordare sull’«integrità della Siria e la sua sovranità». Quanto sarà integra e sovrana la Siria per la verità è nebuloso: i russi hanno insistito con Assad per fare un accordo con l’opposizione e chiudere la partita. Anche se è evidente che Mosca manterrà le basi in Siria e gli Usa un contingente militare, che pur vittorioso con i curdi siriani a Raqqa, appare vulnerabile per la presenza di Assad e delle milizie sciite. Mentre è fuori discussione che gli americani resteranno in Iraq, a maggioranza sciita e alleato dell’Iran, dove sono presenti le truppe di una dozzina di Paesi, Italia compresa.

Da questa ipotesi di spartizione vengono emarginate le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, che hanno sostenuto la guerra per procura contro Assad e l’Iran. Possono sperare in qualche compensazione nei negoziati dell’Onu ma sono briciole rispetto all’obiettivo che perseguono dal 1979, quando la rivoluzione di Khomeini fece fuori lo Scià in questa rivalità hanno investito 60 miliardi di dollari nella guerra di Saddam contro Teheran e molti altri ancora sostenendo i gruppi radicali sunniti e jihadisti. Non solo: Riad è impantanata in una guerra in Yemen che non riesce a vincere contro gli Houthi, la tribù sciita zaydita sostenuta da Teheran. Per i Saud, custodi della Mecca e riferimento di un miliardo e mezzo di musulmani, è quasi un’umiliazione.

Gli arabi del Golfo devono però lamentarsi con se stessi e i turchi: sono stati mollati da Erdogan, il quale dopo essersi proposto come il leader dei sunniti, appoggiando i Fratelli Musulmani in Egitto e la guerriglia contro Assad, ha fatto buon viso a cattivo gioco e, pur di sigillare le frontiere all’irredentismo curdo, ha abbandonato il campo occidentale della Nato e gli arabi per mettersi d’accordo con Putin e Teheran. Tutto questo è il risultato dei calcoli sbagliati degli arabi e degli occidentali: nel 1980 Saddam pensava di abbattere Khomeini, sostenuto dai soldi del Golfo, poi ha dovuto firmare una tregua sullo Shatt el Arab. Nel 2001 gli americani in Afghanistan credevano di mettere fine al terrorismo che invece è ancora una spina nel fianco anche dell’Europa. Nel 2003 gli Usa hanno fatto fuori Saddam e regalato all’Iran una vittoria strategica. Nel 2011 puntavano con Turchia e monarchie arabe a eliminare Assad e invece hanno riportato la Russia da protagonista in Medio Oriente.

Vediamo che le possibilità di pace o  di nuove guerre si ponderano. Sono in gran parte legate alla capacità di Usa e Russia di tenere a bada i loro scalpitanti alleati nella regione. Ma dipendono anche da calcoli meno dignitosi rispetto alla necessità di stabilizzare una regione chiave per la sicurezza europea. Gli Usa - ma anche la Francia - sono condizionati da Israele e dalle forniture di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati: hanno innescato, in cambio di miliardi di dollari, una corsa agli armamenti senza freni. Basta scorrere i dati 2016 dei bilanci della difesa: Usa 611 miliardi di dollari, Cina 215, Russia 69, Arabia Saudita 64, Emirati 23, con solo 1,5 milioni di abitanti, Iran 12, con una popolazione di 80 milioni. Questo è un motivo molto significativo perché finita una guerra, un’altra potrebbe cominciare.



giovedì 23 novembre 2017

Libano: il ritorno di Saad Hariri



Su cosa accadrà nei prossimi giorni ci sono soltanto ipotesi, mentre a Beirut esplode la festa per il rientro del Premier. Hariri, che si è fermato a pregare sulla tomba del padre, aveva rassegnato improvvisamente le dimissioni il 4 novembre dall’Arabia Saudita, Paese nel quale è rimasto due settimane e che, secondo lo stesso Presidente libanese Michel Aoun, lo teneva in ostaggio.

Una tesi smentita da Hariri stesso e in ogni caso archiviata dopo l’invito da parte di Emmanuel Macron a Parigi, dove Hariri si è fermato alcuni giorni.

Questi i commenti entusiasti dei sostenitori di Hariri per le strade della capitale: “È impossibile dire quanto siamo contenti” dice un manifestante. “È come se Beirut fosse di nuovo Beirut” ribatte un altro giovane sceso in strada. “È l’intero Libano che è tornato”.

Mohammed Omar Hussein, un altro simpatizzante del Premier: “Quando Saad Hariri è in Libano ci sentiamo vivi. Quando non c‘è siamo come morti. Senza Saad Hariri il Paese chiamato Libano non esiste”.

Il Premier aveva giustificato le dimissioni in polemica con le violazioni di Hezbollah. Il movimento sciita alleato dell’Iran e con un profondo controllo della vita politico-sociale libanese non rispetta l’impegno di dissociarsi dai conflitti in Medio Oriente.

Saad Hariri resta. Almeno per il momento. Il primo ministro libanese, a capo di un governo di unità nazionale, ha accettato la richiesta del presidente Michel Aoun di sospendere le dimissioni. Hariri, 47 anni. “Rimaniamo insieme – ha detto – e continuiamo insieme a difendere il Libano. La stabilità è data dalla natura araba del Libano”.

Il premier, che ha anche passaporto saudita, ha chiesto un passo indietro agli Hezbollah, gli alleati sciiti dell’esecutivo, e ha accusato l’Iran di voler interferire nelle questioni interne libanesi. Per le strade della capitale la gente sembra appoggiarlo.

“Ha portato unità tra la gente – spiega un uomo – fra Cristiani e musulmani. È una brava persona e renderà il Libano migliore”

“Vogliamo Saad – aggiunge un diciassettenne – Non vogliamo che lasci perché lo amiamo. Perché è il nostro leader sunnita. Se se ne va, il Libano andrà in rovina. Vogliamo soltanto Saad”.

Per Hariri la crisi può essere risolta solo con la neutralità del Libano, e il ritiro delle milizie di Hazbollah da tutti i conflitti regionali, in Siria, Iraq, e nello Yemen. Poco prima il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, si era espresso in toni concilianti dicendosi aperto al dialogo.

Mercoledì mattina Hariri aveva assistito assieme al capo di Stato alla parata militare per la Festa dell’Indipendenza, 74 anni dopo la fine del mandato francese in Libano.

Ricordiamo che il Libano subisce da decenni l’influenza dei vari attori regionali, di cui spesso si ritrova ad essere il terreno di scontro. Soprattutto dopo il ritiro delle truppe siriane, in seguito all’assassinio di Raifq Hariri nel 2005, sono Arabia Saudita e Iran i due paesi che più di tutti gli altri fanno sentire il proprio peso sulle dinamiche interne al paese. Gli iraniani con la fondazione e il finanziamento di Hezbollah, movimento politico militare nato nel 1982 per respingere l’invasione israeliana del Libano; i secondi soprattutto con la storica cooptazione di esponenti della borghesia sunnita, sin dagli anni ‘40. Quando Riad denuncia le «ingerenze iraniane negli affari libanesi», non lo fa da una posizione imparziale, perché Riad guarda al Libano e lo considera estensione del proprio «cortile di casa» da più di mezzo secolo. Storicamente, buona parte dei primi ministri sunniti del Libano (il primo ministro deve essere sempre sunnita, così come il presidente deve essere cristiano e lo speaker della Camera musulmano sciita) hanno sempre conservato interessi economici e finanziari in Arabia Saudita, della quale spesso hanno la cittadinanza che gli permette di operarvi liberamente (un cittadino straniero può condurre affari solo tramite uno sponsor locale in Arabia Saudita).



venerdì 17 novembre 2017

Venezuela, default di un solo giorno grazie a Russia e Cina




Mani tese da Russia e Cina per scongiurare il default del Venezuela. Il Paese sudamericano a un passo dal default, ha raggiunto ieri un accordo con Mosca per ristrutturare parte del suo debito per una cifra pari a oltre 3 miliardi di dollari. L’accordo che era nell’aria, prevede che il Venezuela effettui pagamenti minimi sulle sue obbligazioni russe nel corso dei prossimi sei anni.

Quindi il  Venezuela in poche ore,  è passsato dall'insolvenza alla solvenza,.perché il ministro della Comunicazione venezuelano, Jorge Rodriguez, ha annunciato che il governo di Nicolas Maduro ha iniziato i pagamenti degli interessi sul debito estero. I creditori non hanno smentito. L'aiuto a Maduro è arrivato da Russia e Cina.Dichiarazioni che arrivano solo qualche giorno dopo che Standard & Poor’s aveva già dichiarato il default parziale del Venezuela, perché il governo aveva violato diverse scadenze al termine del periodo di grazia di 30 giorni; stessa sorte è toccata al gruppo petrolifero Pdvsa, per aver ritardato una settimana nel pagare due scadenze per un importo di 2.000 milioni di dollari.

Ciò che pareva un inspiegabile scivolone finanziario si è trasformato in un default di un giorno che non arreca danni a nessuno ma consente a molti di “staccare” lucrosi dividendi: a tutti i creditori, Stati Uniti, Canada e allo stesso Venezuela.

Secondo Enzo Farulla, analista, già Raymond James, ha afffermato che: «Ne hanno guadagnato tutti, compreso il Venezuela che ha ricomprato il suo debito a prezzi stracciati». Mentre Claudia Calich, fund manager di M&G Investments ha dichiarato: «Il recente annuncio di una possibile ristrutturazione del debito del Venezuela è stato fatto prima di quanto ci si aspettasse. La maggior parte degli operatori di mercato non si aspettava un evento creditizio già quest'anno, ma per il prossimo anno, tenendo conto dei livelli a cui scambiavano i bond a breve scadenza. Di conseguenza, le obbligazioni a più breve scadenza, che avevano i prezzi più elevati, hanno registrato una performance debole, mentre le obbligazioni a più lunga scadenza a minor prezzo hanno sovraperformato».

Il ministro Rodriguez, in merito all'incontro organizzato a Caracas fra rappresentanti del governo e dei detentori privati di titoli pubblici o dell'azienda petrolifera statale Pdvsa, ha detto che è servito per «cominciare a rompere l'assedio brutale e la guerra economica» lanciati contro il suo paese da Washington e «dai suoi alleati genuflessi della destra venezuelana». E poi ancora: «Posso dire a quelli che pensavano che avrebbero ottenuto una vittoria attraverso le agenzie di rating, che non sono mai riusciti a prevedere nessuna delle crisi finanziarie che hanno scosso il mondo ma sono tanto bravi nel punire un Paese che ha sempre pagato, come noi. E posso dire che ancora una volta sono stati sconfitti», ha sottolineato Rodriguez. «Il presidente Maduro ha disegnato un meccanismo che ci permetterà di pagare il nostro debito estero in modo completo: siamo un esempio per il mondo», ha concluso il ministro.

Un altro fattore, tutt'altro che secondario e peraltro non nuovo, è l'appoggio politico e soprattutto finanziario di Russia e Cina al governo del Venezuela. Mosca ha dato luce verde alla ristrutturazione del debito da 3,15 miliardi di dollari del Venezuela. Lo fa sapere il ministero delle Finanze citato dalla Tass. Caracas, in base ai termini dell'accordo, ripagherà il debito “entro 10 anni”.

La Cina, che detiene 23 miliardi di dollari dei 150 del debito venezuelano, non ha rilasciato comunicazioni ufficiali, anche se il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang ha dichiarato che «il Governo e la popolazione del Venezuela sapranno gestire la situazione interna, inclusa quella inerente il debito». Nel linguaggio paludato della diplomazia cinese ciò si traduce in una dichiarazione di appoggio a Maduro o almeno di solidarietà. Non poco per Maduro che negli Stati Uniti, in Europa e in America Latina trova ben pochi alleati.

martedì 14 novembre 2017

I governi che manipolano l'informazione online



Nell'ultimo anno i governi di 30 Paesi hanno usato qualche forma di manipolazione dell'informazione online, attraverso commentatori pagati, troll, bot, siti di news falsi e organi di propaganda. A evidenziarlo è un rapporto del think tank Freedom House sulla libertà online, che mostra come la disinformazione pilotata sia in aumento, nel 2016 condizionate le elezioni in 16 Paesi. Il lavoro degli "opinion shapers", i nuovi professionisti del web che costruiscono fake news sui leader da spingere a condizionare gli eventi politici.

Oltre a Russia e Cina, figurano Stati come Turchia, Venezuela e Filippine, Messico e Sudan. Nel 2016 i Paesi interessati erano 23. I governi stanno "aumentando marcatamente gli sforzi per manipolare l'informazione sui social media, minando la democrazia", si legge nel rapporto, secondo cui la disinformazione ha avuto un ruolo importante nelle elezioni in almeno 18 Paesi nell'ultimo anno, tra cui gli Usa. In Europa occidentale, il rapporto segnala la presenza di fake news sulle elezioni nei 4 Paesi esaminati: Italia, Francia, Germania e Regno Unito. "I governi stanno ora utilizzando i social media per sopprimere il dissenso e far progredire un'agenda antidemocratica", ha detto Sanja Kelly, direttrice del progetto Freedom on the Net.

E' di fine settembre la notizia secondo cui Twitter aveva rivelato al Congresso statunitense di aver chiuso oltre 200 profili collegati agli stessi gruppi russi che hanno acquistato su Facebook pubblicità politiche pro-Donald Trump nel tentativo di influenzare le elezioni presidenziali del 2016. Twitter, incontrando in una seduta a porte chiuse prima i rappresentanti del Senate Intelligence Committee e poi quelli dell'House Intelligence Committee, ha anche individuato tre profili sulla sua piattaforma legati al sito di news governativo russo RT: avrebbero speso complessivamente 274.100 dollari in Twitter ads nel settembre del 2016, a ridosso delle elezioni presidenziali.

Nelle Filippine attraverso falsi commenti, troll e canali di propaganda vengono costruite informazioni per dare l'impressione di un forte sostegno popolare alla brutale campagna contro la droga varata dal presidente Rodrigo Duterte e costata la vita a migliaia di persone.

Lo stesso è avvenuto in Sudan, oppure in Messico dove si stima siano stati 75mila i "Peñabots" che creano contenuti in modo tale da sostenere il criticato governo di  Enrique Peña Nieto. In sostanza, appena nasceva un hashtag anti governativo o una sommossa in Rete, messaggi automatici e commentatori entravano in azione per smorzarne la portata e deviare l'attenzione. In alcune aree, come Tibet e Etiopia, il servizio di telefonia cellulare è stato interrotto più volte per motivi politici.

In Turchia si contano circa 6000 persone "mosse" sui social per contrastare gli oppositori di Erdogan. C'è poi l'uso della limitazione che alcuni governi hanno fatto delle dirette video su Facebook, Snapchat o altre piattaforme, durante cortei o manifestazioni antigovernative. In Bielorussia ad esempio sono state interrotte le connessioni cellulari per evitare dirette durante le proteste. Lo stesso vale per Bahrein, Azerbaigian, Ucraina, Russia e diversi altri stati. In altri Stati nel mirino dei manipolatori c'erano giornalisti o attivisti politici: in Myanmar un giornalista è stato ucciso dopo aver postato le sue critiche su Facebook e un in Giordania un disegnatore è stato trovato morto dopo aver diffuso un fumetto online satirico su alcune pratiche dell'Islam.

In generale, l'uso di commentatori online pagati e pro-governativi viene registrato dal rapporto come "ormai generalmente diffuso". Tra i precursori di questo fenomeno e per il terzo anno consecutivo in cima alla lista degli Stati che abusano delle libertà di internet c'è la Cina dove i dissidenti che hanno pubblicato articoli o informazioni che criticano il governo sono stati condannati anche a 11 anni di carcere.

Nel periodo considerato, tra giugno 2016 e il maggio scorso, la manipolazione delle notizie ha interessato diverse nazioni, anche quelle non chiamate alle urne. La manipolazione dei contenuti ha contribuito al settimo anno consecutivo di declino della libertà su internet, campo in cui la Cina è ultima in classifica preceduta da Siria ed Etiopia. Le nazioni più virtuose sono Estonia, Islanda e Canada.




lunedì 13 novembre 2017

Hariri, tornerò presto in Libano



Le dimissioni a sorpresa il 4 novembre del primo ministro libanese Saad Hariri sono andate storte a molti abitanti di Beirut. Si tratta infatti di uno scenario senza precedenti: Hariri ha annunciato le sue dimissioni da un paese straniero, l’Arabia Saudita, senza informare preventivamente i suoi collaboratori a Beirut.

"Mi sono dimesso nell'interesse del Libano perché ho visto che molti sviluppi nella regione stavano nuocendo al mio Paese. Tornerò molto presto per rassegnare le dimissioni seguendo il percorso costituzionale". Lo ha detto l'ex premier libanese Saad Hariri nella sua prima intervista dalle sue dimissioni annunciate dall'Arabia Saudita, la scorsa settimana. "Ho completa libertà in Arabia Saudita", ha precisato, come riportano i media internazionali.

"L'ingerenza dell'Iran è un peso per i libanesi", ha aggiunto Hariri. "Io non sono contro Hezbollah in quanto partito politico, sono contrario al fatto che Hezbollah giochi un ruolo esterno che metta in pericolo il Libano".

Poi ha aggiunto: "Sono minacciato. Il regime siriano non mi vuole. Ero contro Nusra, Isis e al Qaida, ci sono molti gruppi che non vogliono Hariri. Volevo creare una rete di salvaguardia ed essere certo che non fosse infiltrata".

Per la maggior parte dei libanesi non c’è dubbio sul fatto che sia stato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs) a costringere Hariri alle dimissioni, nello stesso momento in cui organizzava la sua “notte dei lunghi coltelli” a Riyadh arrestando per corruzione diversi membri della famiglia reale.

Alcuni ritengono che Hariri sia trattenuto come un “ostaggio” a Riyadh, anche se si è recato per breve tempo ad Abu Dhabi e ha incontrato alcuni diplomatici. L’assenza di notizie preoccupa il Libano. Mercoledì sera l’aereo del primo ministro è rientrato a Beirut, ma ci sono volute diverse ore per sapere che Hariri non era a bordo.

“Ho provato un profondo senso di umiliazione”, confida un esponente importante della società civile libanese, che fa il confronto con l’occupazione militare siriana del Libano fino al 2005, periodo durante il quale tutte le decisioni venivano prese a Damasco. “La situazione oggi è la stessa ma senza i soldati: un paese straniero si permette di cacciare il nostro primo ministro come si licenzia un dipendente”.

Questa reazione è rivelatrice del fatto che le dimissioni forzate e la durissima dichiarazione di Hariri contro le ingerenze iraniane non hanno provocato quello sperato sussulto di orgoglio contro l’Iran. Per ora invece al centro di tutte le critiche c’è l’Arabia Saudita, anche tra chi è di solito molto critico nei confronti dell’Iran e del suo alleato libanese, gli hezbollah.

A dimostrazione di questa rabbia, il ministro dell’interno Nohad Machnouk, proveniente dal Movimento del futuro del primo ministro dimissionario, ha reagito alle voci secondo le quali l’Arabia Saudita vorrebbe sostituire Hariri con il fratello maggiore Bahaa, uomo d’affari a Riyadh, dichiarando che i sunniti libanesi non sono “del bestiame che si può trasferire da una stalla a un’altra”.

I libanesi in assenza di informazioni, si lanciano in grandi ipotesi e temono una nuova guerra tra Israele e gli hezbollah dopo quella del 1982 e del 2006, allo scopo di eliminare l’arsenale militare dei miliziani sciiti ricostituito grazie all’aiuto dell’Iran. Gli israeliani sui loro giornali continuano a ripetere che se ci sarà un conflitto non saranno certo i sauditi a dettarne i tempi, ma i libanesi sono convinti della complicità fra Riyadh e Tel Aviv, con la benedizione statunitense

Bisogna dire che gli Hezbollah, che facevano parte della coalizione governativa diretta da Hariri, e che sono alleati del presidente libanese Michel Aoun, si comportano in Libano come se riconoscessero una sola autorità, la loro. La loro forza militare è più potente e più esperta – grazie all’impegno decisivo in Siria a fianco di Bashar al Assad – di quella dell’esercito regolare libanese, e i loro ministri fanno di testa loro andando a Damasco senza neanche avvisare il primo ministro.

Probabilmente i sauditi hanno considerato che l’accordo di un anno fa – al quale avevano dato il loro via libera permettendo l’elezione di un presidente dopo che per molto tempo questa poltrona era rimasta vuota e il ritorno di Hariri come primo ministro – non è stato all’altezza delle loro aspettative e che il capo del governo non ha saputo dimostrare abbastanza autorevolezza nei confronti degli alleati di Teheran in Libano. L’elemento scatenante della rabbia saudita sarebbe stata una dichiarazione di Ali Akbar Velayati, consigliere diplomatico della guida suprema iraniana Ali Khamenei, che ha definito la coalizione al potere in Libano un “successo” per l’Iran.

Questa ipotesi è la più probabile e i sauditi, che tengono sotto controllo il clan Hariri grazie ai loro numerosi affari in Arabia Saudita, hanno scelto di scatenare la crisi libanese contemporaneamente all’arresto dei principi “corrotti”, per far capire bene chi comanda nel mondo sunnita.




venerdì 3 novembre 2017

Striscia di Gaza: il passaggio dei poteri da Hamas all’Anp



Hamas ha consegnato i valichi di frontiera di Rafah con l'Egitto e di Erez e Kerem Shalom con Israele all'Autorità nazionale palestinese (Anp), come previsto dagli accordi di riconciliazione nazionale firmati al Cairo. Un nuovo passo verso la riconciliazione palestinese, siglata da un accordo lo scorso 12 ottobre, si compie oggi 1 novembre del 2017.

L'evento politico va oltre il suo stesso significato. Il premier dell'Anp Rami Hamdallah è entrato nella striscia di Gaza, dopo due anni di assenza, nel contesto delle intese di riconciliazione fra al-Fatah e Hamas. Si è compiuto un passo decisivo verso la riconciliazione palestinese, con il trasferimento del governo di Gaza dal comitato amministrativo di Hamas all’esecutivo dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hamas, che dal 2007 ha mantenuto il pieno controllo della Striscia di Gaza, ha consegnato all’Anp la gestione finanziaria dei valichi.

“Noi del dipartimento di frontiera siamo pronti per il passaggio di consegne’‘, ha dichiarato Adwan, portavoce dell’autorità di frontiera. ‘‘Non metteremo ostacoli per il raggiungimento dell’accordo, specialmente sui valichi della Striscia di Gaza’‘.

Lo scorso 12 ottobre al Cairo, dopo due giorni di negoziati, Al-Fatah e Hamas avevano raggiunto grazie alla mediazione egiziana un accordo di conciliazione. Una stretta di mano che conclude il percorso di riavvicinamento tra le due principali forze politiche palestinesi.

Da oltre 10 anni, dopo la breve guerra civile tra le due fazioni, la Striscia di Gaza era sotto il controllo del movimento legato ai Fratelli musulmani, considerato da Stati Uniti, Israele ed Unione Europea un gruppo terrorista.

A Rafah fra due settimane riprenderà il transito di persone e merci sotto la sorveglianza - come annunciato al Cairo - della guardia presidenziale di Abu Mazen e possibilmente del contingente europeo di osservatori Eubam.  Nel corso di una conferenza stampa al valico di Rafah è stato precisato che d'ora in poi quel terminal funzionerà secondo le procedure che erano in vigore fino al 2007, quando Hamas espugnò il potere nella Striscia di Gaza. All'interno del valico viene adesso rimessa in funzione la filiale della Palestine Bank, che era chiusa da tempo.

Il premier Hamdallah ha parlato di "unione" e degli "sforzi per ricostruire la Striscia". "Il governo inizia ad assumersi le sue responsabilità nell'amministrazione e nella gestione della Striscia", ha aggiunto che ha fatto appello "a tutti affinché prevalga l'interesse nazionale". Il premier ha anche ringraziato l'Egitto per il ruolo avuto nell'avvicinamento delle posizioni fra al-Fatah e Hamas dopo anni di dissensi. Quindi ha assicurato che i suoi ministri inizieranno subito a lavorare e ad assumersi le proprie responsabilità anche per quanto concerne il controllo dei valichi, il mantenimento della sicurezza ed altri aspetti della vita quotidiana.

Il tempo della verifica è scoccato. Per Hamas come per Fatah e per l'Autorità palestinese. Ieri, come segno concreto di apertura, Hamas ha scarcerato cinque militanti di al-Fatah arrestati in passato per aver "messo a repentaglio la sicurezza interna" a Gaza.

Ridare speranza alla gente della Striscia significa, in primo luogo, intervenire su una crisi che sta sfociando in una grandissima tragedia umanitaria. Alcuni dati la riassumono: il tasso di disoccupazione di Gaza è il più alto del mondo. A riferirlo è un rapporto della Banca mondiale, secondo cui l'economia nel territorio palestinese, strangolata dalla guerra dell'estate 2014 e dall'embargo israeliano, è sull'orlo del collasso. Un recente rapporto di Oxfam documenta come la popolazione di Gaza affronti oggi una crisi energetica peggiore di quella che si è verificata durante la guerra del 2014. Con la conseguenza che oggi circa 2 milioni di persone non hanno quasi nessun accesso a servizi essenziali, come acqua corrente e servizi igienici e moltissimi hanno a disposizione solo 2 ore di luce elettrica al giorno. Una situazione che sommata alla scarsità di carburante, alla crisi sanitaria e salariale rende impossibile la vita della popolazione di Gaza. E la gente bloccata nella Striscia adesso è seriamente minacciata dalla diffusione di malattie causate dalla quasi totale carenza di servizi igienici e sanitari.

Sul tavolo c'è poi una questione che potrebbe deflagare: lo scioglimento delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare di Hamas, e il loro parziale riassorbimento nelle fila degli apparati di sicurezza dell'Anp. Ma su questo non c'è accordo. Ad opporvisi è lo stesso Sinwar, il primo capo di Hamas che viene dai vertici delle Brigate al-Qassam. Un possibile compromesso è la super visione delle forze armate (milizie e apparati) presenti nella Striscia, affidata all'Egitto e al potente capo dell'intelligence del Cairo, il generale Khaled Fawzy, tra i più stretti collaboratori del presidente Abdel Fattah al-Sisi, colui che ha imposto l'accordo tra Hamas e Fatah, facendo così rientrare l'Egitto in Palestina. Come garante del nuovo corso.


mercoledì 1 novembre 2017

Crolla tunnel nella centrale nucleare, tragedia in Corea del Nord



Un tunnel del sito nucleare di Punggye-ri, in Corea del Nord, è crollato lo scorso 10 ottobre, causando la morte di circa 200 persone. Lo riporta l'agenzia sudcoreana Yonhap, secondo cui l'incidente sarebbe avvenuto durante i lavori di scavo di un'altra galleria facendo balzare i timori sulla fuga di pesante radioattività.

In base a un reportage della nipponica Tv Asahi, circa 100 persone sarebbero rimaste intrappolate in un primo momento, mentre altre cento lo sarebbero successivamente state per un secondo crollo durante le attività di soccorso. L'incidente si ritiene sia effetto della sesta detonazione del 3 settembre, la più forte tra i test nucleari di Pyongyang, che avrebbe indebolito sottosuolo e sovrastante monte Mantap , il sesto voluto da Kim, il primo da quando Donald Trump è presidente, è stato fatto qui. L'esplosione, misurata in circa 150 chilotoni e pari a 10 volte il quinto test, fu sufficiente a creare un terremoto di magnitudo 6,3.

Da allora, dopo anche diverse scosse artificiali pur se di minore entità, gli esperti hanno messo in guardia dai seri rischi di collasso in qualsiasi momento della struttura, fortemente provata e resa instabile dalle sei detonazioni. Nam Jae-cheol, capo della Korea Meteorological Administration, l'agenzia che sovrintende anche sui terremoti, ha detto ieri in un'audizione parlamentare a Seul che un'altra esplosione nucleare avrebbe potuto far crollare la montagna con il rilascio di materiale radioattivo.

Complotto per uccidere il nipote di Kim
Nelle stesse ore arriva la notizia di un altro complotto ai danni della famiglia del dittatore nordcoreano, già decimata dalle faide per il potere innescate verosimilmente dallo stesso leader Kim Jong Un. Stavolta si tratta di suo nipote. La polizia cinese ha arrestato a Pechino diversi nordcoreani sospettati di complotto finalizzato a uccidere Kim Han-sol, il figlio 22enne di Kim Jong-nam, il fratellastro maggiore del leader Kim Jong-un, assassinato a febbraio con l'agente nervino Vx all'aeroporto di Kuala Lumpur.

E' lo scenario tracciato dal JoongAng Ilbo, quotidiano di Seul, secondo cui tra i due e i sette agenti del Nord sarebbero stati fermati prima di poter dare seguito al piano. Alcuni di loro, in base a fonti anonime vicine al dossier, sarebbero sotto interrogatorio in speciali strutture alla periferia della capitale cinese, aggiunge la testata, senza fornire ulteriori dettagli.

Nelle ultime settimane esperti esteri e attivisti per i diritti umani avevano già lanciato l'allarme per il rischio di crolli nelle strutture in cui vengono effettuati i test. La costruzione di tunnel indicherebbe la volontà di spostare i test in un altro versante della montagna.

Solo pochi giorni fa, ricorda la Bbc, la Corea del Sud aveva rilanciato il pericolo di una perdita di materiali radioattivi e il crollo dell'intero monte Mantap (proprio a Punggye-ri) in caso di un nuovo test nucleare. I lanci di missili e testate degli scorsi mesi hanno provocato diverse frane e terremoti in tutta la penisola.

Il 10 novembre a Roma ci sarà un vertice sul disarmo nucleare voluto da papa Francesco. Il Vaticano ha invitato undici premi Nobel per la pace, i vertici dell'Onu e della Nato, e i principali attori coinvolti nella crisi della penisola coreana: Usa, Russia e Corea del sud invieranno i propri ambasciatori. I due giorni d'incontri saranno un'occasione per il pontefice per richiamare l'attenzione sul pericolo di una possibile guerra nucleare.

Anche il presidente statinitense nei prossimi giorni offrirà particolare attenzione al continente asiatico. Dopo le provocazioni degli ultimi mesi con Kim Jong un, Donald Trump farà visita a Giappone, Corea del sud, Cina, FiIlippine e Vietnam. Il viaggio servirà a rassicurare gli alleati a Tokyo e Seul sull'impegno stabile degli Usa nella regione per garantire la sicurezza dei Paesi amici. Ma anche a ottenere da Pechino uno sforzo maggiore nella risoluzione della crisi delle Coree: secondo Trump, la Cina non sta facendo abbastanza per dissuadere Pyongyang dallo sviluppo del nucleare. Il presidente Usa parteciperà poi a diversi incontri multilaterali per rafforzare i legami economici e la cooperazione commerciale nel sud est asiatico.


sabato 28 ottobre 2017

La Notte della Luna



Da Roma a New York fino a Città del Capo e a Tokyo, stanotte milioni di occhi saranno puntati al cielo per osservare il nostro satellite naturale. Si celebra infatti l'annuale festa dedicata all'osservazione della Luna, ovvero "La notte della Luna" o meglio ancora l'International Observe Moon Night 2017 (InOMN2017), iniziativa targata Nasa. Si tratta di un'iniziativa che coinvolge a livello internazionale, istituzioni, ricercatori e appassionati. Sul sito web dedicato all'evento sono già centinaia coloro che hanno aderito proponendo osservazioni ed eventi: nel sito web dell'evento sono centinaia, tra associazioni, osservatori e università, i soggetti che hanno aderito proponendo osservazioni ed eventi.

In Italia "La notte della Luna" è promossa dall'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e dall'Unione Astrofili Italiani (Uai). Per l'occasione l'Inaf apre al pubblico gli osservatori di Torino, Roma-Monteporzio e Catania. Sempre in Sicilia, si svolge l'evento organizzato congiuntamente dall'osservatorio di Catania dell'Inaf, dall'Istituto secondario superiore "Quintino Cataudella" di Scicli, dal Comune di Scicli e dal Centro ibleo di studi astronomici "Pleiades". Telescopi pronti anche ad Arpino (Frosinone), dove la Luna diventa un ologramma.

Le condizioni meteo dovrebbero essere abbastanza favorevoli all'osservazione, garantisce l'astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope. "La Luna sarà già visibile al tramonto. Ma consiglio di lasciarla aspettare un momento per concentrarsi verso sud ovest e ammirare Saturno, che lascerà in breve la scena ad una Luna in grande stile. La Luna sarà al primo quarto, quindi nelle condizioni migliori per l'osservazione. In questa fase si vedono infatti molto bene i dettagli in quella regione del nostro satellite che è al confine tra il giorno e la notte, il cosiddetto Terminatore. Questo perché - precisa Masi - il Sole illumina lateralmente la Luna e i suoi raggi arrivano radenti sulla sua superficie, mettendo in evidenza i rilievi, come monti e crateri, quando le ombre che si allungano".

Anche in Italia verrà celebrata. A promuovere l'iniziativa l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) che aprirà al pubblico gli osservatori di Torino, Roma-Monteporzio e Catania. Sempre in Sicilia, si svolge l'evento organizzato congiuntamente dall'osservatorio di Catania dell'Inaf, dall'Istituto secondario superiore "Quintino Cataudella" di Scicli, dal Comune di Scicli e dal Centro ibleo di studi astronomici "Pleiades". Telescopi pronti anche ad Arpino (Frosinone), dove la Luna diventa un ologramma.

Anche l'Unione Astrofili Italiani (Uai) invita tutte le associazioni astrofili italiane ad aderire all'iniziativa organizzando presso le proprie sedi serate di osservazione. Aderisce all'iniziativa anche l'Accademia delle Stelle con un evento a Roma dove astrofili e astrofisici propongono una 'visita guidata' alla Luna.

In occasione della Notte della Luna, sempre il 28 ottobre si festeggia anche la riapertura delle porte del planetario di Torino, dove adulti e bambini potranno visitare il Museo dello Spazio interattivo e assistere allo spettacolo del planetario Cielo d’Autunno. Dopo la proiezione il pubblico sarà condotto alla cupola dell’Osservatorio per osservare direttamente il cielo, smog permettendo, attraverso un telescopio. In caso di brutto tempo l’osservazione diretta del cielo sarà sostituita da una visita storica alla cupola dell’Osservatorio. Si segnala che l’accesso alla cupola dell’Osservatorio presenta barriere architettoniche, e che è necessario prenotarsi o contattare l’ufficio Informazioni del Planetario.

Da sempre oggetto di pensieri, osservazioni e studio, fin dall’antichità la Luna – il cui nome deriva dal latino lūna, da un più antico *louksna, a sua volta dalla radice indoeuropea leuk- dal significato di “luce” o “luce riflessa – è oggetto di interesse: poetico, filosofico e scientifico. Sarà perché è il solo satellite del nostro pianeta, sarà perché è ad appena 384mila km da noi, sarà perché il tempo impiegato dalla luce a percorrere la distanza Terra-Luna è poco più d’un secondo, e abbiamo un legame particolare con la Luna.



giovedì 19 ottobre 2017

Catalogna: cosa prevede l’art. 155 della Costituzione spagnola



Il governo spagnolo ha annunciato di voler sospendere l’autonomia della Catalogna ricorrendo all’articolo 155 della Costituzione spagnola, una mossa mai intrapresa da quando è in vigore il testo.

Dopo la vittoria del fronte indipendentista al referendum del primo ottobre, dichiarato illegale dalla Corte costituzionale spagnola, il 10 ottobre, il presidente catalano Carles Puigdemont, in un discorso di fronte al parlamento regionale, ha di fatto dato il via all’iter per l’indipendenza della regione autonoma dalla Spagna.

A quel punto il premier spagnolo Mariano Rajoy ha fornito due ultimatum al governo catalano, chiamato a chiarire se avesse proclamato o meno l’indipendenza. Allo scadere dell’ultimo termine, Puigdemont ha detto che il parlamento catalano avrebbe dichiarato l’indipendenza se Madrid avesse “continuato con la repressione”.

L’ufficio del primo ministro spagnolo ha convocato un Consiglio dei ministri straordinario per avviare il procedimento di attivazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola.

Il governo spagnolo potrebbe chiedere al parlamento di poter applicare l'articolo 155 che prevede il commissariamento della Catalogna, con il passaggio a Madrid delle competenze della Generalitat. Questo lo scenario più probabile prospettato dalla stampa spagnola come mossa del governo di Mariano Rajoy.

L’Articolo 155 della Costituzione, insieme al titolo VIII sull’organizzazione del territorio dello Stato, costituisce il modo con cui lo Stato Spagnolo difende ciò che è espresso nell’articolo 153 della Costituzione che parla del ruolo delle Comunità Autonome Spagnole. Questo articolo dice che se un governo regionale non rispetta i suoi obblighi o "agisce in modo da minacciare seriamente l'interesse dell'intera Spagna", allora Madrid "può intraprendere le necessarie misure per obbligarla in modo coatto ad adeguarsi o a proteggere tale generale interesse". In sostanza, l'articolo 155 stabilisce che lo Stato, in questo caso il governo di Madrid, può assumere "il controllo di istituzioni politiche e amministrative della regione ribelle". L’articolo è molto generico e non è mai stato applicato, dunque non esistono giurisprudenza e precedenti. Sulla portata delle “misure” che il governo può applicare c’è molto dibattito in corso. Subito dopo la risposta di Puigdemont, Mariano Rajoy si è incontrato con il leader del Partito socialista, Pedro Sánchez, per discutere su come applicare il 155.

Secondo i costituzionalisti le misure possibili vanno dalla "sospensione del governo regionale al sottomettere i Mossos d'Esquadra (la polizia catalana) agli ordini del ministero dell'Interno centrale", sino alla "chiusura del parlamento regionale e la convocazione di elezioni regionali anticipate.

Il premier Rajoy non può tuttavia invocare in modo unilaterale l'articolo 155. Prima dovrebbe informare lo stesso Puigdemont delle sue intenzioni, concedendogli una fase di riflessione per un'eventuale marcia indietro sull'indipendenza. Poi dovrebbe rivolgersi al Senato, la camera alta del parlamento spagnolo, dove il suo Partito Popolare ha la maggioranza assoluta. La proposta del premier deve inoltre essere appoggiata da una commissione che, valutate le precise misure a livello legale, può inviarla al Senato per il voto. Una procedura che, secondo fonti parlamentari, potrebbe richiedere una settimana di tempo o anche 10 giorni.

Il rischio maggiore è che le iniziative adottate da Madrid aumentino la rabbia dei catalani, già inferociti per l'arresto dei due leader indipendentisti Jordi Sánchez and Jordi Cuixart. A inasprire ancora di più il clima c'è l'irruzione della Guardia Civil nel commissariato di Lleida, sede dei Mossos d'Esquadra, che sta avvenendo in queste ore. La polizia spagnola vuole sequestrare le registrazioni delle comunicazioni avvenute nel giorno del referendum.

Dall'altra parte, Puigdemont è messo sotto pressione dalle frange più massimaliste del movimento di indipendenza. Fino a poche ore fa, una delle opzioni sul tavolo per Puigdemont era indire nuove elezioni in Catalogna, sciogliere il Parlamento e chiedere un nuovo mandato popolare. Il governo di Madrid aveva fatto sapere che nuove elezioni, rimettendo tutto in gioco, avrebbero potuto bloccare l’applicazione del 155, ma è difficile ora che questa possibilità sia ancora a disposizione.

La legge fondamentale spagnola disegna un modello di stato decentrato, in cui le regioni sono convertite in comunità autonome, con un proprio governo, un parlamento, tribunali regionali e uno statuto che ne garantisce le competenze.

L’articolo 2 della Costituzione riconosce infatti, oltre al principio di “indissolubile unità della Nazione spagnola”, anche il “diritto alla autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono”. Grazie a questo, Madrid riconobbe prima l’autonomia delle nazionalità storiche come la Catalogna, i Paesi Baschi, la Galizia e l’Andalusia e poi, in diverse fasi successive, permise a tutte le altre regioni di costituirsi come comunità autonome.

La costituzione spagnola però non concede a questi enti locali la possibilità di dichiararsi indipendenti, anzi, all’articolo 155, concede il potere all’autorità centrale di riprendere il controllo della comunità nel caso quest’ultima “non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna”.

lunedì 16 ottobre 2017

Unesco: Usa e Israele lasciano l'organizzazione motivo «Pregiudizi su Israele»



Sembra che l'Unesco non possa più fare proprio tutto quello che gli pare, assegnare la tomba a Hebron dei patriarchi ebrei Abramo, Isacco e Giacobbe al patrimonio islamico come ha fatto quest'anno in luglio, o dichiarare che Gerusalemme, compreso il muro del Pianto, è tutta quanta araba e appartiene all'islam anch'essa.

Gli Stati Uniti e Israele lasciano l'Unesco. La decisione degli Stati Uniti sarà effettiva dalla fine del 2018 e gli Usa resteranno osservatori. La scelta - riferisce il dipartimento di Stato - "non è stata presa con leggerezza e riflette le preoccupazioni americane per i crescenti arretrati" da versare "all'Unesco, la necessità di riforme fondamentali dell'organizzazione e la prosecuzione del pregiudizio anti Israele all'Unesco".

Intanto il premier Benyamin Netanyhau - che è anche ministro degli affari esteri - ha dato istruzioni di "preparare l' uscita di Israele dall'Unesco in parallelo con gli Usa". Lo riferisce l'ufficio del primo ministro. La decisione Usa di ritirarsi dall'Unesco - rende noto il Dipartimento di Stato statunitense - entrerà in vigore il 31 dicembre 2018. Gli Usa intendono diventare poi un osservatore permanente della missione per "contribuire alle visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall' organizzazione inclusa la tutela del patrimonio dell’umanità, la difesa della libertà di stampa e la promozione della collaborazione scientifica e dell'educazione. "La mia personale raccomandazione al premier Benyamin Netanyahu è quella di restare incollati agli Usa e lasciare immediatamente l'Unesco". Lo ha detto, citato da Ynet, l'ambasciatore israeliano nell'organismo, Carmel Shama-Hacohen. "Negli anni recenti l'Unesco - ha proseguito - si è trasformato in una bizzarra organizzazione che ha perso le sue orme professionali a favore di interessi politici di certi paesi".

"Mi rammarico profondamente per la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dall'Unesco, di cui ho ricevuto notifica ufficiale con una lettera del segretario di stato americano, Rex Tillerson", si legge in un comunicato della direttrice generale dell'Organizzazione con sede a Parigi, Irina Bokova.

E' dal 2011, quando la Palestina divenne membro dell' organizzazione dell'Onu, che gli Stati Uniti hanno smesso di finanziarla pur mantenendo un ufficio nel quartier generale di Parigi. Intanto a Parigi si sta votando in questi giorni per eleggere il nuovo direttore generale. Per ora sono rimasti in lizza due soli candidati che sono pari a livello di preferenze: l'ex ministro della cultura francese Audrey Azoulay e il suo omologo del Qatar Hamad Bin Abdulaziz Al-Kawari su cui Israele ha già espresso le proprie preoccupazioni.

La decisione degli Usa di ritirarsi dall'Unesco è "una triste notizia": lo ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitri Peskov. Il ritiro Usa dall'Unesco "a causa delle relazioni con Israele è una decisione "da apprezzare". Lo ha detto via twitter, in una prima reazione da parte israeliana, l'ex ministro degli esteri, e negoziatore capo, Tizpi Livni. "E' un messaggio al mondo - ha proseguito - che c’è un prezzo alla politicizzazione, alla storia unilaterale e distorta".

L'Unesco è la prima organizzazione Onu ad aver ammesso la Palestina come Stato membro, nell'ottobre 2011, suscitando l'ira e lo stop dei finanziamenti da parte di Usa e Israele. Per l'organismo internazionale, il ritiro di Washington è stato un duro colpo finanziario, tanto che durante la gestione di Irina Bokova si è reso necessario un drastico taglio degli effettivi. Da soli gli Usa rappresentavano il 20% del bilancio dell'Unesco. Senza contare la ritorsione del Giappone, il secondo finanziatore più importante, che ha rifiutato di pagare la sua quota 2016 in seguito all'iscrizione, nel 2015, nel registro della memoria mondiale, del Massacro di Nankin, perpetrato dall'esercito imperiale giapponese nel 1937.


venerdì 13 ottobre 2017

Cresce la tensione fra Corea del Nord e USA



Donald Trump mostra i muscoli a Pyongyang col Pentagono che invia una squadriglia di caccia bombardieri in volo nei cieli adiacenti alla Corea del Nord. Secondo il dipartimento alla difesa statunitense si vuole mostrare che il presidente americano dispone di molte opzioni militari per neutralizzare qualunque minaccia.

Due bombardieri strategici americani B-1B Lancers, decollati dalla base del Pacifico dell'Isola di Guam, hanno sorvolato la Penisola coreana in una dimostrazione di forza diretta a Pyongyang mentre aerei militari giapponesi e sudcoreani erano impegnati, in corrispondenza del Mar del Giappone, in una esercitazione notturna.

Nel frattempo, il sottomarino nucleare americano di classe Los Angeles "USS Tucson" è arrivato nel porto sudcoreano Jinhae sabato scorso, ha reso noto il comando del Pacifico Usa. Una fonte militare sudcoreana ha poi anticipato l'arrivo di un secondo sottomarino nucleare americano, il sottomarino di classe Ohio "USS Michigan" al porto di Busan, questo fine settimana.

Gli osservatori internazionali sono sul chi va là per la minaccia nucleare posta da Pyongyang, ma gli Stati Uniti sono stati già colpiti da un'azione ostile alla propria rete energetica. Lo rivela NBC in esclusiva.

Mentre il mondo intero teme la progressione della tensione tra USA e Corea del Nord e l’orologio dell’Apocalisse è sempre più vicino alla mezzanotte, Pyongyang sta già colpendo negli Stati Uniti in modo diverso, ovvero mirando alla sua rete elettrica, cercando di infiltrarsi nei sistemi delle compagnie del settore statunitensi con l’obiettivo di creare il caos. E’ quanto ha riportato NBC News, entrata in possesso in esclusiva di un report della compagnia di sicurezza informatica FireEye.

FireEye ha documentato cyber-attacchi contro le forze armate della Corea del Sud, contro le sue centrali elettriche e persino contro l’aviazione di Seul – tutti provenienti dalla Corea del Nord. Pyongyang ha già attaccato Sony tre anni fa come rappresaglia per il film “L’intervista”, pellicola di Hollywood in cui viene preso in giro Kim Jong-Un.

Ora gli esperti avvertono che i nordcoreani stanno sviluppando le stesse tecniche per attaccare grandi settori dell’economia statunitense. “Una delle cose che ci preoccupa molto è la loro capacità di colpire qui nel cuore degli Stati Uniti, soprattutto nel settore finanziario”, ha dichiarato Dmitri Alperovitch, co-fondatore di CrowdStrike, un’azienda di cybersecurity.

I funzionari dell’intelligence hanno riferito a NBC News che Corea del Nord ha messo in atto uno spregiudicato crimine informatico nei confronti della Banca Centrale del Bangladesh, destinando a Kim Jong-Un fondi per 81 milioni di dollari (circa 68 milioni di euro). Il regime ha arruolato 6.000 cyber-soldati in Cina, Corea del Sud e altri paesi vicini, secondo un disertore nordcoreano che ha parlato all’emittente.

“I nord coreani vogliono avere la capacità di bloccare la nostra rete elettrica, i nostri sistemi di pubblica utilità, quello bancario, il controllo del traffico aereo”, ha dichiarato Frank Figliuzzi, ex assistente dell’FBI al controspionaggio.

Al momento esponenti del mondo industriale statunitense riferiscono che la Corea del Nord non è riuscita a fare breccia nella rete energetica. Alta è però l’allerta per via della crescente minaccia posta da Pyongyang.

La portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders: “Non abbiamo dichiarato guerra alla Corea del Nord e francamente è assurdo anche solo insinuarlo. Non è pensabile che un Paese abbatta il caccia di un altro Paese quando sorvola acque internazionali. Il nostro scopo è sempre lo stesso. Puntiamo ad una pacifica e piena denuclearizzazione della penisola coreana” ha detto in conferenza stampa.

Parole arrivate dopo che il regime di Pyongyang aveva interpretato come dichiarazione di guerra il sorvolo dei bombardieri Usa sulla penisola.

Il Ministro degli Esteri coreano Ri Yong Ho: “Visto che gli Stati Uniti ci hanno dichiarato guerra avremo tutto il diritto di prendere le contromisure necessarie, incluso il diritto di abbattere i bombarideri strategici statunitensi anche nel momento in cui non si trovassero all’interno del nostro spazio aereo”.



mercoledì 4 ottobre 2017

Rohingya tra il Myanmar e Bangladesh



La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha rotto il silenzio sulla questione dei Rohingya, la minoranza musulmana pesantemente discriminata nel Paese, e oggetto - secondo le Nazioni Unite - di un «chiaro caso di pulizia etnica». Dallo scorso mese oltre 400mila Rohingya, infatti, sono fuggiti in Bangladesh a seguito di violenze compiute dall’esercito di Rangoon, nel più totale silenzio delle istituzioni birmane. La leader birmana, dal canto suo , ha detto che «più della metà» dei villaggi abitati dalla minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar, non sono stati fatti oggetto di violenze, invitando i diplomatici riuniti a Naypyitaw a visitarli. San Suu Kyi ha dichiarato di non temere il giudizio internazionale sulla gestione della crisi ma nemmeno di «attribuire colpe o evadere le proprie responsabilità. Condanniamo tutte le violazioni dei diritti umani e la violenza contro la legge», ha detto in un discorso trasmesso dalle tv nazionali.

L'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani Zeid Raad al-Hussein, ha denunciato come "pulizia etnica da manuale". La prima versione di Aung San Suu kyi: "E' solo disinformazione" Aung San Suu Kyi, in una telefonata con il Presidente turco Erdogan nei giorni scorsi aveva denunciato la "disinformazione" sulla crisi dei Rohingya. La 'Lady', come è conosciuta dai birmani, aveva parlato di "pesante iceberg di disinformazione", che deforma il racconto di quel che sta accadendo. "Questo tipo di false informazioni è solo la parte più visibile di un enorme iceberg di disinformazione", ha detto la San Suu Kyi.

La voce più alta che si è levata contro la leader birmana è quella di un altro Nobel per la Pace. L'attivista pakistana e musulmana, Malala Yousafzai aveva infatti  aspramente criticato la leader birmana per ignorare la 'pulizia etnica' in atto contro la minoranza musulmana nei Rohingya. "Ogni volta che leggo le notizie il mio cuore si spezza per le sofferenze del musulmani Rohingya in Myanmar", ha denunciato Malala, sopravvissuta miracolosamente ad un tentativo di assassinio da parte dei talebani locali in Pakistan quando a soli 15 anni nel 2012 lottava per dell'educazione femminile. "Nel corso degli ultimi anni ho ripetutamente condannato questa trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia collega premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso", ha denunciato Malala, che conquistò il Nobel per la pace nel 2014. Suu Kyi, Nobel per la Pace nel 1991, che ha passato oltre 20 anni isolata nella sua casa dalla giunta militare, è ormai dal 2016 ministro degli Esteri e Consigliere di Stato (carica creata apposta per lei) che la pone di fatto, sempre con il placet dei generali, alla guida dello Stato. Ma Suu Kyi, buddista, non vuole inimicarsi il sostegno della maggioranza della popolazione birmana che odia i mussulmani.

«Abbiamo avuto un incontro produttivo sulla terribile situazione in Birmania, ma non vediamo ancora miglioramenti sul terreno e continuiamo ad avere segnalazioni di violenze e sofferenze», ha detto a tal proposito l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, dopo un incontro organizzato dalla Gran Bretagna a margine dell'Assemblea Generale a cui hanno partecipato anche funzionari del governo di Rangoon.

L’esodo dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh ha attirato l’attenzione della comunità internazionale dalle Nazioni Unite a Papa Francesco, ma chi sono i Rohingya?

La comunità Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana che vive nello stato nord-occidentale di Rakhine, in Myanmar, custodisce gelosamente il suo nome e lo considera parte integrante della sua identità di minoranza perseguitata. I problemi dei Rohingya iniziano proprio dal loro nome che viene utilizzato da loro stessi e dalla comunità internazionale – Nazioni Unite comprese – ma non dal Myanmar che li definisce immigrati clandestini dal Bangladesh, ossia bengalesi. Ufficialmente, i Rohingya non vengono elencati tra le 135 “razze nazionali” elencate nella legge sulla cittadinanza del Myanmar, in vigore dal 1982. Si tratta di una legge che risale al periodo della dittatura militare del generale Ne Win, ma che non è mai stata aggiornata dai governi che lo hanno succeduto.

Il vero problema sociale dei Rohingya è quello di non essere considerati cittadini del Myanmar e di non godere dei diritti che la cittadinanza comporta. Nel paese esistono tre tipologie di cittadinanza: piena, associata e naturalizzata. Hanno diritto alla cittadinanza piena coloro le cui famiglie hanno vissuto nel paese da prima del 1823, sono cittadini associati coloro che hanno ottenuto la cittadinanza con la legge in materia del 1948. I naturalizzati sono coloro che vivevano nel paese da prima del 4 gennaio 1948, ma che hanno fatto domanda di cittadinanza dopo il 1982. Molti Rohingya non rientrano in nessuna delle tre categorie poiché non riescono a produrre le prove documentali necessarie per fare domanda di cittadinanza.

La campagna militare dell’esercito del Myanmar nello stato di Rakhine è iniziata nell’ottobre 2016, in seguito a una serie di attentati alle stazioni di polizia di confine perpetrati dall’ARSA, un’organizzazione terroristica islamista formata da militanti di etnia Rohingya. Per il popolo birmano quanto è accaduto nello stato di Rakhine rappresenta una lotta contro i terroristi estremisti islamici che si sono infiltrati in Myanmar e tentano di spaccare la società birmana per creare uno stato indipendente – a maggioranza islamica – a Rakhine.

Le tensioni tra i musulmani Rohingya e la maggioranza buddista del Myanmar risalgono al maggio 2012, quando una donna buddista è stata violentata e uccisa dai musulmani Rohingya, secondo le accuse. L’ incidente è stato seguito dall’uccisione di 10 musulmani Rohingya da parte di un gruppo di buddisti.

In questi giorni un gruppo di lavoro per pianificare il rimpatrio dei Rohingya. È l’accordo a cui sono giunti le autorità di Myanmar e Bangladesh.

Non è la prima volta che il Myanmar trova un accordo sul rimpatrio dei rifugiati con i Paesi confinanti. Ma il problema di base, che rimane irrisolto, è lo status dei Rohingya: privi di cittadinanza, vengono classificati e trattati alla stregua di immigrati clandestini.



mercoledì 27 settembre 2017

Arabia Saudita donne alla guida




Cade un tabù in Arabia: il re Salman ha finalmente concesso alle donne il permesso di guidare, anche se non da subito, nell'unico paese dove era loro proibito. Le prime patenti dovrebbero essere rilasciate dal prossimo giugno. Contro il divieto di guidare era stata lanciata una campagna che ha visto molte donne postare dei video su internet mentre erano al volante. Da quando re Salman è salito al trono nel gennaio del 2015 ci sono state delle aperture sul fronte dei diritti delle donne di cui quella odierna appare come la più eclatante.

Fino a poche ore da questo annuncio si riteneva che una donna alla guida potesse mettere in crisi non solo i costumi tradizionali ma la stessa casa reale.

L'annuncio è arrivato dai media di Stato di Riad e, in contemporanea a un evento a Washington legato alla casa saudita. L'ambasciatore di Riad negli Stati Uniti ha commentato in serata: "E' il momento giusto per questo cambiamento perché in Arabia Saudita abbiamo una società giovane e dinamica. Le donne non avranno bisogno del loro 'guardiano' per prendere la patente". Si dissolve così l'incredibile divieto simbolo di oppressione nei confronti delle donne.

In un Paese che aderisce alla versione più rigida dell' Islam sunnita, il wahabismo, i diritti delle donne sono molto limitati anche se da qualche tempo era stato concesso il diritto di voto e di essere elette. Le donne restano comunque sottoposte alla tutela dei maschi, generalmente il padre, il marito o un fratello per poter studiare o viaggiare. Da due anni il governo ha avviato il piano di riforme Vision 2030 che punta a modernizzare lo stile di vita saudita ma tutto deve avvenire a piccoli passi.

Finora i teologi wahabiti si erano pronunciati contro il via libera delle donne alla guida, dando spiegazioni spesso surreali: un diritto che, secondo i religiosi, sarebbe stato "inappropriato", "un problema per gli uomini" o comunque "pericoloso per la stabilità del Regno".

Dal 1991 (dopo la Guerra del Golfo) e nel corso degli anni ci sono state diverse manifestazioni di donne che, sfidando la legge e gli arresti, si sono riunite ognuna alla guida della propria auto. La rivolta è proseguita anche sui social network dove sono spesso comparsi video e foto di donne al volante.

Pochi giorni fa però c'era stato un segnale di apertura importante: era stato permesso per la prima volta ad alcune donne di entrare in uno stadio. E' stato solo l'ultimo provvedimento dell'apertura graduale, ma costante, del Regno Saudita, principalmente economica ma anche sulla concessione di alcuni diritti, in contemporanea con l'ascesa sempre più dirompente del giovane principe Mohammed bin Salman, 32 anni.

La decisione ha in buona parte motivazioni economiche, come del resto ha confermato lo stesso ambasciatore saudita a Washington: il governo di Riad sta cambiando e modernizzando la sua locomotiva economica, anche a causa del prezzo basso del petrolio. L'economia, dunque, sarà più inclusiva e dunque potrebbe essere importante coinvolgere anche le donne a pieno titolo per sostenere la crescita di un Paese sempre meno dipendente dall'"oro nero".

E' doveroso ricordare che in Arabia Saudita sono in vigore leggi e prassi di segregazione, una sorta di “apartheid”, che limita pesantemente la condizione delle donne. È uno dei pochi paesi al mondo dove milioni di persone vengono discriminate sulla base di una loro caratteristica biologica, cioè quella di appartenere al sesso femminile. Se una donna avesse osato violare il divieto di guidare la pena era stata stabilita in 10 frustate: così aveva deciso nel 2011 il tribunale di Jeddah condannando una donna “colpevole” di aver sfidato il divieto.