sabato 26 settembre 2015

Superluna, spettacolo doppio lunedì all'alba


Grande spettacolo nella notte fra domenica 27 settembre, e lunedì. L’attesa degli astrofili di mezzo mondo è finita, domenica avremo l’eclissi di superluna di sangue e sarà possibile osservarla in tutto il Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia occidentale e la regione dell’Oceano Pacifico orientale.

Luna piena 'super', alla minima distanza dalla Terra, e 'rossa' allo stesso tempo, tinta dall'ombra del nostro pianeta: una combinazione spettacolare che sarà visibile anche dall'Italia nella tarda notte tra domenica e lunedì. L'eclissi di superluna è un evento astronomico abbastanza raro, la prossima sarà nel 2033. Quella di lunedì notte non sarà un'eclissi 'normale' ma avrà la particolarità di avvenire nello stesso momento in cui la Luna sarà alla minima distanza dalla Terra, ad appena 356.876 chilometri. Il nostro satellite, in versione 'super', non scomparirà del tutto ma sarà completamente coperto da un velo rosso scuro per più di un'ora.

Durante le eclissi totali la Luna infatti non scompare ma diventa molto scura e assume un colore rossastro.

Ecco cosa da tenere a mente

Le eclissi lunari totali si verificano quando la terra, luna e sole sono allineate, e la luna si trova nel cono d’ombra della Terra. Non sono rarissime, si verificano in media almeno 2 volte l’anno. Tuttavia, è raro che un’eclissi lunare totale coincida con una superluna. Secondo la NASA, ce ne sono state cinque nel secolo scorso: 1910, 1928, 1946, 1964 e 1982.

Spettacolo lungo quindi rispetto alle eclissi di sole che durano in genere meno di 10 minuti, grazie al fatto che l'ombra che la Terra proietta verso la Luna è piuttosto ampia, una sorta di lungo tunnel che il nostro satellite deve percorrere per riemergere nella zona in cui è di nuovo completamente illuminato dal Sole, dopo le ore 6 in questo caso.

L'eclissi è un fenomeno del tutto naturale e semplice, dovuto alla geometria del sistema Sole, Terra, Luna. Quando i tre corpi si trovano allineati in quest'ordine la luce del Sole può essere bloccata dalla Terra e quindi abbiamo un'eclissi di Luna, eclissi vuole infatti dire proprio mancanza. Dato che la Luna ruota attorno alla Terra uno potrebbe chiedersi, giustamente, perché le eclissi di Luna non avvengono ogni mese. E' molto semplice: Sole, Terra e Luna hanno orbite inclinate fra di loro.

Questa eclissi sarà effettivamente un po' caratteristica, dato che la Luna sarà molto vicina a noi, e quindi la vedremo un po’ più grande, circa il 14% in più. Il nostro satellite infatti ci gira attorno in un orbita ellittica, e non circolare, e quindi a volte è più vicino altre più lontano La sua distanza da noi varia fra i 356.410 e i 406.740 chilometri. Avendo quindi in questi giorni più superficie illuminata, rispetto a noi beninteso in quanto più vicina, sarà anche più luminosa, ma per accorgersene occorre aver visto altre volte la Luna piena con attenzione.

Resta il colore rosso, in realtà fra il rosa scuro e l'arancio, ce la Luna assumerà durante la totalità, fra le 4 e le 5 di lunedì mattina. Anche questo è un fenomeno molto semplice e bellissimo da vedere. La luce del Sole impatta sulla Terra che con la sua ombra, durante le eclissi di Luna, copre il nostro satellite. Se non ci fosse l'atmosfera terrestre la Luna sparirebbe del tutto dal cielo, ma grazie proprio all'aria che ci circonda, per un solo centinaio di chilometri, la luce solare viene diffusa, come fa la nebbia, e ricade sulla faccia della Luna, con una lunghezza d'onda leggermente diversa, dato che il passaggio in atmosfera vira la luce da bianca a rossastra.

E’ un fenomeno fra i più belli del cielo, che può avvenire anche due volte l'anno, in primavera e autunno. Con la cosiddetta superluna abbiamo eclissi circa ogni 30 anni, ma anche le altre sono bellissime. Chi non volesse poi alzarsi alle 4 di mattina, potrà sicuramente vederla in rete a ore meno antelucane mentre se qualcuno devesse alzarsi apposta e, maledizione, fosse nuvolo, può sintonizzarsi sul canale Nasa che trasmetterà l'eclissi.

Il fenomeno, che ha per conseguenza una luna rossa, è un fenomeno di rifrazione che si può verificare con le eclissi lunari (ma non solo).

Durante un’eclissi lunare, il nostro satellite passa nell’ombra della terra, che la oscura. La luce del sole non riesce ad arrivare diretta sulla superficie lunare, come invece accade normalmente, passa attraverso l’atmosfera terrestre prima di raggiungerla. Atmosfera che si comporta come un prisma scomponendo la luce del sole.

Quella blu e verde sono le prime che vengono diffuse, mentre la luce rossa, l’ultima che viene diffusa, illumina la luna, donandole quel coloro di rosso intenso.

La superluna di sangue inizierà a scurirsi leggermente alle 2.11 del mattino del 28 settembre .
Un’ombra notevole inizierà a cadere sulla luna alle 3.07 e l’eclissi totale inizierà alle 4.11 culminando pochi secondi dopo, alle 4.47 e durerà un’ora e 12 minuti.
Per saperne di più: https://www.nasa.gov/feature/goddard/nasa-scientist-sheds-light-on-rare-sept-27-supermoon-eclipse

USA: ribelli addestrati danno armi al gruppo di al-Qaeda


I ribelli addestrati dagli Stati Uniti hanno consegnato, dopo che si sono arresi, sei pickup armati e munizioni fornite dagli stessi statunitensi ad Al-Qaeda legata gruppo poco dopo l'arrivo in Siria, il Pentagono ha detto venerdì, l'ultimo colpo di un programma del Pentagono che è stato afflitto da problemi sin dal suo inizio.

I ribelli addestrati in Turchia, appena entrati in azione, hanno consegnato armi e munizioni ai jihadisti di Al Nusra. Anziché combatterli, hanno offerto ciò che avevano pur di poter fuggire.

Lo ha reso noto il colonnello Patrick Ryder, portavoce di quello che ogni giorno che passa si sta rivelando il comando colabrodo delle forze armate Usa per la regione, il Centcom. Lo stesso comando accusato di aver alterato i rapporti degli 007 sul terreno prima di passarli alla Casa Bianca per dimostrare progressi inesistenti nella campagna contro Isis.

L’imbarazzante evento risale alla notte tra lunedì e martedì 21 e 22 settembre, quando gli uomini delle “Nuove Forze Siriane”, i cosiddetti ribelli moderati hanno consegnato ad un intermediario di al Nusraa (come fecero le truppe irachene che si sciolsero come neve al sole davanti ad Isis a giungo del 2014 in Iraq, abbandonando carri armati e Humvee agli uomini di Abu Bakr al Baghdadj) per poter avere salva la vita.

La ricalcitrante amministrazione Obama, indecisa su come intervenire in Siria dopo aver tracciato “red-line”, limiti invalicabili che Assad oltrepassò, ha investito 500 milioni di dollari per formare un’unità di 5.000 ribelli moderati all’anno per un periodo di 3 anni, escludendo l’invio di proprie truppe di terra. Ma l’ottimismo iniziale si scontrò contro la sconsolante realtà che gli istruttori americani riuscirono a formare nel 2014 solo l’1% dei presunti 5.000 ‘ribelli’ sicuri: 54. Questi ultimi alla prima prova del fuoco, attaccati dai qaedisti di al Nusra – rivali di Isis – lo scorso luglio, si dileguarono. Il secondo gruppo formato da 70 ribelli di ‘provata’ fedeltà, si sono ora in parte arresi consegnando le loro armi a quanti dovevano combattere.

Tutti eventi che fanno emergere sempre più convincente l’opzione russa a favore di un intervento diretto contro Isis e le altre formazioni jihadiste sul terreno (come dimostrano le forze schierate nella zona occidentale di Latakiae) mentre sta emergendo il fallimento della strategia Usa dei raid aere, iniziati poco più di un anno fa, il 26 settembre in Siria.

Non si può escludere che la decisione del secondo gruppo di cedere l’equipaggiamento per poter fuggire sia stato motivato proprio dal timore di subire un’analoga sorte. Ciò significa che il programma di addestramento di ribelli siriani da parte degli Usa, finanziato con oltre 500 milioni di dollari dal Congresso di Washington, non ha ancora prodotto unità in grado di combattere.

Per ammissione stessa del capo del Pentagono, Ashton Carter, «abbiamo solo 4 o 5 ribelli operativi in Siria». Sarcastico il commento del giornale israeliano “Haaretz”: «Si tratta dei soldati più costosi della storia militare, per ognuno di loro sono stati spesi circa 100 milioni di dollari».

venerdì 25 settembre 2015

Il papa all’ONU: riformare per consentire la partecipazione di tutti i paesi


Palazzo di Vetro blindato e una nuova bandiera innalzata per la prima volta accanto alle 193 dei paesi membri dell'Onu: all'alba i poliziotti delle Nazioni Unite hanno aggiunto il vessillo vaticano a quelli che usualmente sventolano davanti al quartier generale dell'Onu. L'occasione è la visita di Papa Francesco che parla in Assemblea generale. Turtle Bay, come si chiama il quartiere di Manhattan sull'East River in cui sorge l'Onu.

E’ la quinta volta che un Papa parla alle Nazioni Unite, ha ricordato Francesco, all’inizio del suo discorso. E ha voluto subito «rendere omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l'intera umanità in questi 70 anni». «In particolare - ha detto - desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjold (primo segretario generale vittima di un incidente aereo nel 1961) fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione».

Papa Francesco è arrivato all'Onu, dove a riceverlo c'è il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon. Due bambini hanno accolto con un mazzo di fiori Papa Francesco all'ingresso del Palazzo di Vetro dell'Onu. Sono Emile e Maxime Antoine Laberge, rispettivamente di sette e sei anni, canadesi, figli di un membro della missione di pace delle Nazioni Unite ad Haiti morto durante il terremoto del 2010.

Sono molte le emergenze delineate da Francesco all'Onu: la protezione dell'ambiente , la fine dell'esclusione sociale, azione contro narcotraffico e trova necessaria la riforma dell’Onu. Il Papa ha parlato di "ampi settori senza protezione" nel mondo, vittime "di un cattivo esercizio del potere": "l'ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi". "Due settori intimamente uniti tra loro", che la politica e l'economia "hanno trasformato in parti fragili della realtà". Per questo, "è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell'ambiente e ponendo termine all'esclusione".

"La difesa dell'ambiente e la lotta contro l'esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni", ha detto papa Francesco all'Onu citando passi della sua enciclica Laudato si'.

"La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all'ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell'impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli", ha detto nel suo discorso all'assemblea generale dell'Onu.

Un'azione urgente è stata chiesta da Papa Francesco all'Onu contro «il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato». «Ampi settori sono - ha denunciato - senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere».

"La riforma e l'adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un'incidenza reale ed equa nelle decisioni": così Francesco all'Onu, sostenendo la necessità di riforma del Consiglio di Sicurezza e degli organismi finanziari. "L'esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito - ha affermato il Pontefice -, dimostra che la riforma e l'adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un'incidenza reale ed equa nelle decisioni". "Tale necessità di una maggiore equità - ha proseguito -, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche". "Questo - ha aggiunto - aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l'asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza".

Unione Europea: Hotspot entro novembre




Gli hotspot per l’identificazione dei migranti saranno operativi entro novembre.I capi di stato e di governo europei riuniti il 23 settembre a Bruxelles hanno deciso di accelerare l’apertura dei centri mobili per la registrazione dei profughi con la collaborazione delle agenzie europee in Italia, in Grecia, in Ungheria e probabilmente anche in Romania.

Mentre continua incessante il flusso dei migranti verso l'Europa l'Ue lancia un'operazione anti-scafisti che si chiamerà Sofia, come la bimba nata da una madre somala salvata su una nave della marina tedesca. Intanto l'Ungheria alza muro anche con la Slovenia, e sale la tensione al confine tra la Serbia e la Croazia per chiusura frontiera. Davotoglu chiede sostegno Europa per arrivi profughi da Siria. Tusk; grande marea deve ancora arrivare.

L'Alto rappresentante per la Politica estera Ue, Federica Mogherini, ha proposto di rinominare l'operazione Ue contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo - denominata al momento Eunavfor Med - "Sofia", come la bambina nata recentemente a bordo di una delle navi impegnate nell'operazione, "per dare un segnale di speranza". La proposta nasce, ha spiegato Mogherini, "per dare un segnale di speranza e per onorare le vite delle persone che stiamo salvando e proteggendo". "La fase due dell'operazione europea (Eunavfor) contro i trafficanti di migranti inizierà il 7 ottobre. La decisione politica è presa, gli asset sono pronti".

In una lettera ai leader Ue, il premier turco Ahmet Davotoglu dice di attendere l'arrivo di sette milioni di profughi dalla Siria, che probabilmente vorranno arrivare in Europa e chiede la collaborazione europea affinché si costituisca una 'zona sicura' in territorio siriano per l'accoglienza dei rifugiati. Lo si apprende da fonti Ue.

"La visita al centro di comando dell'operazione Eunavfor Med è stata un'occasione per essere aggiornata su quanto fatto nella fase uno. Ora sappiamo come lavorano i trafficanti di esseri umani della rotta centrale del mediterraneo e siamo pronti a smantellare la loro rete". Lo ha detto l'Alto rappresentante della Politica estera Ue, Federica Mogherini.

Alexis Tsipras finisce sulla graticola al summit straordinario dei leader Ue. Vari partner rimproverano alla Grecia le migliaia di migranti che attraversano la frontiera senza registrazione ed il fuoco che covava nella cenere si accende in una discussione sugli hotspot.

Ma è uno scambio costruttivo, che porta alla decisione di fissare una data certa per la loro attivazione. "Entro fine novembre", spiega il presidente del consiglio Ue Donald Tusk. L'Europa si ricompatta sulla necessità di riportare le sue frontiere esterne sotto controllo, dopo lo strappo con i Paesi dell'Est sui 120mila ricollocamenti. Il vertice apre la strada ad un piano comune per far fronte alla peggiore crisi di profughi dal dopoguerra. Il premier Matteo Renzi parla di "notte importante". E anche dai quattro premier (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania) che hanno votato contro il meccanismo di ridistribuzione e si sono visti imporre la decisione non ci sono state reazioni particolari.




lunedì 21 settembre 2015

Nagorno Karabakh, lo Stato non riconosciuto


Nagorno-Karabakh, un territorio conteso nel sud del Caucaso poco conosciuto, se non per alcune cronache degli anni Novanta. Tutto è iniziato alla fine degli Anni 80 con il crollo dell’Unione Sovietica che settant’anni prima aveva regalato questa regione dell’Armenia cristiana all’Azerbaigian musulmano. Nel ’91 il referendum per riottenere l’indipendenza scatenò il conflitto che in due anni causò trentamila morti, migliaia di feriti, quasi un milione di profughi e chi sa quanti dispersi. Decine di villaggi vennero rasi al suolo, i ponti distrutti, chiese e moschee ridotte in macerie. “Fu guerra etnica, non religiosa” sostengono in molti, da una parte e dall’altra. Sospese le ostilità nel maggio del 1994 con l’accordo di Bishkek, gli equilibri tra le parti furono ristabiliti sulle fragili basi una pax armata. Poiché la fine delle operazioni militari non portò al disarmo, il cessate-il-fuoco è stato spesso violato e i negoziati sono da anni intrappolati in un vicolo cieco. Difeso dall’Armenia, conteso dall’Azerbaigian e dimenticato dal resto del mondo, questo piccolo territorio incuneato nel Caucaso meridionale lotta ogni giorno per affermare un’indipendenza che nessuno Stato o organismo al mondo gli riconosce, neppure l’Armenia. Indipendenza ribadita con le elezioni amministrative tenutesi in data 13 settembre del 2014, che la comunità internazionale si è tuttavia affrettata a bollare come illegittime.

Il Nagorno Karabakh ha un’area di 11.458 chilometri quadrati, pari a meno della metà di quella della Sardegna, e una popolazione di 143 mila abitanti, poco meno della metà degli abitanti di Cagliari. È diviso in sette regioni, più la capitale Stepanakert, a statuto speciale, dove vivono oltre 53 mila persone. La seconda città più grande è Shushi. Karabakh è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». «Nagorno» è una parola russa che significa «montagna». La popolazione di origine armena preferisce invece chiamare la regione «Artsakh», il nome antico armeno.

Nel 1992 l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) creò il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro composta da 12 nazioni e guidata da Francia, Russia e Stati Uniti per promuovere i negoziati tra Armenia e Azerbaigian. Nel 1995 il paese adottò una nuova Costituzione, poi sostituita da una nuova carta approvata nel 2006 con un referendum che definì il Nagorno Karabakh uno Stato sovrano (la consultazione venne dichiarata illegittima dall’Azerbaigian). Il processo di pace è andato avanti lentamente. Ci sono stati incontri tra i presidenti di Armenia e Azerbaigian. Ma la situazione di fatto è in fase di stallo. E negli ultimi anni anche il cessate il fuoco è stato violato più volte.

Dalle principali organizzazioni sovranazionali (OCSE e Organizzazione per la cooperazione islamica, OIC), alle grandi potenze europee (Germania e Regno Unito) e mondiali (Stati Uniti e Cina), passando per i Paesi a maggioranza musulmana di tutte le latitudini (dalla Turchia all’Indonesia), un coro unanime ha ribadito l’inopportunità delle consultazioni  del 13 settembre. Per tutti, il voto nel Nagorno Karabakh rappresenta un guanto di sfida lanciato sul tavolo dei negoziati, poiché tenuto in palese violazione degli accordi raggiunti OCSE e in generale della legalità internazionale. Per quanto ineccepibile, questa ragione di principio ne sottende anche un’altra dettata da un più concreto interesse: all’estero nessuno desidera irritare l’Azerbaigian, ricco di petrolio e attore geopolitico di primaria importanza nel Caucaso e nel quadrante dell’Europa orientale, ma nemmeno la Russia, sponsor degli armeni e già ai ferri corti con l’Occidente in conseguenza della crisi ucraina.

L’irrisolta questione del Nagorno Karabakh è così diventata un tipico esempio di conflitto dimenticato, che ha fatto di questo territorio la zona più militarizzata d’Europa, dove le ostilità e la conta delle vittime non si sono mai del tutto arrestate. Un calcolo difficile, quest’ultimo, perché mancano osservatori imparziali e le uniche notizie – fornite dai Governi – sono spesso discordanti.

Oggi il piccolo Stato non riconosciuto è la polveriera d’Europa, dove a crescere, oltre al numero dei caduti, sono anche le spese militari. Secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), se nel 2000 il bilancio destinato al capitolo Difesa ammontava ad appena 68 milioni di dollari per l’Armenia e 120 milioni per l’ Azerbaigian, nel 2013 la spesa è passata rispettivamente a 427 milioni (+528%) e addirittura a 3 miliardi e 440 milioni (+2800%). Secondo la Banca Mondiale, il Pil dell’Armenia nel 2013 è stato pari a 2,977 milioni: in altri termini, la spesa militare dell’Azerbaigian supera di gran lunga l’intera ricchezza nazionale della rivale Yerevan. Un esborso che accresce i timori di una nuova, possibile offensiva di Baku nel tentativo di riprendere il controllo della regione. I media azeri gettano benzina sul fuoco con messaggi minatori nei confronti dei vicini armeni, e anche il presidente dell’Azerbaigian, llham Aliyev, ha più volte dato il suo contributo con messaggi dai toni sempre più minacciosi, salvo poi precisare che «è l’Armenia a non volere la pace».

La vicenda influenza i rapporti economici dell’intera regione con i Paesi confinanti e l’Europa. A sostegno dell’Azerbaigian, oltre al diritto internazionale, c’è l’opportunità di mantenere buoni rapporti con un Paese in fortissima crescita e posizionato in una zona cruciale per lo snodo di gasdotti e oleodotti. Ma a essere impegnate in un ruolo attivo sono innanzitutto le due maggiori potenze del Caucaso, ossia Turchia e Russia, rispettivamente schierate l’una con il governo azero e l’altra con quello armeno.

Tra le conseguenze più eclatanti della questione del Nagorno ci sono appunto i rapporti tra Ankara e la vicina Yerevan, sempre più ai minimi termini nel centenario del Medz Yeghern, il genocidio armeno perpetrato dai turchi tra il 1915 e il 1916; ma è soprattutto la posizione di Mosca che si sta ultimamente concentrando l’attenzione degli osservatori.

Negli ultimi mesi la Russia ha rafforzato ulteriormente il suo controllo sulla regione del sud del Caucaso, e alcuni analisti cominciano a vedere molte analogie con la crisi in Ucraina. La scorsa primavera, per esempio, il governo armeno ha abbandonato l’idea di firmare un accordo di partnership con l’Unione Europea – proprio come fece l’ex presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych, poi sfiduciato dal parlamento ucraino a seguito delle grandi proteste di piazza Indipendenza a Kiev dell’autunno e inverno scorsi – e ha annunciato la sua intenzione di unirsi a un accordo simile proposto dalla Russia.

Diversi analisti nelle ultime settimane hanno criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto all’intervento russo in Nagorno-Karabakh. Le considerazioni che vengono fatte sono due: primo, che senza una risposta adeguata il rischio è di vedere replicato qui quello che è successo con l’annessione della Crimea alla Russia, resa possibile anche grazie all’immobilismo occidentale. Secondo, che come succede spesso le argomentazioni di principio di diversi stati occidentali su dove e come intervenire militarmente o politicamente entrano in contraddizione tra loro. E il risultato è una perdita di credibilità dell’azione occidentale, problema diventato evidente durante la crisi ucraina.

martedì 15 settembre 2015

Che cos’è l’acquis del trattato di Schengen


Complesso di accordi volti a favorire la libera circolazione dei cittadini e la lotta alla criminalità organizzata all'interno dell'Unione Europea (UE) attraverso l’abbattimento delle frontiere interne tra gli Stati partecipanti e la costituzione di un sistema comune di controllo alle frontiere esterne dell’UE. A un primo accordo siglato a Schengen nel 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, ha fatto seguito una Convenzione di attuazione del 1990, entrata in vigore nel 1995. Ulteriori accordi hanno permesso l’adesione al sistema degli altri Stati dell’UE (l’accordo di adesione dell’Italia è del 1990), tranne Regno Unito e Irlanda. Con il Trattato di Amsterdam (1997, entrato in vigore nel 1999) le norme e le strutture previste dagli accordi sono state integrate nel diritto dell’Unione Europea. Dell’area Schengen fanno parte anche tre paesi non aderenti all’UE (Islanda, Norvegia e Svizzera).

Lo spazio Schengen è attualmente composto da 26 paesi, di cui 22 membri dell’Unione europea e quattro non membri (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Non ne fanno parte Bulgaria, Cipro, Croazia, e Romania, per cui il trattato non è ancora entrato in vigore, e Irlanda e Regno Unito, che non hanno aderito alla convenzione esercitando la cosiddetta clausola di esclusione (opt-out).

Le norme principali adottate nel quadro di Schengen prevedono tra l'altro:

l'abolizione dei controlli sulle persone alle frontiere interne;

un insieme di norme comuni da applicare alle persone che attraversano le frontiere esterne degli Stati membri UE;

l'armonizzazione delle condizioni di ingresso e delle concessioni dei visti per i soggiorni brevi;
il rafforzamento della cooperazione tra la polizia (compresi i diritti di osservazione e di inseguimento transfrontaliero);

il rafforzamento della cooperazione giudiziaria mediante un sistema di estradizione più rapido e una migliore trasmissione dell’esecuzione delle sentenze penali;

la creazione e lo sviluppo del sistema d’informazione Schengen (SIS).

All'interno del sistema Schengen, è stato sviluppato un sistema d’informazione SIS che consente alle autorità nazionali per il controllo della frontiera interna di ottenere informazioni su persone o oggetti. Gli Stati membri alimentano il SIS attraverso reti nazionali (N-SIS) collegate a un sistema centrale (C-SIS) integrato da una rete chiamata SIRENE (informazioni complementari richieste all'ingresso nazionale.

I progressi compiuti dall’UE grazie a Schengen sono stati integrati nel trattato di Amsterdam mediante un protocollo addizionale denominato acquis, corrisponde ad un insieme di disposizioni che regolano i rapporti tra gli Stati.. La libera circolazione delle persone, che già figurava tra gli obiettivi dell’Atto unico europeo del 1986, è ormai una realtà, probabilmente oggi superata.

Il Consiglio dell’UE ha dovuto prendere un certo numero di decisioni per arrivare a detta integrazione. Anzitutto il Consiglio è subentrato, in conformità del trattato di Amsterdam, al comitato esecutivo istituito dagli accordi di Schengen. Mediante la decisione 1999/307/CE del 1° maggio 1999, il Consiglio ha stabilito le modalità dell’integrazione del segretariato di Schengen, segnatamente le persone che lo componevano, nel segretariato generale del Consiglio.

Uno dei compiti più impegnativi che ha comportato per il Consiglio l’integrazione dello spazio Schengen è consistito nel selezionare, tra tutte le disposizioni e le misure prese dagli Stati firmatari di detti accordi intergovernativi, quelle che costituivano un vero e proprio acquis.

Cosa prevede il trattato, all’interno di questa zona i cittadini dell’Unione europea e quelli di paesi terzi possono spostarsi liberamente senza essere sottoposti a controlli alle frontiere. Di contro, un volo interno all’Ue che collega uno stato Schengen a uno stato non-Schengen è sottoposto a controlli alle frontiere. La caduta delle frontiere interne ha per corollario il rafforzamento delle frontiere esterne dello spazio Schengen. Gli stati membri che si trovano ai suoi confini hanno dunque la responsabilità di organizzare controlli rigorosi alle frontiere e assegnare all’occorrenza visti di breve durata alle persone che vi fanno ingresso.

L’appartenenza a Schengen implica una cooperazione di polizia tra tutti i membri per combattere la criminalità organizzata o il terrorismo, attraverso una condivisione dei dati. Una delle conseguenze di questa cooperazione è il cosiddetto “inseguimento transfrontaliero”, ovvero il diritto della polizia di inseguire un sospetto in un altro stato Schengen in caso di flagranza di reato per infrazioni gravi.

Anche se le frontiere interne dovrebbero esistere soltanto sulla carta, i membri dello spazio Schengen hanno comunque la possibilità di ristabilire controlli eccezionali e temporanei. Questa decisione dev’essere giustificata da una “minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna” o da “gravi lacune relative al controllo delle frontiere esterne” che potrebbero mettere in pericolo “il funzionamento generale dello spazio Schengen”, come si legge nella documentazione della
Commissione europea.

Perché la scelta della Germania non equivale a sospendere Schengen. La decisione delle autorità tedesche di reintrodurre i controlli alle frontiere lungo il confine con l’Austria per opporsi al flusso di migranti sembra “a prima vista” corrispondere a questa regola, come ha sottolineato domenica sera la Commissione in un comunicato. Prima dell’iniziativa di Berlino il ripristino temporaneo dei controlli frontalieri si era già verificato una ventina di volte dal 1995 e sei volte dal 2013. Tuttavia “è la prima volta che le frontiere vengono chiuse a causa della pressione migratoria”, ha precisato una fonte comunitaria.

I paesi Schengen che hanno reintrodotto i controlli
Germania. Il 13 settembre sono stati reintrodotti i controlli frontalieri al confine con l’Austria. Il provvedimento è temporaneo e non implica la chiusura delle frontiere.

L’Austria ha ripristinato i controlli dei documenti al confine con l’Ungheria, e 2.200 militari sono stati mandati a presidiare la frontiera. Il ministro della difesa Gerald Klug ha detto che i soldati controlleranno i veicoli e porteranno i migranti arrivati a piedi alle stazioni di polizia, ma non li respingeranno verso l’Ungheria.

Il governo slovacco ha deciso di reintrodurre i controlli frontalieri con l’Austria e con l’Ungheria.
Repubblica Ceca. Praga ha mandato duecento poliziotti ai passi di confine con l’Austria. Il timore del governo è che i migranti provino a raggiungere la Germania passando per il territorio ceco.
Paesi Bassi. Le autorità olandesi hanno annunciato che effettueranno controlli a campione ai confini del paese.

In Francia, i repubblicani – cioè il partito conservatore francese di Nicolas Sarkozy che ha sostituito l’Ump – hanno chiesto di reintrodurre controlli frontalieri provvisori al confine con l’Italia, ma il governo non ha ancora adottato misure di questo genere. Da giugno, comunque, a Ventimiglia la frontiera è stata più volte bloccata per i migranti soprattutto eritrei e sudanesi che volevano passare il confine per raggiungere, attraverso la Francia, il nord Europa.

Danimarca. Il 9 settembre il governo danese ha interrotto temporaneamente i collegamenti ferroviari e stradali con la Germania, nel tentativo di limitare e controllare il transito di migranti diretti in Svezia.

Adesso si parla degli hotspot, i centri di identificazione dei richiedenti asilo da istituire nei Paesi di prima accoglienza a tal fine l’Ufficio europeo per l'asilo (Easo), Frontex ed Europol dovrebbero dare il loro supporto agli Stati membri per velocizzare le pratiche di identificazione, registrazione e foto segnalazione dei migranti e bisogna distinguere i richiedenti asilo dai migranti che non ne hanno diritto. Tra gli obiettivi c’è l'individuazione dei profughi che hanno effettivo diritto all'asilo, dai migranti economici. Gli esperti di Easo aiuteranno i Paesi ad esaminare le domande di asilo "il più velocemente possibile", mentre Frontex aiuterà gli Stati nel coordinamento dei rimpatri di "coloro che non hanno esigenze di protezione internazionale".

I documenti dell'autopsia che scagiona i Marò



Non sono stati loro. L'autopsia sui due pescatori morti al largo delle coste del Kerala. L'analisi sui proiettili dimostra che a esplodere i colpi non furono le armi in dotazione a Salvatore Latorre e Massimiliano Girone.


E' questo ciò che emergere dall'autopsia sui pescatori uccisi in India realizzata dal medico legale indiano, l'anatomo patologo K. S. Sasika. Non sono stati i Marò. I documenti resi pubblici da Dagospia, arrivano in soccorso di quanto già scritto nei giorni scorsi. I legali indiani, infatti, hanno consegnato al Tribunale di Amburgo il documento che fino ad ora era rimasto nascosto nei cassetti delle aule giudiziarie indiane.


Nella seconda pagina, si legge chiaramente che il proiettile estratto dal cervello del pescatore Jalestine non è di quelli dati in dotazione alle truppe italiane. E' troppo grande. Il proiettile misurato dall'anatomo patologo, infatti, ha una ogiva di 31 millimetri, misura una circonferenza di 20 millimetri alla base e nella zona più larga arriva fino a 24 millimetri. Dalle armi dei Marò, invece, possono essere esplosi solo i colpi calibro 5 e 56 Nato, che misurano 23 millimetri appena, ben 8 millimetri in meno di quelli che hanno ucciso i pescatori. Impossibile dunque non capire che chi ha ucciso Jalestine non poteva usare i mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 che invece portavano con loro Latorre e Girone. Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia e i suoi legali non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti. Che arrivano a scagionare i Marò a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione. Il documento prova che i proiettili in dotazione ai due fucilieri non sono compatibili con le ferite dei pescatori uccisi.


Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia, i suoi legali, i governi non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione.


"Dalle carte depositate emerge anche l’ennesimo particolare incongruo. Il Gps del Saint Antony (il peschereccio indiano, ndr) non fu consegnato da Bosco alla polizia appena arrivò in porto, ma otto giorni dopo, il 23 febbraio, assieme a un computer malridotto. Insomma, volendo, ci fu tutto il tempo per manomettere i dati registrati dall'apparecchio".


I testimoni, i tre pescatori sopravvissuti alla sparatoria del 15 febbraio 2012, ovverro Il comandante del peschereccio Freddy Bosco, 34 anni, residente nello stato meridionale del Tamil Nadu, e il marinaio Kinserian, 47 anni, dichiarano 'onestamente e con la massima integrità' che alle 16,30 del 15 febbraio 2012 il natante 'finì sotto il fuoco non provocato improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi'. Entrambi, guarda caso, sbagliano nello stesso modo il nome della petroliera, la Enrica Lexie. Entrambi aggiungono che i 'tiri malvagi' hanno provocato la 'tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jelastin, e Ajesh Binke'. La loro vita dopo la presunta sparatoria è descritta nello stesso modo: 'Indicibile miseria e una agonia della mente, una perdita di introiti'. 'La nostra ordalia – concludono – non è finita'".


Il sito Dagospia  definisce il nuovo documento “un segreto di Pulcinella”. Difficile immaginare che l’autopsia delle vittime non sia mai stato visionata dal governo italiano e da quello indiano. E, dunque, perché non è stato usato come la pistola fumante per scagionare definitivamente Salvatore Girone e Massimiliano Latorre?

Lo straniero comunitario non ha sempre diritto a talune prestazioni sociali



Secondo l'avvocato generale Melchior Wathelet ai cittadini dell'Unione che si spostano verso uno Stato membro del quale non hanno la cittadinanza per cercarvi lavoro possono essere negate talune prestazioni sociali.


Uno Stato membro può escludere da talune prestazioni sociali, di carattere non contributivo, cittadini dell'Unione che vi si recano per trovare lavoro. Questo il principio contenuto nella sentenza emessa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa C-67/14 (sentenza Dano).


Il caso riguarda la Germania dove per l’appunto gli stranieri che vi giungono per ottenere un aiuto sociale o il cui diritto di soggiorno è giustificato solo dalla ricerca di un lavoro sono esclusi dalle prestazioni dell'assicurazione di base tedesca. Tali prestazioni sono invece garantite ai cittadini dello Stato membro ospitante che si trovino nella stessa situazione.


E la Corte di giustizia ha confermato che una tale esclusione è altresì legittima per i cittadini di uno Stato membro che giungono nel territorio di un altro Stato membro senza la volontà di trovarvi un impiego.


In conclusione la Corte ricorda che, per poter accedere a prestazioni di assistenza sociale come quelle in oggetto, un cittadino dell'Unione può richiedere la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante solo se il suo soggiorno sul territorio dello Stato membro ospitante rispetta i requisiti di cui alla direttiva sulla cittadinanza dell'Unione.


Venendo infine al caso in oggetto, nel dettaglio la Corte constata che vi sono due possibilità per conferire un diritto di soggiorno:


- se un cittadino dell'Unione che ha beneficiato di un diritto di soggiorno in quanto lavoratore si trova in stato di disoccupazione involontaria dopo aver lavorato per un periodo inferiore a un anno e si è fatto registrare in qualità di richiedente lavoro presso l'ufficio di collocamento, egli conserva lo status di lavoratore e il diritto di soggiorno per almeno sei mesi. Per tutto questo periodo, può avvalersi del principio della parità di trattamento e del diritto a prestazioni di assistenza sociale;


- se un cittadino dell'Unione non ha ancora lavorato nello Stato membro ospitante o il periodo di sei mesi è scaduto, questo cittadino, in quanto richiedente lavoro, non può essere allontanato da tale Stato membro fintantoché possa dimostrare che continua a cercare lavoro e che ha reali possibilità di essere assunto. In tal caso, lo Stato membro ospitante può tuttavia rifiutare qualsiasi prestazione di assistenza sociale.


Gli stranieri che giungono in Germania per ottenere un aiuto sociale o il cui diritto di soggiorno è giustificato solo dalla ricerca di un lavoro sono esclusi dalle prestazioni dell’assicurazione di base tedesca. Nella sentenza Dano2 , la Corte di giustizia ha constatato di recente che una tale esclusione è legittima per i cittadini di uno Stato membro che giungono nel territorio di un altro Stato membro senza la volontà di trovarvi un impiego.


Nella presente causa, la Corte federale del contenzioso sociale chiede se una tale esclusione sia legittima anche per quanto riguarda cittadini dell'Unione che si siano recati nel territorio di uno Stato membro ospitante per cercare lavoro e che vi abbiano già lavorato per un certo tempo, laddove tali prestazioni sono garantite ai cittadini dello Stato membro ospitante che si trovino nella stessa situazione.


Tale questione è sorta nell'ambito di una controversia che oppone il Jobcenter Berlin Neukölln a quattro cittadini svedesi: la sig.ra Alimanovic, nata in Bosnia, e i suoi tre figli Sonita, Valentina e Valentino, nati in Germania, rispettivamente, nel 1994, nel 1998 e nel 1999. La famiglia Alimanovic ha lasciato la Germania nel 1999 per recarsi in Svezia e vi ha fatto ritorno nel giugno 2010. Dopo il loro rientro, Nazifa Alimanovic e sua figlia maggiore Sonita hanno svolto, sino al maggio 2011, diversi lavori di breve durata o hanno avuto solo opportunità di lavoro di durata inferiore a un anno.


Da allora non hanno più svolto alcuna attività lavorativa. Alla famiglia Alimanovic sono state poi
accordate prestazioni di assicurazione di base durante il periodo compreso tra il 1° dicembre 2011 e il 31 maggio 2012, vale a dire, da un lato, per Nazifa Alimanovic e sua figlia Sonita, contributi di sussistenza per disoccupati di lungo periodo, e, dall’altro, per i figli Valentina e Valentino, prestazioni sociali per beneficiari inabili al lavoro. Nel 2012, l’autorità competente (Jobcenter Berlin Neukölln) ha infine cessato il pagamento delle prestazioni, ritenendo che la sig.ra Alimanovic e la sua figlia maggiore fossero escluse dal beneficio degli assegni di cui trattasi in quanto persone in cerca di lavoro straniere il cui diritto di soggiorno era giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro. Di conseguenza, tale autorità ha escluso anche gli altri figli dai rispettivi assegni. In risposta alle domande del giudice tedesco, la Corte dichiara, con la sentenza odierna, che il fatto di rifiutare ai cittadini dell'Unione, il cui diritto di soggiorno nel territorio di uno Stato membro ospitante è giustificato unicamente dalla ricerca di un lavoro, il beneficio di talune «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo»3 , le quali sono altresì costitutive di una «prestazione d’assistenza sociale», non è contrario al principio della parità di trattamento.


La Corte ha constatato che le prestazioni sociali controverse sono volte a garantire mezzi di sussistenza a persone non in grado di farvi fronte da sole e che sono oggetto di un finanziamento non contributivo mediante prelievo fiscale, anche se fanno parte di un regime che prevede altresì prestazioni volte ad agevolare la ricerca di un impiego. Essa sottolinea che, come nella causa Dano, tali prestazioni devono essere considerate alla stregua di «prestazioni d’assistenza sociale». A tale riguardo, la Corte ricorda che, per poter accedere a prestazioni di assistenza sociale come quelle oggetto della presente causa, un cittadino dell’Unione può richiedere la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro ospitante solo se il suo soggiorno sul territorio dello Stato membro ospitante rispetta i requisiti di cui alla direttiva sulla cittadinanza dell’Unione.

martedì 8 settembre 2015

Elisabetta Regina dei record




Mercoledì 9 settembre 2015 supererà Vittoria, al trono per 63 anni e 217 giorni. Ha visto passare sette Papi e incontrato tutti i grandi del 900. Il regno di Elisabetta è il più lungo della storia britannica.
Non ci sarà un francobollo commemorativo, né una parata. Elisabetta, che ha compiuto in aprile 89 anni, ha deciso che uno dei momenti più importanti del suo regno passi quasi inosservato. Aveva fatto così anche Vittoria. Il giorno in cui nel 1896 superò Giorgio III si trovava a Balmoral, e scrisse semplicemente nel diario: «Mi hanno detto che da oggi sono la sovrana britannica che ha regnato più a lungo».


Anche Elisabetta passerà la giornata a Balmoral in Scozia, in una sala del castello, dove per tradizione la famiglia reale trascorre le vacanze estive e da cui non è ancora tornata a Londra, un valletto porterà un vassoio con calici di champagne o forse bicchierini di sherry. Ma al mattino inaugurerà una nuova ferrovia scozzese, viaggiando per due ore su un treno a vapore. Alla stazione d’arrivo, a Tweedbank, sono state convocate le tv di tutto il mondo. Elisabetta dirà dunque qualcosa, e ringrazierà i sudditi britannici e quelli dei 53 Paesi del Commonwealth per il supporto che le hanno dato in questi 63 anni. Passerà il resto della giornata con il marito Filippo e con William, Kate e i pronipoti. Carlo sarà nell’Ayrshire, per un altro impegno, e Camilla parteciperà a una trasmissione tv.


Hanno ascoltato la Regina, che voleva che questa giornata fosse per tutti «business as usual».
Elisabetta desiderava vivere in campagna, circondata da cani e cavalli. Sarebbe accaduto davvero, se nel 1936 Edoardo VIII non avesse abdicato per sposare la divorziata Wallis Simpson, passando il peso del trono al fratello Bertie e a sua figlia. Quando arrivò la notizia nell'appartamento di Piccadilly dove abitavano, la piccola Margaret disse alla sorella: «Diventerai anche tu regina? Povera te». Giorgio VI, quel re così fragile, timido e balbuziente, fu amato dalla gente per il suo fiero comportamento nella guerra al nazismo. Quando morì a soli 57 anni, il 6 febbraio del 1952, fu ancora più facile amare quella giovane regina, portata dal destino in un mondo allora molto più grande di lei.


Walter Bagehot, il più famoso interprete della Costituzione inglese, ha spiegato da dove nasce l’amore dei britannici per la monarchia: c’è un modo diverso di definire la grandezza dalla semplice valutazione della ricchezza e del possesso di territori. La grandezza sta anche nel comportamento di un sovrano, nel suo senso del dovere, nelle cerimonie, nella capacità di ospitare in modo impeccabile, nel sapere fare cose che nessun altro sa fare altrettanto bene.


Dopo la guerra, ma perso l’impero, la Gran Bretagna ha ritrovato la propria grandezza anche grazie a Elisabetta. Il matrimonio con Filippo nel 1947 e l’incoronazione nel 1953 erano state cerimonie maestose in una città piena di macerie, con le tessere del razionamento ancora in vigore. All'incoronazione, tutto il mondo aveva guardato quella giovane ragazza ripetere solennemente le formule di antichissimi riti, ammirata da re, regine e capi di Stato che formavano il suo seguito nel corteo che percorreva le vie di Londra. C’era una nuova grandezza della quale la Gran Bretagna poteva essere fiera, e Elisabetta ha capito quel giorno che quella responsabilità sarebbe stata sulle sue spalle per tutta la vita.


Non c’è al mondo un altro testimone del Novecento come lei. È difficile individuare un grande personaggio del secolo scorso che non abbia incontrato: da Churchill a Kruscev, da Kennedy a Mandela, da Juri Gagarin a Neil Amstrong, ai Beatles, a Charlie Chaplin, a Marilyn Monroe, a sei Papa su sette che hanno governato la Chiesa durante il suo regno. Ha salvato la monarchia più volte, adattandola al mondo che cambiava. Ha commesso pochissimi errori, il più grave dei quali è stato quello di non interpretare per tempo il sentimento popolare di cordoglio per la morte di Diana.


Nessuno sa che cosa pensi veramente, perché non l’ha mai detto. Non ha mai concesso un’intervista, non ha mai sentito il bisogno di spiegare o rettificare, e in questo sta la sua grande forza: il suo potere deriva dal fatto che non lo usa mai. La grande maggioranza delle persone che oggi vive in Gran Bretagna ha avuto solo lei come Regina: i politici vanno e vengono, e sempre più spesso nessuno li rimpiange. Vivrà ancora a lungo, come sua madre. E, quando verrà il momento, potrà guardarsi indietro e dire di avere compiuto il proprio dovere.

A Londra non mancheranno gli auguri ufficiali. Il primo ministro David Cameron le farà omaggio nel discorso del mercoledì alla camera dei Comuni. Lo Speaker del parlamento darà la parola a deputati che vogliano aggiungervi le proprie. La Bbc manderà in onda un documentario, The Queen's Longest Reign: Elizabeth and Victoria , dedicato "ai regni di due donne straordinarie che hanno assicurato stabilità al proprio paese in un mondo in rapida evoluzione". Mentre in onore della regina la zecca reale emanerà una moneta con cinque diverse effigi, e nelle librerie britanniche sarà appena arrivata una nuova biografia, scritta da Douglas Hurd, a lungo ministro degli esteri e oggi membro della camera dei Lord, intitolata The Steadfast , la Risoluta, la Tenace, l'Immutabile - in sostanza colei che è sempre lì, al suo posto, con la corona in testa, dal lontano 1952: biografia autorizzata, tant'è che la prefazione è firmata dal principe William. Infine i giornali, che a Elisabetta dedicheranno le loro prime pagine, alcune delle quali probabilmente arricchite da queste stesse foto che vedete qui in esclusiva per l'Italia: ritratti allo specchio di un'allargata famiglia reale che per quattro anni il fotografo Hugo Rittson Thomas ha seguito con cerimoniosa deferenza.

E tuttavia il nuovo record spinge i royal watchers , gli esperti della casa reale, a fare il bilancio del regno di Elisabetta. "Per una donna che incarna la tradizione, ha dimostrato una straordinaria capacità di rinnovarsi e stare al passo con i tempi, restando se stessa", ha osservato Douglas Hurd. In effetti salì al trono appena sette anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando Harry Truman era presidente degli Stati Uniti, Stalin guidava l'Unione Sovietica e a Palazzo Chigi c'era Alcide De Gasperi, ed è rimasta al suo posto mentre il mondo cambiava vertiginosamente, regnando attraverso la fine dell'Impero britannico, la guerra fredda, il crollo del comunismo, la rivoluzione di internet, l'esplosione del terrorismo islamista.

Altri, come lo storico David Starkey, ritengono che non abbia "mai detto o fatto nulla degno di essere ricordato" e che il suo segno distintivo sia stato proprio il silenzio, sebbene in un paio di recenti occasioni non si sia astenuta dal dire la sua, come quando ha esortato gli scozzesi a "pensarci bene" prima di votare per l'indipendenza dalla Gran Bretagna (nel referendum del settembre 2014) o quando ha ammonito l'Europa a non dimenticare "le divisioni del passato" (forse un'esortazione ai propri sudditi a non votare per uscire dall'Unione europea nel referendum fissato per il 2017). Del resto, costituzionalmente non potrebbe neppure interferire pubblicamente negli affari della nazione di cui è formalmente a capo.