venerdì 24 novembre 2017

Putin, missione compiuta in Siria: la regia del dopo Sato Islamico è sua



Gli accordi di Sochi normalizzeranno la situazione in Medio Oriente. Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin che definisce costruttivo l’incontro con il presidente iraniano, Hassan Rohani e quello turco Recep Tayyip Erdogan.

Sulla composizione del Congresso di dialogo nazionale promosso dal Cremlino, la Turchia continua a rifiutare la presenza dei rappresentanti curdi.

“L’azione militare su vasta scala contro i gruppi terroristici in Siria sta volgendo al termine – ha detto Putin – Sottolineo che grazie agli sforzi di Russia, Iran e Turchia, siamo riusciti a prevenire il crollo della Siria”. L’intesa è totale ha aggiunto Erdogan, ma non specifica se siano state prese decisioni sulla presenza dei curdo-siriani. “L’accordo che abbiamo raggiunto è importante, ma non è ancora abbastanza – ha aggiunto Erdogan – è fondamentale che tutte le parti interessate contribuiscano a trovare una soluzione politica permanente e accettabile per il popolo siriano”.

Nei giorni scorsi il presidente siriano Bashar Assad era salito a Sochi, la capitale diplomatica di Putin sul Mar Nero, per rendere omaggio all’uomo che gli ha salvato il regno e il posto. C’è ancora molto da fare prima di ottenere una vittoria completa sui terroristi», ha ammesso Putin. Ma ciò che conta per lui è annunciare che si torna a casa; avviare il ridimensionamento della missione in Siria mantenendo comunque la base navale di Tartous e quella aerea di Latakia. Nel frattempo, l’imperativo di un’uscita di scena di Assad sembra finito in disparte, anche se il leader siriano ha pochi margini di manovra: a Sochi non ha potuto far altro che cedere all’ospite la gestione del dopoguerra nel suo Paese.

E Putin ha iniziato a definirlo due giorni dopo - mercoledì - con gli altri due vincitori: il presidente turco Recep Tayyep Erdogan e l’iraniano Hassan Rohani. L’esito del conflitto li ha portati vicini, strana coppia a cui Putin è riuscito a strappare l’appoggio comune a un Congresso di “dialogo nazionale” che si svolgerà per l’appunto a Sochi, e che mira a riuscire dove americani ed europei finora hanno fallito: mettere di fronte il governo siriano e l’opposizione, fargli costruire la nuova Siria insieme dopo sei anni di massacri.

Dopo aver affiancato Turchia e Iran, convincere a collaborare quel che resta dell’opposizione ad Assad sarà la prova del nove per Putin che in qualche modo vuole strappare l’iniziativa alle Nazioni Unite, affiancandosi ai negoziati che riprenderanno a fine mese a Ginevra. Con il presidente russo parlano tutti: dopo aver visto Assad, Putin ha telefonato a Donald Trump e all’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al re saudita Salman. Con ciascuno di loro Putin sottolinea gli interessi comuni, in particolare con l’Arabia che con Mosca sta gestendo una fase delicata di ripresa dei prezzi del petrolio: altro terreno dall’equilibrio scivoloso, dove anche il punto di vista di due grandi produttori come russi e arabi non sempre coincide. In Siria, Putin dovrà far coesistere il consolidamento di Teheran con il ridimensionamento di Riad, che ha armato l’opposizione ad Assad. La guerra starà finendo, ma la partita diplomatica inizia ora.

I vertici della repubblica islamica degli ayatollah, hanno dichiarato che la guerra al Califfato è vinta: un segnale che secondo loro può cominciare la spartizione in zone di influenza.

L’agenda però la dettano i russi, entrati in guerra a fianco di Damasco nel settembre 2015, mentre i turchi sono soddisfatti dalla presenza militare nel Nord della Siria in funzione anti-curda e Israele continuerà a occupare le alture del Golan conquistate nel 1967. Gli iraniani puntano a mantenere quell’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah che rende furibondi i sauditi e nervosi gli israeliani. Il casus belli è sempre questo da oltre tre decenni: la repubblica islamica sciita, persiana ed erede di un impero millenario.

Gli Stati Uniti con la Russia dovrebbero sancire questa spartizione dove convivono in un affollato condominio militare. L’accordo tra Putin e Trump (ieri i due presidenti hanno avuto un colloquio telefonico di circa un’ora) potrebbe essere il risultato della dichiarazione di Da Nang, al vertice asiatico dell’Apec, quando in un raro comunicato congiunto hanno affermato di concordare sull’«integrità della Siria e la sua sovranità». Quanto sarà integra e sovrana la Siria per la verità è nebuloso: i russi hanno insistito con Assad per fare un accordo con l’opposizione e chiudere la partita. Anche se è evidente che Mosca manterrà le basi in Siria e gli Usa un contingente militare, che pur vittorioso con i curdi siriani a Raqqa, appare vulnerabile per la presenza di Assad e delle milizie sciite. Mentre è fuori discussione che gli americani resteranno in Iraq, a maggioranza sciita e alleato dell’Iran, dove sono presenti le truppe di una dozzina di Paesi, Italia compresa.

Da questa ipotesi di spartizione vengono emarginate le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, che hanno sostenuto la guerra per procura contro Assad e l’Iran. Possono sperare in qualche compensazione nei negoziati dell’Onu ma sono briciole rispetto all’obiettivo che perseguono dal 1979, quando la rivoluzione di Khomeini fece fuori lo Scià in questa rivalità hanno investito 60 miliardi di dollari nella guerra di Saddam contro Teheran e molti altri ancora sostenendo i gruppi radicali sunniti e jihadisti. Non solo: Riad è impantanata in una guerra in Yemen che non riesce a vincere contro gli Houthi, la tribù sciita zaydita sostenuta da Teheran. Per i Saud, custodi della Mecca e riferimento di un miliardo e mezzo di musulmani, è quasi un’umiliazione.

Gli arabi del Golfo devono però lamentarsi con se stessi e i turchi: sono stati mollati da Erdogan, il quale dopo essersi proposto come il leader dei sunniti, appoggiando i Fratelli Musulmani in Egitto e la guerriglia contro Assad, ha fatto buon viso a cattivo gioco e, pur di sigillare le frontiere all’irredentismo curdo, ha abbandonato il campo occidentale della Nato e gli arabi per mettersi d’accordo con Putin e Teheran. Tutto questo è il risultato dei calcoli sbagliati degli arabi e degli occidentali: nel 1980 Saddam pensava di abbattere Khomeini, sostenuto dai soldi del Golfo, poi ha dovuto firmare una tregua sullo Shatt el Arab. Nel 2001 gli americani in Afghanistan credevano di mettere fine al terrorismo che invece è ancora una spina nel fianco anche dell’Europa. Nel 2003 gli Usa hanno fatto fuori Saddam e regalato all’Iran una vittoria strategica. Nel 2011 puntavano con Turchia e monarchie arabe a eliminare Assad e invece hanno riportato la Russia da protagonista in Medio Oriente.

Vediamo che le possibilità di pace o  di nuove guerre si ponderano. Sono in gran parte legate alla capacità di Usa e Russia di tenere a bada i loro scalpitanti alleati nella regione. Ma dipendono anche da calcoli meno dignitosi rispetto alla necessità di stabilizzare una regione chiave per la sicurezza europea. Gli Usa - ma anche la Francia - sono condizionati da Israele e dalle forniture di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati: hanno innescato, in cambio di miliardi di dollari, una corsa agli armamenti senza freni. Basta scorrere i dati 2016 dei bilanci della difesa: Usa 611 miliardi di dollari, Cina 215, Russia 69, Arabia Saudita 64, Emirati 23, con solo 1,5 milioni di abitanti, Iran 12, con una popolazione di 80 milioni. Questo è un motivo molto significativo perché finita una guerra, un’altra potrebbe cominciare.



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