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domenica 25 novembre 2018

Sì alla Brexit, May: "Riprendiamo il controllo dei confini e delle risorse



Con l'intesa raggiunta con l'Ue, "la Gran Bretagna riprenderà il controllo dei confini e delle proprie risorse che saranno spese in base alle proprie priorità": lo ha dichiarato la premier britannica Theresa May al termine del vertice del Consiglio europeo che ha dato il via all'intesa sulla Brexit. "Sono tutte cose che vanno nell'interesse nazionale", ha aggiunto la premier che nelle scorse ore ha fatto appello ai cittadini britannici affinché il divorzio dall'Unione sia "un momento di riconciliazione". "Garantiti i diritti dei cittadini Ue che vivono nel Regno Unito" "Abbiamo una partnership economica con l'Unione europea più di altri paesi. E' un bene per gli affari ed è un nostro interesse internazionale. Ebbene- rassicura la premier- se siete tra i 3 milioni di cittadini dell'Unione che sono nel Regno Unito saranno garantiti i vostri diritti e per il milione di cittadini britannici che vivono nell'Ue sarà lo stesso. Questo accordo vale per tutti e sarà reso più sicuro dalla clausola di cooperazione di sicurezza". Stabilizzare lo status dei cittadini europei che vivono, lavorano e studiano nel Regno Unito, con garanzie reciproche, che si applicheranno simmetricamente anche i cittadini britannici residenti nell'Ue era uno dei cinque obiettivi principali del negoziato di Londra con Bruxelles.

I 27 leader Ue hanno adottato il testo di conclusioni del vertice sulla Brexit, in cui si invitano "Commissione, Parlamento europeo e Consiglio, a fare i passi necessari per garantire che l'accordo possa entrare in vigore il 30 marzo 2019, in modo da assicurare un recesso ordinato" del Regno Unito.

Se qualcuno pensasse al Parlamento britannico "di rigettare questo accordo" sulla Brexit, pensando di poter ottenere un'intesa migliore, resterebbe deluso un attimo dopo la bocciatura, perché questo è l'unico accordo possibile", ed "è la migliore intesa possibile", ha detto il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, al termine del vertice, sottolineando che "oggi è un giorno triste".

"Di fronte a noi c'è un difficile processo di ratifica" dell'accordo di recesso del Regno Unito e "nuovi negoziati" ha detto il presidente del Consiglio europeo, Tusk al termine del vertice sulla Brexit -. Ma col Regno Unito "resteremo amici fino alla fine dei giorni, e anche un giorno di più".

"Ora è giunto il momento che ognuno si assuma le sue responsabilità", in quanto "questo accordo" di divorzio "è il passo necessario per costruire la fiducia tra l'Ue e la Gran Bretagna per costruire i prossimi passi". Così il capo negoziatore Ue Michel Barnier all'arrivo al vertice straordinario sulla Brexit. "Resteremo partner, alleati e amici" con Londra, ha concluso, ricordando di aver "sempre negoziato con e non contro la Gran Bretagna". Barnier ha quindi ringraziato i team di negoziatori, i 27 e l'Europarlamento.

"Questo è un Consiglio europeo storico ma che scatena sentimenti misti" in quanto "la Gran Bretagna se ne va dall'Ue dopo 25 anni ma noi rispettiamo la decisione del popolo britannico". Così la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine del vertice Ue straordinario sulla Brexit, sottolineando che "la cooperazione tra i 27, la Commissione Ue e il Parlamento europeo è stata eccellente" e che l'accordo di divorzio "è nel nostro interesse". "Ho una sensazione di sollievo per aver ottenuto quanto è stato ottenuto", ha concluso.

 Il Consiglio europeo, si legge nelle conclusioni del vertice "sostiene l'accordo sull'uscita del Regno Unito dall'Unione europea e invita la Commissione, il Parlamento e il Consiglio a intraprendere i passi necessari per assicurare che l'accordo possa entrare in vigore il 30 marzo 2019, in modo da garantire un'uscita ordinata" della Gran Bretagna dall'Unione europea. I 27 leader hanno approvato inoltre la dichiarazione politica che delinea il quadro per le future relazioni fra Londra e Bruxelles. Il Consiglio "ribadisce la determinazione dell'Unione di avere una partnership più stretta possibile con il Regno Unito" in linea con la dichiarazione politica. L'approccio della Ue continuerà a essere definito dalle posizioni e dai principi definiti nelle linee guida concordati dal Consiglio europeo.

L'accordo affronta, tra le altre cose, alcuni aspetti fondamentali come il periodo di transizione, i diritti dei cittadini europei che risiedono in Gran Bretagna dopo il 2019 e quelli dei cittadini britannici in Europa, gli impegni finanziari di Londra con l'Ue e le relazioni fra l'Irlanda del Nord e l'Irlanda. Ecco di seguito i punti chiave dell'intesa:

In base a quanto prevede l'intesa, il Regno Unito lascerà l'Ue il 29 marzo 2019, ma fino al 31 dicembre 2020 sarà mantenuta la situazione attuale, per quanto riguarda l'unione doganale, il mercato unico e le politiche europee. Durante il periodo di transizione il Regno Unito dovrà attenersi alle norme dell'Ue, ma non farà più parte delle sue istituzioni. Il progetto di accordo stabilisce inoltre che la transizione potrà essere estesa una solo una volta e per un periodo limitato, tramite un accordo congiunto. In questo caso la decisione deve essere presa prima del 10 luglio 2020.

La bozza di accordo stabilisce anche gli impegni finanziari che il Regno Unito dovrà assumere per uscire dall'Ue. Anche se la cifra non figura nel testo dell'accordo, per divorziare con Bruxelles il Regno Unito dovrebbe versare nelle casse europee almeno 39 miliardi di sterline (circa 45 miliardi di euro). Quest'anno, ricorda la Bbc, il contributo del Regno Unito al bilancio dell'Ue è previsto in 10,8 miliardi di sterline.

Questo punto resta sostanzialmente invariato rispetto alla bozza iniziale dell'accordo. I cittadini britannici che vivono nel continente e i cittadini dell'Ue che vivono nel Regno Unito manterranno i loro diritti anche dopo la Brexit. I cittadini che prenderanno la residenza in un altro paese dell'Ue durante il periodo di transizione (compreso il Regno Unito) potranno restare in quel Paese anche dopo la transizione.

Fin dall'inizio del negoziato, sia Londra che Bruxelles hanno concordato sulla necessità di mantenere aperto il confine irlandese e impedire che il ripristino delle barriere fisiche tra Repubblica d'Irlanda e Irlanda del Nord compromettesse l'accordo di pace del 1998. Per questo si è deciso di ricorrere a un 'backstop', una clausola di salvaguardia. Il backstop dovrebbe garantire il mantenimento del confine aperto anche dopo il periodo di transizione post Brexit. In questo periodo si negozierà il futuro trattato commerciale tra Regno Unito e Ue che, secondo gli auspici, dovrebbe risolvere anche in modo definitivo la questione irlandese. Di fatto, non c'è nessuna garanzia che si possa giungere a un accordo e per questo è stata prevista la clausola di garanzia.

Il backstop concordato tra Londra e Bruxelles prevede che l'Irlanda del Nord resti allineata ad alcune regole Ue in tema di prodotti alimentari e standard sulle merci. In questo modo, non saranno necessari controlli doganali e di frontiera tra Repubblica d'Irlanda (che rimarrà territorio Ue) e Nord Irlanda. I controlli saranno però necessari per le merci destinate all'Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito, di fatto istituendo un confine nel Mare d'Irlanda. In questo scenario, è stato concordato di creare un territorio doganale unico tra Regno Unito e Ue, e l'Irlanda del Nord resterebbe in questo medesimo territorio doganale. Finché il backstop è operativo, il Regno Unito sarà soggetto a "condizioni di parità", per garantire che non possa ottenere un vantaggio competitivo pur rimanendo nello stesso territorio doganale.



mercoledì 29 novembre 2017

Brexit: il conto per uscire dall'Europa



I quotidiani inglesi non parlano d'altro: è stato raggiunto l'accordo finanziario tra il Regno Unito e l'Unione Europea con il quale il primo si assume la responsabilità di pagare fino a 100 miliardi di euro per uscire dall'Europa, anche se il costo per la Brexit oscilla tra i 44 e i 55 miliardi di euro.

Il costo del divorzio tra Londra e Bruxelles ammmonterà fra i 45 e i 55 miliardi di euro. Una fattura che il Regno Unito dovrà pagare all'Europa per poter uscire dall'Unione. L'accordo sulla cifra sarebbe stato già raggiunto. La notizia è rimbalzata questa mattina sulle prime pagine di diversi quotidiani britannici ed è stata confermata dalla televisione di Stato. Ma come si arriva a questa cifra?

30 miliardi
Ogni anno il budget europeo prevede degli stanziamenti pluriennali per il finanziamento di diversi progetti. Al momento dunque Londra deve saldare almeno 30 miliardi di euro per i progetti a venire.

20 miliardi
Ma Londra sarà costretta a versare nelle casse dell'UE almeno 20 miliardi per gli impoegni legali assunti per il periodo 2014-2020. Poi ci sono altri impegni economici assunti nel passato che il Regno Unito dovrà rispettare.

Gli altri 'spiccioli'
Bruxelles vorrebbe anche almeno 7 miliardi di euro per pagare una parte delle pensioni dei funzionari europei, oltre al contributo per la politica migratoria o quella relativa agli investimenti strategici.

Secondo alcuni analisti in realtà la somma totale potrebbe facilmente superare i 100 miliardi di euro. Il prossimo 4 dicembre è previsto un incontro tra il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, il capo dei negoziati per la Brexit Michel Bernier e la premier britannica Theresa May.

Si tratta di una prima importante fase prodromica a quella dei negoziati necessari per definire gli accordi commerciali tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea.

Come ha affermato, cautamente, il capo negoziatore dell'Ue, Michel Barnier “ci stiamo ancora lavorando duramente, spero di poter annunciare presto un'intesa”, sebbene tale tipologia di accordo si configuri certamente come una sconfitta per il Regno Unito.

Sulla base di tale preliminare accordo la premier britannica Theresa May e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker si incontreranno a pranzo lunedì 4 dicembre, sue giorni prima che la Commissione discuta sullo stato dei negoziati.

Non vi sono commenti a tale accordo né dal governo britannico né tantomeno dalla Commissione europea, ma quello che è certo è che intanto il prezzo della sterlina sale a 1,33 dollari e nei confronti dell'euro a 0,89.

Il calcolo viene effettuato in questo modo: 10 miliardi all'anno per i due anni di transizione dopo Brexit chiesti da Londra tra il 2019 e il 2021, (che i Ventisette sono pronti a concederle), a cui bisogna aggiungere 20-30 miliardi che sono gli impegni finanziari promessi ma non ancora versati inclusi nel bilancio comunitario 2014-2020. A questo totale bisogna sommare alcuni miliardi fuori bilancio per pagare tra le altre cose le pensioni dei funzionari europei.

Oltre al nodo finanziario, su cui si stanno facendo progressi, restano aperte due altre questioni: il diritto dei cittadini e il rapporto tra la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord. Quest'ultimo aspetto è diventato particolarmente difficile da risolvere dopo che il governo irlandese ha deciso di alzare la posta, chiedendo specifiche garanzie a Londra. Dublino vuole che nell'Ulster ci sia nei fatti uniformità regolamentare per preservare i vantaggi del mercato unico sull'intera isola. «Vogliono una soluzione che valga per l'intera isola, tale da preservare gli strettissimi scambi commerciali sui due lati della frontiera», nota un diplomatico nazionale. Per il Regno Unito, la richiesta irlandese appare difficile da accettare. In ballo, c'è la sovranità stessa della Gran Bretagna. «D'altro canto – spiega ancora l'esponente comunitario –, dietro a Brexit c'è proprio la volontà di staccarsi dall'Unione, abbandonare l'assetto regolamentare comunitario».

Molti diplomatici ammettono che il governo irlandese ha deciso di fare la voce grossa, nel timore che rinviando la questione all'accordo definitivo Dublino rischi di dover accettare la posizione inglese. Ufficialmente, l'Irlanda può contare sull'appoggio dei suoi partner, ma nella sostanza la posizione irlandese è molto particolare. Agli altri governi preme soprattutto trovare una soluzione sulle finanze e sui diritti dei cittadini. «La questione irlandese è tale: prettamente irlandese», ammette un altro diplomatico.

Per Londra, garantire l'unità regolamentare sull'intera isola significherebbe avere due regimi in uno stesso paese. Sarebbe anche interpretato come un primo passo verso una clamorosa riunificazione dell'isola. In un recente vertice europeo l'allora premier Enda Kenny aveva ottenuto che fosse precisata la possibilità per l'Irlanda del Nord, una volta eventualmente inglobata nella Repubblica d'Irlanda, di aderire direttamente all'Unione, come la DDR in occasione della riunificazione tedesca.


venerdì 9 giugno 2017

Regno Unito e Brexit , cosa può succedere senza maggioranza




Il risultato delle elezioni nel Regno Unito segna un grave smacco di Theresa May, in lieve vantaggio (318 seggi, ne perde 12) rispetto ai Labour (261, 29 seggi in più) e senza una maggioranza che le consenta di governare la Brexit. Si profila un parlamento bloccato, 'appeso' ad eventuali alleanze, allo stato assai improbabili. Ma May va avanti.

«Il Paese ha bisogno di certezze. I voti che abbiamo ottenuto ci dano stabilità». La May non si dimette, ma dopo l'incontro con la Regina che l'ha autorizzata a formare un nuovo esecutivo, parla a Downing Street e dice: «Governerò per i prossimi anni. Rispetterò la promessa della Brexit decisa dal popolo». «Formerò un nuovo governo per attuare la Brexit e mantenere il Paese sicuro». Ha aggiunto che «solo i conservatori hanno il diritto di formare il governo» e che questo governo sarà formato «insieme agli Unionisti». Secondo il primo ministro, i due partiti sono accomunati da una «forte relazione» che va avanti da anni. May ha detto che il suo governo punterà sull'equità e sulle opportunità, e ha aggiunto che «nei prossimi cinque anni costruiremo un paese in cui nessuno, nessuna comunità resterà indietro. Ma ciò di cui il paese ha più bisogno è sicurezza e certezza».

Visto che nessun partito ha ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni, la tabella di marcia della Brexit si complicherà notevolmente.

Dopo l’attivazione dell’articolo 50 nello scorso marzo, l’uscita del Gran Bretagna dall’Unione Europea dovrà essere completata entro marzo 2019, anche se le parti non dovessero raggiungere un’intesa sul ‘divorzio’.

Il mantra di Theresa May durante la campagna elettorale è stato ‘Nessun accordo è meglio di un cattivo accordo’. E ‘nessun accordo’ ora sembra l’ipotesi più probabile.

Per il Regno Unito vorrebbe dire non avere più un accesso preferenziale ai mercati della Ue, uno svantaggio enorme rispetto alle altre nazioni. I colloqui in materia sarebbero dovuti cominciare il prossimo 19 giugno, ma se non ci sarà un governo la data dovrà essere necessariamente cambiata. I negoziati non potrebbero cominciare prima di nuove elezioni, il che implicherebbe un rinvio di almeno 6 settimane.

La Gran Bretagna potrebbe chiedere un’estensione del periodo per i negoziati, ma servirebbe l’ok di tutte le 27 nazioni dell’Unione Europea. E per ottenerlo Londra sarebbe costretta a fare delle concessioni – ad esempio sui pagamenti dovuti a Bruxelles – prima ancora che i negoziati comincino.

Quando ha deciso di andare alle urne in anticipo Theresa May era convinta di rafforzare la maggioranza in Parlamento in modo da negoziare con Bruxelles da un posizione di forza. A quanto pare invece ha ottenuto l’effetto contrario e sembra avere compromesso le possibilità di ottenere un ‘divorzio’ con concessioni minime alla Ue.

Subito dopo gli exit poll l’ex leader di Ukip Nigel Farage ha detto che questi risultati potrebbero portare a un nuovo referendum sull’opportunità di lasciare l’Unione Europea. Un’eventualità, ha aggiunto Farage, che potrebbe convincerlo a tornare in politica.

Tuttavia sia i Conservatori che i Labour hanno confermato il loro impegno a portare a fondo la trattativa per l’uscita dalla Ue, anche se Corbyn sta cercando di mantenere un rapporto più stretto con Bruxelles rispetto alla May.

Lo scenario che si prospetta ora a Westminster, quella del parlamento sospeso, è una situazione che si verifica quando nessun partito ottiene la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni. In questa fattispecie, la formazione del governo, che deve ottenere la fiducia dal parlamento, risulta estremamente problematica e ha bisogno dell'appoggio di forze minoritarie.
Si tratta di una situazione di stallo, durante la quale si ricorre di solito a governi di coalizione, a governi tecnici o a una nuova tornata elettorale. Il primo ministro aveva chiesto di tornare alle urne lo scorso aprile, tre anni prima della fine del suo mandato, perché era convinta che il suo partito avrebbe ottenuto una vittoria schiacciante.

Theresa May resta la premier britannica, ma la sua posizione inizia a traballare. Se riuscisse a mantenere il sostegno del suo partito, scrive il 'New York Times', avrebbe diritto a rimanere in carica fino alla prima seduta del nuovo Parlamento, secondo quanto prevede il Manuale del Governo, che stabilisce le norme del governo britannico. Il nuovo Parlamento dovrebbe riunirsi la prossima settimana.

Non avendo ottenuto la maggioranza assoluta, May potrebbe puntare a un governo di coalizione, cercando un accordo con i partiti più piccoli, per non rischiare di essere defenestrata, assicurando, in cambio, una linea politica specifica. Malgrado lo smacco, la premier conservatrice ha deciso di andare avanti e proverà a formare un governo di minoranza. Il Democratic Unionist Party ha acconsentito alla formazione di un governo con i Conservatori. Un'intesa, riporta l'Independent, che non richiederà passaggi formali per la creazione di una coalizione. In questo modo May ottiene una maggioranza di 328 seggi, appena 2 seggi oltre la soglia minima dei 326.



mercoledì 29 marzo 2017

Brexit: Londra consegna la lettera all'Ue



È il giorno della Brexit. Ieri sera Theresa May ha firmato la lettera con cui ha chiesto l'avvio - alla luce dell'ormai famigerato articolo 50 - delle trattative per l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa. L'ambasciatore britannico all'Ue, Tim Barrow, ha consegnato nelle mani del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, la lettera di notifica dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona.

La Gran Bretagna si avvia a lasciare l'Ue "secondo la volontà del popolo", ha detto alla Camera dei Comuni la premier Theresa May, confermando la consegna della lettera di notifica dell'Articolo 50 a Donald Tusk "pochi minuti fa". "E' un momento storico, non si torna indietro".

La Gran Bretagna non farà parte del mercato unico, uscendo dall'Ue. Lo ha confermato Theresa May, sostenendo che si tratta di una opzione "incompatibile con la volontà popolare" manifestata nel referendum sulla Brexit di restituire al Regno il pieno controllo dei suoi confini e della sua sua sovranità. "L'Ue ci ha detto che non possiamo scegliere" cosa tenere e cosa no, e "noi rispettiamo" questo approccio. Ribadita comunque la volontà di una nuova partnership e di rispettare diritti dei lavoratori e valori liberaldemocratici. La Gran Bretagna non farà parte del mercato unico, uscendo dall'Ue, conferma May sostenendo che si tratta di una opzione "incompatibile con la volontà popolare" manifestata nel referendum sulla Brexit di restituire al Regno il pieno controllo dei suoi confini e della sua sua sovranità. "L'Ue ci ha detto che non possiamo scegliere" cosa tenere e cosa no, e "noi rispettiamo" questo approccio. Ribadita comunque la volontà di una nuova partnership e di rispettare diritti dei lavoratori e valori liberaldemocratici.

Le date chiave del processo che porterà all'uscita della GB dalla Ue
"Una certa dose di incertezza per il business" in Gran Bretagna è "inevitabile" durante la fase negoziale di transizione verso la Brexit, ha riconosciuto la premier conservatrice rispondendo alla domanda di un deputato laburista durante il dibattito fiume alla Camera dei Comuni sull'avvio dell'iter di divorzio dall'Ue. "Quello che possiamo fare - ha aggiunto - è tuttavia dare chiarezza" sugli obiettivi e sui vari passaggi del percorso.

"Questo è un momento storico, da cui non c'è ritorno", ha detto nel suo discorso Theresa May parlando alla Camera dei Comuni pochi minuti dopo la consegna della lettera, "Il Regno Unito lascia l'Unione europea, prenderemo le nostre decisioni e scriveremo le nostre leggi, avremo il controllo delle cose che più ci importano. Coglieremo l'opportunità di costruire un Regno Unito più forte ed equo, dove fioriranno le nuove generazioni. È un'opportunità e andremo in questa direzione. È uno spartiacque nella nostra storia".

"Non c'è ragione di fingere che oggi sia un giorno felice, sia a Bruxelles che a Londra", dice invece il presidente del Consiglio europeo, "In questi negoziati l'Unione agirà unita e preserverà i suoi interessi. La nostra prima priorità sarà di minimizzare l'incertezza causata dalla decisione del Regno Unito per i nostri cittadini, imprese e Stati membri. Avremo un approccio costruttivo e faremo di tutto per trovare un accordo. In futuro speriamo di avere il Regno Unito come partner vicino. Ma se il negoziato fallisce, faremo in modo che l'Unione Europea sia comunque pronta ad un esito del genere, anche se non lo desideriamo". E poi ha concluso il suo discorso con una battuta: "Ci mancate già. Grazie e arrivederci".

Fissa poi i paletti il Parlamento Ue che varerà oggi una risoluzione - anticipata dal Guardian - sulla Brexit: il Regno Unito non otterrà un accordo di libero commercio dall'Ue nei prossimi due anni e una soluzione di transizione per attutire l'uscita dopo il 2019 non potrà durare più di tre anni. Inoltre gli eurodeputati hanno avvisato la May che l'Ue proteggerà i suoi interessi politici, economici e sociali e gestirà la Brexit "in modo ordinato in modo da non colpire negativamente l'Ue, i suoi cittadini e il processo di integrazione europeo".

Critica anche Angela Merkel che boccia la proposta di avviare negoziati in parallelo sia per la Brexit che sui futuri rapporti tra Gran Bretagna e i Ventisette. "Le trattative devono prima chiarire come saranno sciolti le relazioni interconnesse e solo dopo che questa vicenda sarà affrontata e risolta, potremmo subito se tutto sarà andato bene, iniziare a parlare della nostra futura relazione", ha spiegato la Cancelliera tedesca.

Brexit, che cos'è e come funziona: dall'articolo 50 ai negoziati

Il termine Brexit risulta da un gioco di parole fra 'Britain', cioè Regno Unito, ed 'Exit', cioè uscita, e indica appunto l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea. Il divorzio dall'Ue è stato deciso con lo storico referendum del 23 giugno del 2016, convocato dall'allora premier David Cameron, conservatore, che si è dimesso proprio dopo quella consultazione dal momento che aveva appoggiato il no alla Brexit, schierandosi per la permanenza in un'Ue riformata. Alle urne il 51,9% dei cittadini ha votato a favore dell'uscita dall'Ue, mentre il 48% si è espresso a favore della permanenza nel blocco comunitario.  

L'articolo 50 del Trattato di Lisbona è composto da cinque punti e stabilisce il meccanismo per il ritiro di un Paese dall'Unione europea. Dice quanto segue: in primo luogo che "ogni Stato membro potrà decidere, conformemente alle sue norme costituzionali, di ritirarsi dall'Unione"; e in secondo luogo che "lo Stato membro che decida di ritirarsi notificherà la sua intenzione al Consiglio europeo".

Una volta invocato l'articolo 50, comincia un periodo di negoziati formali di due anni tra l'Ue e il Regno Unito per stabilire i termini per la Brexit e fissare le linee guida delle nuove relazioni future tra Londra e Bruxelles.

Se entrambe le parti riusciranno a ottenere un accordo nell'ambito del negoziato, il Regno Unito smetterà di appartenere all'Ue entro la primavera del 2019. Tuttavia questo calendario potrebbe cambiare nel caso in cui le parti si dovessero accordare in modo unanime per estendere il periodo di colloqui. Se questo accordo unanime non ci fosse, i trattati europei smetterebbero automaticamente di essere applicati allo scoccare dei due anni dalla notifica che viene depositata oggi, mercoledì 29 marzo.

Attualmente nel Regno Unito risiedono 3,15 milioni di cittadini comunitari, contro i 900mila espatriati britannici che vivono in diverse parti dell'Ue secondo i dati ufficiali. In entrambi i casi la situazione è incerta. La premier britannica, Theresa May, ha insistito sul fatto che risolvere la loro situazione legale è prioritario, ma nel testo di legge sulla Brexit approvato in Parlamento non compare alla fine alcuna garanzia esplicita in proposito.

Se il Regno Unito, o qualunque altro Stato membro che si è ritirato, chiede nuovamente l'adesione, la sua richiesta viene sottoposta allo stesso procedimento previsto per uno Stato che desideri aderire. Brexit, che cosa succede dopo l'attivazione dell'articolo 50 Il 29 aprile, proprio a seguito della notifica dell'attivazione dell'articolo 50, è in programma un vertice speciale a Bruxelles, in cui saranno formalmente adottate le linee guida per il negoziato che l'Unione europea intenderà seguire. Secondo il Guardian, già da giovedì Tusk comincerà a fare circolare queste linee guida fra i 27 Stati membri. Nel Regno Unito le norme Ue e i trattati resteranno in vigore fino all'uscita effettiva, ma lo Stato che intende divorziare non può partecipare all'attività decisionale né alle discussioni interne dell'Ue relative alla sua uscita. I trattati smetteranno di essere applicati allo Stato in questione dalla data di entrata in vigore dell'accordo sul ritiro o, in caso di mancato accordo e mancata estensione del periodo dei negoziati, due anni dopo la notifica dell'intenzione di uscire dall'Ue. In realtà nessuno sa come funzionerà il procedimento della Brexit, dal momento che il Trattato di Lisbona è entrato in vigore soltanto nel 2009 e finora l'articolo 50 non è mai stato usato. Secondo quanto riporta la Bbc, l'ex ministro degli Esteri britannico Philip Hammond, sostenitore della permanenza nell'Ue, ha suggerito che per terminare i negoziati sulla Brexit potrebbero volerci fino a sei anni; sulle condizioni sull'uscita del Regno Unito dovranno essere d'accordo 27 Parlamenti nazionali, un processo che potrebbe richiedere alcuni anni, ha argomentato.  Dei negoziati e di tutti i nuovi accordi internazionali del Regno Unito si occuperanno, con ruoli diversi, in tre, soprannominati i 'Three Brexiteers'. Si tratta di: il ministro per la Brexit David Davis, che è stato messo dalla premier britannica Theresa May a capo di un dipartimento apposito; l'ex segretario alla Difesa Liam Fox, che è adesso segretario per il Commercio internazionale; e Boris Johnson, attuale ministro degli Esteri. Ma la Bbc sottolinea che l'ultima parola, in ogni caso, spetterà alla prima ministra May.


lunedì 9 gennaio 2017

Zygmunt Bauman, il teorico della «società liquida»



A darne notizia è stato il quotidiano di Varsavia "Gazeta Wyborcza". Zygmunt Bauman si è occupato di analisi della modernità e postmodernità, del ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti studi sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione.

Il filosofo di origine polacca Zygmunt Bauman è morto oggi a Leeds, in Inghilterra, dove viveva e insegnava, all’età di 92 anni. Era era nato a Poznan, in Polonia, il 19 novembre 1925 da una famiglia di origini ebree. Proclamato come uno dei più noti e influenti intellettuali del mondo, a lui si deve la folgorante definizione della " società liquida", di cui è uno dei più acuti osservatori. Era professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia. Di formazione marxista, ha studiato il rapporto tra modernità e totalitarismo, con particolare riferimento alla Shoah (Modernità e Olocausto, edito dal Mulino) al passaggio dalla cultura moderna a quella postmoderna (Modernità liquida, Laterza). Considerato il teorico della postmodernità, Bauman è autore di moltissimi libri, famosi anche in Italia, nei quali si è occupato di temi rilevanti per la società e la cultura contemporanea: dall'analisi della modernità e postmodernità, al ruolo degli intellettuali, fino ai più recenti studi sulle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione. Alcuni titoli: "Vita liquida", "Consumo dunque sono", "L'arte della vita", "Il demone della paura", Amore liquido" “Sulla fragilità dei legami affettivi” (Laterza), "Capitalismo parassitario", "L'etica in un mondo di consumatori", "Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone", "Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell'età globale", "Paura liquida", "La società sotto assedio", "Sesto potere", "Stranieri alle porte", Vita liquida (Laterza); La solitudine del cittadino globale (Feltrinelli); La società dell’incertezza (Il Mulino); Stato di crisi (Einaudi); La cultura nell'età dei consumi (Laterza); Stranieri alle porte (Laterza).

In seguito all'invasione del suo Paese da parte delle truppe naziste all'inizio della Seconda guerra mondiale, Bauman fugge, adolescente, con i genitori in Unione Sovietica e si arruola in un corpo di volontari per combattere contro i nazisti. Finita la guerra, torna nel suo Paese e inizia a studiare sociologia all'Università di Varsavia dove si laurea in pochi anni. Nel 1968, è costretto di nuovo a emigrare in seguito a un'epurazione antisemita messa in atto dal governo polacco e si rifugia prima in Israele, dove ha insegnato all'Università di Tel Aviv, poi nel Regno Unito dove, dal 1971 al 1990.

“Il consumismo e la globalizzazione hanno incrinato le sicurezze e contribuito allo sviluppo di una vita liquida ”.

Il filosofo era stato, lo scorso mese di settembre, tra gli ospiti dell'incontro interreligioso per la pace organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio e dai frati di Assisi. Ad Assisi Bauman parlò della necessità del dialogo come la via per l'integrazione tra i popoli. Citò, nel suo intervento alla sessione inaugurale, tre consigli dello stesso Papa: «una cultura del dialogo» e «l'equa distribuzione dei frutti della terra e del lavoro»; in terzo luogo - ricordò il sociologo - «Papa Francesco dice che questo dialogo deve esser al centro dell'educazione nelle nostre scuole, per dare strumenti per risolvere conflitti in maniera diversa da come siamo abituati a fare». Bauman ha partecipato a diversi incontri ispirati al cosiddetto “Spirito d'Assisi” e organizzati da Sant'Egidio, tra i quali quello di Anversa nel 2014.

'Siamo di fronte ad una nebbia informativa, una cortina impenetrabile di notizie ed informazioni in eccesso che non ci permette di sapere cosa c'e' oltre. Siamo in una modernità di bambagia che ci impedisce di fare cio' che vogliamo, che sviluppa in noi un senso di ignoranza, di inadeguatezza e di frustrazione, e che provoca uno stato di impotenza e di instabilità'': così aveva parlato Bauman nel 2011 al Festival della Mente, di Sarzana. ''In questo contesto di precarietà' e di legami che si dissolvono, sta crescendo la necessita' di qualcosa di solido - aveva spiegato - che può essere ricercato nella comunità''. Sarebbe proprio questo desiderio la ragione del successo dei social network: ''E' un mondo dove c'e' la necessita' di partecipazione ma al tempo stesso c'e' il desiderio di autonomia'' da parte di chi frequenta il social network, ''dove c'e' la necessita' di crearsi un'identità e di ottenere un riconoscimento''. Più in generale Bauman sosteneva: ''siamo in una fase di interregno, di passaggio, dove tutto e' ancora incerto. Stiamo assistendo a un divorzio tra le istituzioni pubbliche, che non sono più in grado di offrire certezze, e il cittadino, che si è accorto di queste mancanza e quindi protesta''. Bauman parlò di ''un divorzio tra il potere e la politica'', due settori ''che fino a sessanta anni fa, invece, coincidevano, e che oggi si sono divisi''. ''Il potere e' emigrato - ha spiegato - ed e' al di fuori della portata di qualunque nazione, compreso gli Stati Uniti che sono un ex impero e una ex potenza mondiale''. In questo cambiamento planetario, Bauman vedeva di buon occhio ''i movimenti popolari arabi, perché formati da persone intelligenti che hanno capito che lo stato nazionale non poteva più garantire loro alcuna certezza e sono scesi in piazza con la volontà di creare nuove forme di potere politico''.

Chi lo ha conosciuto e con lui ha lavorato, come lo scrittore e giornalista Wlodek Goldkorn, anche lui polacco, sottolinea la sua "curiosità verso il mondo" e i tratti fondamentali di un carattere che ha reso Bauman uno dei punti di riferimento per chi voglia decifrare il presente contemporaneo e al tempo stesso migliorarlo: era, racconta Goldkorn, "un uomo di estrema gentilezza, coraggioso, eterodosso ed eclettico. Era molto curioso dei giovani e loro lo erano di lui". "Leggeva tutto e stava molto in Internet - prosegue - ma era critico verso i social media poiché, a suo dire, non creano comunità". Zygmunt Bauman è stato uno degli ultimi grandi intellettuali del ventesimo secolo, la cui biografia in gran parte coincide con il Secolo breve, che secondo la definizione ha un inizio con la Prima Guerra Mondiale (1914) e una fine individuata nel crollo dell’Unione Sovietica, ma lo supera inventando il concetto di "modernità liquida", un contesto in cui le relazioni sono esclusivamente improntate al consumo.



sabato 7 gennaio 2017

Londra del dopo Brexit: scambi commerciali più facili tra Cina e Londra



Gli scambi tra Cina e Gran Bretagna diventano più facili, in linea con la politica post-Brexit di Londra di rafforzare i rapporti commerciali con i Paesi asiatici. Le Ferrovie di Stato cinesi, la China Railway Corporation, hanno annunciato la partenza del primo treno merci a collegare direttamente i due Paesi.

Il treno raggiungerà la stazione di Barking, vicino Londra, in 18 giorni, dopo avere attraversato oltre 12mila chilometri. Il tragitto prevede il passaggio del treno attraverso il Kazakhstan, la Russia, la Bielorussia, la Polonia, la Germania, il Belgio e la Francia prima dell'arrivo a Londra, seguendo le antiche rotte commerciali della via della Seta. L'obiettivo è dare alle imprese che fanno import/export con la Cina un'alternativa al trasporto aereo, che è molto costoso, e al trasporto via nave, che è molto lento.

Il nuovo treno merci arriverà in quindici città europee, tra le quali Londra. «Il nuovo servizio merci sottolinea l'importanza dei rapporti commerciali tra la Cina e la Gran Bretagna dopo Brexit, - ha dichiarato Oscar Lin, manager di Onetwothree Logistics, agente unico per il treno in Gran Bretagna. – Il treno servirà soprattutto per gli scambi tra Cina e Gran Bretagna, ma si fermerà anche in Germania.

Philip Hammond, il nuovo cancelliere dello Scacchiere è alla ricerca ormai da mesi di più stretti legami commerciali con altri Paesi parte dalla Cina, e ha compreso di utilizzare l’incontro dei ministri delle Finanze del G-20 a Chengdu per inviare un messaggio di apertura e disponibilità a nuove intese.

«Il mio obiettivo in Cina è promuovere opportunità di business per le imprese britanniche, anche nel settore dei servizi finanziari dove abbiamo una leadership mondiale - ha detto Hammond. – La Gran Bretagna spalanca le porte agli affari e resta una delle migliori destinazioni al mondo per gli investimenti internazionali». La delegazione che accompagna Hammond comprende dirigenti della Borsa di Londra, di Hsbc, Virgin Money, Aberdeen Asset Management, Standard Life e Clifford Chance, dimostrazione di quella che il cancelliere ha definito.

Il Governo britannico sta rafforzando il suo team commerciale con 300 nuovi esperti che avranno l’incarico di negoziare nuove intese bilaterali con altri Paesi. Le speranze di Londra di siglare un accordo in tempi rapidi con gli Stati Uniti sono state deluse questa settimana, quando il segretario di Stato John Kerry ha detto a chiare lettere che un’intesa potrà essere negoziata solo dopo l’uscita formale della Gran Bretagna dalla Ue.

Più promettenti i rapporti con il Brasile, che ha detto di voler avviare negoziati immediati con la Gran Bretagna sotto la bandiera di Mercosur, il blocco commerciale dell’America Latina che comprende anche Argentina, Uruguay, Venezuela e Paraguay. Il ministro degli Esteri brasiliano José Serra ha detto che il suo Paese, la maggiore potenza economica del continente, vuole «al più presto» affiancare negoziati bilaterali con Londra ai negoziati già in corso tra Ue e Mercosur.


Boris Johnson ha ospitato il consigliere cinese di Stato Yang Jiechi oggi per i colloqui annuali di politica estera a Lancaster House, Londra.

Il ministro degli Esteri ha sottolineato l’apertura del Regno Unito di studenti cinesi, turisti e le imprese come parte di discussioni su come il libero commercio, mercati aperti e stato di diritto migliorerà la crescita economica.

I Ministri hanno discusso l’importanza di rispettare il diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale e astenendosi da attività che potrebbero aumentare le tensioni. Hanno anche uno scambio di opinioni sui diritti umani e di Hong Kong, tra cui l’importanza di mantenere la fiducia nei “un paese due sistemi”.

Il ministro degli Esteri Boris Johnson ha detto:

Il Regno Unito e la Cina condividono un interesse in un mondo stabile e ordinato. Consigliere di Stato Yang ed io abbiamo parlato del grande progresso che abbiamo fatto nel primo anno del nostro partenariato strategico globale, così come l’urgenza di lavorare sempre più a stretto contatto per affrontare le sfide globali anche attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su questioni come la Corea del Nord e Siria . Sono lieto che abbiamo concordato di intensificare la nostra cooperazione a sostegno della ricostruzione afghana e un afgano di proprietà e ha portato soluzione politica al conflitto, e lavorare insieme per sostenere lo sviluppo delle infrastrutture in Afghanistan.

Come due potenze mondiali, il Regno Unito e la Cina stanno costruendo economie del futuro sostenuta dalla norma di legge che consente l’ambiente imprenditoriale. Mi impegno a intensificare la nostra relazione commerciale, tra cui più l’accesso al mercato per le esportazioni di servizi del Regno Unito e più investimenti cinesi nel Regno Unito.

E i legami tra il nostro popolo continuano a crescere. Il numero di turisti cinesi di visitare la Gran Bretagna è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni e che attualmente accolgono oltre 140.000 studenti cinesi verso le nostre istituzioni educative di livello mondiale qui nel Regno Unito. Qui nel Regno Unito sempre più giovani stanno imparando cinese, il posizionamento del Regno Unito in un mercato sempre più globale.




sabato 8 ottobre 2016

Theresa May: «Brexit al via a marzo, la scelta democratica non verrà sovvertita»



La Gran Bretagna attiverà all'inizio del 2017, al massimo "entro marzo", l'articolo 50 del trattato di Lisbona per l'avvio formale dell'iter di divorzio dall'Ue. Lo ha detto la premier Theresa May, scoprendo le carte al talk show di Andy Marr, sulla Bbc, nella giornata di apertura della Conferenza annuale del Partito Conservatore a Birmingham.

È compito del governo decidere quando avviare l'articolo 50 che sancisce l'uscita dall'Ue, non di Westminster.

Theresa May scioglie il mistero, sulla tempistica e le modalità del divorzio europeo con un'azione di comunicazione che muove da un'intervista al Sunday Times, una alla Bbc fino all'appassionato discorso alla platea del congresso Tory a Birmingham. Ed è proprio lì che il premier britannico ha scandito i termini della Brexit che verrà annunciando che nel Queen speech della prossima primavera apparirà fra le altre leggi destinate ad essere.

Poco dopo, è arrivato il commento del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: «È un annuncio benvenuto che fa chiarezza», ha fatto sapere, pur aggiungendo che nel negoziato gli altri 27 difenderanno i loro interessi.

Se questa è la tempistica, il processo è altra cosa. E su questo Theresa May ha voluto essere rassicurante. «L'acquis comunitario (ovvero la summa delle norme varate con l'Ue e adottate da Londra ndr) sarà legge anche per la Gran Bretagna. In altre parole nulla cambierà. Anche per i diritti dei lavoratori Ue oggi residenti che tale diritto manterranno fino a quando io sarò premier». Le eventuali modifiche all'acquis comunitario.

Il referendum sulla Brexit "è stato legittimo", anzi è stato "il più grande voto per il cambiamento che questo Paese abbia mai avuto" e "la Gran Bretagna lascerà l'Ue": così la premier Theresa May alla conferenza annuale del Partito Conservatore, ribadendo che "Brexit significa Brexit" e di volerne "fare un successo". Ironia poi su su chi rifiuta il risultato del referendum o pensa di ricorrere alle corti di giustizia: "Ma andiamo...".

"I diritti esistenti dei lavoratori europei" residenti in Gran Bretagna saranno "garantiti in pieno" anche dopo la Brexit: lo ha assicurato Theresa May. Tali diritti, ha insistito May, sono al riparo "almeno finche' io saro' primo ministro".

Il primo passo - scrive il Telegraph - per lasciare l'Ue è l'abrogazione dell'European Communities Act del 1972, il là vero e proprio per l'intero processo.

In parlamento approderà un "Great Repeal Bill", che riporterà tutto il potere nelle mani dei parlamentari e dei pari. Utilizzando l'articolo 50 del Trattato di Lisbona, inizierà il percorso di due anni che porterà al divorzio definitivo.

L'annuncio della May, aggiunge il quotidiano britannico, è il primo impegno concreto da che a luglio ha preso il suo posto da primo ministro.



giovedì 22 settembre 2016

Tre mesi dal Brexit: Londra e l’Ue



Tre mesi dopo Brexit, tutto è tornato alla normalità in Gran Bretagna, almeno all'apparenza. Superato lo shock iniziale per il risultato a sorpresa del referendum del 23 giugno, non si è verificato il crollo economico che molti temevano e la fiducia resta elevata.

Gli elettori britannici non sono pentiti di avere votato per la Brexit e non vogliono un secondo referendum sull'uscita del Regno unito dall'Unione europea: è quanto ha spiegato oggi l'esperto di sondaggi John Curtice, presentando i risultati di uno studio.

Curtice ha analizzato una serie di sondaggi realizzati dopo il referendum del 23 giugno, nel quale circa il 52% dei britannici si è espresso in favore della Brexit. "Tre mesi dopo restiamo divisi, i pareri non sono cambiati", ha affermato Curtice davanti la stampa.

L'esperto ha anche rilevato numeri più realistici circa le promesse fatte in campagna elettorale di ridurre drasticamente l'immigrazione e impiegare i fondi allocati a Bruxelles sul sistema sanitario pubblico. "Prima del referendum, più della metà della popolazione era in attesa di un calo dell'immigrazione, ma questa percentuale è scesa al 45%", ha detto.

Interpellato sulle aspettative nel Paese con la Brexit, il ricercatore ha spiegato che la grande maggioranza dei britannici cita la fine del contributo finanziario britannico a Bruxelles e la fine della libertà di circolazione, ma anche il mantenimento nel mercato unico. Il ricercatore ha osservato, tuttavia, "una chiara volontà di compromesso", con la maggioranza dei britannici che vuole ampio accesso al mercato unico "mantenendo un certo controllo sull'immigrazione".

Sin dall'annuncio del referendum da parte di Cameron, ho iniziato ad analizzare le conseguenze di una potenziale uscita. I miei risultati denotavano, sin dall'inizio, che il panorama apocalittico, strumentalizzato da coloro che volevano controllare il risultato del referendum, era ingiustificato. Si stava terrorizzando la popolazione britannica, Europea e di riflesso quella mondiale con il "fantasma" Brexit.

A parte che la Gran Bretagna è stata sempre con un piede fuori dall'Ue non avendo adottato la moneta unica, ed era quindi prevedibile che:

1) sarebbe stato il primo paese a lasciare l'Unione;

2) le grida disperate di Merkel e Juncker erano solamente lacrime da coccodrillo in quanto non avevano concesso a Cameron quanto aveva chiesto pre-brexit, e questo, a mio avviso, indicava quasi certamente l'uscita;

3) le pressioni poste da parte di Bruxelles e Berlino sulla GB di uscire immediatamente dall'Unione subito dopo il referendum, erano solo una reazione infantile, in quanto la UE: a) ha perso il 20% delle entrate nelle casse di Bruxelles; b) ha bisogno della GB adesso più che mai poiché le sue prospettive di crescita sono diminuite considerevolmente dopo la perdita della seconda potenza europea e il famigerato "bazooka" di Draghi non sarà sufficiente per far ripartire l'economia; c) qualsiasi forma di "helicopter money" che sta contemplando la Bce è divenuta più complicata e meno probabile.

Anche Obama aveva minacciato pre-Brexit che una eventuale uscita avrebbe causato un'interruzione dei trattati economici/trade e che ci sarebbero voluti anni per la GB a rinegoziare e ricostituire i vari trattati con molti Paesi del mondo incluso gli USA. Due giorni dopo il referendum, il Presidente Americano si rimangia il tutto dichiarando: "Nulla è cambiato tra gli USA e la Gran Bretagna". Tali dichiarazioni contrastanti di Obama non erano altro che un escamotage per proteggere Hillary Clinton da una sconfitta elettorale qualora ci fosse stato il paventato disastro economico.

Anche se i dati economici post-Brexit della Gran Bretagna sono preliminari, essi suggeriscono un trend positivo. La settimana scorsa abbiamo visto un rialzo nel settore edilizio inglese ai livelli del 2013, nell'export e nel settore manifatturiero un dato più alto di quello previsto dagli economisti europei. Questo per via della sterlina che subito dopo il Brexit si è svalutata del 15% circa incentivando le esportazioni e gli investimenti nel Paese. Allo stesso tempo, per la Ue c'è stato un notevole declino (minimi di tre mesi fa) dei dati attinenti all'esportazione dovuti ad un calo della richiesta dei beni di consumo europei.

C'è da chiedersi: ma com'è possibile? Specialmente quando si considera la svalutazione dell'euro dovuto al programma Qe della Bce in corso da due anni? Se nell'equazione aggiungiamo che da maggio 2016 ad agosto 2016 il dollaro statunitense è salito, si avvalora il costante indebolimento dell'euro rispetto alle maggiori monete, ma l'esportazione e gli investimenti nell'Unione invece di incrementarsi scendono.

È chiaro che la colpa non è della sterlina ma di una politica economica europea errata. Senza dimenticare che il tasso di disoccupazione britannico uscito due settimane fa rispecchia un dato positivo risalente al 2008. Coincidenza? Non credo. Ma quando si capirà che c'è una fondamentale frattura del modus operandi della Ue e della Bce? Quante persone e piccole e medie imprese devono ancora soffrire per strategie economiche sbagliate? A parte che le grandi imprese internazionali non investono capitali in Italia, neanche minimi, per via della forte pressione fiscale e della mastodontica macchina burocratica italiana ed europea che fa dell'Italia un paese da evitare, nascondendo invece il suo grande potenziale.

Rimanendo succube del proprio disfunzionale governo nazionale e vittima del controllo di Bruxelles e della Germania, mi domando che speranze ha L'Italia di risollevarsi da questa crisi? L'Inghilterra si è impadronita nuovamente della propria sovranità ed è di nuovo padrona del proprio futuro economico.

Il referendum di questo autunno proposto da Renzi darà agli italiani una chance di riflettere,
perché le proposte adottate nella riforma costituzionale non vanno nel senso della crescita
perché non aiutano l'economia del paese ma hanno uno scopo oscuro e non-funzionale che non giova al PIL. Guarda caso, come avvenuto per la campagna pre-brexit, il premier italiano nelle sue dichiarazione pre-referendarie grida al disastro se i cittadini italiani opteranno per il no alla riforma costituzionale. Una canzone già sentita milioni di volte in passato e auspico che gli italiani siano stufi di ascoltare le stesse cose che vanno nell'interesse di pochi e non di una intera popolazione.

L'Italia ha un indice di povertà molto alto per un paese sviluppato (membro del G8), gli italiani hanno bisogno di riforme che riportino occupazione e benessere, e non di riforme che non si capisce bene cosa riformino e a quale scopo. Sicuro che anche questo sarà a scapito dei cittadini. Da notare che Paesi come la Svizzera, Islanda e Norvegia non appartengono alla UE e giovano di un'economia più stabile e attenta ai bisogni dei cittadini. La priorità della attuale Ue non è certo il cittadino ma qualcosa di astratto che devia notevolmente dal piano originale di una Unione prospera, e se ci mettiamo la continua incompetenza della Bce è una ricetta per il disastro. Se i dati economici della Gran Bretagna continuano a crescere, spingeranno altri Paesi membri a riflettere e mettere ulteriormente in discussione la validità della Ue cosi come concepita oggi. In conclusione, c'è molta carne al fuoco sui cui riflettere prima del referendum.

Il ministro degli esteri britannico Boris Johnson ha affermato che le procedure per ufficializzare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea potrebbero cominciare già nei primi mesi del 2017. Sempre secondo Johnson, dopo il ricorso di Londra all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, non saranno necessari i due anni di trattative previsti dagli accordi tra gli stati membri


mercoledì 13 luglio 2016

Theresa May è premier, Boris Johnson ministro degli Esteri



L'ex ministro degli esteri Philip Hammond nominato cancelliere dello scacchiere. L'ex sindaco di Londra e fautore della Brexit, Boris Johnson, sarà il ministro egli Esteri. Amber Rudd, attuale ministro per l'Energia, ha preso il posto della May all'Interno. A David Davis il compito più delicato, mettere in moto la Brexit. May, 60 anni a ottobre, ministro dell'Interno negli ultimi sei anni e neo leader del Partito Conservatore, e' stata "invitata dalla regina" a formare il nuovo governo britannico.  Diventa cosi' la nuova premier del regno, succedendo a David Cameron. E' la seconda donna nella storia del Paese ad assumere la guida dell'esecutivo, 26 anni dopo Margaret Thatcher, anche lei esponente Tory.

"È un momento importante per la nostra storia, dopo il referendum: ci aspettano grandi cambiamenti reali, ma il Regno Unito può essere all'altezza della situazione, come ha sempre fatto in passato: uscendo dall'Ue forgeremo un ruolo positivo per il nostro Paese nel mondo, forgeremo un Regno Unito che opera per tutti e non per pochi privilegiati.

Insieme per una Gran Bretagna migliore": è la promessa della May nel suo primo discorso da premier a Downing Street. May ha invocato più giustizia sociale, impegnandosi a lavorare "non solo per i pochi privilegiati, ma per tutti". Ha poi definito la Brexit "una sfida" e ha parlato di "un momento importante per il Paese dopo il referendum", evocando la necessità "d'un grande cambiamento", ma anche di "una visione positiva del nostro ruolo nel mondo".

Il nuovo governo lavorerà per mantenere unita la Gran Bretagna Il nuovo governo sarà al servizio di tutti i cittadini, lavorerà per mantenere il Paese unito, rafforzando i legami tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord e affronterà a testa alta la sfida della Brexit. Al suo arrivo a Downing Street la nuova premier britannica Theresa May ha tracciato un breve programma dell'esecutivo che andrà a formare nelle prossime ore. Le priorità del governo saranno rivolte "non ai potenti, ai ricchi e ai privilegiati", ma alla gente che lavora, ha detto May, dedicando alcuni passaggi del suo discorso alle famiglie "working class". La vera eredità di David Cameron, ha sottolineato la nuova premier nel rendere omaggio al suo predecessore, non è sull'economia, ricostruita dopo la grande crisi degli ultimi anni, ma "sulla giustizia sociale". Quindi, ha aggiunto, "seguirò i suoi passi". Nel nuovo governo un mix attento fra portabandiera di Leave e Remain per ricompattare il partito Il posto di cancelliere dello scacchiere (ministro del Tesoro) andrà all'ex ministro degli Esteri, Philip Hammond. 

Il ministro degli Esteri sarà l'ex sindaco di Londra e fautore della Brexit Boris Johnson. Amber Rudd, attuale ministro per l'Energia prenderà il posto della May all'Interno. Insomma un mix attento fra portabandiera di Leave e Remain per ricompattare il partito dopo le divisioni referendarie, ma soprattutto di un cambio generazionale all'indietro: via i 50enni del gruppo di Notting Hill di Cameron e Osborne; recupero di alcuni veterani, più vicini per età alla May, come David Davis o Liam Fox, altri due euroscettici di ferro. Il primo va al neonato dicastero per la Brexit, a cui spetterà la gestione dei negoziati con Bruxelles. Il secondo al Commercio con l'Estero, fondamentale sullo stesso fronte. Mentre alla Difesa resta il 'Remainer' Michael Fallon, garanzia di fedeltà alla Nato rispetto alle aperture di Johnson alla Russia di Vladimir Putin. Un nuovo ministro per negoziare l'uscita britannica dalla UE A David Davis il compito più delicato, mettere in moto la Brexit. Infatti la May aveva detto che "Brexit significa Brexit e vogliamo farne un successo", preannunciando però che non chiederà l'attivazione dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona prima di fine anno. Lei vuole colloqui informali con i leader europei prima del prossimo Consiglio Ue, il 20 ottobre.





martedì 28 giugno 2016

Che cos’è l’articolo 50 del trattato di Lisbona



Articolo 50 sì, articolo 50 no. Ma che cos'è?

Secondo l'articolo 50 del trattato sull'Unione europea, uno stato membro può avviare unilateralmente la pratica di recessione dall'Unione. La decisione di avviare tale processo deve essere presa nel pieno rispetto delle singole Costituzioni nazionali.

Una volta che l’intenzione di uscire è stata comunicata al Consiglio europeo, hanno inizio le trattative fra l’Unione e il singolo paese riguardo alle modalità del "divorzio" e alle relazioni future fra le due parti (per esempio, il Regno Unito e l’Ue potrebbero decidere di discutere riguardo a nuovi accordi commerciali). Il Consiglio europeo, rappresentante dell’Unione, conclude il rapporto con una delibera a maggioranza, non senza aver ottenuto l’approvazione del Parlamento di Bruxelles.

Nel momento in cui si raggiunge l’accordo di recesso, il singolo paese cessa di essere sottoposto ai trattati europei. Lo stesso accade, anche se non si dovesse arrivare a un compromesso fra i negozianti, due anni dopo la notifica al Consiglio europeo, a meno che non venga concessa una proroga dalle autorità continentali.

Durante i due anni di trattative, il recedente in questione dovrebbe comunque sottostare alle regole dell’Unione ma rinunciare ad ogni potere decisionale all'interno di essa.

Secondo un documento rilasciato dal governo britannico, l’intera pratica di uscita richiederebbe molti anni e in caso di vittoria degli euroscettici, il paese si dovrebbe preparare a un "decennio di incertezze".

Se lo stato mai decidesse di rientrare nell’Unione, si troverebbe costretto a seguire un processo di adesione uguale a quello dei nuovi membri. Brexit, come David Cameron ha tenuto a sottolineare più volte nell’incitare a votare remain, è quindi irreversibile.

L’articolo 50 è comparso per la prima volta nella versione del trattato dell’UE siglato a Lisbona nel 2007, ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009. Prima di allora, un membro non poteva lasciare l’Unione a meno che entrambe le parti riconoscessero il diritto informale di uscita o che le circostanze in cui il trattato era stato negoziato fossero cambiate così drasticamente da trasformare gli obblighi dei firmatari.

Prima della sua ratificazione e della nascita dell’Ue nel 1992 a Maastricht, alcuni stati e territori avevano tentato, invano o con successo, di lasciare l’allora Comunità economica europea. Il Regno Unito indisse un referendum nel 1975, ma fu il fronte remain a trionfare. I cittadini della Groenlandia, che fa parte della Danimarca ma gode di una certa autonomia, nel 1985 hanno invece effettivamente votato per l’abbandono della Cee.

Dopo la vittoria del leave (lasciare) nel referendum britannico del 23 giugno, si parla molto dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, che definisce la procedura per lasciare volontariamente l’Unione. La formulazione è vaga: 250 parole, cinque paragrafi. “Quasi come se i suoi redattori pensassero che non sarebbe mai stato usato”, scrive il Guardian. Il parlamento europeo il 28 giugno ha approvato una mozione che chiede al primo ministro britannico di invocare rapidamente l’articolo 50, dopo la vittoria della Brexit. Cameron invece ha detto che non sarà lui a farlo, ma lascerà questo compito al suo successore, che dovrebbe essere scelto entro il 2 settembre.

Cosa dice l’articolo 50?
L’articolo 50 dice che ogni stato membro può decidere di ritirarsi dall’Unione europea conformemente alle sue norme costituzionali. Se decide di farlo, deve informare il Consiglio europeo della sua intenzione e negoziare un accordo sul suo ritiro, stabilendo le basi giuridiche per un futuro rapporto con l’Unione europea. L’accordo deve essere approvato da una maggioranza qualificata degli stati membri e deve avere il consenso del parlamento europeo. I negoziatori hanno due anni a disposizione dalla data in cui viene chiesta l’applicazione dell’articolo 50 per concludere un accordo, ma questo termine può essere esteso. Se in un momento successivo lo stato che ha lasciato l’Unione vuole rientrarvi deve ricominciare le procedure di ammissione. Nessuno stato ha mai invocato finora l’articolo 50, il Regno Unito sarà il primo.

Che tempi ci sono per invocare l’articolo 50?
I tempi per il ricorso all’articolo 50 sono diventati il principale contenzioso dopo il referendum del 23 giugno. Nel suo discorso di dimissioni David Cameron ha chiarito che non c’è fretta di procedere: 

“Una trattativa con l’Unione europea dovrà essere intrapresa da un nuovo primo ministro e penso che sia giusto che questo nuovo premier prenda la decisione su quando far ricorso all’articolo 50 e avviare il processo formale per lasciare l’Unione europea”. Anche i sostenitori della Brexit all’interno dello schieramento conservatore sono determinati ad aspettare: non vogliono che il Regno Unito si sieda al tavolo delle trattative con una leadership debole come quella di un premier dimissionario. Il partito nazionalista Ukip, tuttavia, ha chiesto che la procedura sia avviata “non appena possibile”. I leader europei, arrabbiati e delusi, vogliono che il Regno Unito esca rapidamente in modo da limitare l’instabilità ed evitare che altri paesi mettano in discussione la loro permanenza nell’Unione. Il ministro degli esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha detto: “Questo processo deve cominciare il più presto possibile”. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha dichiarato: “Non ha alcun senso aspettare fino a ottobre per negoziare l’uscita di Londra”.

Che può fare l’Unione europea?
Per quanto gli europei vogliano accelerare il processo di uscita del Regno Unito, hanno pochi mezzi legali per farlo. Infatti non è previsto alcun meccanismo per costringere uno stato a uscire dall’Unione europea. L’articolo 50 può essere invocato solo dallo stato che voglia lasciare l’Unione e da nessun altro stato membro o istituzione europea. L’unica iniziativa consentita all’Unione è semmai il ricorso all’articolo 7 del trattato di Lisbona, in base al quale l’Unione può sospendere uno stato membro se ritiene che violi i principi fondamentali di libertà, democrazia, uguaglianza. Questo articolo non è mai stato invocato.

La vittoria della Brexit al referendum non obbliga il governo ad agire immediatamente perché la votazione non è giuridicamente vincolante. In effetti, come e quando appellarsi all’Articolo 50 è diventato nelle ultime ore la questione principale attorno al voto di giovedì.

Nel suo discorso a commento dei risultati del referendum Brexit, durante il quale ha annunciato le sue dimissioni, il Primo Ministro David Cameron ha tenuto a specificare che non ha alcuna fretta di appellarsi all’Articolo 50.

“La trattativa con l’Unione Europea ha bisogno di iniziare con un nuovo primo ministro e penso che sia giusto che sia questo nuovo primo ministro a prendere la decisione su quando far scattare l’articolo 50 e avviare il processo formale e legale di abbandono dell’Unione europea”,

ha dichiarato.

Così facendo, Cameron ha fatto un favore a chi ha faticato di più per spodestarlo - Boris Johnson e Michael Gove - i leader della campagna Leave. Entrambi sostengono che non c’è alcuna fretta di agire: così facendo si metterebbe la Gran Bretagna in una posizione sfavorevole durante le negoziazioni in un momento in cui la sua classe politica è allo sbando.


domenica 26 giugno 2016

Brexit, quali sono le conseguenze



Il Regno Unito ha deciso: la maggioranza dei britannici ha scelto di lasciare l’Unione europea. Le conseguenze della Brexit saranno numerose per i sudditi della corona, sia per coloro che sono residenti in patria sia per chi vive in un Paese europeo.

Ecco i possibili risvolti pratici che cambieranno dopo il referendum:

L’effetto più immediato della Brexit potrebbe essere sentito sulla libera circolazione dei britannici nei Paesi Ue: se finora bastava la carta d'identità per muoversi all’interno dello Spazio Schengen, l'uscita della Gran Bretagna dall’Ue potrebbe essere accompagnata dalla necessità per i cittadini britannici di richiedere un visto per viaggiare nell’Europa continentale. Allo stato attuale solo 44 dei 219 Paesi richiedono un visto ai cittadini britannici.

Le vacanze nel Vecchio Continente saranno più care per i britannici: non solo perché la caduta della sterlina nei confronti dell'euro ridurrà inevitabilmente il loro potere d'acquisto, ma anche in virtù di accordi comunitari che permettono a qualsiasi compagnia aerea dell'Ue di operare senza limiti di frequenza, capacità o prezzo nello spazio aereo europeo. "Il mercato unico ha consentito a Ryanair di promuovere la rivoluzione dei voli a basso costo in Europa", ha ricordato nei giorni scorsi Michael O'Leary, l’amministratore delegato della compagnia aerea low cost britannica.

I sostenitori della Brexit hanno fatto dell'occupazione uno dei cavalli di battaglia della loro campagna. L'uscita del Regno Unito dall'Ue potrebbe essere accompagnata da delocalizzazione di numerosi posti di lavoro. Soprattutto per le grandi banche: Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan, ha avvertito all'inizio di giugno che la banca americana, che impiega oltre 16mila persone nel Regno Unito, in sei posti diversi, potrebbe rimuovere tra le 1000 e le 4000 persone, in particolare nelle funzioni di back-office.

La moneta nazionale ai minimi da 30 anni avrà un impatto concreto sui risparmi depositati in banca e sui mutui che diventeranno più alti. Le tasse però sono destinate a scendere. Il quotidiano Independent, che era favorevole al Remain, ha elencato in sei punti l’impatto del voto sulla vita di tutti i giorni e sull’economia: tra le altre segnalano vacanze più care, inflazione e tassi d’interesse in aumento, fuga dei capitali delle aziende, meno investimenti e meno assunzioni.

Comunque il problema più immediato è di ordine finanziario con le Borse che crollano, ma nel medio periodo bisognerà fare i conti con le altre conseguenze della Brexit, che per le imprese italiane si riflettono in primis sull’Export e sulle strategie di  aziende con delocalizzazioni in Gran Bretagna. In vista, sostanziali cambiamenti anche per gli Italiani che lavorano oltre Manica, i quali perdono i vantaggi riservati ai cittadini comunitari. Ma tutto questo si risolverà nel tempo con normative e trattati ad hoc, nel frattempo tutti possono stare tranquilli.

Al di là al terremoto politico con le dimissioni di Cameron, lo scossone vero al momento è quello finanziario. Se le Borse crollano, la Sterlina precipita: Piazza Affari ha fatto fatica ad aprire, i titoli del paniere principale, il FTSE Mib, hanno avuto difficoltà a fare prezzo. Apertura a -11% (difficile trovare un precedente), tutti gli indici europei lasciano sul terreno almeno il 5-6%. Titoli finanziari in caduta libera, a Milano le banche lasciano sul terreno quasi il 20%.

Dunque, il primo vero impatto della Brexit riguarda i mercati e sarebbe un errore sottovalutarlo: ma davvero si rischierebbe una nuova crisi finanziaria, paragonabile a quella seguita al crollo di Lehman Brothers? E’ questa la domanda che  preoccupa tutti.

L’Europa da qualche anno è impegnata in un’opera di rafforzamento del sistema bancario, che metta gli istituti finanziari nelle condizioni di resistere agli shock. Gli effetti  Brexit sul sistema finanziario europeo si vedranno  nei prossimi giorni: il settore riuscirà a sollevarsi? C’è il rischio di una nuova crisi mondiale? La vera domanda è questa e riguarda l’effetto sistemico della Brexit. In gioco, c’è la sopravvivenza dell’Europa (anche della moneta unica?).

Nel frattempo, si fa i conti con le questioni che si aprono nell’immediato. Il problema numero uno per le imprese è certamente rappresentato dalla Sterlina. Per chi ha filiali in Gran Bretagna, o comunque lavora in sterline, significa pagare di più le materie prime.

Esportazioni
Ma per tutte le imprese che esportano in Euro, significa  uno svantaggio competitivo, in primo luogo sul fronte delle esportazioni in Gran Bretagna, in secondo luogo sui mercati internazionali rispetto alla concorrenza britannica. Uno studio Nomisma segnala che per l’Italia:«il Regno Unito pesa per il 5,4% dell’Export, quasi tutto è composto da prodotti del manifatturiero. Considerando i singoli comparti, si va dal minimo di 0,2% del tabacco al massimo del 13% delle bevande e del 10% dei mobili». Secondo S&P l’Italia è comunque fra i paesi europei meno esposti alla Brexit (al 19esimo posto su una classifica di 20 paesi).

Tornando all’analisi Nomisma, la regione italiana più esposta è la Basilicata, che esporta in Gran Bretagna il 16% del totale, a causa soprattutto della Jeep Renegade prodotta negli stabilimenti di Melfi. Seguono il manifatturiero dell’Abruzzo (10,6% di esportazioni verso la Gran Bretagna, per €778 mln) e l’agricoltura e pesca della Campania (12,6% e €55 mln).

La Brexit darà numerosi grattacapi anche all'1,3 milioni di espatriati britannici che vivono in altri Paesi europei, per esempio in Spagna ((319.000), Irlanda (249.000), Francia (171.000) o Germania (100.000).

I pensionati dovrebbero vedere diminuire il poter di acquisto delle loro pensioni, causa del forte deprezzamento della sterlina.

Copertura sanitaria - Un altro problema riguarderà la loro copertura sanitaria: in molti Paesi europei, ricevono assistenza dal sistema sanitario nazionale, i cui costi vengono poi pagati dalla sanità pubblica britannica nell'ambito di accordi bilaterali. A rischio anche il destino professionale delle migliaia di funzionari britannici che lavorano per le istituzioni europee, in particolare a Bruxelles.

Nuove frontiere - La Brexit potrebbe avere conseguenze inaspettate anche sulla geografia. La Spagna potrebbe essere tentata di chiudere il confine con Gibilterra, uno sperone di 6 chilometri quadrati dove vivono 33mila britannici.
Più a nord, la Brexit potrebbe anche creare un confine tra Irlanda del Nord e Irlanda, rallentando il flusso di migliaia di persone ogni giorno.

La Brexit potrebbe avere conseguenze anche per il mezzo milione di italiani che vivono nel Regno Unito.

Lavoro - Chi già paga le tasse in Gran Bretagna da cinque anni può richiedere un permesso di residenza e la cittadinanza. Qualcuno si è mosso in anticipo prendendo la doppia cittadinanza (britannica e italiana). Chi volesse farlo ora rischia di scontrarsi con una burocrazia molto più lunga. Chi vuole trasferirsi in Uk, da oggi in poi, non può più farlo se non ha già trovato un’occupazione prima della partenza.

Studio e assistenza sanitaria - Le rette universitarie sono destinate a salire notevolmente mentre ancora non è chiaro come funzionerà l’assistenza sanitaria. Finora era basata sulla reciprocità dei Paesi Ue. Ora c’è il rischio che un italiano che necessiti del pronto soccorso inglese non avrà più un trattamento gratuito. Annullati anche i sussidi di disoccupazione e la possibilità di ottenere un alloggio popolare.



lunedì 16 maggio 2016

Asse trasversale anti-Brexit: «Biglietto senza ritorno verso la povertà»


Merkel-Cameron, Tusk-Cameron, e poi Schulz-Merkel, ancora Renzi-Cameron, Merkel-Juncker, ecc. Tutte le combinazioni tra i leader attuali dell'Ue si prestano a formare il puzzle confuso del Consiglio europeo su Brexit e migranti.  Due argomenti che dovevano restare separati, nelle intenzioni dei leader, ma che invece si sono pericolosamente intrecciati

Il risultato è una giornata intera di bilaterali tra capi di Stato e di governo, incontri tra gli sherpa, tutto nel retrobottega senza la plenaria che arriva solo a sera, dichiarazioni alla stampa e pizze ordinate per disperazione a una certa, quando si è capito che non si cenerà comodi al ristorante. Nei tweet da Bruxelles l'hashtag #Brexit viene sostituito con il più speranzoso #UkinEu, ma è dura lo stesso raggiungere l'intesa. Però quando Cameron ottiene quel pezzo di carta incassa il massimo sul punto più caldo del dibattito interno britannico: i migranti. Da ora in poi, per i prossimi sette anni, chi decide di immigrare in Gran Bretagna non avrà welfare. E poi altri punti.

La prima linea dei numeri due - ex e non – della vita politica britannica s'è schierata contro Brexit in un inatteso happening all’aeroporto di Stanstead ospiti di Michael O’Leary fondatore di Ryanair.

Il Cancelliere George Osborne affiancato dall’ex cancelliere ombra laburista Ed Balls, e dall’ex “vice leader” LibDem ed ex ministro del Business, Vince Cable. «Il fatto che siamo tutti e tre insieme contro la Brexit non è il segnale di una cospirazione – ha detto George Osborne – ma di un consenso e di una consapevolezza che vanno oltre ogni possibile dubbio. La Gran Bretagna starà peggio fuori dall’Ue, andarsene significa comperare un biglietto senza ritorno verso la povertà». Parole scandite dal numero uno del Tesoro di fianco al suo ex avversario – Ed Balls ha ora perso il seggio di deputato – uomo un tempo descritto dal premier David Cameron come «la persona più irritante della politica moderna».

I tre leader hanno sottoscritto la denuncia illustrata dal Cancelliere secondo il quale l’addio al mercato interno Ue costerà a Londra 200 miliardi in termini commerciali all’anno e altri 200miliardi di mancati investimenti anche in questo caso all’anno.

Un conto elevato che il premier David Cameron ritiene sia destinato a pesare prevalentemente sui più' poveri. Il capo del governo britannico in un・ulteriore mossa politica non ideologica, linea d'azione che sempre piu' contraddistingue questa campagna referendaria, ha scritto  un articolo sul Daily Mirror quotidiano popolare da sempre vicino al Labour party. «Sono premier da sei anni – ha scritto Cameron – e al di là di quella che può essere la vostra opinione sul mio operato ho visto quanto il libero commercio sia di beneficio per i lavoratori, quanto la manifattura sia sostenuta dalle intese che l’Ue ha firmato con il resto del mondo...Lasciare l’Europa equivale a un errore nazionale, un grande errore».

L’ex sindaco di Londra Boris Johnson, autore di un duro attacco all’Europa
Non la pensano così un terzo circa dei deputati Tory a Westeminster se è vero – la notizia non è ovviamente confermata – che 100 members of Parliament considerano di organizzare un voto di sfiducia contro il premier qualora il referendum confermi l’adesione all’Ue.

L’affondo anti Brexit è dunque sempre più trasversale e segue le polemiche del week end per la “scivolata” di Boris Johnson, divenuto leader  de facto  del variegato fronte che invoca il divorzio anglo-europeo. L’ex sindaco di Londra, lo ricordiamo, ha paragonato Hitler, o meglio le ambizioni hitleriane sull’Europa a quelle dell’Ue. Parole pronunciate con toni più sfumati di quelli considerati dagli oppositori a Brexit, ma imbarazzanti abbastanza per schiacciare Boris Johnson una volta di più sull’immagine piuttosto caricaturale di sè stesso.

Il confronto torna invece a dividere le imprese. La stragrande maggioranza resta favorevole all’adesione, ma 300 manager e imprenditori per lo più di Pmi hanno voluto far sentire il loro dissenso, schierandosi con Leave. «La burocrazia europea complica il business – hanno scritto in una lettera al Daily Telegraph – a tutte le imprese del Paese... (fuori dalla Ue,ndr) si creeranno posti di lavoro».

Versione opposta alla tesi prediletta dalla forze di governo e anche laburiste a conferma che lo scontro resta incerto nonostante cresca la percezione di un “sì” all’Ue in rafforzamento.

La maggiore parte dei sondaggi danno il fronte “Remain” avanti di qualche punto seppure entro il margine d’errore. Da qui al 23 giugno lo scontro si muoverà sul 10-12% di elettori ancora indecisi. I più, suggerisce la storia referendaria, sono destinati a schierarsi con la parte che suggerisce la proposta meno rischiosa, ovvero il mantenimento dello status quo.


martedì 8 settembre 2015

Elisabetta Regina dei record




Mercoledì 9 settembre 2015 supererà Vittoria, al trono per 63 anni e 217 giorni. Ha visto passare sette Papi e incontrato tutti i grandi del 900. Il regno di Elisabetta è il più lungo della storia britannica.
Non ci sarà un francobollo commemorativo, né una parata. Elisabetta, che ha compiuto in aprile 89 anni, ha deciso che uno dei momenti più importanti del suo regno passi quasi inosservato. Aveva fatto così anche Vittoria. Il giorno in cui nel 1896 superò Giorgio III si trovava a Balmoral, e scrisse semplicemente nel diario: «Mi hanno detto che da oggi sono la sovrana britannica che ha regnato più a lungo».


Anche Elisabetta passerà la giornata a Balmoral in Scozia, in una sala del castello, dove per tradizione la famiglia reale trascorre le vacanze estive e da cui non è ancora tornata a Londra, un valletto porterà un vassoio con calici di champagne o forse bicchierini di sherry. Ma al mattino inaugurerà una nuova ferrovia scozzese, viaggiando per due ore su un treno a vapore. Alla stazione d’arrivo, a Tweedbank, sono state convocate le tv di tutto il mondo. Elisabetta dirà dunque qualcosa, e ringrazierà i sudditi britannici e quelli dei 53 Paesi del Commonwealth per il supporto che le hanno dato in questi 63 anni. Passerà il resto della giornata con il marito Filippo e con William, Kate e i pronipoti. Carlo sarà nell’Ayrshire, per un altro impegno, e Camilla parteciperà a una trasmissione tv.


Hanno ascoltato la Regina, che voleva che questa giornata fosse per tutti «business as usual».
Elisabetta desiderava vivere in campagna, circondata da cani e cavalli. Sarebbe accaduto davvero, se nel 1936 Edoardo VIII non avesse abdicato per sposare la divorziata Wallis Simpson, passando il peso del trono al fratello Bertie e a sua figlia. Quando arrivò la notizia nell'appartamento di Piccadilly dove abitavano, la piccola Margaret disse alla sorella: «Diventerai anche tu regina? Povera te». Giorgio VI, quel re così fragile, timido e balbuziente, fu amato dalla gente per il suo fiero comportamento nella guerra al nazismo. Quando morì a soli 57 anni, il 6 febbraio del 1952, fu ancora più facile amare quella giovane regina, portata dal destino in un mondo allora molto più grande di lei.


Walter Bagehot, il più famoso interprete della Costituzione inglese, ha spiegato da dove nasce l’amore dei britannici per la monarchia: c’è un modo diverso di definire la grandezza dalla semplice valutazione della ricchezza e del possesso di territori. La grandezza sta anche nel comportamento di un sovrano, nel suo senso del dovere, nelle cerimonie, nella capacità di ospitare in modo impeccabile, nel sapere fare cose che nessun altro sa fare altrettanto bene.


Dopo la guerra, ma perso l’impero, la Gran Bretagna ha ritrovato la propria grandezza anche grazie a Elisabetta. Il matrimonio con Filippo nel 1947 e l’incoronazione nel 1953 erano state cerimonie maestose in una città piena di macerie, con le tessere del razionamento ancora in vigore. All'incoronazione, tutto il mondo aveva guardato quella giovane ragazza ripetere solennemente le formule di antichissimi riti, ammirata da re, regine e capi di Stato che formavano il suo seguito nel corteo che percorreva le vie di Londra. C’era una nuova grandezza della quale la Gran Bretagna poteva essere fiera, e Elisabetta ha capito quel giorno che quella responsabilità sarebbe stata sulle sue spalle per tutta la vita.


Non c’è al mondo un altro testimone del Novecento come lei. È difficile individuare un grande personaggio del secolo scorso che non abbia incontrato: da Churchill a Kruscev, da Kennedy a Mandela, da Juri Gagarin a Neil Amstrong, ai Beatles, a Charlie Chaplin, a Marilyn Monroe, a sei Papa su sette che hanno governato la Chiesa durante il suo regno. Ha salvato la monarchia più volte, adattandola al mondo che cambiava. Ha commesso pochissimi errori, il più grave dei quali è stato quello di non interpretare per tempo il sentimento popolare di cordoglio per la morte di Diana.


Nessuno sa che cosa pensi veramente, perché non l’ha mai detto. Non ha mai concesso un’intervista, non ha mai sentito il bisogno di spiegare o rettificare, e in questo sta la sua grande forza: il suo potere deriva dal fatto che non lo usa mai. La grande maggioranza delle persone che oggi vive in Gran Bretagna ha avuto solo lei come Regina: i politici vanno e vengono, e sempre più spesso nessuno li rimpiange. Vivrà ancora a lungo, come sua madre. E, quando verrà il momento, potrà guardarsi indietro e dire di avere compiuto il proprio dovere.

A Londra non mancheranno gli auguri ufficiali. Il primo ministro David Cameron le farà omaggio nel discorso del mercoledì alla camera dei Comuni. Lo Speaker del parlamento darà la parola a deputati che vogliano aggiungervi le proprie. La Bbc manderà in onda un documentario, The Queen's Longest Reign: Elizabeth and Victoria , dedicato "ai regni di due donne straordinarie che hanno assicurato stabilità al proprio paese in un mondo in rapida evoluzione". Mentre in onore della regina la zecca reale emanerà una moneta con cinque diverse effigi, e nelle librerie britanniche sarà appena arrivata una nuova biografia, scritta da Douglas Hurd, a lungo ministro degli esteri e oggi membro della camera dei Lord, intitolata The Steadfast , la Risoluta, la Tenace, l'Immutabile - in sostanza colei che è sempre lì, al suo posto, con la corona in testa, dal lontano 1952: biografia autorizzata, tant'è che la prefazione è firmata dal principe William. Infine i giornali, che a Elisabetta dedicheranno le loro prime pagine, alcune delle quali probabilmente arricchite da queste stesse foto che vedete qui in esclusiva per l'Italia: ritratti allo specchio di un'allargata famiglia reale che per quattro anni il fotografo Hugo Rittson Thomas ha seguito con cerimoniosa deferenza.

E tuttavia il nuovo record spinge i royal watchers , gli esperti della casa reale, a fare il bilancio del regno di Elisabetta. "Per una donna che incarna la tradizione, ha dimostrato una straordinaria capacità di rinnovarsi e stare al passo con i tempi, restando se stessa", ha osservato Douglas Hurd. In effetti salì al trono appena sette anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando Harry Truman era presidente degli Stati Uniti, Stalin guidava l'Unione Sovietica e a Palazzo Chigi c'era Alcide De Gasperi, ed è rimasta al suo posto mentre il mondo cambiava vertiginosamente, regnando attraverso la fine dell'Impero britannico, la guerra fredda, il crollo del comunismo, la rivoluzione di internet, l'esplosione del terrorismo islamista.

Altri, come lo storico David Starkey, ritengono che non abbia "mai detto o fatto nulla degno di essere ricordato" e che il suo segno distintivo sia stato proprio il silenzio, sebbene in un paio di recenti occasioni non si sia astenuta dal dire la sua, come quando ha esortato gli scozzesi a "pensarci bene" prima di votare per l'indipendenza dalla Gran Bretagna (nel referendum del settembre 2014) o quando ha ammonito l'Europa a non dimenticare "le divisioni del passato" (forse un'esortazione ai propri sudditi a non votare per uscire dall'Unione europea nel referendum fissato per il 2017). Del resto, costituzionalmente non potrebbe neppure interferire pubblicamente negli affari della nazione di cui è formalmente a capo.



mercoledì 17 settembre 2014

Scozia al voto: indipendenza si o indipendenza no?




«We are in England, not in Scotland». Nei pub inglesi, quando scocca la campanella che annuncia la chiusura, spesso fa eco questo brindisi. Segno che elementi di nazionalismo sono ancora forti nel Regno Unito. E ora arriva un test importante. È infatti scattato il conto alla rovescia per il futuro di Scozia, Inghilterra e Regno Unito.

Gli unionisti sono in vantaggio, ma il risultato del referendum sull’indipendenza scozzese resta molto aperto. Sono questi i dati portati dagli ultimi sondaggi a poche ore dal voto, previsto per il 18 settembre. Secondo diversi esperti la situazione è too close to call, cioè troppo incerta per azzardare un pronostico.

Nelle prime ore del mattino di venerdì 19 settembre si sapranno i risultati definitivi del referendum sull’indipendenza della Scozia. La consultazione popolare, concordata tra il governo regionale scozzese e l’esecutivo guidato da David Cameron, potrebbe portare alla storica disgregazione della Gran Bretagna. La Scozia è entrata nel Regno Unito nel 1707, e da allora la sua storia si è unita a quella dell’Inghilterra. Stesso sovrano, stesso Parlamento, stessa moneta e così via. Il sentimento di autonomia non si è mai sopito, tanto che l’allora premier Tony Blair decise di “addormentarlo” concedendo una piuttosto significativa devoluzione di poteri. La devolution di poco meno di vent’anni fa non ha però fermato la lotta per l’indipendentismo, ed ora, a pochi giorni dal voto dal referendum la Scozia potrebbe davvero smettere di fare riferimento a Downing Street.

I quotidiani Süddeutsche Zeitung, Bild Zeitung così come l’edizione tedesca del Wall Street Journal analizzano la progressiva affermazione di Yes Scotland. Secondo queste valutazioni emergono alcuni fattori decisivi. Il primo è la campagna elettorale, che sta spostando gli indecisi verso le ragioni del sì. I promotori dell’indipendenza hanno scelto toni moderati, basati sul desiderio di una maggiore autonomia decisionale e non sulla contrapposizione frontale con Londra. La campagna del no ha invece dipinto scenari catastrofici che non hanno convinto particolarmente, nonostante l’iniziale consenso maggioritario verso la permanenza del Regno Unito. La ripresa del sì nei sondaggi è favorita dalla grande popolarità di Alex Salmond, primo ministro della Scozia e leader dello Scottish National Party. Salmond ha proposto una tipologia di indipendentismo contemporaneo, distante dagli stereotipi del passato, e vicino all’orientamento socialdemocratico della maggior parte della popolazione. Il primo ministro è riuscito a convincere che le prestazioni sociali fornite dal Welfare britannico non cambieranno, e questo ha rassicurato una significativa fetta di elettorato. La Scozia è tradizionalmente dominata dai laburisti, e la presenza di un governo conservatore a Londra favorisce ulteriormente il distacco.

Già qualche giorno fa, per il fronte del «no», era scattato l’allarme. Un precedente sondaggio YouGov accreditava infatti i secessionisti di un 47% dei consensi, a soli tre punti dalla soglia magica della metà più uno. Ora l’ultimo sondaggio è chiaro: sarà battaglia all’ultimo voto. «Ho sempre pensato che potessimo vincere, i sondaggi sono molto incoraggianti», ha dichiarato Salmond, capo del governo di Edimburgo e portabandiera del vessillo scozzese con la croce di Sant’Andrea. Il leader indipendentista racconta entusiasta di «code per registrarsi nelle liste elettorali». Secondo le rilevazioni YouGov, nell’ultimo mese i secessionisti hanno guadagnato più di 10 punti, grazie pare agli elettori laburisti:quelli favorevoli all’indipendenza sono passati in poche settimane dal 18% a oltre il 30%.

«Il nostro atteggiamento non cambia, conta il voto nel referendum» ha continuato a ripetere in questi giorni il premier britannico David Cameron, assicurando di non essere intenzionato a dimettersi neanche in caso di sconfitta. Ma si sa che è preoccupato. Come preoccupata è la City londinese. La banca d’affari Goldman Sachs ha parlato di «conseguenze seriamente negative» per entrambe le economie, quella scozzese e quella britannica. E la sterlina scende giù: mercoledì ha registrato la seduta peggiore degli ultimi sette mesi.

Trema la sterlina, al quinto ribasso di fila. Cosa succede se la Scozia esce dal Regno Unito? Quale scenario per l'Eurozona?

«Le esportazioni di petrolio della Scozia sostengono la bilancia commerciale del Regno Unito. In caso di uscita della Scozia dal Regno Unito ci sarebbe quindi un impatto sfavorevole sulla bilancia commerciale del Paese. Si stima che il deficit commerciale sul Pil del nuovo Regno Unito (dopo l'uscita della Scozia) aumenterebbe del 2/3% - sostiene Maria Paola Toschi, market strategist di Jp Morgan asset management - . Per questo motivo l'uscita della Scozia dal Regno Unito avrebbe un impatto sulla sterlina negativo. Per questo il cancelliere Osborne sta accelerando i tempi per annunciare misure per garantire maggiore indipendenza alla Scozia in termini di tasse, sanità e mercato del lavoro. L'obiettivo è scoraggiare l'uscita della Scozia, che avrebbe implicazioni sfavorevoli per l'economia del Regno Unito. Tuttavia questo tentativo di riforma sembra un po' tardivo».

Per Matteo Paganini, chief analyst di Fxcm Italia «la sterlina sta scontando i sondaggi attuali con un'apertura in gap ribassista di 150 punti contro il dollaro americano (che ha trascinato tutte le sterline a ribasso) e potrebbe soffrire ulteriormente nei prossimi 10 giorni se i sondaggi dovessero mostrare degli ampliamenti della forbice tra separatisti ed unionisti. In caso di referendum a favore di una scissione potremmo assistere a nuove discese della sterlina nel breve termine, in un tipico movimento da "buy the rumor, sell the news" dove si va a scontare la possibile uscita della Scozia dal Regno Unito prima che avvenga e per poco tempo dopo la conferma del fatto. Dal momento in cui la BoE deciderà di rialzare i tassi di interesse è possibile che la sterlina torni a macinare terreno nei confronti del dollaro e delle altre major».

Ora i mercati prezzano l'incertezza, in caso di uscita della Scozia la sterlina potrebbe perdere il 10%. È il parere di Vincenzo Longo, strategist di Ig: «In questo momento, la sterlina sta prezzando uno scenario di piena incertezza sull'esito del referendum. Questo ci induce a pensare che, se nel corso dei prossimi giorni i "sì" dovessero guadagnare consensi probabilmente la sterlina continuerà a perdere inesorabilmente terreno. Una vittoria dei "sì" potrebbe penalizzare la sterlina e riportarla sui minimi del 2013, con un deprezzamento dai livelli attuali di circa l'8-10%. Sebbene quello scozzese sia stato da sempre il fronte più secessionista nei confronti di Londra, gli investitori potrebbero scontare che anche altre nazioni, come il Galles e l'Irlanda del Nord possano procedere alla separazione».

Di certo la volatilità fino al 18 settembre sarà alta. «La sterlina è destinata a rimanere sotto pressione nel breve termine, in vista del voto del 18 settembre voto. I periodi di crescente volatilità sono stati storicamente negativi per il valore della sterlina e la recente volatilità elevata nella valuta rischia di indurre ulteriore debolezza», afferma Martin Arnold, Senior research analyst di Etf Securities.

Dello stesso parere Regina Borromeo, portfolio manager di Brandywine (gruppo Legg Mason): «Il risk premium legato alla sterlina rispetto alle altre principali valute aumenterà. Mentre i dati economici hanno dimostrato una forte elasticità, le ripercussioni politiche e l'incertezza causeranno volatilità e preoccupazione».

«Se se vincesse il sì all'indipendenza potrebbe deprezzarsi ulteriormente. La Gran Bretagna perderebbe l'8% della popolazione e il 32% del territorio. La Scozia, con un'economia di 150 miliardi di sterline, contribuisce per il 10% all'intera economia britannica e, senza considerare l'industria petrolifera, l'8,2% di tasse - spiega Luciano Turba, consigliere Assiom Forex -. La moneta sarebbe più debole e le mancate entrate fiscali del petrolio inciderebbero in maniera negativa sul deficit dello Stato. Oltretutto la popolazione scozzese è meno sana e con aspettative di vita meno lunghe rispetto a quella inglese e ciò potrebbe far salire le spese per la sanità pubblica».

Per Aurelija Augulyte, Senior Fx strategist di Nordea «in caso di voto favorevole, ci aspettano mesi, se non anni di incertezze sulla spartizione del fardello fiscale, elezioni, uscita dall'Unione europea.. e l'incertezza è esattamente il rischio principale per la sterlina: alla luce della situazione attuale, ogni ulteriore aumento della volatilità nel forex aiuterà il rapporto euro/sterlina. Il governo scozzese ha dichiarato a fine giugno che la soluzione preferita per la valuta sarebbe la sterlina unica. Tuttavia il governo britannico ha escluso questa opzione. L'economia scozzese è strettamente legata a quella del Regno Unito e due terzi delle esportazioni va verso il Regno Unito. Crediamo quindi che la decisione più probabile in caso di indipendenza sia l'introduzione di una nuova moneta».

Le ipotesi sul piatto sono varie: dal mantenimento della sterlina (ma con negazione dei debiti) fino all'introduzione di una nuova valuta. «Ci sono quattro possibili opzioni: una sterlina unica con accordo formale o nessun accordo formale con il resto del Regno Unito, l'adesione all'euro o l'introduzione di una nuova moneta scozzese - afferma Augulyte -. Se avessimo una nuova valuta scozzese, il vaso di Pandora si scoperchierebbe: la possibilità di avere più valute anche nell'Eurozona aumenterebbe. Positivo per la volatilità, per le banche europee e per gli strategist del forex.

«È possibile che si continui ad utilizzare la sterlina in ottica di un mini sistema "moneta unica britannica" ma crediamo che questo comporti dei rischi enormi per il nuovo Paese - continua Paganini.

La lungimiranza degli scozzesi, se dovessero effettivamente decidere di staccarsi dalla Gran Bretagna probabilmente li porterà a decidere l'adozione di una valuta domestica dopo qualche anno, nel caso in cui i negoziati sulle proprietà dei pozzi petroliferi dovessero, come crediamo, assegnare oltre il 90% dei diritti alla stessa Scozia».

« Il partito nazionalista scozzese, lo Scottish National Party, ha fatto sapere che rifiuterà di farsi carico dei debiti della Gran Bretagna se non sarà consentito alla Scozia ancora l'utilizzo della sterlina in caso di vittoria dei "si" - indica Longo -. Quello della valuta rimane un tema di forte scontro che potrebbe richiedere un lungo periodo di mediazione tra le parti coinvolte».

Toschi sottolinea che «gli stessi indipendentisti propongono una valuta alternativa che sarebbe probabilmente più forte della sterlina inglese, proprio perché godrebbe della solidità della bilancia commerciale della Scozia, sostenuta dalle esportazioni di petrolio. Alcuni si spingono a pensare alla creazione di una speciale unione valutaria tra le due sterline, inglese e scozzese. Tuttavia è ancora difficile fare valutazioni su queste questioni tecniche».

«Questo costituisce il punto più controverso: la Scozia vorrebbe continuare ad usare la sterlina, ma la Gran Bretagna probabilmente userebbe questo come leva politica per una situazione che diverrebbe decisamente ingarbugliata - spiega Turba -. Per i nazionalisti, una Scozia sovrana potrebbe finalmente utilizzare i proventi derivanti dal petrolio per investire nello stato sociale. Il petrolio garantirà entrate fiscali pari a 57 miliardi di sterline entro il 2018 e sarà estraibile per altri 30-40 anni, assicurano gli indipendentisti. E il fracking nel Mare del Nord potrebbe aumentare la quantità di greggio recuperabile. D'altra parte però, se la Scozia continuasse ad utilizzare la sterlina si troverebbe con una moneta che dipende da decisioni prese a Londra».

C'è il rischio di una grande crisi economica per la Gran Bretagna o addirittura di una "nuova depressione" nel caso in cui la Scozia conquisti l'indipendenza nel referendum del 18 settembre. Lo riporta il Daily Telegraph, che cita le stime degli analisti di CrossBorder Capital e Deutsche Bank. La prima, banca d'investimenti di Londra, ha rilevato che ad agosto c'è stata una fuga di capitali dal Regno Unito pari a 16,8 miliardi di sterline, il dato peggiore dal collasso di Lehman Brothers.