La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha rotto il silenzio sulla questione dei Rohingya, la minoranza musulmana pesantemente discriminata nel Paese, e oggetto - secondo le Nazioni Unite - di un «chiaro caso di pulizia etnica». Dallo scorso mese oltre 400mila Rohingya, infatti, sono fuggiti in Bangladesh a seguito di violenze compiute dall’esercito di Rangoon, nel più totale silenzio delle istituzioni birmane. La leader birmana, dal canto suo , ha detto che «più della metà» dei villaggi abitati dalla minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar, non sono stati fatti oggetto di violenze, invitando i diplomatici riuniti a Naypyitaw a visitarli. San Suu Kyi ha dichiarato di non temere il giudizio internazionale sulla gestione della crisi ma nemmeno di «attribuire colpe o evadere le proprie responsabilità. Condanniamo tutte le violazioni dei diritti umani e la violenza contro la legge», ha detto in un discorso trasmesso dalle tv nazionali.
L'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani Zeid Raad al-Hussein, ha denunciato come "pulizia etnica da manuale". La prima versione di Aung San Suu kyi: "E' solo disinformazione" Aung San Suu Kyi, in una telefonata con il Presidente turco Erdogan nei giorni scorsi aveva denunciato la "disinformazione" sulla crisi dei Rohingya. La 'Lady', come è conosciuta dai birmani, aveva parlato di "pesante iceberg di disinformazione", che deforma il racconto di quel che sta accadendo. "Questo tipo di false informazioni è solo la parte più visibile di un enorme iceberg di disinformazione", ha detto la San Suu Kyi.
La voce più alta che si è levata contro la leader birmana è quella di un altro Nobel per la Pace. L'attivista pakistana e musulmana, Malala Yousafzai aveva infatti aspramente criticato la leader birmana per ignorare la 'pulizia etnica' in atto contro la minoranza musulmana nei Rohingya. "Ogni volta che leggo le notizie il mio cuore si spezza per le sofferenze del musulmani Rohingya in Myanmar", ha denunciato Malala, sopravvissuta miracolosamente ad un tentativo di assassinio da parte dei talebani locali in Pakistan quando a soli 15 anni nel 2012 lottava per dell'educazione femminile. "Nel corso degli ultimi anni ho ripetutamente condannato questa trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia collega premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso", ha denunciato Malala, che conquistò il Nobel per la pace nel 2014. Suu Kyi, Nobel per la Pace nel 1991, che ha passato oltre 20 anni isolata nella sua casa dalla giunta militare, è ormai dal 2016 ministro degli Esteri e Consigliere di Stato (carica creata apposta per lei) che la pone di fatto, sempre con il placet dei generali, alla guida dello Stato. Ma Suu Kyi, buddista, non vuole inimicarsi il sostegno della maggioranza della popolazione birmana che odia i mussulmani.
«Abbiamo avuto un incontro produttivo sulla terribile situazione in Birmania, ma non vediamo ancora miglioramenti sul terreno e continuiamo ad avere segnalazioni di violenze e sofferenze», ha detto a tal proposito l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, dopo un incontro organizzato dalla Gran Bretagna a margine dell'Assemblea Generale a cui hanno partecipato anche funzionari del governo di Rangoon.
L’esodo dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh ha attirato l’attenzione della comunità internazionale dalle Nazioni Unite a Papa Francesco, ma chi sono i Rohingya?
La comunità Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana che vive nello stato nord-occidentale di Rakhine, in Myanmar, custodisce gelosamente il suo nome e lo considera parte integrante della sua identità di minoranza perseguitata. I problemi dei Rohingya iniziano proprio dal loro nome che viene utilizzato da loro stessi e dalla comunità internazionale – Nazioni Unite comprese – ma non dal Myanmar che li definisce immigrati clandestini dal Bangladesh, ossia bengalesi. Ufficialmente, i Rohingya non vengono elencati tra le 135 “razze nazionali” elencate nella legge sulla cittadinanza del Myanmar, in vigore dal 1982. Si tratta di una legge che risale al periodo della dittatura militare del generale Ne Win, ma che non è mai stata aggiornata dai governi che lo hanno succeduto.
Il vero problema sociale dei Rohingya è quello di non essere considerati cittadini del Myanmar e di non godere dei diritti che la cittadinanza comporta. Nel paese esistono tre tipologie di cittadinanza: piena, associata e naturalizzata. Hanno diritto alla cittadinanza piena coloro le cui famiglie hanno vissuto nel paese da prima del 1823, sono cittadini associati coloro che hanno ottenuto la cittadinanza con la legge in materia del 1948. I naturalizzati sono coloro che vivevano nel paese da prima del 4 gennaio 1948, ma che hanno fatto domanda di cittadinanza dopo il 1982. Molti Rohingya non rientrano in nessuna delle tre categorie poiché non riescono a produrre le prove documentali necessarie per fare domanda di cittadinanza.
La campagna militare dell’esercito del Myanmar nello stato di Rakhine è iniziata nell’ottobre 2016, in seguito a una serie di attentati alle stazioni di polizia di confine perpetrati dall’ARSA, un’organizzazione terroristica islamista formata da militanti di etnia Rohingya. Per il popolo birmano quanto è accaduto nello stato di Rakhine rappresenta una lotta contro i terroristi estremisti islamici che si sono infiltrati in Myanmar e tentano di spaccare la società birmana per creare uno stato indipendente – a maggioranza islamica – a Rakhine.
Le tensioni tra i musulmani Rohingya e la maggioranza buddista del Myanmar risalgono al maggio 2012, quando una donna buddista è stata violentata e uccisa dai musulmani Rohingya, secondo le accuse. L’ incidente è stato seguito dall’uccisione di 10 musulmani Rohingya da parte di un gruppo di buddisti.
In questi giorni un gruppo di lavoro per pianificare il rimpatrio dei Rohingya. È l’accordo a cui sono giunti le autorità di Myanmar e Bangladesh.
Non è la prima volta che il Myanmar trova un accordo sul rimpatrio dei rifugiati con i Paesi confinanti. Ma il problema di base, che rimane irrisolto, è lo status dei Rohingya: privi di cittadinanza, vengono classificati e trattati alla stregua di immigrati clandestini.
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