domenica 29 dicembre 2013
Antartide: nave bloccata, continua l'odissea della MV Akademik Shokalskiy
"Si sta rompendo". Il ghiaccio intorno alla Akademik Shokalskiy si sta aprendo da solo. L'avventura della Akademik Shokalskiy, la nave russa da giorni intrappolata tra i ghiacci dell'Antartide, continua a riservare colpi di scena, mentre e' atteso per oggi l'arrivo dei soccorsi. Chris Turney, capo della spedizione ha postato un video su twitter. Nelle immagini lui, barba ghiacciata e sorriso ottimista, insieme ad un suo compagno di viaggio indica le grandi crepe nel ghiaccio intorno alla nave.
Su YouTube il diario di bordo della nave imprigionata sulla banchisa. In attesa dei soccorsi, il capo della spedizione descrive la situazione e cede il microfono ai passeggeri, che raccontano in prima persona la disavventura.
Il ghiaccio che stringe in un gelido abbraccio lo scafo della nave, il soffio della bufera, il volo di un elicottero partito dalla rompighiaccio cinese Snow Dragon, che non arriverà ma che basta a tenere alto il morale. Poi i passeggeri che camminano sulla banchisa e una serie di messaggi per dire a chi si trova a casa che va tutto bene. La nave russa MV Akademik Shokalskiy è intrappolata al largo dell’Antartide, ma non è del tutto isolata. Il capo della spedizione, Chris Turney sta pubblicando su YouTube una serie di video, un vero e proprio diario di bordo dalla fine del mondo.
“Il vento raggiunge i 70 chilometri l’ora, la nave non si muove da due giorni e siamo circondati dal ghiaccio marino”. Nel giorno di Santo Stefano, mentre la bufera che ha bloccato la MV Akademik Shokalskiy non accenna a placarsi, Chris Turney descrive così la situazione. “Entro 24 ore ci attendiamo l’arrivo di una rompighiaccio cinese, la Snow Dragon”, continua fiducioso.
I giorni passano, la nave resta intrappolata. Si attende una rompighiaccio australiana. Non ci sono pericoli e a bordo stanno tutti bene, ma per rassicurare parenti e amici si decide di iniziare a pubblicare dei videomessaggi. A turno chi si trova a bordo si metterà davanti alla telecamera e parlerà a chi si trova a casa. Tutti rassicurano: non ci sono problemi. Mary Regan festeggia il suo compleanno proprio il 29 dicembre. Dalla banchisa, con la nave alle spalle, dice: “Siamo in un luogo meraviglioso, non potrebbe esserci un giorno migliore per festeggiare con i miei nuovi amici”.
Mentre le condizioni meteo migliorano, il 28 dicembre dalla nave cinese decolla un elicottero, che sorvola la MV Akademik Shokalskiy. Le immagini mostrano alcune delle 74 persone a bordo che scattano foto dalla banchisa. Sembra fatta, ma il ghiaccio troppo spesso impedirà alla Snow Dragon di portar loro soccorsi.
La loro prigione di ghiaccio si sta sciogliendo, mentre l'Aurora Australis, la nave di soccorso attesa oggi nel tardo pomeriggio, sta procedendo a tappe forzate per raggiungerli. ''Lo spero'' risponde il professore ad un compagno di viaggio che guardando il pack gli dice: "Il ghiaccio si sta rompendo, questo ci consentirà di liberarci". E mentre tra i follower del professore qualcuno augura "buona fortuna ragazzi", qualcun'altro commenta ironicamente "Prof. Turney, il riscaldamento globale viene in vostro soccorso".
giovedì 26 dicembre 2013
Ucraina: picchiata selvaggiamente Tatiana Chornovil
Il volto dell’informazione investigativa in Ucraina. Tatyana Chornovol, giornalista e attivista, nota per le indagini contro la corruzione della classe politica ucraina. Giornalista pro-Ue per antonomasia in Ucraina, che ha scritto articoli molto critici nei confronti del presidente Viktor Yanukovich e dei suoi più stretti alleati, stava guidando quando due uomini l'hanno costretta a fermarsi alla periferia di Kiev.
Stava indagando sul patrimonio delle più alte cariche dello Stato. Il suo ultimo articolo riguardava il Ministro degli Interni, che la Chornovol aveva definito un “boia” per la gestione delle manifestazioni anti-governative di dicembre.
Lo ha reso noto il sito online della sua testata, l'Ukrainska Pravda.
«Ho cercato di scappare, mi hanno preso e ha iniziato a colpirmi sulla testa», ha riferito la giornalista che ha riportato lesioni al naso, una commozione cerebrale e traumi multipli.
La sua foto che mostra le conseguenze dell'aggressione è stata pubblicata sul sito del giornale.
L'Organizzazione per la Sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e l'ambasciata americana a Kiev hanno condannato la selvaggia aggressione della giornalista ucraina:«Condanniamo l'attacco e chiediamo un'indagine immediata che permetta di risalire ai responsabile e a consegnarli nella mani della giustizia», ha scritto l'ambasciata in una nota sottolineando come «nelle ultime settimane siano accaduti una serie di eventi simili che sembrano voler intimidire o punire persone legate alle proteste».
Un amico racconta la versione della giornalista:
“I medici hanno detto che ha un trauma cranico e una commozione cerebrale. Ha cercato di scappare ma l’hanno presa, qualcuno ha rotto il vetro dell’auto e l’ha colpita. Tatyana non ricorda quello che è successo dopo. Ha ripreso conoscenza in ospedale”.
Alcune centinaia di persone hanno manifestato contro l’aggressione di fronte al Ministero degli Interni.
“Penso che questo mostri la debolezza del nostro governo -dice un dimostrante. Quando la gente non è in grado di rispondere con le parole e di fornire prove, risponde usando la violenza. E per di più hanno picchiato una donna e una madre. E’ inaccettabile”.
Alcuni attivisti ucraini hanno dichiarato di aver identificato l’auto degli aggressori. Apparterrebbe al partito delle Regioni, al potere. Sull’aggressione il ministro degli Interni ha risposto con un no comment.
Nell’ultima settimana tre attivisti sono stati aggrediti. Uno è stato pugnalato, un’altro è uscito indenne da un attacco con arma da fuoco, e un terzo sarebbe stato picchiato a morte dalla polizia, dicono i famigliari.
Fondatore di Twitter entra nel cda di Disney
Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, è stato nominato membro indipendente del consiglio di amministrazione di Walt Disney. Dopo aver conquistato il mondo digitale e aver lanciato una delle più promettenti aziende dedite ai pagamenti via mobile, Dorsey prosegue nella sua personale ascesa e centra il bersaglio grosso approdando nella stanza dei bottoni della Disney.
Dorsey, che è anche amministratore delegato della società di pagamenti via cellulare Square, segue dunque le orme di Sheryl Sandberg di Facebook. In passato anche il fondatore di Apple Steve Jobs era stato nel Cda di Disney.
«La prospettiva che Dorsey porta nel Cda è di estremo valore, date le nostre priorità strategiche, che includono l’utilizzo di tecnologie e piattaforme per raggiungere un pubblico più ampio e per migliorare il rapporto con i nostri clienti», ha detto Bob Iger, amministratore delegato di Disney. Dal canto suo Dorsey ha definito Disney «una società senza tempo, con cui tutti siamo cresciuti e che ammiriamo».
La scelta del nuovo consigliere è stata comunicata insieme ai compensi dell’amministratore delegato: quest’anno Iger ha visto calare compensi complessivi e benefit del 15% a 34,3 milioni di dollari, contro i 40,2 milioni del 2012.
Gli azionisti potranno votare su questa selezione in occasione della riunione annuale della società, in programma il 18 marzo. Dorsey, 36 anni, diventerà il più giovane componente del cda di Disney, la maggioranza dei quali sono sulla cinquantina.
Dopo il boom realizzato con Twitter e la visibilità assicurata a Square Dorsey è atteso ora alla più grande sfida professionale, perché incrementare la popolarità e rimpinguare le casse della Disney è un'impresa tutt'altro che semplice, anche per uno dei massimi innovatori del mondo capace di trasformare in oro qualsiasi cosa gli passi fra le mani.
martedì 24 dicembre 2013
Marò: Latorre, per il Natale 2013 lontano dalla patria
“Oggi è la vigilia del Santo Natale” e “purtroppo quest’anno non potrò essere nella mia amata patria”, ma “fortunatamente parte dei miei affetti più cari mi ha raggiunto” in India “portando una ventata di gioia”. Lo ha scritto sul suo profilo Facebook uno dei due marò italiani sotto processo a Nuova Delhi, Massimiliano Latorre.
“Oggi è la vigilia del Santo Natale – ha scritto il fuciliere di Marina – per noi italiani e cattolici è la festa più importante dell’anno, sinonimo di fede, famiglia, unione, calore. Purtroppo quest’anno non potrò’ essere nella mia amata patria per respirare il profumo che solo da noi si respira in questi giorni”.
“Fortunatamente – prosegue Latorre – parte dei miei affetti più cari mi ha raggiunto portando una ventata di gioia, ma sempre con il cuore rivolto agli altri carissimi affetti che sfortunatamente non hanno potuto raggiungermi. Volevo augurare a voi tanta serenità’, sentimento che ho imparato essere il più’ importante nella vita di una famiglia, e ringraziarvi per quanto cuore, affetto e passione ponete ogni giorno nell’essere vicino a me ed ai miei cari, questo per me e’ il regalo più grande che potessi sognare di ricevere”.
“Auguri soprattutto ai vostri bambini – conclude il militare – che sono l’anima di questa festa con i loro volti sorridenti e gioiosi illuminati da alberi e presepi, sempre presenti nelle nostre case rendono la vita degna di essere vissuta. Vi abbraccio idealmente e con questo abbraccio vi trasmetto tutta la mia immensa riconoscenza”.
I due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone potranno passare il Natale in famiglia. Non in Italia, a casa loro, ma in India, dove i due sono trattenuti perché accusati di aver ucciso due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala. Più di venti persone, tra i loro familiari, potranno raggiungerli per festeggiare con loro il Natale, ha fatto saper il ministro della Difesa Mario Mauro. “Il caso rimane rimane intricato – ha spiegato il ministro - L'ultimo ricorso dei difensori di Latorre e Girone ha centrato il punto, perché la Corte aveva convocato i due fucilieri di Marina per contestare l'accusa, ma sulla scorta di questo ricorso ha rinviato all'otto gennaio. Fino a quella data saremo in fervida attesa, ma in alacre attività soprattutto sul piano diplomatico. Ministero degli Esteri e Presidenza del Consiglio si stanno prodigando per risolvere uno dei casi più complessi che ci siamo mai trovati ad affrontare”.
M
lunedì 23 dicembre 2013
Hassan Rohani si è rivolto alla Bonino “Italia nostra porta per Europa”
L'Italia vuole vincere la gara di "amicizia e collaborazione" con l'Iran e aprire una nuova stagione di incontri portando con sé gli altri Paesi europei.
Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha incontrato il presidente iraniano Hassan Rohani nel secondo e ultimo giorno della sua visita a Teheran.
Con la sua storica visita a Teheran, la prima di un capo della diplomazia italiana in quasi dieci anni, il ministro degli Esteri Emma Bonino ha assegnato di nuovo all’Italia quel delicato ruolo di interlocutore primario che Roma ha tradizionalmente svolto nei rapporti fra Europa e Iran.
«L’Italia ha giocato il ruolo di partner importante della Repubblica islamica e finora ha funzionato da porta per le relazioni fra Iran ed Europa» e i legami con Roma «possono creare fiducia reciproca» fra Teheran e l’Ue: ha riconosciuto il presidente iraniano Hassan Rohani, nel suo incontro con Bonino. Rohani ha anche sottolineato di essere disponibile a «promuovere le relazioni» con l’Italia «al più alto livello possibile». L’espansione dei rapporti bilaterali dovrebbe puntare - ha indicato - ad «obiettivi di lungo termine» con una cooperazione «a tutti i livelli».
Primo capo di una diplomazia europea a recarsi a Teheran dopo il cambio di guardia alla presidenza, Bonino aveva ieri avocato a sé il compito di «andare a vedere le carte» vantate dall’Iran nell’aprirsi al mondo con il nuovo corso inaugurato da Rohani. Questo compito di interlocutore primario era già stato assolto dall’Italia quasi quindici anni fa con la visita compiuta a Roma dal presidente iraniano Mohammad Khatami, l’uomo che all’epoca tentò di aprire la Repubblica islamica alle riforme e al dialogo con l’Occidente prima della chiusura operata dagli otto anni della presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Quel viaggio del marzo 1999 era stato il primo di un capo di Stato iraniano in un paese dell’Unione europea dopo la Rivoluzione islamica del 1979. La circostanza è stata ricordata a Teheran, nella visita compiuta proprio questa settimana, dal premier di allora, Massimo D’Alema.
Ricordiamo che la preparazione della visita di Bonino era cominciata con la missione a Teheran del viceministro degli Esteri Lapo Pistelli lo scorso 7 agosto, appena due giorni dopo l’insediamento di Rohani vincitore delle presidenziali di giugno: una mossa che suscitò le «perplessità di capitali europee vicine e lontane», ebbe a constatare il mese scorso Bonino ricordando però - con una colorita metafora - che all’Assemblea generale dell’Onu a New York ci fu poi una tale «fila per parlare con Rohani» che non si vede «neanche fuori dal Moma».
Il compito assunto dall’Italia appare difficile e dall’esito non scontato. Da un lato ci sono le resistenze, interne all’Iran ma per ora soprattutto al Congresso americano, nei confronti del completamento dell’accordo provvisorio di Ginevra sul controverso programma nucleare iraniano. Dall’altro ci sono diffidenze iraniane acuite dai 34 anni di assedio americano alla scomoda repubblica islamica. Un riprova sono state le proteste diplomatiche di Teheran per il premio Sakharov che una delegazione di eurodeputati ha consegnato a due dissidenti iraniani di spicco, il regista Jafar Panahi e l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh, che l’avevano vinto l’anno scorso ma non erano potuti andare a ritirarlo a Strasburgo perché reclusi.
Con la ripresa del dialogo sulla questione del nucleare iraniano "si apra da parte dell'Ue e dell'Iran un periodo di relazioni normali", ha auspicato il ministro degli Esteri con il collega iraniano Mohamed Zarif. Normalizzazione nei rapporti tra Europa e Iran che molto dipende dalla riuscita dell'intesa sul nucleare. Se da una parte l'Italia esprime l'auspicio che "il piano di azione deciso a Ginevra si trasformi in accordo generale", dall'altra Teheran risponde con un appello a "non sabotare ciò che è stato deciso ai più alti livelli politici". E qui il destinatario del messaggio non è solo l'Unione europea ma anche gli Stati Uniti. Nessun cenno in dettaglio sulle sanzioni se non l'applicazione del piano di Ginevra e, comunque, ha spiegato Bonino, "tutte le volte che si è accennato alle sanzioni è stato fatto per guardare avanti e non tornare su non si quale dossier".
Sul tavolo degli incontri anche gli accordi bilaterali. Dal lato economico, con l'annuncio di una missione a breve di una delegazione della Banca Centrale iraniana in Italia e l'apertura di legami in nuovi settori come quello ferroviario e aeronautico; nel campo culturale.
Ma i rapporti tra Iran e Occidente sono legati a doppio filo anche all'eventuale ruolo che il Paese giocherà nella crisi siriana. Teheran incassa ancora una volta il sostegno dell'Italia che continuerà ad appoggiare la necessità che tutti "i Paesi implicati siano responsabilizzati a dare il loro contributo", come ha ricordato Bonino. Il capo della diplomazia italiana ha ripetuto che "i Paesi della regione che hanno implicazioni nel dramma siriano devono avere la possibilità di assumersene la responsabilità. Tutti coloro che possono dare un contributo - ha auspicato ancora la Bonino - devono essere chiamati a darlo".
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sabato 21 dicembre 2013
Gli accordi di Oslo vent’anni dopo
13 settembre 1993: il primo ministro israeliano Yitzakh Rabin e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat si stringono la mano sotto gli occhi soddisfatti di Bill Clinton. Viene scattata una delle foto più famose del mondo. Perché immortala un momento, un evento storico: la firma degli accordi di Oslo per la riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Si sono passati vent’anni dalla firma degli accordi di Oslo, il primo trattato di pace fra i contendenti dal 1948. Furono raggiunti nella capitale norvegese il 20 agosto 1993 e poi firmati ufficialmente a Washington il 13 settembre.
Storiche anche le parole di Bill Clinton, che in quell’occasione dice: “Oggi, con tutto il nostro cuore e la nostra anima auguriamo shalom, shalom, pace!”
Gli accordi hanno portato al reciproco riconoscimento tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, al ritiro delle forze israeliane da alcuni territori palestinesi e al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Nel frattempo, i territori palestinesi sono diventati sempre più divisi: Al Fatah governa la Cisgiordania, mentre Hamas controlla Gaza dopo le elezioni del 2006. Questo ha portato al rafforzamento del blocco di Gaza da parte di Israele e a due attacchi israeliani: l’operazione Piombo fuso nel 2008-09, e quella Pilastro di difesa nel 2012.
Gli accordi di Oslo II, firmati nel 1995, hanno diviso la Cisgiordania in tre zone: area A, area B e area C. Si sono così create 167 enclave separate e l’area C, che comprende circa il 60 per cento del territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo israeliano.
Il conflitto passerebbe quasi sotto silenzio senza la vittoria simbolica del novembre 2012 all’Onu. “La comunità internazionale ora si trova davanti all’ultima possibilità di salvare la soluzione dei due Stati” afferma Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.
A larghissima maggioranza, la Palestina viene riconosciuta come Stato osservatore delle Nazioni Unite. Un primo passo verso il riconoscimento ufficiale? Nulla, però è veramente cambiato, così come nulla è cambiato in vent’anni.
Gli accordi di Oslo hanno concentrato tutte le speranze di una generazione che voleva una pace concreta tra israeliani e palestinesi. Di quelle speranze, oggi, è rimasto ben poco.
Riprendono a Gerusalemme, sotto l’egida del Segretario di Stato americano John Kerry, i colloqui di pace tra israeliani e palestinesi. Sono circa 22 anni, precisamente dal 1991, che le parti si siedono al tavolo dei negoziati con la mediazione della comunità internazionale, Stati Uniti in primis, per individuare un percorso di pace in Medio Oriente.
Vediamo una sintetica cronistoria delle relazioni israelo-palestinese.
Madrid, 1 novembre 1991. Un meeting ospitato dal governo spagnolo e sponsorizzato da Usa e Urss dura tre giorni. Si tratta del primo tentativo di riappacificazione tra le parti dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967. L’incontro si focalizza anche sulla stabilità di Siria, Libano e Giordania. La delegazione palestinese, a causa delle obiezioni israeliane, viene integrata a quella giordana.
Lo scopo della conferenza è quello di servire come un forum di apertura del dialogo per i partecipanti e non ha alcun potere di imporre soluzioni o accordi di veto.
Oslo, 13 settembre 1993. Si tiene a Washington D. C. la cerimonia pubblica ufficiale di firma della Dichiarazione di Principi (DOP), un accordo conclusosi segretamente il 20 agosto in Norvegia tra Yasser Arafat, per l’Olp, e Shimon Peres, per conto dello Stato d’Israele.
Alla cerimonia partecipano in veste di garanti Warren Christopher per gli Stati Uniti e Andrei Kozyrev per la Russia, alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton.
Il Cairo, 4 maggio 1994. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat siglano in Egitto l’accordo per l’autonomia delle zone di Gaza e Gerico.
Camp David, 11-25 luglio 2000. L’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ospita nuovi colloqui tra Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. Ancora oggi, il vertice, viene ricordato come un tentativo fallimentare di negoziare uno “status finale” per il conflitto israelo-palestinese, ma anche come un round di negoziati senza precedenti in finalità e dettagli.
Le due parti concordano che l’obiettivo delle trattative è quello di porre fine a decenni di conflitto e di raggiungere una pace giusta e duratura. Poco dopo, tuttavia, il 28 settembre si scatena la Seconda Intifada palestinese.
Taba, 21 gennaio 2001. Il vertice, nel Sinai, ripropone l’agenda di Campd David e si avvicina (solo) a raggiungere un accordo. Nell’incontro, che si conclude il 27 gennaio in vista delle elezioni israeliane, lo stato ebraico ribadisce che “i profughi palestinesi non hanno alcun diritto di ritornare in Israele”.
Aqaba, 4 giugno 2003. Viene indetta ‘la tabella di marcia per la pace’ in Medio Oriente. L’incontro, proposto dal Quartetto composto da Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite, si tiene in Giordania e mira all’istituzione di uno Stato palestinese indipendente entro il 2005. Vi partecipa anche l’allora leader della Casa Bianca, George W. Bush, il premier israeliano Ariel Sharon e il primo ministro palestinese Mahmud Abbas, ma gli sviluppi sono negativi e gli obiettivi restano arenati alle speranze del futuro.
Sharm el-Sheikh, 2 febbraio 2005. Il primo ministro israeliano Ariel Sharon, il presidente della Autorita’ palestinese Mahmoud Abbas, il governatore egiziano Hosni Mubarak e Re Abdullah II si incontrano in Egitto e dichiarano la fine delle ostilità.
Annapolis, 27 novembre 2007. Viene convocata un’altra conferenza di pace per il Medio Oriente, presso la United States Naval Academy di Annapolis, Maryland, Stati Uniti. E’ la prima volta che viene espressa una soluzione di due Stati articolata in comune accordo per risolvere il conflitto israelo-palestinese. E’ anche la prima volta che i palestinesi parlano per loro stessi, invece di essere parte di una delegazione, come la Lega araba. Inoltre, è la prima volta dopo decenni che il contesto della conferenza non include nel contraddittorio posizioni sia dalle Nazioni Unite che dall’Unione europea contro gli israeliani.
Gaza, 27 dicembre 2008. Allo scoccare della mezzanotte Tel Aviv lancia l’operazione Piombo fuso: una campagna militare volta a colpire duramente l’amministrazione di Hamas al fine di generare una situazione di migliore sicurezza intorno alla Striscia di Gaza nel tempo, attraverso un rafforzamento della calma e una diminuzione dei lanci dei razzi. L’operazione si protrae fino al 18 gennaio 2009. Muoiono centinaia di persone.
Washington, 2 e 26 settembre 2010. Prima il presidente statunitense Barack Obama lancia colloqui diretti in un vertice tra Abu Mazen e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Poi, scade il congelamento della costruzione di nuovi insediamenti da parte di Israele in Cisgiordania e i colloqui diretti giungono al collasso.
Varie città, 19 maggio, 23 settembre e 31 ottobre 2011. Obama lancia un appello per uno Stato palestinese basato sui confini del 1967, vale a dire la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est. La chiamata viene respinta fermamente da Netanyahu. A settembre il Quartetto – Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – propone un piano per rilanciare i colloqui entro un mese e l’impegno a garantire un accordo di pace entro la fine del 2012. Poco prima di novembre la conferenza generale dell’Unesco vota a favore dell’adesione della Palestina come membro a pieno titolo dell’organismo Onu che si occupa di educazione, scienza e cultura.
Israele replica annunciando la costruzione di 2.000 abitazioni di coloni a Gerusalemme Est e il congelamento dei fondi indirizzati all’Autorità palestinese.
Varie città, 3 e 25 gennaio, 10 giungo 2012. Delegati israeliani e palestinesi si incontrano discretamente in Giordania. Accade anche il 10 giugno: fonti da entrambe le parti parlano di “dialoghi silenziosi”.
Varie città, dal 30 aprile a oggi. La Lega araba comincia ad aprire all’idea di reciproci scambi di terra tra Israele e Palestina. Secondo fonti dei Territori, Israele è pronta a votare il piano del segretrario di Stato Usa, John Kerry, solo se questo non include uno stop agli insediamenti.
Il 19 luglio scorso lo stesso Kerry annuncia un accordo di base tra le parti per la ripresa dei negoziati e il 29 e il 30 c’è il primo contatto. Domenica Israele approva un piano per il rilascio di 26 prigionieri palestinesi, ma poco dopo annuncia la costruzione di oltre 1.000 nuove case di coloni nei Territori. Oggi, infine, l’ultimo affondo: il progetto di 942 nuove abitazioni viene approvato dall’amministrazione municipale di Gerusalemme per l’area est, in Cisgiordania.
Come ha raccontato la storia gli Accordi di Oslo non furono veri
e propri accordi di pace, ma piuttosto un processo di negoziazione che non
specificava alcun risultato certo e che rimandava ad un tempo indeterminato i
punti più spinosi ed il negoziato sullo status definitivo. Di fatto, ai
palestinesi fu chiesto di realizzare subito i principali compromessi, mentre
Israele, al di là riconoscimento dell’OLP, avrebbe dovuto fare le concessioni
solamente in una presunta seconda fase.
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L’oppositore di Vladimir Putin, Mikhail Khodorkovskij è libero
Probabilmente in vista delle olimpiadi di Sochi 2014 ormai prossime a febbraio che saranno evitate da diversi leader mondiali, Putin ha voluto togliere più argomenti possibili ai suoi critici internazionali.
«La questione dell’ammissione di colpevolezza non è stata affrontata». E la richiesta di grazia «non è stata una ammissione di colpevolezza»: lo assicura Mikhail Khodorkovskij nella prima dichiarazione da uomo libero pubblicata poco dopo il suo arrivo allo Schonefeld di Berlino, dove è stato accolto dall’ex ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher e dal consulente politico tedesco Alexander Rahr, che avrebbe svolto un ruolo importante nella vicenda della scarcerazione del fondatore della Yukos.
Putin ha detto di aver ricevuto nei gironi scorsi una richiesta di liberazione da parte di Khodorkovskij, in prigione dal 2003, che voleva uscire per assistere la madre malata in Germania.
Ricordiamo che nell'ottobre del 2003 è scattata la trappola del Cremlino: arrestato per evasione fiscale, frode e peculato. Gli tolgono tutto. La Yukos, gigante petrolifero mondiale viene incamerata dallo Stato. E secondo fonti dell'intelligence tedesca, è in quell'operazione che anche Vladimir Putin si mette in proprio. Ci vogliono più di dieci anni, perché non la giustizia, ma il capriccio dello Zar Putin gli faccia intravedere la fine del tunnel.
L’ex imprenditore è stato arrestato per furto, frode e riciclaggio, ma era considerato un prigioniero politico dai suoi sostenitori e si è sempre dichiarato innocente. Prima di essere arrestato ha guidato il gigante petrolifero Yukos, che dopo il suo fermo è stata divisa in società più piccole e venduta.
La dichiarazione di Vladimir Putin arriva a un giorno di distanza dall’amnistia approvata dalla Duma russa, della quale hanno potrebbero beneficiato sia gli attivisti di Greenpeace sia le musiciste del gruppo Pussy Riot.
Secondo gli analisti la grazia concesso da Putin al suo oppositore potrebbe servire a calmare le polemiche internazionali sullo stato dei diritti umani in Russia in vista delle olimpiadi invernali di Sochi, in programma a febbraio 2014.
La conversione. Scrive l’Ap: “Prima del suo arresto, Khodorkovskij non era una figura amata dalla maggior parte dei russi, che mal sopportavano il modo in cui gli oligarchi si erano arricchiti nell’epoca delle privatizzazioni postsovietiche. Anche se ha reso Yukos la prima azienda russa con uno stile occidentale, Khodorkovskij è stato considerato un imprenditore senza scrupoli”.
“Ma dietro le sbarre il magnate si è trasformato in un raffinato pensatore politico e ha cominciato a scrivere per i principali giornali russi. In un articolo del 2005 si è perfino pentito di essersi arricchito con le privatizzazioni e ha invitato le autorità russe a scegliere una politica più di sinistra. Ha inoltre proposto che gli oligarchi pagassero una tassa per le aziende che avevano comprato dopo la caduta del regime sovietico”, prosegue l’Ap.
Comunque ciò che appare sul fronte internazionale che esiste un Putin che vorrebbe far dimenticare le critiche sul mancato rispetto dei diritti umani da parte della Russia
giovedì 19 dicembre 2013
Russia: attivisti Greenpeace e Pussy Riot si all’amnistia
La Duma russa ha approvato in via definitiva il progetto di amnistia presentato dal presidente Vladimir Putin. Secondo il testo finale, beneficeranno del provvedimento anche le Pussy Riot e gli attivisti di Greenpeace.
Il regalo di Natale di Putin? o meglio un occhio all’occidente in vista delle olimpiadi di Sochi 2014. L'amnistia per crimini sotto i cinque anni e per chi non era già finito in prigione. Così, in una mossa, lo zar del Cremlino mostra il volto buono liberando, se andrà tutto bene, gli attivisti di Greenpeace e le Pussy Riot reclusi nelle carceri russe.
Il testo iniziale del provvedimento legislativo in discussione prevedeva che le persone sotto inchiesta con l'accusa di teppismo o reati di portata analoga potessero essere amnistiati solo dopo una sentenza. Ma l'emendamento votato oggi dalla Duma - e apparentemente pensato proprio per chiudere il contenzioso internazionale innescato dal fermo degli attivisti della nave Arctic30 impegnati in un tentativo di abbordaggio di protesta contro una piattaforma artica del colosso russo degli idrocarburi Gazprom - modifica il quadro. La legge dovrebbe essere approvata definitivamente oggi anche in seconda lettura.
Putin non è dispiaciuto per il fatto che le Pussy Riot sono in carcere ma per il fatto che abbiano ''oltrepassato una linea di guardia nel tentativo di scandalizzare umiliando la dignità femminile'': così ha risposto ad una domanda nell'annuale maxi conferenza stampa a Mosca.
La misura, in cui dovrebbero rientrare le Pussy Riot e gli attivisti di Greenpeace, viene criticata dalle opposizioni, che la bollano come una pura operazione di immagine.
“Serve a poter dire, alla vigilia delle Olimpiadi, che in Russia non ci sono prigionieri politici”, ha commentato un parlamentare dell’opposizione.
Il testo, che si applica anche alle due musiciste in carcere per oltraggio alla religione, concede l’amnistia ai condannati per reati che prevedono meno di 5 anni di reclusione e per gli imputati di reati minori ancora in attesa di giudizio.
Non sono esclusi i reati di “teppismo”, e per questo ne potranno beneficiare anche i 30 attivisti di Greenpeace, in carcere dopo aver simbolicamente attaccato una piattaforma petrolifera nel Mare Artico.
Resterà in carcere nonostante il provvedimento di clemenza l’ex ministro della Difesa Serdyukov. Non rientrano nell’amnistia infatti i reati di corruzione.
domenica 15 dicembre 2013
Spazio dicembre 2013 la Cina sbarca sulla Luna
La sonda spaziale Chang'e-3 si è posata sulla Luna, facendo così diventare la Cina la terza nazione a riuscire nell'allunaggio, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica.
La Cina è sbarcata sulla Luna a 37 anni dall'ultima missione sovietica Dopo 12 giorni dal lancio, la sonda cinese Yutu è infatti atterrata oggi sul suolo lunare, trasportata dalla navicella Change-3. Le immagini sono state trasmesse dalla tv di Stato per quello che è in assoluto il terzo allunaggio morbido dal 1976 compiuto da un paese, dopo Russia e Stati Uniti. Il nome della sonda Yutu è stato scelto con un sondaggio online da 3,4 milioni di persone: significa coniglio di Giada, piccolo cucciolo di una dea della mitologia cinese. L'allunaggio rappresenta l'ultimo passo dell'ambizioso programma spaziale di Pechino che assicura di voler «condividere i traguardi della sua esplorazione lunare con il mondo e usarli per il bene dell'umanità» riporta l'agenzia di stato Xinhua.
L'arrivo della sonda cinese Chang'e 3 sulla Luna rompe infatti 37 anni di silenzio. Era infatti dal 1976 che un veicolo spaziale non si posava sulla superficie lunare e finora a raggiungere questo obiettivo erano stati solo Unione Sovietica e Stati Uniti. La Cina entra in scena con una sonda e un piccolo rover senza pilota che per tre mesi esplorerà il suolo lunare. È il banco di prova di una missione molto più ambiziosa, che punta a inviare uomini sulla Luna, come avevano fatto gli Usa fra il 1969 e il 1972.
Dopo tanti anni nei quali sembrava dimenticata, la Luna torna così ad essere un obiettivo interessante come lo era stato alla fine degli anni '50, per quasi 18 anni; oggi interessa soprattutto nuove potenze economiche che si affacciano allo spazio, come Cina e India.
La corsa alla Luna era cominciata nel 1958, anno successivo al lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik. Dopo quattro tentativi falliti e un successo parziale, nel settembre 1959 la sonda sovietica Luna 2 è stata il primo veicolo a posarsi sul suolo lunare. Un successo ripetuto un mese più tardi, con la missione Luna 3 e seguita da molti fallimenti. In piena corsa allo spazio, la Luna era un obiettivo irrinunciabile anche per gli Stati Uniti, che nel 1958 lanciarono le sonde Pioneer, seguite dalle Ranger, collezionando una lunga serie di insuccessi. Solo fra il 1964 e il 1965 le missioni Ranger cominciarono a inviare a Terra le prime foto della Luna vista da vicino, prima di impattare contro il suolo lunare.
La metà degli anni '60 segnò una svolta positiva anche per l'Urss, che nel gennaio 1966 portò il Luna 9 a compiere il primo atterraggio morbido sulla Luna. Lo stesso obiettivo venne raggiunto dagli Usa nel maggio dello stesso anno, con il Surveyor 1, primo della una lunga serie di successi che ha aperto la strada allo storico allunaggio dell'Apollo 11, la missione che il 20 luglio 1969 ha portato i primi uomini sulla Luna. Nelle cinque missioni Apollo che l'hanno seguita, 12 uomini hanno camminato sul suolo lunare e sono stati riportati a Terra numerosi campioni del suolo lunare, studiati in tutto il mondo ancora oggi.
Il fiore all'occhiello del programma sovietico restarono invece le missioni Luna 16, che nel 1970 riportò a Terra i primi campioni di suolo lunare, e Luna 17, che rilasciò il rover Lunokhod 1 sul suolo lunare. Il 9 agosto 1976 la missione sovietica Luna 24 chiudeva la storia degli allunaggi.
La Cina ammorbidisce la politica sul figlio unico e abolisce i campi di lavoro
La svolta sulla politica demografica arriva dalla riunione del comitato centrale del Partito comunista. Se uno dei genitori è figlio unico, potrà avere un secondo figlio. Ma non è l'unica novità sul fronte dei diritti umani.
In questi campi venivano destinati “capitalisti”, “controrivoluzionari”, persone considerate una minaccia per la sicurezza nazionale o semplicemente ritenute non produttive per un periodo anche fino a tre anni e, in alcuni casi, senza aver commesso crimini specifici. I detenuti venivano fatti lavorare in campagna o nelle fabbriche.
Ma non è l'unica novità che arriva dal Partito comunista. Secondo l’agenzia Nuova Cina, saranno ridotti gradualmente i crimini soggetti alla pena di morte. Verranno anche migliorate le leggi che regolano il sistema carcerario e il Paese si impegnerà a vietare l’estorsione di confessioni con la tortura e i maltrattamenti fisici.
Maggiori garanzie arriveranno anche nella difesa legale dei cittadini, che vedrà gli avvocati giocare un ruolo importante nella tutela di diritti e interessi dei privati e delle società nel rispetto della legge.
Ammorbidita la politica demografica del figlio unico. Contrariamente alle aspettative, dalla riunione del comitato centrale del Partito, arrivano anche passi in avanti sul fronte della pluridecennale politica demografica del figlio unico, che obbliga le famiglie ad avere un solo figlio. Non verrà abbandonata ma sarà "ammorbidita" per promuovere “uno sviluppo equilibrato a lungo temine della popolazione in Cina”.
La novità consiste nella possibilità, se uno dei genitori è figlio unico, di avere un secondo figlio. Prima d'ora, solo se entrambi i genitori erano figli unici, la coppia poteva avere due figli.
Anche sul piano economico, si ammorbidisce la linea del Partito. Innanzitutto, con la promessa di un allentamento di alcune barriere poste ai competitor privati nei mercati controllati dalle compagnie di Stato. Resta fermo, però, il ruolo dell'industria di Stato come cuore dell'economia cinese.
Tra le novità all'orizzonte, anche la creazione di banche di proprietà privata e un freno ai limiti posti agli investimenti stranieri in alcuni settori come l'e-commerce.
La riforma fa parte del pacchetto di innovazioni approvate dal terzo plenum del comitato centrale del Partito comunista cinese, che si è svolto a Pechino dal 9 al 12 novembre. Alla fine del congresso dei dirigenti del Partito comunista cinese è stato annunciato un piano decennale di riforme economiche e sociali. Tra le riforme approvate c’è anche l’abolizione dei campi di lavoro.
La concorrenza e il mercato avranno un “ruolo decisivo” nel futuro del paese e il sistema giudiziario sarà più indipendente, assicurano i mezzi d’informazione locali che riportano le misure stabilite dal plenum.
Gli obiettivi del partito. Il testo del comunicato diffuso alla fine della riunione, il 12 novembre, riporta a grandi linee le scelte politiche del partito, ma è piuttosto vago sui particolari. L’unica decisione concreta è l’istituzione di due nuovi enti: uno avrà il ruolo di attuare le riforme e l’altro di garantire la sicurezza del paese.
Al terzo plenum hanno partecipato 204 funzionari del comitato centrale del Partito comunista e 169 sostituti. Il plenum è stato il primo sotto la direzione del presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang. “Il tono del comunicato finale è coraggioso in termini di riforme economiche e conservatore sul fronte politico-istituzionale”, scrive il South China Morning Post. Non si prevede nessuna riforma democratica in senso occidentale, mentre l’annuncio di una maggiore indipendenza del sistema giudiziario e di un rafforzamento delle misure contro la corruzione sembra orientato a legittimare la permanenza al potere del Partito comunista.
sabato 14 dicembre 2013
Bild online: “la Russia ha schierato missili atomici al confine con Ue”
Secondo "fonti di sicurezza" citate dal quotidiano tedesco, Mosca ha installato diverse batterie di vettori a corto raggio Iskander-M per testate nucleari. Finora Mosca ha sempre smentito di aver piazzato questi missili nella sua enclave europea e non ha mai confermato neppure le indiscrezioni dei mesi scorsi di Iskander nell'alleata Armenia. Ma nel suo discorso alla nazione Putin ha denunciato che lo scudo anti missile è «difensivo solo a parole».
Tornano venti di guerra fredda in Russia e dintorni, in modo preciso per colpire l’Ucraina, viste le manifestazioni anti-presidenziali.
La Russia avrebbe installato batterie di missili a breve gittata ai confini con paesi aderenti all'Ue, in risposta al progetto europeo di scudo missilistico, scrive il giornale tedesco Bild, citando «fonti della sicurezza». Secondo il quotidiano le immagini satellitari mostrerebbero un «numero a due cifre» di batterie di missili Iskander-M, o Ss 26, dispiegate negli ultimi 12 mesi nell'enclave russa di Kaliningrad e lungo la frontiera con i Paesi baltici.
Secondo la Bild, Putin avrebbe dato seguito alla minaccia e risposto allo scudo antimissile europeo stanziando diversi missili vicino al confine polacco nell'enclave russa di Kaliningrad. Immagini segrete di satelliti mostrano la presenza di questi missili sia a Kaliningrad che lungo il confine russo col Baltico (Estonia, Lettonia e Lituania).
Mosca avrebbe in questo modo messo in atto quanto già minacciato più volte dopo il progetto di scudo antimissile adottato dalla Nato e basato sulla tecnologia statunitense. Lo scudo è da anni il principale pomo della discordia fra Nato e Russia: l'Alleanza sostiene che l'obbiettivo è quello di proteggere i Paesi membri da attacchi missilistici provenienti da Paesi come Iran o Corea del Nord, mentre Mosca lo considera una minaccia alla propria sicurezza.
Non è forse un caso che la notizia arrivi a in contiguità delle tensione Ue-Russia per l'Ucraina in marcia verso un accordo di libero scambio con l'Ue per cui si batte una piazza che sfida le azioni antisommossa della polizia e le resistenze del presidente filorusso Yanucovich. Oggi Sergei Lavrov, ministro degli Esteri di Mosca, grande regista dell'operazione che ha stoppato la minaccia di missili americani sulla Siria, dice che le proteste in Ucraina sono state sproporzionate e definisce "vergognosa" la reazione europea di fronte ad un "fatto totalmente normale" come la decisione di Kiev di non firmare l'accordo di associazione con l'Ue. Il presidente Yanucovich, intanto, solleva Oleksandr Popov, il sindaco di Kiev, per gli scontri in piazza.
L'Unione doganale fra Russia, Bielorussia e Kazakhstan, zoccolo duro della futura Unione euroasiatica perseguita da Putin, discute intanto la creazione di una zona di libero scambio con Vietnam, Nuova Zelanda e Paesi dell'Europa occidentale che non fanno parte della Ue, in particolare Svizzera e Norvegia, dice Lavrov, in una intervista alla tv statale Rossia 24. Il capo della diplomazia russa ha auspicato anche negoziati per un accordo di libero scambio tra l'Unione doganale e l'Asean, l'associazione dei Paesi del sud-est asiatico. Una offensiva commerciale che sembra fare concorrenza alla Ue, con cui Mosca si sta disputando l'Ucraina.
Ricordiamo che i rapporti Ue-Russia, assieme a Unione bancaria e promozione dei prodotti agricoli europei, sicurezza e difesa comune sono alcuni dei temi nell'agenda del Consiglio per la prossima settimana a Bruxelles.
I vettori hanno una gittata di 500 chilometri, una misura sufficiente per colpire alle porte di Berlino. Le stesse fonti di sicurezza riportano che l’installazione dei missili è avvenuta negli ultimi 12 mesi. Il quotidiano tedesco ricollega la decisione della Russia al progetto di scudo anti-missile in Europa.
Vladimir Putin lo aveva detto chiaro e tondo nel suo discorso alla nazione di qualche giorno fa: «Non aspiriamo allo status di superpotenza come pretesto egemonico» ma «nessuno dovrebbe illudersi sulla possibilità di ottenere una superiorità militare sulla Russia, risponderemo a ogni sfida, politicamente e tecnologicamente».
Lo scorso aprile Obama aveva inviato a Putin un pacchetto di proposte all'insegna del 'reset', suggerendo un accordo giuridicamente vincolante per garantire la trasparenza sullo scudo, oltre ad un ulteriore passo nel disarmo nucleare. Una apertura ritenuta non sufficiente da Mosca, che ha sempre proposto uno scudo comune o la rinuncia ad un progetto contro una minaccia ritenuta inesistente.
domenica 8 dicembre 2013
Stop rassegne stampa 'Violato diritto autore'. Fieg: 'Azione legale per violazione diritto d'autore'
Cinquantotto imprese editoriali, che rappresentano oltre 430 testate giornalistiche, hanno avviato un'azione legale nei confronti delle società Eco della Stampa e Data Stampa, attive nella costituzione di rassegne stampa, per violazione del diritto d'autore, con l'assistenza dello Studio Legale DLA Piper. Lo annuncia la Fieg in una nota.
"La tutela della libertà di stampa - si legge nella nota della Federazione degli editori - non può prescindere dalla protezione del prodotto editoriale di qualità e di tutte le risorse - economiche, umane e tecniche - indispensabili per la sua realizzazione e per la sopravvivenza di una informazione libera e credibile: rafforzare l'effettività della tutela del diritto d'autore significa rafforzare le imprese stesse, la loro economicità e la loro capacità di sviluppare e sperimentare nuove forme di comunicazione multimediale. E' con questo obiettivo che cinquantotto imprese editoriali, che rappresentano oltre 430 testate giornalistiche, avviano un'azione legale nei confronti delle società Eco della Stampa e Data Stampa, attive nella costituzione di rassegne stampa, per violazione del diritto d'autore, con l'assistenza dello Studio Legale DLA Piper". L'iniziativa, ricorda la nota, "è stata intrapresa dopo tre anni di trattative, avviate con l'apertura di un tavolo di consultazione in Fieg nel novembre 2010, e dopo un anno e mezzo dalla costituzione del Repertorio Promopress e si è resa necessaria a fronte del rifiuto delle suddette società di riconoscere un principio fondamentale, sancito dalla legge e unanimemente riconosciuto in giurisprudenza: la tutela del diritto d'autore spettante agli editori per l'utilizzo e la commercializzazione dei contenuti editoriali da parte di soggetti terzi. Gli Editori aderenti al Repertorio Promopress chiedono per le due società convenute in giudizio l'immediata inibizione alla prosecuzione delle attività e la condanna al risarcimento del danno, anche per il pregresso". "La tutela dei diritti d'autore degli editori sugli articoli dei giornali - commenta l'avv. Roberto Valenti, partner dello Studio DLA Piper - è stata a più riprese affermata dalla giurisprudenza di merito e confermata dalla Suprema Corte. L'interesse dell'editore che ha reso possibile, attraverso i suoi investimenti, la realizzazione del giornale deve prevalere sull'interesse del compilatore della rassegna che, a costo zero, con la riproduzione e comunicazione degli articoli, realizza profitti.
Tanto più oggi che i costitutori di rassegne stampa hanno la possibilità di acquisire lecitamente gli articoli aderendo al Repertorio Promopress". Fin dal 1 luglio 2012 è, infatti, disponibile anche in Italia un modello di licenza per la lecita riproduzione ed utilizzazione degli articoli di giornale, analogo ai sistemi da tempo operanti a livello europeo ed internazionale e tutti rappresentati nel consorzio mondiale del PDLN (Press Database Licensing Network): su mandato degli editori titolari dei relativi diritti di utilizzazione economica, il Repertorio prevede un modello semplificato per la gestione dei diritti d'autore in rassegne stampa, mediante pagamento di un corrispettivo per le licenze d'uso dei contenuti editoriali (www.repertoriopromopress.it). Il Repertorio Promopress è una realtà consolidata e in rapida espansione, riconosciuta a livello internazionale: le testate quotidiane che, ad oggi, vi hanno aderito rappresentano oltre il 96% del mercato di riferimento (dati ADS), i periodici coprono di fatto l'intero panorama dei giornali d'opinione e d'attualità e delle principali fonti utilizzate nelle rassegne stampa. Le società di rassegne stampa che, accettando un percorso condiviso di legalità per il prosieguo della loro attività, hanno firmato l'accordo sono 12 e sono triplicate rispetto alla data di avvio dell'iniziativa: 109 Press S.r.l., Buon Vento S.r.l., Dailyou (SimplyBiz S.r.l.), Infojuice (Euregio S.r.l.), Intermedia Service Soc. Coop., Mimesi Srl (DBInformation S.p.A.), Novaetica Soc. Coop.va, Pressline (Kikloi S.r.l.), PressToday (PressToday S.r.l.), Selpress Media Monitoring & Newsbank s.r.l., Telpress Italia S.p.A. e VoloPress (Volocom S.r.l.).
Partenariato orientale: l'Unione europea non deve cedere l’est
Mentre ci sono 200mila manifestanti pro-Ue nel centro di Kiev. Dopo il voltafaccia dell’Ucraina sull’accordo di associazione, al vertice di Vilnius l’Europa dovrà confermare la fiducia degli altri paesi e mandare un chiaro segnale a Moldavia e Georgia.
Quando è stata l’ultima volta che dei manifestanti hanno sventolato con tanto entusiasmo la bandiera dell’Unione europea? Negli anni cinquanta, alla frontiera franco-tedesca? Nel 1989 nelle cosiddette rivoluzioni “di velluto” da Bucarest a Tallinn? Ecco che oggi nelle manifestazioni in Ucraina e da qualche settimana anche in Moldavia si torna a sventolarla. Lì l’“Europa” è ancora sinonimo di speranza. O, per meglio dire, è sinonimo prima di tutto di benessere, poi di sicurezza e infine di libertà. Tre cose che tutti gli esseri umani hanno a cuore.
Se le manifestazioni in Moldavia sono all’insegna della fiducia, quelle in Ucraina sono piene di tristezza e rancore. Venerdì, in occasione di un summit in Lituania – il paese che ricopre attualmente la presidenza a rotazione dell’Unione – l’Ue farà un bilancio di un progetto la cui denominazione ha sintetizzato finora più promesse che azioni concrete: il partenariato orientale. Il programma avrebbe dovuto avvicinare all’Ue i paesi dell’Europa orientale, ma la Russia ha immediatamente opposto un secco niet. Tra le repubbliche caucasiche, l’Azerbaijan, paese ricco di risorse naturali ma amministrato da un governo autoritario, ha preso le distanze dal progetto, imitato dall’Armenia – che dipende dalla Russia – e dalla Bielorussia che è sotto il giogo di una dittatura.
L’Ue ha negoziato accordi di associazione con i tre paesi restanti, Ucraina, Georgia e Moldavia. Si tratta di patti ambiziosi, che prevedono un’armonizzazione giuridica (le legislazioni dei tre paesi dovrebbero avvicinarsi a quella europea) a cui si aggiungono il consolidamento della democrazia e dell’economia di mercato, l’espansione del libero scambio e la riduzione dei diritti doganali. Come è possibile dire no a un simile progetto? Facile: una volta di più, si è potuto verificare quanto sia vero un vecchio detto popolare secondo il quale nessuno può vivere in pace se ciò dà fastidio al suo vicino.
Benessere, sicurezza e libertà nei paesi vicini: ecco quello che può dare seriamente fastidio alla Russia di Putin Benessere, sicurezza e libertà nei paesi vicini: ecco quello che può dare seriamente fastidio alla Russia di Putin. Secondo un proverbio russo quando due contadini vivono vicini e uno possiede una mucca e l’altro no, il più povero desidera soltanto che la mucca dell’altro muoia. La Russia vuole impedire che ai suoi confini si affermino modelli di società e di stato diversi e contrastanti, ossia – orribile a dirsi – una società civile consapevole della sua forza. In occasione di due incontri a poca distanza l’uno dall’altro, Putin ha utilizzato la carota e il bastone con il presidente ucraino Viktor Janukovyč. L’Unione europea è nei pasticci: giovedì scorso l’Ucraina – il più esteso dei paesi europei – ha fatto un passo indietro, recedendo dall’accordo di associazione con l’Ue.
Potrà sembrare paradossale, ma nei mesi a venire l’Ue dovrà dimostrarsi capace di definire una politica con i suoi vicini orientali di Moldavia e Georgia. Dovremmo quindi rivedere al ribasso le nostre ambizioni? I due paesi intendono firmare il loro accordo di associazione con l’Ue a Vilnius, ultima tappa prima della ratifica finale. Mai prima d’ora i politici europei avevano giocato un ruolo così determinante nella formazione di un governo filoeuropeo come in Moldavia. Ma tra sei mesi ci saranno le elezioni europee, seguite dopo altri sei mesi da quelle in Moldavia. Se l’Ue dovesse interrompere i suoi sforzi e non dare alla Moldavia un segnale forte, per esempio sotto forma di un’esenzione dai visti, i comunisti potrebbero benissimo uscire vittoriosi dalla consultazione elettorale.
I due paesi sono afflitti da conflitti “congelati”: la Georgia perché le truppe russe occupano un terzo del suo territorio, la Moldavia perché i separatisti filorussi hanno dato vita a uno stato nello stato in Transnistria. Ma ciò non deve ostacolare il corso della storia: è ovviamente possibile stabilizzare i due paesi e avvicinarli all’Ue. In ballo oggi non c’è la questione dell’adesione, ma le relazioni commerciali. Ciò che più conta è ciò che è importante e realistico fare. Quasi ci siamo dimenticati di Cipro, uno stato membro dell’Ue spaccato in due per una divisione temporanea diventata permanente.
L’altra possibilità è veder comparire un nuovo impero intorno alla Russia, un impero che avrebbe caratteristiche del tutto diverse rispetto a quello dell’Unione sovietica. All’epoca, per obbligarle a stare tranquille, Mosca dovette garantire alle repubbliche alla periferia dell’Ue un livello di vita migliore di quello dei suoi stessi cittadini. Questa volta le cose potrebbero andare in maniera completamente diversa: i nuovi satelliti formerebbero una zona destrutturata, instabile e povera, dalla quale partirebbero milioni di lavoratori clandestini in tutto il mondo per costruire i nuovi grattacieli di uffici da Madrid a Mosca. E, prima o poi, le donne rimaste a casa finirebbero per disfarsi delle vecchie e sbiadite bandiere europee.
“Siamo sinceri: ad aver tirato troppo la corda geopolitica non è soltanto Mosca, ma anche un programma come il partenariato orientale”, afferma la ricercatrice belga Ria Laenen su De Standaard. Ritornando sull’elezione di Giorgi Margvelashvili a presidente della Georgia nell’ottobre scorso, Laenen scrive che “una cosa è sicura: il cammino inesorabilmente filo-europeo della Georgia come lo abbiamo conosciuto sotto Mikhail Saakashvili si avvia a conclusione”, ma non si tratta necessariamente di una cosa negativa:
Invece di focalizzarci sulla crescente sicurezza con cui la Russia cerca di mantenere o ricondurre i paesi euroasiatici sotto la sua sfera di influenza, occorre soprattutto che ci rendiamo conto che è arrivato il momento di ridefinire il messaggio che l’Ue invia a questi paesi. Dobbiamo forse costringerli a scegliere tra Mosca e Bruxelles? Con questa elezione, la popolazione georgiana ha fatto capire chiaramente che auspica una normalizzazione delle relazioni con la Russia, il suo grande vicino. Il primo passo da fare è ammettere che l’Ue ha anche interessi geopolitici, o meglio ancora interessi geo-economici in questi paesi. Prima di tutto perché sono produttori di gas e di petrolio – come l’Azerbaijan e la Georgia – e poi perché rivestono un ruolo cruciale come paesi di transito degli oleodotti.
Circa 200 mila manifestanti pro-europei si sono già riuniti nel centro di Kiev, in Ucraina, per chiedere le dimissioni del presidente Ianukovich in seguito al suo voltafaccia sull'accordo di associazione con la Ue a favore della Russia. La piazza dell'Indipendenza, nota anche con il nome di Maidan, cuore della Rivoluzione arancione nel 2004 che portò al potere i filo-occidentali, é già colma di persone e i manifestanti continuano ad affluire.
Moltissime le bandiere ucraine in piazza, ma ci sono anche bandiere dell'Ue e dei partiti dell'opposizione. Il grande albero di Natale montato in piazza è stato riempito di vessilli dell'opposizione e striscioni con slogan contro il governo, tra cui anche una gigantografia con il volto dell'ex premier in carcere Iulia Timoshenko. La maggior parte dei manifestanti viene dall'Ucraina centrale e da quella occidentale, culturalmente e linguisticamente meno vicine alla Russia. Una contro-protesta è stata organizzata a parco Mariinskij dal partito delle Regioni del presidente Viktor Ianukovich e vi stanno partecipando alcune migliaia di persone, 15.000 secondo gli organizzatori: un numero comunque molto inferiore a quello degli 'europeisti' presenti in piazza Maidan.
Alcuni manifestanti pro-Ue hanno abbattuto una statua di Lenin a Kiev. Lo fa sapere la polizia ucraina, citata dall'agenzia Interfax
La leader dell'opposizione ucraina in carcere, Iulia Timoshenko, ha chiesto le dimissioni "immediate" del presidente Viktor Ianukovich in un messaggio letto dalla figlia Ievghenia in piazza Maidan, dove stanno manifestando centinaia di migliaia di 'europeisti'. Non appena la giovane ha finito di leggere la lettera, i dimostranti hanno urlato in coro "Dimissioni! Dimissioni!".
sabato 7 dicembre 2013
Mabida è morto. L'Africa e il mondo piangono Mandela
Una settimana di celebrazioni, sarà inumato il 15 a Qunu. Papa: esempio per la dignità umana. Napolitano: ha avuto ragione sulle barbarie.
Nelson Mandela, nasce a Mvezo nel Transkei, regione del Sudafrica, nel 1918. Studia legge all’University College di Fort Hare e presso l’università di Witwatersrand. Nella metà degli anni ’40 si unisce all’African National Congress (ANC) e, con la vittoria del Partito nazionale alle Elezioni del 1948, partecipa attivamente a campagne di resistenza contro la politica di apartheid e segregazione razziale messa in atto dal nuovo regime.
Mandela fonda uno studio legale per dare assistenza a basso prezzo o gratuita ai neri e diventa il centro della dissidenza e della lotta alla discriminazione razziale sempre maggiore nel Paese.
Nel 1961 diventa comandante dell’ala armata dell’ANC l’Umkhonto we Sizwe e l’anno successivo viene arrestato e condannato a cinque anni di lavori forzati per incitamento alla dissidenza e viaggi all’estero non autorizzati.
Nel 1963 anche altri leader dell’ANC vengono arrestati e condannati al carcere a vita per azioni violente e tradimento verso la patria. Dalle varie carceri in cui è stato trasferito Mandela continua la sua battaglia contro la segregazione etnica messa in atto dai ministri boeri.
Resta in prigione fino al 1990 e diventa il più importante leader nero della lotta contro l’apartheid. La sua scarcerazione avviene dopo un suo rifiuto della libertà in cambio di una rinuncia all’opposizione e solo grazie alla pressione della comunità internazionale e dell’ANC.
Appena scarcerato diventa presidente dell’ANC e comincia a girare il mondo, accolto ovunque come un eroe, come il simbolo vivente della lotta dei neri sudafricani contro l’apartheid.
Mandela, come leader del partito di opposizione, comincia un dialogo con il presidente Frederik De Klerk, per fare in modo che il Sudafrica raggiunga definitivamente la pace. Trova in De Klerk un interlocutore capace di ascoltare le proteste dei neri e di trovare il coraggio di voltare pagina.
Nel 1993 i due leader sudafricani, vengono insigniti del premio Nobel per la Pace.
Il 1994 è un anno storico, perché Nelson Mandela si candida alle elezioni presidenziali. È una campagna elettorale che sembra scontata e Mandela viene eletto Presidente del Sudafrica, il primo presidente nero del Paese, seguendo e presiedendo tutta la fase transitoria che porta il regime fondato sull’apartheid verso una democrazia, costituendo anche un tribunale speciale, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione.
Il discorso d’insediamento tenuto a Pretoria, davanti agli occhi e alle orecchie di molti leader mondiali, è una sintesi del pensiero di Mandela, il raggiungimento di un obiettivo che non tocca solo il Sudafrica o l’Africa, ma tutto il mondo. La libertà ottenuta da lui e dai neri, ma soprattutto ciò che all’epoca era ancora da costruire pienamente: la democrazia e l’uguaglianza nel Paese.
Nel 1999 lascia la carica di Presidente, mantenendo attivo il suo impegno nel sostegno dei diritti dell’uomo. Ottiene onorificenze in moltissimi Paesi del mondo e partecipa alla vita pubblica fino all’età di 85 anni.
Un brivido di emozione attraversa il mondo dalla notte scorsa e il nome e i ritratti di Nelson Mandela, evocato dai milioni di persone che lo piangono, sono ovunque. Il simbolo della resistenza antiapartheid, divenuto icona della lotta per tutte le libertà, da vivo e da morto ha toccato le corde profonde non solo del cordoglio, ma del rispetto. Politici, rockstar, sportivi, militanti, hanno voluto esserci nel giorno del lutto per affidare a tv, giornali e web messaggi e ricordi e si preparano ad affollare lo stadio di Johannesburg dove il 10 dicembre Madiba sarà ricordato con una commemorazione nazionale solenne.
Il presidente americano Barack Obama, la regina Elisabetta, il Dalai Lama, il leader degli U2 Bono Vox, Naomi Campbell, leader europei e asiatici, l'intera Africa daranno a Mandela un saluto che raramente è così unanimemente vero. Poi il 15 dicembre la sepoltura a Qunu, il villaggio natale amato e dove, da sempre ha detto di voler riposare. La sua abitazione diverrà un mausoleo. Nell'attesa il Sudafrica versa lacrime per un leader che i più sentono come "un padre". Ma offre anche uno spettacolo di canti e balli fra la folla che si e' raccolta dinanzi alla casa di Johannesburg dell'ex presidente per salutare non senza un sorriso colui che per molti e' stato negli ultimi anni un sorridente eroe della libertà. Il mondo intanto s'inchina.
Mandela è "un esempio di generoso impegno in favore dei diritti e delle ragioni dell' integrazione": valori "ai quali si ispira l'azione che il Governo italiano intende perseguire con forza e determinazione". Il lutto è di tutti. Neri, bianchi, coloured si sono radunati non solo sotto la sua casa, ma in tutte le città e i villaggi del Paese per vegliare il ricordo dell'uomo che ha dato loro la possibilità di farlo. Di stare insieme in una veglia funebre. Perfino le autorità di Orania, piccola enclave nel centro del Sud Africa, dove sono raggruppati circa un migliaio di 'bianchi' nostalgici dell'apartheid, hanno reso omaggio a Mandela, "perché abbiamo diviso con lui la visione di un riconoscimento reciproco, piuttosto che la negazione delle nostre differenze".
Il Sudafrica non ha risolto problemi economici e ineguaglianze sociali, ma ora la gente può piangere insieme la morte di un simbolo. E' questa la grande vittoria di Mandela. Sono a mezz'asta le bandiere delle istituzioni europee, che ricordano quando, nel 1988, fu insignito del premio Sakharov dell'Europarlamento per la libertà di pensiero e che potè ritirare solo dopo la liberazione. Sono a mezz'asta anche le bandiere dell'America, del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, di decine di Paesi del pianeta in un abbraccio che è un riconoscimento difficile da replicare. La Torre Eiffel è stata illuminata con i colori del Sudafrica. Ciascuno ha voluto che questo giorno di lutto fosse intenso. Gli attori che hanno interpretato Nelson Mandela sul grande schermo ricordano l'ex leader sudafricano. "Sono sbalordito, come il resto del mondo", ha affermato Elba, protagonista del film 'Mandela: The Long Walk to Freedom'.
La commemorazione del 10, tenuta dal presidente Jacob Zuma, sarà ritrasmessa in tutto il Paese attraverso maxi schermi. Poi la salma sarà esposta dall'11 al 13 di dicembre, alla Union Buildings, sede del governo di Pretoria. L'afflusso, si prevede, sarà immenso. Diverso da quello che lui avrebbe voluto: una cerimonia funebre semplice, per i familiari e gli amici come aveva chiesto 20 anni fa.
mercoledì 27 novembre 2013
Nucleare Iran accordo tra le potenze del 5+1
"L'accordo raggiunto a Ginevra sarà un aiuto per salvaguardare la pace e la stabilità in Medioriente". E' il commento sull'intesa nucleare tra il gruppo 5+1 e l'Iran del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. "Apprezziamo il raggiungimento di un accordo e la flessibilità e il pragmatismo di quanti lo hanno reso possibile", ha aggiunto il ministro.
In base ai termini dell'accordo di Ginevra, l'Iran si è impegnato a interrompere l'arricchimento dell'uranio sopra il 5%, a non aggiungere altre centrifughe e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito a quasi il 20%, mentre le maggiori potenze non imporranno per i prossimi sei mesi sanzioni a Teheran. Lo rende noto la Casa Bianca.
''Questo accordo è un primo importante passo e apre il tempo e lo spazio per andare avanti con nuovi negoziati e raggiungere entro sei mesi un accordo generale''. Lo ha detto il presidente americano Barack Obama commentando a caldo lo storico accordo raggiunto a Ginevra tra il gruppo 5+1 e l'Iran. Il presidente americano Barack Obama ha chiesto ufficialmente, in diretta tv, al Congresso di non imporre nuove sanzioni contro Teheran, che ''potrebbero far saltare questa intesa di Ginevra, che e' un primo passo promettente''.
L'accordo di Ginevra e' "un primo passo che rende il mondo più sicuro. Ora c'e' ancora da lavorare". E' il primo commento su Twitter del segretario di Stato americano John Kerry all'accordo raggiunto a Ginevra.
L'accordo raggiunto a Ginevra con l'Iran rappresenta "un errore storico". "Il mondo e' oggi piu' pericoloso". Lo ha affermato, secondo Haaretz, il premier israeliano Benyamin Netanyahu, aprendo la seduta settimanale del consiglio dei ministri.
Il presidente russo Vladimir Putin ha definito l'accordo di Ginevra sul nucleare iraniano, "un'apertura", "un primo passo in un cammino lungo e difficile". Nel comunicato del Cremlino si aggiunge che i negoziati hanno consentito di avvicinarsi alla soluzione di uno dei problemi "più difficili della politica mondiale". Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si è complimentato per l'accordo siglato a Ginevra sul nucleare in Iran."Non ci sono perdenti, tutto il mondo ci guadagna", ha dichiarato Lavrov.
Iulia Timoshenko compleanno in sciopero della fame
La leader dell'opposizione ucraina compie 53 anni all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata in stato di detenzione da maggio 2012.
Iulia Timoshenko compie oggi 53 anni e lo fa in sciopero della fame all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata in stato di detenzione dal maggio dell'anno scorso per curare un'ernia del disco. Alla leader dell'opposizione ucraina dal controverso passato di 'principessa del gas' è stato regalato un mazzo di rose bianche dalla figlia Ievghenia e dal suo avvocato, Serghei Vlasenko. Secondo un comunicato del partito 'Patria', di cui Timoshenko è leader, alcuni sostenitori dell'ex premier si sarebbero riuniti vicino all'ospedale per cantare alla loro beniamina una canzone di buon compleanno. Timoshenko ha annunciato uno sciopero della fame lunedì scorso in solidarietà con i manifestanti pro-Ue che sono scesi in piazza in questi giorni contro la decisione del governo di Kiev di sospendere la firma di un accordo di associazione e libero scambio con l'Ue.
La Timoshenko da due giorni non mangia e beve solo acqua, "ma è molto forte nello spirito, come sempre". Ad affermarlo è la figlia, Ievghenia, che stamattina le ha fatto visita all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata da un anno e mezzo per un'ernia del disco. "E' in sciopero della fame - ha confermato la giovane, citata dall'agenzia Interfax - e da due giorni beve solo acqua. Pensa che gli eventi di piazza Maidan (centro della manifestazione pro-Ue, ndr) siano i più importanti e che lo sciopero della fame sia tutto ciò che può fare per esprimere la sua solidarietà con Maidan".
Tanti fiori e un’icona in dono a Yulia Tymoshenko nel giorno del suo compleanno, e con uno sciopero della fame in corso per chiedere che il suo Paese firmi l’Accordo di associazione con l’Ue. Per l’occasione, riferisce Interfax-Ukraina, all’ex eroina della Rivoluzione arancione è stato permesso di incontrare i suoi avvocati, tre legali, che le hanno consegnato un grande biglietto augurale firmato da un gruppo di sostenitori riunitisi davanti alla clinica di Kharkiv dove si trova Tymoshenko.
La figlia Eugenia ha confermato che l’ex premier continua lo sciopero della fame e “sta bevendo (solo) acqua da due giorni”. Rifiutare il cibo, ha spiegato, è per lei “il solo modo” per unirsi alle proteste di quanti sono scesi in piazza in questi giorni per chiedere che il presidente Viktor Yanukovich firmi l’accordo con l’Ue e si sganci definitivamente dall’orbita russa. Tymoshenko è ricoverata in un ospedale di Kharkiv per un’ernia mentre sconta una pena detentiva di sette anni per abuso di potere. La sua liberazione o il suo trasferimento per cure all’estero figurano tra le condizioni che l’Ue ha posto per la firma dell’Accordo, la cui firma sarebbe dovuta arrivare al vertice di Vilnius al via domani.
venerdì 22 novembre 2013
Jfk 50 anni dopo restano tanti misteri ma una certezza
Il 26 settembre 1960, va in scena il primo duello televisivo fra i candidati alla Casa Bianca. Il senatore democratico John F. Kennedy sfida il vicepresidente in carica Richard Nixon. John Fitzgerald Kennedy è stato il 35 Presidente degli Stati Uniti. Da questo dibattito sospinse Kennedy alla Casa Bianca, che travolse Nixon e trasformò le democrazie occidentali in teledemocrazie.
Kennedy si lancia in una arringa anti comunista e anti sovietica che porta gli echi di quel maccartismo ancora caldo sotto la cenere degli anni ' 50. Per due volte nei primi tre minuti nomina e attacca Nikita Kruscev, che eraa New Yorke pochi giorni dopo, in ottobre, avrebbe offerto lo show della scarpa pestata sui banchi dell' Onu, come l' avversario mortale, quello che stava progettando di "distruggerci".
Prima dell'attacco alle Torri Gemelle del settembre 2001, il fatto che segnava la storia degli Stati Uniti in epoca moderna, quello che veniva individuato un prima e un poi nella coscienza degli statunitensi, era stata l'uccisione di John Fitzgerald Kennedy.
Quel sangue versato a Dallas il 22 novembre del 1963 fece piangere un'intera Nazione e segnò la fine di un'epoca innocente e fiduciosa.
Chi ha ucciso Jfk il 22 novembre del 1963 a Dallas? Un assassino solitario o una squadra di tiratori esperti parte del complotto più inquietante del secolo scorso? La diatriba va avanti orami da 50 anni: poche ore dopo la morte del presidente statunitense le opposte teorie già animavano il dibattito dei contemporanei.
Impossibile affidarsi a una ricostruzione "ufficiale": nel 1964 la Warren Commission, costituita per indagare sul delitto, arrivò a concludere che Kennedy era stato ucciso da un "lone wolf", Lee Harvey Oswald, un ragazzo di 24 anni con un passato nei Marine e una diserzione in Urss, conclusasi con il rientro negli Stati Uniti nell'estate del 1962, accompagnato da una moglie e una figlia, Marina e June.
Ma nel 1976 venne costituito un altro comitato, House Selected Committee on Assassinations (Hsca), per fare luce non solo sul delitto di Jfk e sugli omicidi di Martin Luther King (aprile 1968) e del fratello del presidente, Robert F. Kennedy (giugno '68), ma anche sui tentativi firmati Cia per assassinare leader stranieri considerati nemici, come Patrice Lumumba in Congo e Fidel Castro a Cuba. Il comitato concluse che a Dealey Plaza quel 22 novembre del 1963 erano in azione almeno due tiratori. L'Hsca, nel suo rapporto del 1979, criticò aspramente Fbi, Cia e la stessa Warren Commission per la ''superficialità a tratti inquietante" con cui era stata condotta l'inchiesta.
Sappiamo dalle parole dello storico Michael Benschloss che la sera del 22 novembre Kennedy avrebbe pronunciato parole che suonerebbero attuali ancor oggi: «Il nostro dovere non è solo la conservazione del potere politico, ma la protezione della pace e della libertà. Non litighiamo fra di noi, ma uniamoci con rinnovata fiducia, decisi che questo nostro Paese che amiamo continui a guidare l'umanità verso nuove frontiere di pace e abbondanza».
Il rapporto finale del 1979 è stato tuttavia aspramente criticato dai sostenitori della teoria dell'assassino solitario, che ne hanno evidenziato lacune e contraddizioni. Anche dal fronte dei 'complottisti', che accusa la Warren Commission di essere parte integrante del complotto per uccidere Kennedy, sono partite sonore bordate: la Hsca ha infatti sposato la teoria dei due tiratori senza arrivare a conclusioni chiare, tanto che nel rapporto finale si legge che "la presenza di due killer non comporta necessariamente l'esistenza di un complotto per uccidere il presidente". Nel mondo dei ricercatori soprattutto americani prevale poi una terza teoria, fatta propria da Oliver Stone nel suo "Jfk" del 1991: a Dealey Plaza erano in azione tre squadre, i colpi sparati furono almeno sei.
Nel corso degli anni, la declassificazione dell'enorme documentazione sul caso, sono milioni le pagine top secret rese accessibili al pubblico, ha rivelato sempre maggiori dettagli, che però non hanno consentito di scrivere la parola fine. Da ultimo è emerso che le pallottole sparate a Dallas, del calibro 6.5 come il fucile italiano Carcano che si ritiene sia stato usato quel giorno, erano state prodotte in Usa nel 1954, per "conto della Cia" stimò l'Fbi. Spedite all'estero, secondo il ricercatore Donald B. Thomas per "un golpe progettato in Italia", vennero reintrodotte sul mercato americano dalla ditta di un certo William Sucher. La stessa azienda aveva reimportato in America il revolver Smith&Wesson trovato indosso a Oswald al momento dell'arresto. L'ennesima prova, affermano i 'complottisti', che l'ex Marine aveva legami con i servizi segreti americani e che, come dichiarò lo stesso Oswald, era un "patsy", un capro espiatorio. Una pedina, in mano a chi? Alla Cia, all'Fbi, all'intelligence sovietica, a Castro, o al complesso "militare-industriale" Usa che vedeva in Jfk un nemico? Il mistero resta fitto.
Alcuni libri propongono nuove spiegazioni sullla figura del presidente. Larry Sabato, ad esempio, in "The Kennedy Half Century" spiega come sia stato l'assassinio a plasmare l'immagine di Kennedy nella memoria e nella coscienza del Paese. Robert Dallek torna a visitare la vita alla "Camelot's Court", nella Casa Bianca di John e Jackie. Clint Hill, l'agente della scorta presidenziale che balzò sul retro dell'auto subito dopo il primo sparo, ricostruisce in "Five Days in November" l'infausto viaggio in Texas e i giorni immediatamente seguenti, con un'immagine mai conosciuta prima: Jackie che chiama Hill nel mezzo della notte per farsi accompagnare a pregare sulla tomba del marito al cimitero di Arlington, con il silenzio e il buio che l'avvolgono come un manto di dolore.
mercoledì 20 novembre 2013
Ipotesi di una nuova mappa per gli stati arabi
Un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole.
L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, ha scatenato accesi dibattiti negli Stati Uniti, mentre in Medio Oriente ha fatto nascere congetture su un nuovo piano dell’occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli.
Le rivolte nei paesi arabi hanno modificato gli interessi geostrategici della regione. Ma non sono riuscite a cancellare la lunga rivalità esistente tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
Il punto di forza dei movimenti democratici in Medio Oriente è la loro estraneità agli attenzioni geostrategice regionali. Per la prima volta le rivendicazioni dei manifestanti arabi non riguardano una grande causa sovranazionale: panarabismo, panislamismo, socialismo, sostegno alla causa palestinese, anticolonialismo, antisionismo o antimperialismo. Si tratta di movimenti patriottici, non nazionalisti, radicati in un contesto nazionale, che prendono di mira i leader, ma senza accusarli di essere marionette al servizio delle potenze straniere.
Le grandi linee di frattura geostrategiche non si sono eclissate: sopravvivono nelle menti dei potenti ancora in carica che, quando non si accontentano di lottare per la sopravvivenza (come Muammar Gheddafi in Libia o Ali Abdallah Saleh nello Yemen), interpretano le rivolte alla luce delle conseguenze sulla stabilità della regione. È il caso dell’Arabia Saudita e di Israele, che s’interessa alle manifestazioni arabe quasi esclusivamente in quest’ottica. Per quanto riguarda invece l’occidente, da una parte sembra soddisfatto della democratizzazione in corso, ma in realtà è molto attento alla stabilità della regione, come dimostra la scelta di rimanere in silenzio riguardo alla repressione in Bahrein.
Ci troviamo di fronte a una divisione, sconosciuta nella storia recente: fino a pochi anni fa i movimenti rivoluzionari miravano a favorire una grande potenza o un’ideologia. Per molto tempo il punto di riferimento è stata l’Unione Sovietica, poi l’islamismo, ma anche l’occidente ai tempi delle manifestazioni che hanno fatto cadere il muro di Berlino. Oggi sembrano coesistere due logiche.
Da una parte si vedevano dei siriani che si facevano uccidere pur di manifestare contro il regime di Bashar al Assad, dall’altra dei palestinesi residenti in Siria che, incoraggiati dal regime di Damasco, cercavano di oltrepassare il confine sulle alture del Golan andando incontro alla morte per mano dei soldati israeliani. L’impressione è che questi due gruppi di manifestanti provenissero da due Sirie diverse.
È necessario distinguere tra i paesi dove le poste in gioco geostrategiche sono limitate e quelli dove il rovesciamento del regime può apparire come il preludio a un cambiamento più ampio. Al primo gruppo appartengono paesi come la Tunisia, lo Yemen, la Libia e, paradossalmente, l’Egitto. I primi tre occupano un posto marginale nelle reti di alleanze e nei conflitti mediorientali. Molto probabilmente la Tunisia manterrà una linea filoccidentale e continuerà ad aver bisogno dell’Europa. Il regime di Gheddafi è isolato dal resto del mondo arabo e lo Yemen è importante solo per l’Arabia Saudita.
Il paradosso è l’Egitto, un attore fondamentale nel conflitto israelo-palestinese e il cuore delle tensioni che agitano il mondo arabo. Nonostante ciò, la caduta del regime di Mubarak avrà un impatto molto limitato dal punto di vista geostrategico. In passato l’opinione pubblica egiziana ha duramente criticato l’atteggiamento compiacente di Mubarak nei confronti di Israele e non ha mai appoggiato gli accordi, più o meno segreti, di cooperazione tra Il Cairo e Tel Aviv sulla repressione dei militanti di Hamas, la chiusura della Striscia di Gaza o la vendita di gas a Israele.
Il problema è sapere se di fronte a un’evoluzione simile i futuri governi israeliani, a differenza di quello attuale, saranno pronti a favorire il cambiamento politico. La grande linea di frattura che percorre il mondo arabo, in particolare a est del fiume Giordano, è l’opposizione tra un polo arabo e sunnita, guidato dall’Arabia Saudita, e l’Iran sciita. Da trent’anni Riyadh considera Teheran una minaccia e cerca, con più o meno successo, di sfruttare il nazionalismo arabo e il sunnismo militante per arginare l’ambizione iraniana di diventare la principale potenza regionale.
In questo contesto il movimento democratico in Bahrein (dove la maggioranza sciita della popolazione si è ribellata contro il regime sunnita) è una duplice minaccia per l’Arabia Saudita. È una minaccia interna perché mette in discussione la legittimità della monarchia bahreinita (e, di conseguenza, quella della monarchia dell’Arabia Saudita, dove vive un gruppo consistente di sciiti). Inoltre è una minaccia esterna perché, senza volerlo, mette in pericolo un equilibrio strategico considerato vitale: l’opposizione tra Arabia Saudita e Iran, basata su quella che Riyadh considera la divisione definitiva nel golfo Persico, cioè quella tra sunniti e sciiti. Questo timore è rafforzato dall’evoluzione religiosa degli alawiti siriani (una corrente sciita): considerati alla stregua di “eretici”, gli alawiti sono stati riconosciuti come musulmani solo dagli sciiti, rafforzando agli occhi dei sauditi l’idea che le divisioni strategiche si basino essenzialmente sull’opposizione tra sunniti e sciiti.
Ufficialmente l’Iran non sta sfruttando quest’opposizione perché significherebbe confinarsi in un ghetto. Sostenendo i palestinesi ed Hezbollah, Teheran ha cercato di superare questo conflitto religioso, presentandosi come il campione della causa araba. Negli anni ottanta l’Iran era uscito sconfitto dalla contrapposizione tra sciiti e sunniti. Durante la guerra tra Iran e Iraq, solo le minoranze sciite del mondo arabo avevano sostenuto l’Iran (e nemmeno tutte). Saddam Hussein invece aveva potuto contare su una vasta coalizione fondata sul nazionalismo arabo e sul panislamismo sunnita. Invadendo il Kuwait nel 1990, Saddam Hussein ha mandato in frantumi questa coalizione. Gli iraniani hanno imparato la lezione: per promuovere la loro causa non hanno puntato sulla rivoluzione islamica, ma sull’antiamericanismo militante, il sostegno ai palestinesi e il nuovo atteggiamento di garante degli equilibri del golfo Persico.
Nel luglio del 2006 la guerra in Libano – in cui Hezbollah, sostenuto dall’Iran, è riuscito a tenere testa all’esercito israeliano – ha segnato il culmine di questa politica e Hassan Nasrallah, il leader del partito islamista, è apparso come il nuovo campione della causa araba. Pochi mesi dopo la situazione è cambiata: la condanna a morte di Saddam Hussein è stata percepita come una rivincita degli sciiti, sostenuti dagli iraniani e allo stesso tempo dagli statunitensi. Gli sciiti arabi non possono essere ridotti a una “quinta colonna” iraniana. Iracheni e bahreiniti hanno compreso da tempo il rischio di essere strumentalizzati da Teheran: si sentono prima di tutto iracheni e bahreiniti, e lottano per il diritto a essere riconosciuti come cittadini a tutti gli effetti. Anche loro, però, come Hezbollah, hanno bisogno di essere tutelati dall’Iran perché vivono in un ambiente sunnita ostile.
È soprattutto l’Arabia Saudita ad alimentare la grande narrazione di una lotta tra persiani sciiti e arabi sunniti, sullo sfondo della quale tutti gli arabi sciiti sono visti principalmente come persiani di lingua araba, ma anche come eretici, secondo i canoni del wahabismo (il movimento religioso sunnita al potere in Arabia Saudita). Questo è uno dei pochi punti della politica estera saudita ad avere una giustificazione religiosa. Spiega, inoltre, l’ambivalenza di Riyadh verso i movimenti radicali sunniti, dai taliban afgani ai jihadisti di Fallujah. Da molto tempo ormai la causa palestinese è marginale nell’ottica dei sauditi. Il problema principale è la “minaccia iraniana”. Una questione che potrebbe assumere i contorni di una profezia che si autoavvera: negando agli sciiti del Bahrein il diritto alla piena cittadinanza, l’Arabia Saudita li relega al loro status di “quinta colonna” dell’Iran.
Resta da affrontare la questione della Siria. Il regime siriano è il principale alleato dell’Iran e tutto il mondo, dai sauditi agli israeliani, dovrebbe gioire della sua caduta. Tuttavia prevale la preoccupazione, perché la caduta di Assad spalancherebbe le porte sull’ignoto. Quale sarà la politica estera di Damasco quando sarà finita la dominazione del partito Baath? È difficile dare una risposta perché il presidente siriano è strettamente condizionato dalla politica interna. Negli ultimi quarant’anni il regime di Damasco ha sviluppato una strategia della tensione permanente con Israele con l’obiettivo di presentarsi come difensore del nazionalismo arabo contro gli israeliani. Allo stesso tempo ha tessuto le fila di una diplomazia basata sulla realpolitik, stando ben attento a non superare mai certi limiti e a tenere le fila di molte alleanze contemporaneamente.
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