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lunedì 23 gennaio 2017

Ryszard Kapuściński, il grande reporter polacco


Il grande reporter polacco, deceduto il 23 gennaio del 2007, aveva viaggiato a partire dagli anni ’50 in tutto il mondo, armato del suo taccuino e della sua macchina fotografica e credendo, al pari di Tiziano Terzani, nella possibilità e necessità di comprensione tra popoli e culture diverse.

Per anni Ryszard Kapuscinski non ha rilasciato interviste televisive. Non voleva essere riconosciuto, voleva potersi confondere tra la gente che doveva raccontare. Mescolarsi a loro, comprenderli fino in fondo ascoltandoli e dando voce alle persone più umili e nascoste. Nell’ultima fase della sua vita ha scelto invece di concedere qualche intervista, dopo aver vagliato attentamente al contesto in cui si sarebbe inserita, perché il contesto dell’informazione era quello che lo interessava, più del dettaglio, più del flusso continuo di notizie.

Nel 1956 Ryszard Kapuściński rimane bloccato in India per la crisi nel canale di Suez. Doveva tornare in Polonia sulla gloriosa Batory, transatlantico polacco scampato innumerevoli volte all'affondamento durante la seconda guerra mondiale, costruito a Monfalcone in pieno fascismo e pagato con una fornitura di carbone. Quello in India era il suo primo grande viaggio da inviato. Per il ritorno, dovrà ripiegare su un volo via Afghanistan e Mosca. Siamo nel periodo del Disgelo – titolo di un romanzo di Erenburg -, della fine dello stalinismo... Accanto a Kapuściński c'è un passeggero che piange atterrando a Varsavia. Reduce dai gulag, non avrebbe mai pensato di rivedere casa. Kapuściński lo racconta nel suo ultimo libro, In viaggio con Erodoto, una sorta di bilancio esistenziale, prima della morte, avvenuta nel 2007. Dove ritorna sui primi passi da reporter nei continenti in ebollizione post-coloniale. L'India e soprattutto l'Africa. La folgorazione, la passione intellettuale a cui dedicherà tutta la vita e il proprio mestiere.

 E' diventato  il più famoso reporter di guerra del mondo, l’instancabile viaggiatore che per oltre quarant’anni ha percorso i continenti per raccontare i conflitti più remoti e dimenticati. Ma è stato soprattutto il testimone del suo tempo, il cronista che ha dato voce agli ultimi della scala sociale e ai disperati della Terra, che ha fatto conoscere i popoli più lontani dell’Africa e dell’Asia, che ha descritto le ex repubbliche sovietiche in un memorabile libro, (Imperium) scritto l’anno seguente la caduta del Muro di Berlino.

E' stato senza dubbio il padre fondatore del moderno reportage. Sono stati infatti i suoi libri pubblicati a partire dagli anni ’60 il primo vero fenomeno editoriale del giornalismo polacco. Un successo reso possibile non solo dal brillante stile dell’autore e dall'attualità dei temi trattati, ma anche dal fatto che all’epoca il massimo dell’esotismo per il polacco medio era una vacanza in Ungheria. Per molti, quindi, le opere di Kapuściński su Africa, Asia e America Latina rappresentavano anche un’evasione dal grigiore della vita quotidiana.

All'infuori di Kapuściński, oggi gli autori polacchi di reportage tradotti in italiano si contano purtroppo sulle dita di una mano. Il libro forse più noto ai lettori italiani è Gottland di Mariusz Szczygieł pubblicato nel 2009 da Nottetempo e capace di riscuotere un insperato successo editoriale. Il libro offre una sorprendente galleria di personaggi e situazioni appartenenti a una nazione che non esiste più, la Cecoslovacchia, in un enciclopedico e coinvolgente affresco privo di cadute di ritmo e di stile. Nel 2012 il medesimo editore ha pubblicato un altro libro di Szczygieł: Fatti il tuo paradiso.

Come è possibile che il più grande reporter del ventesimo secolo sia stato un polacco? E per di più un comunista? Non eravamo abituati a considerare maestri del giornalismo gli americani, liberi di pensiero, fiaschetta di whisky nella sahariana, sinceri, secchi, romantici, al posto giusto nel momento giusto? Quel John Reed al seguito di Lenin e Trotsky; quell’Edgar Snow che si fece tutta la lunga marcia di Mao Tse Tung mandando dispacci quasi giornalieri al Chicago Tribune; quell’Ernest Hemingway che narrava la Madrid repubblicana assediata dal fascismo, facendo venir voglia ai suoi lettori di imbarcarsi per dare una mano. Quelli erano Titani, Eroi, Protagonisti, Star. E davvero, Kapuscinski non è stato niente di tutto ciò. Però forse, se si dovesse votare per il miglior reporter del ventesimo secolo – nel segreto dell’urna – la mia scheda andrebbe al vecchio Ryszard (che poi vuol dire semplicemente Riccardo).

Kapuscinski era un tipo davvero modesto, sempre vestito con un giubbotto di fattura polacca, pantaloni di velluto e grosse scarpe comode; conferenziere non esaltante, l’antitesi del narciso, un alieno dallo star system pur essendo amato da milioni di lettori. Morì nel 2007, per i postumi di un tumore al pancreas, a settantacinque anni. Tra i suoi progetti rimasti tali, una storia dei movimenti di guerriglia in America Latina nell’ultimo trentennio del Novecento, e soprattutto il suo rovello, una storia della sua piccola Pinsk, dove era nato, e dove da bambino aveva visto la “scena primaria” della guerra. L’occasione per capire, alla fine della vita, che cosa sono gli uomini e chi erano stati i suoi genitori.

La prima, resa immediatamente nota dal governo polacco, all’epoca di estrema destra, capeggiato dai due grotteschi gemelli Kaczynski: Kapuscinski era stato per tutta la vita una spia comunista. La seconda: nei suoi reportages, più che raccontare, “inventava”.

In qualche maniera le due accuse avevano un fondo di verità. Effettivamente il giornalista inviò informazioni richieste dal suo governo e dal Kgb sia dall’Africa che dall’America Latina. C’è da dire che il suo incarico non sarebbe mai stato affidato a un oppositore politico (Kapuscinski rimase iscritto al partito comunista polacco fino al 1984, anche se dal 1980 simpatizzò per Solidarnosc) e che i documenti usciti dagli archivi di Varsavia non lo mostrano certo un spia zelante: rapporti banali sulla situazione politica, la gran notizia che il redattore di Selezione Reader’s Digest in Venezuela era in realtà un agente Cia; un’antipatica delazione contro una collega; cose così. Era però in grado di mantenere un segreto (e uno grosso), come l’impegno militare dei cubani in Angola, che lo vide direttamente coinvolto, ma che ai suoi lettori non rivelò mai.

Il secondo argomento è affascinante e spigoloso, perché coinvolge l’essenza stessa del giornalismo. Kapuscinski lasciò intendere di aver conosciuto di persona Che Guevara e Lumumba (e non era vero). È stato accusato di aver costruito il ritratto di Hailé Selassié su testimonianze anonime e quindi manipolabili; di aver ingigantito le personalità dei guerriglieri latinoamericani, e nel contempo di aver cancellato le responsabilità della Cia nella repressione nell’edizione americana dei suoi libri; di aver pubblicato la sua inchiesta sui gulag molto tempo dopo di quanto avrebbe dovuto farlo e di aver taciuto per troppo tempo sulle reali condizioni della sua Polonia, sotto il giogo dell’oppressione comunista. Il suo biografo (e allievo) registra tutte le accuse e le colloca nel tempo e nello spazio. Alla fine, lo assolve: il contributo che ha dato alla conoscenza del mondo, e alla sua umanità, è superiore ai cedimenti personali in cui può essere incorso.

Kapuściński si considerava un pò il patriarca dei corrispondenti di tutto il mondo. Molti suoi famosi colleghi erano ormai scomparsi. A volte diceva di sentirsi un sopravvissuto di un mestiere che è profondamente cambiato nella pratica e anche nell’etica professionale. Ma riconosceva con sicurezza coloro che gli erano simili e soffriva molto quando qualcuno di loro (come la Politovskaja) veniva colpito. I sempre più numerosi attacchi, nel mondo, alla libertà di stampa e ai giornalisti, lo preoccupavano. Si dava da fare per portare la sua testimonianza e suoi consigli ovunque ci fossero dei giovani che volevano intraprendere questo difficile mestiere.

Gli piaceva molto discutere di politica. Di qualunque nazione si parlasse, dimostrava una vastità di letture e un aggiornamento sorprendenti. Di ogni paese africano, ad esempio, era in grado di indicare capi di stato e ministri come se stesse parlando dei giocatori della squadra di calcio della propria città. Da giovane aveva creduto sinceramente nella spinta rivoluzionaria dei movimenti anticolonialisti. Forse, nel Terzo mondo, aveva intravisto una sorta di risarcimento ideale alle delusioni della Polonia dopo le speranze dell’ottobre 1956. Capivo questo meccanismo, perché funzionò anche per mio padre (comunista e docente di Storia contemporanea all’Università di Genova) che vide, negli stessi anni, nei movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia, una speranza che le proprie utopie politiche avessero un senso meno squallido e oppressivo della realtà del cosiddetto “socialismo reale”.

mercoledì 27 luglio 2016

Economie emergenti E7 vicino al sorpasso su paesi G7



C’è qualcosa di impensabile  che sconvolge l’economia occidentale. Addirittura fino a pochi anni fa, prima della crisi economica scatenata dalla bolla dei mutui "facili" scoppiata negli Stati Uniti. Proprio a causa della recessione che ha avuto il suo epicentro nella finanza anglosassone, avverrà prima del previsto il sorpasso delle economie dei paesi emergenti sui paesi occidentali, ancora per non molto tempo definibili come i più ricchi del mondo.

E’ quanto ha rivelato uno studio di PricewaterhouseCoopers, società di consulenza tra le più accreditate. Il documento dimostra come le economie dei cosiddetti E7 (Cina, India, Brasile, Russia, Indonesia, Turchia e Messico) supererà quella dei paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia) entro il 2036. Ma il dato sorprendente è che il medesimo studio di Pwc redatto soltanto precedentemente all'inizio della recessione fissava il sorpasso almeno un decennio più avanti, ovvero nel 2046. A guidare il successo ci sarà la Cina che supererà gli Stati Uniti come principale economia mondiale già nel 2023, con venti anni di anticipo rispetto alle prospettive precedenti.

In anticipo anche il sorpasso dell’India sul Giappone che avverrà entro il 2035. Secondo le previsioni, la Cina cresce in modo esponenziale rispetto alle vecchie economie e oggi gode di una solidità che la vede porto sicuro rispetto alle vecchie Economie che stanno perdendo colpi. Il Brasile sarà avanti a Germania e Regno Unito entro il 2045. E L’Italia? Per quella data sarà già stata superata dall’India (2030) e dalla Russia (2039) nonché dallo stesso Brasile (sempre 2045). E nel 2048 arriverà anche quello del Messico.

Investire su giovani, università e informatica: sono queste le mosse strategiche dei Paesi Emergenti pronti a superare le potenze dei paesi più sviluppati appartenenti al G7 ed a crescere senza freni. Le previsioni sui tempi del sorpasso prevedevano tempi molto lunghi ma, complice la crisi economica mondiale che ha messo in ginocchio le potenze, Cina, Brasile, India Russia, Turchia, Indonesia e Messico sono già pronti a superare i ricchi, Usa in prima fila.

La sfida contro il club dei potenti (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada e Giappone) riunito per la prima volta nel 1975 a Rambouillet, vicino Parigi, è stata lanciata dalle economie emergenti almeno dal 2006, quando all’interno del Stern Review Report di PricewaterhouseCoopers, venne coniato per la prima volta il termine E7. Da allora ad oggi molte cose sono cambiate e la corsa delle 7 più importanti economie emergenti si è fatta più serrata.

Sebbene manchino ancora diversi anni, il meccanismo è in moto ormai da molto tempo e si accompagna alla nascita di un mercato alternativo a quello delle economie sviluppate, dove gli investimenti privati e lo sforzo finanziario dei governi per colmare il gap infrastrutturale sono elevatissimi. Cambiano così i mercati di riferimento, e i tassi di crescita delle economie (molto più elevati tra i paesi emergenti) sono lì a dimostrarlo.

La corsa degli E7 sta lasciando sul campo dei mercati internazionali una serie di evidenze che, secondo PricewaterhouseCoopers, confermano al 2030 la data prevista per il sorpasso.

Lo studio di PWC si occupa anche di stabilire il primato mondiale in termini di PIL che si avrà nei prossimi anni e che stabilisce che dal 2050 la probabile prima economia mondiale sarà l’India e non la Cina, in quanto quest’ ultima tra qualche anno sarà penalizzata dall’elevata età media della popolazione. A sostenere la crescita dei Paesi cosiddetti Emergenti sarà, dunque, una maggiore apertura alla modernizzazione, all’innovazione e alla ricerca. Sono questi, infatti, i fattori che oggi più che mai dominano la società e la politica dei Paesi in forte crescita: le loro università si aprono e investono moltissimo nella ricerca, gli ingegneri civili brasiliani, per esempio, affrontano temi sempre più complessi e gli operatori di software indiani programmi sempre più avanzati.

In primo luogo – ribadiscono gli analisti della società – nel 2030 il Pil cinese supererà quello statunitense. Nonostante il leggero rallentamento degli ultimi trimestri, il prodotto interno lordo della Cina continua a crescere a ritmi elevati bruciando, anno dopo anno, le tappe che lo portano ad avvicinarsi a quello americano. Oltre a questo ci sono molti altri segnali della corsa dei Paesi emergenti: nel 2030 sette delle 12 più grandi economie del mondo apparterranno a quelli che sono oggi mercati emergenti (E7).

Guardando invece alle condizioni attuali, gli scambi commerciali interni ai Paesi E7 crescono ad un ritmo cinque volte maggiore rispetto a quelli interni al G7, e il numero di individui appartenenti alla classe media nella regione Asia Pacifico ha superato quello di Europa e Stati Uniti insieme. Dal 2021, questa classe media emersa nelle economie emergenti rappresenterà un mercato annuale, per la sua capacità di acquisto di beni e servizi, da 6 trilioni di dollari.

La crescita del Pil è un effetto dello sviluppo economico, ma è anche essa stessa un acceleratore che porta nuovo sviluppo e nuovi investimenti. Ne sono convinti i top manager di molte grandi aziende mondiali intervistati da PricewaterhouseCoopers proprio sul tema.

Dall’analisi della società emerge che oltre il 50% dei Ceo globali è convinto che il soprasso delle economie emergenti si accompagnerà ad un aumento del costo del lavoro nei mercati dove questo sorpasso si compie. Inoltre, tutti gli intervistati confermano che dal 2020, dieci anni prima del traguardo fissato al 2030, il 70% delle multinazionali avrà almeno un quartier generale in Asia.

Ma quello che più conta sono gli effetti che questo ribilanciamento del potere economico globale avrà sugli investimenti nelle infrastrutture. PricewaterhouseCoopers stima che entro il 2025 la spesa mondiale nelle infrastrutture arriverà a 9 trilioni di dollari all’anno, con una cifra approssimativa di 78 trilioni che sarà spesa entro il 2025. In quest’ambito il mercato dell’Asia Pacifico (dove sono attivi alcuni dei più importanti E7 come Cina, Indonesia e in parte India) vale il 60% della spesa totale, mentre l’Europa arriverà a contare meno del 10%.

Una tendenza destinata a consolidarsi nel tempo, almeno secondo quanto riporta anche la Banca Mondiale. L’ultimo report dell’istituto dedicato al tema “Infrastructure Investment Demands in Emerging Markets and Developing Economies” calcola che, nonostante questa concentrazione di spesa nelle economie emergenti, il gap nella spesa annuale per le infrastrutture valga ancora 452 miliardi di dollari.

Questo contribuisce a riscrivere la mappa dei grandi investimenti e delle grandi opere che inevitabilmente si verranno a concentrare nei Paesi capaci di esprimere meglio di altri una crescita economica solida e duratura.


martedì 6 gennaio 2015

Kashmir conflitto India - Pakistan: migliaia di indiani in fuga



Le radici del conflitto risalgono alla spartizione del sub-continente indiano, nel 1947, lungo linee religiose che hanno portato alla formazione di India e Pakistan. Tuttavia, la risoluzione della questione della fusione di più di 650 Stati principeschi veniva lasciata alla decisione degli stessi Stati principeschi. Per il Kashmir, il maggiore Stato principesco, si delineavano due alternative: unirsi all’India o al Pakistan. Ciononostante, il reggente dello Stato, il maharaja Hari Singh, essendo di religione hindu a dispetto della maggioranza della popolazione che era musulmana, scelse di rimanere neutrale sperando di rimanere indipendente.

Fu una rivolta da parte delle tribù del Kashmir, ritenuta essere stata promossa e condotta dall’esercito pakistano nell’ottobre del 1947, a mandare in frantumi le speranze di indipendenza di Hari Singh, il quale ratificò l'Atto di Annessione, cedendo il Kashmir all’India il 26 ottobre dello stesso anno. Pertanto, l’anno della prima guerra del Kashmir tra forze indiane e pakistane fu il 1947-1948.

«Gli intrusi erano in fuga e l’esercito indiano avrebbe preso l’intero territorio di Jammu e Kashmir ma, contro il parere di Patel, il Primo Ministro Nehru fece pervenire la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 1° gennaio 1948. In quell’occasione, l’India accusò il Pakistan di inviare sia truppe regolari che tribù nella regione in questione. Questo portò all’istituzione di una Commissione Onu in India e Pakistan (UNCIP) da parte del Consiglio di Sicurezza per valutare le richieste e le contro richieste di entrambi i Paesi», scrive il dottor Sushmit Kumar.

Nella sua risoluzione del 13 agosto 1948, l’Onu chiese al Pakistan la rimozione delle truppe dal territorio; in seguito, in una risoluzione approvata il 5 gennaio 1949, stabiliva che l’adesione del Jammu e Kashmir all’India o al Pakistan doveva essere definita attraverso il metodo democratico di un referendum libero e imparziale per consentire alla popolazione di decidere il proprio futuro. Tuttavia, le forze armate non furono ritirate né fu possibile indire un referendum, con il perdurare dell’aggressione militare, violando così le risoluzioni Onu e portando a un accordo di cessate il fuoco attuato “a partire da un minuto prima della mezzanotte del 1° gennaio 1949”. La Linea di Controllo rimane ancora il confine de facto tra i due Paesi. In seguito, il territorio del Jammu e Kashmir, sotto controllo dell’India, è stato incorporato all’Unione Indiana come uno Stato e ha ottenuto uno status speciale in conformità all’articolo 370 della Costituzione indiana.

Da quando, nel 1947, i britannici lasciarono il sub-continente indiano, Il Kashmir, lo Stato himalaiano, denominato ‘il paradiso sulla terra’, è stato sede del conflitto: sia India che Pakistan rivendicano la sovranità sull’intera regione, data la sua importanza geopolitica ereditata confinando con Afghanistan, Cina e Tibet, ora sotto il dominio cinese, oltre a quello indiano e pakistano. Nel corso degli anni, la controversia ha causato violenti scontri armati tra le forze militari indiane e pakistane poiché entrambi i Paesi sono impegnati nella questione «a livello emozionale, diplomatico e militare», sostiene Christopher Snedden di Asia Calling, un’agenzia australiana per servizi di consulenza strategica.

La tensione tra India e Pakistan è salita dopo che il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha deciso lo scorso agosto di cancellare dall’agenda i colloqui di pace con Islamabad.

Da ottobre gli scontri al confine sono incessanti come racconta l’abitante di un piccolo villaggio del Jammu & Kashmir, alla frontiera comune:“Ci sono molti bombardamenti. Non ne conosciamo la ragione. La responsabilità è sia del governo che dell’esercito, nessuno ci sta aiutando. Ogni volta che c‘è un raduno, iniziano gli attacchi’‘.

Le violenze sono scoppiate in vista dell’imminente visita in India del segretario di Stato americano John Kerry. A New Delhi è atteso anche il presidente Barack Obama, invitato in occasione delle celebrazioni indiane del ‘‘Giorno della Repubblica’‘ che cade il 26 gennaio.

Islamabad e New Delhi si rimpallano la responsabilità delle ostilità in cui in una settimana hanno perso la vita dieci tra civili e soldati di entrambi i Paesi. La tensione tra India e Pakistan è salita dopo che il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha deciso lo scorso agosto di cancellare dall’agenda i colloqui di pace con Islamabad. Da ottobre gli scontri al confine sono incessanti come racconta l’abitante di un piccolo villaggio del Jammu & Kashmir, alla frontiera comune:“Ci sono molti bombardamenti. Non ne conosciamo la ragione. La responsabilità è sia del governo che dell’esercito, nessuno ci sta aiutando. Ogni volta che c‘è un raduno, iniziano gli attacchi’‘. Le violenze sono scoppiate in vista dell’imminente visita in India del segretario di Stato americano John Kerry. A New Delhi è atteso anche il presidente Barack Obama, invitato in occasione delle celebrazioni indiane del ‘‘Giorno della Repubblica’‘ che cade il 26 gennaio.

Mentre le popolazioni del Jammu e Kashmir - parte indiana - e del segmento di questa provincia confinante con il Pakistan, denominato Azad Kashmir, lottano per riprendersi dalle devastazioni causate dalle esondazioni di inizio settembre, che hanno messo in ginocchio l’economia dell’intera regione provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie, dall’inizio di ottobre gli eserciti di entrambi i Paesi sono stati impegnati nello scambio di spari e colpi di mortai.

In realtà, oggi l’autonomia si è ridotta a libertà limitate in questo Stato a causa di crescenti attività jihadiste condotte negli ultimi anni e della presenza concentrata dell’esercito per fronteggiarle. La popolazione e la società civile sono state le vittime del conflitto che è stata una questione politica affrontata da entrambi i Paesi per circa 70 anni. «Nel periodo del violento conflitto armato, la gioventù del Kashmir è stata testimone, e alcuni hanno anche partecipato, delle ostilità che hanno condotto alla rottura del nostro ethos collettivo e tessuto sociale» dichiara Adfar Shah, sociologo di Delhi.



venerdì 25 luglio 2014

Banca dei Brics la più grande sfida dei paesi emergenti




Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica fondano un Banca. Europa-Usa verso una “free zone”. C’erano una volta i BRIC, ma erano solo un acronimo inventato all’inizio del nuovo millennio, nel 2001, dall’economista della Goldman Sachs Jim O’Neill, lo stesso che nel 2006 e 2007, dall’alto dell’enorme montagna di profitti della banca per cui lavorava, sosteneva che l’economia mondiale andava a gonfie vele e così avrebbe continuato nel futuro, soprattutto grazie anche ai BRIC. L’acronimo stava per Brasile, Russia, India e Cina. Poi è stato aggiunto il Sudafrica e l’acronimo è diventato plurale, BRICS. Al di là dell’acronimo, però, tra i paesi in questione non intercorrevano alleanze particolari. Non è più così. Ora, dopo l’ultimo summit dei leader politici dei cinque paesi (svoltosi il 15-16 luglio a Fortaleza, in Brasile) BRICS non è più soltanto un acronimo ma qualcosa di diverso, un’entità politica che dovrà essere attentamente seguita nei prossimi anni. I leader dei BRICS hanno infatti  preso una decisione storica che cambia per la prima volta l’architettura del sistema finanziario internazionale che era stata immaginata, sotto la parziale leadership di John Maynard Keynes, a Bretton Woods, una cittadina del New Hampshire, esattamente settant’anni fa, nel luglio del 1944, quando la guerra non era ancora terminata.

Chiedono che al centro dell’accordo venga posta “una prosperità condivisa e uno sviluppo sociale ed economico sostenibile. Il TTIP dovrebbe essere negoziato nell'interesse pubblico piuttosto che nell'interesse degli investitori privati”. Il Ttip dovrebbe garantire un pieno processo democratico, inclusivo dei parlamenti e delle parti sociali, nel negoziato, nell'implementazione e nel monitoraggio di un eventuale trattato; garantire che il capitolo sullo “sviluppo sostenibile” (norme ambientali, sociali e del lavoro) abbia la stessa forza ed esigibilità di ogni altra parte del trattato; proteggere lo spazio di legiferazione degli stati, l'interesse pubblico il “principio di precauzione”; proteggere la privacy delle comunicazioni e informazioni personali.” “Se i negoziatori non perseguono questi obiettivi, i negoziati dovrebbero essere sospesi -  afferma il documento congiunto - il Ttip deve funzionare per le persone, altrimenti non funzionerà affatto”.

I BRICS hanno infatti deciso di mettere su un’alternativa sia al Fondo monetario internazionale (Fmi) che alla Banca mondiale, le due istituzioni, ambedue operanti a Washington, che erano nate appunto a Bretton Woods e che sono state l’emblema negli ultimi sette decenni della supremazia americana, dando alla sua valuta un enorme potere di signoraggio sul resto del mondo, quello che il ministro delle Finanze francese ha di recente ricordato essere “l’esorbitante privilegio” del dollaro. La decisione presa a Fortaleza ridisegna l’architettura del sistema finanziario globale, basandola su principi diversi da quelli ora esistenti. Per prima cosa non ci saranno differenze tra i cinque. Tutti – almeno sulla carta – avranno pari potere, un punto fondamentale secondo Guido Mantega, il ministro delle Finanze brasiliano. Mentre la Banca mondiale e il Fmi sono sempre stati a guida americana ed europea, le due nuove istituzioni create, la New Development Bank (NDB) e il Contingency Reserve Arrangement (CRA), saranno guidate a turno ogni cinque anni da uno dei cinque paesi dei BRICS.

D’altra parte, le economie dei BRICS rappresentano ormai un quarto dell’economia mondiale, e quella cinese dovrebbe quest’anno superare per la prima volta quella americana, se calcolata a parità di potere d’acquisto delle valute. Ma questo peso, a causa soprattutto dell’inerzia americana, non è stato ancora riconosciuto all’interno dell’Fmi, dove i BRICS hanno soltanto il 10.3% dei voti. La Cina, in termini di voti, conta all’Fmi meno dei paesi del Benelux. Obama ha cercato di cambiare questa situazione ma si è trovato di fronte a ostacoli insormontabili e non è riuscito a fare nulla.

La nuova architettura dà il via a un nuovo sistema multipolare di governance della finanza mondiale. Da ora in poi non ci sarà più solo Washington, sede sia dell’Fmi che della Banca mondiale, ma anche Shanghai, dove le nuove istituzioni avranno sede. In questo modo, il presidente cinese Xi Jinping diventa de facto il leader di quei paesi che una volta erano denominati “non allineati” e avrà un’enorme influenza economica non solo sui paesi asiatici ma anche su quelli africani e sudamericani, considerando che al momento la banca centrale cinese ha una montagna di riserve disponibili, la più alta del mondo, anche se queste riserve sono per ora per la maggior parte investite in titoli del Tesoro americano – riserve a rischio di forti perdite, considerata la fragilità del dollaro, destinato inevitabilmente a deprezzarsi. Il Brasile, l’India e il Sudafrica, costrette anche loro a investire pesantemente le loro riserve in dollari, potranno avere accesso a prestiti di notevoli dimensioni per finanziare la costruzione di infrastrutture ancora carenti. Le due nuove istituzioni, infatti, potranno rappresentare un’alternativa alle condizioni capestro e altamente conditional dei prestiti della Banca mondiale e dell’Fmi. Come noto l’Fmi concede prestiti ma solo in cambio di “riforme strutturali” che spesso si sono rivelate nocive per i paesi che l’hanno implementate. Paesi come il Madagascar, da anni sotto la “dittatura” degli uomini e delle donne del Fondo monetario internazionale – senza risultati rilevanti per il paese, tra l’altro – hanno oggi un’alternativa.

La New Development Bank, che avrà sede a Shanghai, partirà con un capitale iniziale di cinquanta miliardi di dollari (la Cina avrebbe voluto un capitale più alto, ma si è deciso per la parità tra paesi e il Sudafrica poteva permettersi solo dieci miliardi) mentre il CRA, il Contingency Reserve Arrangement, non sarà un fondo come l’Fmi ma un insieme di promesse bilaterali per mettere in comune le loro riserve valutarie (41 miliardi la Cina, cinque il Sudafrica e diciotto gli altri tre) in caso di bisogno da parte di uno dei paesi. Il primo presidente della NDB sarà un indiano (ancora da nominare) mentre un brasiliano sarà presidente del consiglio d’amministrazione e un russo ricoprirà la carica di presidente del board of governors.

Naturalmente, non è detto che tutto filerà liscio. La Cina, l’economia di gran lunga più potente e con le più alte riserve valutarie al mondo (oltre 3,500 miliardi), cercherà probabilmente di esercitare qualche sorta di egemonia e potrebbe creare risentimenti negli altri paesi, alcuni dei quali, come l’India, temono la Cina ancor più degli Stati Uniti. Ma il segnale che l’ordine costruito a Bretton Woods esattamente settant’anni sia arrivato al capolinea è ormai un dato di fatto. Certo, sarebbe stato meglio un ridisegno globale dell’architettura di Bretton Woods. Ma nessuno dei recenti leader americani ha avuto una visione illuminata di come potrebbe essere questo nuovo ordine (e rinunciare ai privilegi non è facile). L’Europa, l’unica area che avrebbe potuto e dovuto agire, essendo anche quella più esposta al commercio internazionale, non ha avuto nulla da dire, nonostante fosse, insieme agli Stati Uniti, da sempre alla guida del sistema (da anni il capo dell’Fmi è europeo). E di nuovi Keynes non si vede traccia in giro.

I Brics hanno anche deciso di dar vita ad un accordo su un fondo di contingenza di riserva per intervenire a fronte di crisi economiche e finanziarie. La dotazione sarà di 50 miliardi di dollari. Valutazioni positive sono state espresse dal Forum sindacale dei Paesi Brics che si è svolto in parallelo con la riunione dei capi di stato e di governo. Si sottolinea l’importanza e il ruolo che possono avere i paesi del Brics “in una economia mondiale - affermano i sindacati - che deve profondamente cambiare a favore di un modello di sviluppo più inclusivo, rispettoso dell’ambiente, dei diritti sociali e del lavoro” I sindacati chiedono “una maggiore inclusione nel processo intergovernativo e la partecipazione ai diversi gruppi di lavoro e alle diverse strutture, inclusa la Banca di Sviluppo”. Un promemoria valido anche per l’Europa, per l’Italia in particolare. Di segno nettamente diverso la riunione del Ttip, una sigla dei cui poco si parla ma che opera per istituire un unico grande mercato comune, una free zone di merci e servizi, eliminando non solo le residue barriere tariffarie, ma anche le barriere non tariffarie, le differenti normative che rendono difficili gli scambi economici tra le due sponde dell’Atlantico.

Normative che non esistono in Usa e che le multinazionali americane considerano più un ostacolo all’affermarsi di un liberismo economico senza regole, dalla finanza alle banche, dalla salute all’agricoltura, dall’energia ai servizi pubblici, fino alle pensioni e ai diritti del lavoro. Insomma qualcosa  che pare non interessare le forze politiche italiane, ma che desta l’attenzione di quelle di diversi paesi europei retti da governi conservatori. E’ vero che le riunioni del Ttip sono molto riservate, quasi segrete, ma nelle stanze di Bruxelles la consultazione delle lobby degli industriali e delle multinazionali non è un fatto “neutro”, è destinata ad avere riflessi sulle scelte economiche e sociali della Ue. Al punto che il sindacato europeo Ces e quello americano Afl Cio hanno preso posizione indicando gli obiettivi che le riunioni del Ttip dovrebbero avere.

domenica 18 maggio 2014

Elezioni India dopo 10 anni la destra torna al potere con Narendra Modi



Una lunga maratona elettorale, 551 milioni di votanti,  vince il centrodestra di Narendra Modi e dalle urne esce sconfitto il partito del Congresso, lo storico partito di Sonia Gandhi e dal figlio Rahul. Una vittoria già ampiamente manifestata dagli exit polls. Pertanto le elezioni sono state vinte dal nazionalista indù Narendra Modi, leader del Bharatiya janata party (Bjp, Partito del popolo indiano).

Narendra Modi, 63 anni, ex commerciante di tè di origini umili, governatore dello stato del Gujarat dal 2001, gode di un’enorme popolarità tra gli indiani. Modi è nato a Vadnagar, nel Gujarat, nell’India occidentale, da una famiglia ghanchi, uno dei ranghi più bassi del sistema delle caste che ancora definisce la società in India. Suo padre aveva un negozio di tè.

Fin da ragazzo, Modi ha militato in Rashtriya swayamsevak sangh (Rss), un’organizzazione paramilitare di estrema destra. L’Rss è un movimento molto controverso: è stato dichiarato fuorilegge nel 1948, dopo l’omicidio di Mohandas Gandhi, ucciso da un fanatico indù. E poi di nuovo negli anni settanta. In quel periodo Modi lavorava per l’Rss in clandestinità.

L’Rss fu bandito per la terza volta nel 1992, dopo la distruzione di una moschea a Ayodhya, nel nord del paese, a opera di un gruppo di fondamentalisti indù. In quegli anni Modi passò al Bharatiya janata party (Bjp), un partito molto vicino all’Rss. Nel 2001 venne eletto governatore del suo stato: il Gujarat.

Modello Gujarat. Durante il governo di Modi, il Gujarat si è sviluppato molto da un punto di vista economico. Grazie a una politica di sgravi fiscali e di sostegno all’imprenditoria, l’economia dello stato è migliorata. Tuttavia lo stile dispotico di Modi e le sue idee nazionaliste ed estremiste hanno provocato più di una critica. Gli analisti temono che sotto il suo governo le minoranze possano essere minacciate e la violenza possa essere tollerata. In molti lo accusano di aver ridotto i mezzi d’informazione al silenzio durante il suo governo nel Gujarat.

Modi è anche stato accusato di non aver fermato la strage avvenuta a Godhra nel 2002, dove più di mille musulmani furono uccisi e centinaia costretti a fuggire a causa delle violenze scoppiate dopo che 59 pellegrini indù erano morti in un incendio su un treno.

Tuttavia la promessa di un miglioramento economico, dell’aumento infrastrutture e della mobilità, sembrano aver fatto presa su milioni di indiani, che vogliono che il “modello Gujarat” sia esportato in tutto il paese. Molti economisti, come il premio Nobel Amartya Sen, hanno denunciato la mancanza di redistribuzione della ricchezza che ha riguardato la crescita economica del Gujarat.

"L'India ha vinto, stanno per arrivare giorni belli"." la prima dichiarazione di Modi arriva via twitter. La coalizione del governo uscente, United Progressive Alliance (Upa) ha risentito del diffuso malcontento per il carovita e la corruzione, perdendo consensi soprattutto negli stati chiave dell'Uttar Pradesh, Bihar e Maharashtra che contano la maggioranza dei seggi. "Accettiamo la sconfitta", ha detto il portavoce Rajeev Shukla. "Modi ha promesso la luna e le stelle al popolo. E il popolo ha comprato un sogno".

L'India è stata impegnata in una lunga maratona elettorale, dal 7 aprile al 12 maggio, con una partecipazione record di 551 milioni di votanti pari al 66,38% dell'elettorato, in crescita rispetto ai 417 milioni di cinque anni fa.



mercoledì 12 febbraio 2014

Maro': clamoroso Ban sorpreso ricorso a legge terrorismo



Sulla vicenda dei due marò il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon preferirebbe una soluzione bilaterale, ma si è detto sorpreso che l'India voglia applicare la legge sul terrorismo. Lo riferiscono fonti diplomatiche interne al Palazzo di Vetro. Ban si è riservato di approfondire la questione con i suoi uffici legali.

In queste ore si terrà a New York una riunione di coordinamento Ue a 28 in relazione alla decisione indiana di sottoporre i due fucilieri italiani al Sua Act, riunione promossa a seguito di un colloquio telefonico tra la Ministro Bonino ed il suo omologo Venizelos, presidente di turno dell'Unione Europea. Lo riferisce la Farnesina.

Emma Bonino riferirà sui Marò domani alle 10 nell'Aula del Senato. Lo ha stabilito, secondo quanto rendono noto dal Pd, la Conferenza dei capigruppo, convocata da Grasso dopo la richiesta di Casini e Latorre di sospendere l'esame del Dl missioni fino a che non fosse arrivato un chiarimento del governo sulle parole Ban Ki-moon.

Ieri sera il segretario generale dell'Onu aveva risposto alle sollecitazioni della Farnesina sostenendo:  "E' meglio che la questione venga affrontata bilateralmente piuttosto che con il coinvolgimento delle Nazioni Unite":

De Mistura partito per Roma, "urgenti consultazioni"  - L'inviato italiano per la vicenda dei maro', Staffan de Mistura, ha lasciato oggi New Delhi alle 10:35 locali alla volta di Roma, che raggiungera' nel tardo pomeriggio, via Dubai, per "urgenti consultazioni" con il governo.  Ieri De Mistura ha spiegato che il suo viaggio e' dovuto al fatto che "l'udienza in Corte Suprema del 18 febbraio e' della massima importanza per il futuro dei nostri fucilieri di Marina". Lo stesso inviato fara' ritorno in India domenica.

Cicchitto, sconcerto per parole Ban Ki Moon  - "Manifesto profondo sconcerto per le recenti affermazioni fatte dal Segretario generale dell'ONU circa l'opportunità di mantenere sul piano bilaterale la controversia tra Italia e India relativa all'illegittima detenzione dei due fucilieri di Marina Latorre e Girone". Lo ha dichiarato il Presidente della Commissione esteri della Camera Fabrizio Cicchitto.

Segretario Nato, preoccupa molto accusa terrorismo - "Sono personalmente preoccupato per i due marò italiani e per l'idea che siano perseguiti per terrorismo e per le implicazioni negative" sulla lotta alla pirateria, Lo ha detto il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen.

sabato 8 febbraio 2014

Le anticipazioni della stampa indiana i marò rischiano 10 anni




Nell'udienza in Corte Suprema di lunedì contro i Marò, l'India non invocherà, come avrebbe avuto intenzione di fare, un articolo della Legge per la repressione della pirateria (Sua Act) che comporta la pena di morte. Nel proporre i capi di accusa per i due fucilieri ripiegherà invece su una imputazione più mite che evoca genericamente "violenze" sulle navi, e che prevede una pena fino a dieci anni di carcere. E' stato il portavoce del ministero degli Interni Kuldeep Dhatwalia, in genere avaro di informazioni utili, a confermare che il ministero stesso aveva in effetti autorizzato la polizia Nia a perseguire i due marò "in base al Sua Act, ma senza invocare l'articolo che prevede la pena di morte".

Anticipazioni della decisione erano già arrivate dalla stampa indiana, che oggi spiega che il rapporto con i capi d'accusa che la Nia presenterà ai giudici nei prossimi giorni, e che sarà illustrato lunedì in Corte Suprema, non conterrà più l'accusa per i marò di "aver provocato la morte" di due pescatori, ma più semplicemente di aver usato "violenza".

"Il governo ritiene sconcertante il riferimento" alla legge antipirateria, fa sapere il ministro degli Esteri che si definisce "interdetta ed indignata".

Si definisce "interdetta ed indignata" il ministro degli Esteri Emma Bonino dopo le anticipazioni pubblicate sulla stampa indiana circa la probabile applicazione della legge antipirateria (Suppression of Unlawful Act), seppur senza l'articolo che contempla la pena di morte, durante l'udienza in Corte suprema di lunedì che vede imputati i due fucilieri italiani Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. I due marò rischiano secondo il Sua Act fino a 10 anni di carcere.

Se dovesse essere confermata l'applicazione del Sua Act, fa sapere la Bonino "sarà contestata in aula dalla difesa italiana nella maniera più ferma. II governo ritiene sconcertante il riferimento (alla legge antipirateria indiana) e farà valere con forza e determinazione in tutte le sedi possibili l'assoluta e inammissibile incongruenza di tale impostazione anche rispetto alle indicazioni a suo tempo fornite dalla stessa Corte Suprema indiana", ha aggiunto.

La Corte suprema non farà ricorso, secondo le indiscrezione, all'articolo che prevede la pena di morte, ma i due rischiano comunque dieci anni di carcere. La legge antipirateria prevede infatti che "chi illegalmente e intenzionalmente commette un atto di violenza (...) sarà punito con la prigione per un periodo che può giungere fino a dieci anni ed è sottoponibile a multa". Un tentativo di mediazione che non accontenta comunque l'Italia.

Troppo poco, infatti, perché la spina dorsale dell'impianto accusatorio resta affidata al Sua Act, concepito come legge di repressione del terrorismo. "Il Sua Act è per noi una "linea rossa' e lo respingiamo", ha ripetutamente dichiarato al riguardo l'inviato del governo, Staffan de Mistura.

martedì 24 dicembre 2013

Marò: Latorre, per il Natale 2013 lontano dalla patria




“Oggi è la vigilia del Santo Natale” e “purtroppo quest’anno non potrò essere nella mia amata patria”, ma “fortunatamente parte dei miei affetti più cari mi ha raggiunto” in India “portando una ventata di gioia”. Lo ha scritto sul suo profilo Facebook uno dei due marò italiani sotto processo a Nuova Delhi, Massimiliano Latorre.

“Oggi è la vigilia del Santo Natale – ha scritto il fuciliere di Marina – per noi italiani e cattolici è la festa più importante dell’anno, sinonimo di fede, famiglia, unione, calore. Purtroppo quest’anno non potrò’ essere nella mia amata patria per respirare il profumo che solo da noi si respira in questi giorni”.

“Fortunatamente – prosegue Latorre – parte dei miei affetti più cari mi ha raggiunto portando una ventata di gioia, ma sempre con il cuore rivolto agli altri carissimi affetti che sfortunatamente non hanno potuto raggiungermi. Volevo augurare a voi tanta serenità’, sentimento che ho imparato essere il più’ importante nella vita di una famiglia, e ringraziarvi per quanto cuore, affetto e passione ponete ogni giorno nell’essere vicino a me ed ai miei cari, questo per me e’ il regalo più grande che potessi sognare di ricevere”.

“Auguri soprattutto ai vostri bambini – conclude il militare – che sono l’anima di questa festa con i loro volti sorridenti e gioiosi illuminati da alberi e presepi, sempre presenti nelle nostre case rendono la vita degna di essere vissuta. Vi abbraccio idealmente e con questo abbraccio vi trasmetto tutta la mia immensa riconoscenza”.

I due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone potranno passare il Natale in famiglia. Non in Italia, a casa loro, ma in India, dove i due sono trattenuti perché accusati di aver ucciso due pescatori indiani al largo delle coste del Kerala. Più di venti persone, tra i loro familiari, potranno raggiungerli per festeggiare con loro il Natale, ha fatto saper il ministro della Difesa Mario Mauro. “Il caso rimane rimane intricato – ha spiegato il ministro - L'ultimo ricorso dei difensori di Latorre e Girone ha centrato il punto, perché la Corte aveva convocato i due fucilieri di Marina per contestare l'accusa, ma sulla scorta di questo ricorso ha rinviato all'otto gennaio. Fino a quella data saremo in fervida attesa, ma in alacre attività soprattutto sul piano diplomatico. Ministero degli Esteri e Presidenza del Consiglio si stanno prodigando per risolvere uno dei casi più complessi che ci siamo mai trovati ad affrontare”.


M

sabato 26 ottobre 2013

Un mondo di persone tenuta in schiavitù



La coppa del mondo di calcio in Qatar del 2022 si giocherà grazie agli «schiavi». Lavori forzati, stipendi e documenti trattenuti, ma pure niente acqua nel deserto sono gli abusi scoperti da un'inchiesta del giornale britannico Guardian.

Circa 30 milioni di persone nel mondo vivono in una condizione di schiavitù, secondo un nuovo rapporto del Global slavery index 2013 che prende in considerazione 162 paesi.

La Mauritania ha la più alta percentuale di schiavi in rapporto alla popolazione. In condizioni di schiavitù vive il 4 per cento dei mauritani. Nel paese africano la schiavitù ha profonde radici culturali, infatti è una condizione che si eredita dai propri antenati.

Il rapporto è stato compilato dall’associazione australiana Walk free foundation e si basa su una definizione di schiavitù più ampia di quella adottata da altre istituzioni che tiene conto anche degli schiavi per debiti economici, delle persone vittime di tratta e dei matrimoni forzati. La stima delle persone che vivono in schiavitù denunciata dal rapporto, è più alta di quella proposta da altri organismi come l’International labour organisation. Secondo quest’ultima istituzione infatti gli schiavi nel mondo sarebbero 21 milioni, mentre per il Global slavery index sarebbero 29,8 milioni.

In termini assoluti i paesi con più persone che vivono in schiavitù sono India, Cina, Pakistan e Nigeria. Mentre in termini relativi cioè in proporzione alla popolazione i paesi peggiori sono Mauritania, Haiti, Pakistan, India e Nepal.

Ritorniamo in Qatar, per fabbricare le infrastrutture necessarie nell'emirato molti operai stranieri vengono sottoposti ad una moderna schiavitù. Solo dal 4 giugno all'8 agosto, 44 nepalesi, i più poveri e maltrattati, sono morti per la durezza del lavoro. Ufficialmente di infarto o in incidenti nonostante fossero tutti giovani e forti. Maya Kumari Sharma, l'ambasciatore del Nepal a Doha, si è spinto a definire l'emirato come «una prigione a cielo aperto» per i migranti in cerca di lavoro.

La lista di abusi è impressionante. Nel cantiere più vasto per la coppa del mondo ci sono prove, secondo il quotidiano britannico, di lavori forzati. Ad alcuni operai sono stati trattenuti mesi di paghe per evitare che scappino. In molti casi vengono confiscati i passaporti dei lavoratori stranieri e rifiutato il rilascio di un documento d'identità trasformandoli di fatto in clandestini. I disgraziati per non finire in galera o deportati accettano qualsiasi condizione. Anche la più inumana, come una stanza dove dormono in 12 senza aria condizionata con i 50 gradi dell'emirato.

Testimonianze parlano di lavori forzati nella calura del deserto senza acqua potabile da bere. La situazione è talmente drammatica, che una trentina di nepalesi ha trovato rifugio nelle loro ambasciata denunciando le brutali condizioni di lavoro. «Non stiamo parlando del rischio che le infrastrutture della coppa del mondo del 2022 vengano costruite grazie ai lavori forzati. Sta già accadendo» ha denunciato Aidan McQuade, direttore dell'associazione Internazionale contro la schiavitù fondata nel 1839.

Il Qatar, che ha mandato i suoi corpi speciali per abbattere il regime di Gheddafi in Libia e finanzia i ribelli siriani, investirà 100 miliardi di dollari per preparare l'emirato alla coppa del mondo di calcio. Il Paese piccolo ma ricchissimo, grazie a gas e petrolio, sta costruendo una nuova città, Lusail city, che ospiterà 200mila persone in vista del grande appuntamento del 2022. Per la prima volta un Paese del Medio Oriente ospiterà la coppa del mondo ed il giovane emiro, Tamim bin Hamad Al Thani, che fa finta di ammiccare all'Occidente, si gioca la faccia. A Lusail city, dove si sono verificati gran parte degli abusi venuti alla luce, verrà costruito lo stadio da 90mila persone che ospiterà la finale.

Il «Comitato supremo» che sovrintende ai grandi piani in vista della coppa del mondo garantisce che le regole di rispetto dei lavoratori impiegati sono ferree ed il governo sta svolgendo un'inchiesta sugli abusi. Il problema è che in Qatar vivono solo 300mila autoctoni, ma il Paese va avanti grazie ad una forza di lavoro straniera di 1 milione e 200mila persone. In gran parte reclutati in Asia, dal Nepal al Bangladesh, da approfittatori che li mandano a lavorare nell'Emirato in condizioni disumane trattenendo, in cambio, parte dello stipendio. Pochi osano parlare, come Rama Kumar Mahara, 27 anni, che denuncia l'obbligo di «lavorare per 12 ore al giorno senza cibo». Se qualcuno protesta viene picchiato e secondo la stampa tedesca la paga dei più derelitti è di 78 centesimi di euro all'ora.

Il sistema per schiavizzare gli operai si chiama kafala. I lavoratori sono legati al loro datore di lavoro, che deve concedere l'autorizzazione per farli tornare a casa.




sabato 23 marzo 2013

Caso marò e la mancata diplomazia italiana

Dopo la vicenda dei marò romanzata dal ministro Terzi. Rimangono in Italia.. devono partire…. l’aereo è pronto al decollo..... C’è la netta sensazione che sul caso marò il governo dei tecnici e la sua diplomazia abbia perso la strada della ragione e delle minime idee legate alla diplomazia e all’arre diplomatica.

Infatti è incredibile che il governo abbia rimandato in India i marò. Prima aveva deciso di tenerli in Italia, dove erano rientrati grazie a un permesso elettorale di quattro settimane concesso dagli indiani.
I due militari sono stati accompagnati dal sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura. «La parola data per un italiano è cosa sacra» ha esordito De Mistura, dopo che per un anno gli indiani ci hanno presi a pesci in faccia.

«La decisione di sospendere il ritorno era basata sul silenzio indiano a una nostra richiesta chiara: la corte non può nemmeno contemplare una pena capitale. Abbiamo ricevuto oggi una dichiarazione scritta, sia sul trattamento dei marò, che su questa questione», ha continuato il sottosegretario. In pratica l'India ci assicura che non manderà Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sul patibolo e noi ringraziamo rimandandoli indietro: «Manteniamo la parola, ma restiamo fermi sulla posizione che vanno giudicati in Italia e che chiediamo un arbitrato internazionale. Tornano a Delhi, ma in ambasciata come uomini liberi di circolare.

Una decisione difficile ma onorevole». E forse un po' folle rispetto a quella dell'11 marzo, quando è stata annunciata con tanto di note ufficiali al governo indiano, che i marò restavano in Italia.

A New Delhi tirerà un respiro di sollievo l'ambasciatore Daniele Mancini, che la Corte suprema aveva bloccato e voleva punire per l'aver firmato sul rientro dei marò. Le famiglie dei marò hanno spiccicato poche parole, frastornate: «Una cosa troppo grande» e «morale a zero».
I fucilieri di Marina hanno aderito a tale valutazione". Il sottosegretario De Mistura precisa che il governo indiano ha garantito che non ci sarà la pena di morte nei confronti dei due militari italiani. Poi precisa: "La parola data da un italiano è sacra: noi avevamo sospeso" il loro rientro "in attesa che New Delhi garantisse alcune condizioni". E la battaglia per il rispetto del diritto internazionale? Nel cestino.

La vicenda dei marò "sta sempre più assumendo i toni di una farsa". A sostenerlo è il Capo di Stato Maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, il quale auspica che "si concluda quanto prima" e che i due militari italiani "siano al più presto riconsegnati alla giurisdizione italiana". In una nota il Capo di Stato Maggiore della Difesa, "a nome ed insieme a tutto il personale delle Forze Armate, si stringe affettuosamente ai nostri Fucilieri di Marina, Latorre e Girone, ammirandone l'esempio, il coraggio, la disciplina e il senso dello Stato".

Le autorità giudiziarie indiane hanno disposto la costituzione di un tribunale ad hoc per esaminare il caso dei due marò ritornati ieri a New Delhi. E’ quanto hanno riferito i media indiani. L'Alta Corte di New Delhi ha emanato ieri sera un'ordinanza per formare uno speciale organo giudicante come stabilito nella sentenza della Corte Suprema del 18 gennaio. La decisione è stata presa dopo l'autorizzazione del ministro della Giustizia.

Il governo indiano non ha dato al governo italiano "nessuna garanzia" sulla sentenza che sarà pronunciata dal tribunale ad hoc istituito dalla Corte suprema di New Delhi sul caso dei due marò italiani. Così il ministro della Giustizia indiano, Ashwani Kumar, in un'intervista all'emittente Tv Ibn, la Cnn indiana.


Comunque l’Italia ha fatto una pessima figura sul piano internazionale, infatti è palese che oltre alla parola disattesa il governo, il inistro dehli esteir ha sottovalutato la reazione del governo indiano e le possibili conseguenze.  Pacta sunt servanda. Cosi’, in latino, il politologo Edward Luttwak ha commentato in un’intervista al Corriere della Sera la decisione italiana di non far tornare in India i marò: “I patti si rispettano, l’episodio compromette la credibilità del Paese”.

domenica 17 marzo 2013

Caso marò: decisione politica tardiva e poco diplomatica



Tensione ancora molto alta fra India e Italia sul caso dei marò. Ieri la Corte suprema indiana ha invitato l'ambasciatore italiano, Daniele Mancini a non lasciare il Paese e a fornire una spiegazione, entro il 18 marzo, sul mancato rientro in India dei due marò, accusati di aver ucciso due pescatori indiani.

La Corte suprema indiana può ''teoricamente ordinare l'arresto'' dell'ambasciatore d'Italia Daniele Mancini ritenendolo responsabile del non ritorno dei marò in India. Lo sostiene Harish Salve, l'avvocato che fino all'11 marzo ha difeso gli interessi italiana per poi rinunciare in disaccordo con la decisione di Roma.

Intervistato nel programma 'Devil's Advocate' della tv CNN-IBN, Salve, che non ha condiviso la decisione di trattenere in Italia Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ha sostenuto che Mancini non rispettando la dichiarazione giurata depositata presso la Corte Suprema si e' reso responsabile di ''oltraggio alla Corte''.

Secondo Salve l'ambasciatore non potrebbe far valere una immunità diplomatica perché ''la nostra Costituzione stabilisce che tutti agiscano in aiuto e secondo gli orientamenti della Corte Suprema''.

Dopo essersi detto certo che i giudici del massimo tribunale ''agiranno'' nei confronti di Mancini (una udienza e' stata fissata per domattina a New Delhi, ndr.), Salve ha ribadito che ''teoricamente'' il diplomatico potrebbe ''andare in prigione''.

Sul piano pratico, ha concluso, ''dipende da come (i giudici) vorranno regolarsi con lui. Ma possono, se vogliono, mandarlo in carcere''
Pacta sunt servanda. Cosi’, in latino, il politologo Edward Luttwak commenta in un’intervista al Corriere della Sera la decisione italiana di non far tornare in India i marò: “I patti si rispettano, l’episodio compromette la credibilità del Paese”.

“E’ mille volte peggio del caso Ruby – spiega l’analisi di geopolitica – E’ inutile che il governo Monti adotti patetiche scuse giuridiche, quei marinai devono tornare in India. Spero che il presidente della Repubblica intervenga e rovesci la decisione del governo ristabilendo il rispetto delle regole base della vita internazionale”.

“Facciamo un passo indietro – aggiunge al Corriere della Sera – il governo italiano ha chiesto agli indiani di rilasciare i due marò e i giudici hanno detto di sì. La corte del Kerala aveva stabilito una cauzione molto alta ma la Corte Suprema ha detto che i marinai dovevano essere rilasciati perché lo Stato italiano garantiva per loro, dava la sua parola. Se la cauzione fosse stata pagata allora il non ritorno dei marinai poteva avere conseguenze diverse perché’ i soldi potevano essere considerati una sorta di riscatto. Ma così non c’è scampo”.

Agendo in questo modo, aggiunge Luttwak, “il governo italiano ha compromesso lo Stato italiano, la sua credibilita”. La scelta ha conseguenze anche sull’ambasciatore italiano in India: “Per questa Corte suprema se l’Italia non rida’ indietro i marinai si mette fuori dalla legge. Siccome lo Stato è fuorilegge non esiste più l'immunità’ per l’ambasciatore perché’ rappresenta un Paese illegale”.

L'India sta valutando l’ipotesi di ridimensionare la sua missione diplomatica in Italia. Ieri New Delhi ha bloccato l’arrivo a Roma dell’ambasciatore indiano designato, Basant Kumar Gupta. La decisione "è di fatto una riduzione della missione diplomatica a Roma", ha detto oggi all’Ansa una fonte autorevole indiana. Sempre ieri un portavoce del ministero degli Esteri indiano, Syed Akbaruddin, ha dichiarato alla stampa che l’India sta riconsiderando "l’intera gamma dei nostri rapporti" con l’Italia, sottolineando che Roma dovrebbe rispettare gli accordi sottoscritti dal suo ambasciatore con le autorità giudiziarie indiane.

L’Unione europea "prende nota delle discussioni in corso fra Italia e India" sul caso dei due militari italiani "e continua a sperare che una soluzione accettabile reciprocamente possa essere trovata attraverso un negoziato". È quanto dichiara a Bruxelles la portavoce dell’alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea