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mercoledì 20 novembre 2013
Ipotesi di una nuova mappa per gli stati arabi
Un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole.
L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, ha scatenato accesi dibattiti negli Stati Uniti, mentre in Medio Oriente ha fatto nascere congetture su un nuovo piano dell’occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli.
Le rivolte nei paesi arabi hanno modificato gli interessi geostrategici della regione. Ma non sono riuscite a cancellare la lunga rivalità esistente tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
Il punto di forza dei movimenti democratici in Medio Oriente è la loro estraneità agli attenzioni geostrategice regionali. Per la prima volta le rivendicazioni dei manifestanti arabi non riguardano una grande causa sovranazionale: panarabismo, panislamismo, socialismo, sostegno alla causa palestinese, anticolonialismo, antisionismo o antimperialismo. Si tratta di movimenti patriottici, non nazionalisti, radicati in un contesto nazionale, che prendono di mira i leader, ma senza accusarli di essere marionette al servizio delle potenze straniere.
Le grandi linee di frattura geostrategiche non si sono eclissate: sopravvivono nelle menti dei potenti ancora in carica che, quando non si accontentano di lottare per la sopravvivenza (come Muammar Gheddafi in Libia o Ali Abdallah Saleh nello Yemen), interpretano le rivolte alla luce delle conseguenze sulla stabilità della regione. È il caso dell’Arabia Saudita e di Israele, che s’interessa alle manifestazioni arabe quasi esclusivamente in quest’ottica. Per quanto riguarda invece l’occidente, da una parte sembra soddisfatto della democratizzazione in corso, ma in realtà è molto attento alla stabilità della regione, come dimostra la scelta di rimanere in silenzio riguardo alla repressione in Bahrein.
Ci troviamo di fronte a una divisione, sconosciuta nella storia recente: fino a pochi anni fa i movimenti rivoluzionari miravano a favorire una grande potenza o un’ideologia. Per molto tempo il punto di riferimento è stata l’Unione Sovietica, poi l’islamismo, ma anche l’occidente ai tempi delle manifestazioni che hanno fatto cadere il muro di Berlino. Oggi sembrano coesistere due logiche.
Da una parte si vedevano dei siriani che si facevano uccidere pur di manifestare contro il regime di Bashar al Assad, dall’altra dei palestinesi residenti in Siria che, incoraggiati dal regime di Damasco, cercavano di oltrepassare il confine sulle alture del Golan andando incontro alla morte per mano dei soldati israeliani. L’impressione è che questi due gruppi di manifestanti provenissero da due Sirie diverse.
È necessario distinguere tra i paesi dove le poste in gioco geostrategiche sono limitate e quelli dove il rovesciamento del regime può apparire come il preludio a un cambiamento più ampio. Al primo gruppo appartengono paesi come la Tunisia, lo Yemen, la Libia e, paradossalmente, l’Egitto. I primi tre occupano un posto marginale nelle reti di alleanze e nei conflitti mediorientali. Molto probabilmente la Tunisia manterrà una linea filoccidentale e continuerà ad aver bisogno dell’Europa. Il regime di Gheddafi è isolato dal resto del mondo arabo e lo Yemen è importante solo per l’Arabia Saudita.
Il paradosso è l’Egitto, un attore fondamentale nel conflitto israelo-palestinese e il cuore delle tensioni che agitano il mondo arabo. Nonostante ciò, la caduta del regime di Mubarak avrà un impatto molto limitato dal punto di vista geostrategico. In passato l’opinione pubblica egiziana ha duramente criticato l’atteggiamento compiacente di Mubarak nei confronti di Israele e non ha mai appoggiato gli accordi, più o meno segreti, di cooperazione tra Il Cairo e Tel Aviv sulla repressione dei militanti di Hamas, la chiusura della Striscia di Gaza o la vendita di gas a Israele.
Il problema è sapere se di fronte a un’evoluzione simile i futuri governi israeliani, a differenza di quello attuale, saranno pronti a favorire il cambiamento politico. La grande linea di frattura che percorre il mondo arabo, in particolare a est del fiume Giordano, è l’opposizione tra un polo arabo e sunnita, guidato dall’Arabia Saudita, e l’Iran sciita. Da trent’anni Riyadh considera Teheran una minaccia e cerca, con più o meno successo, di sfruttare il nazionalismo arabo e il sunnismo militante per arginare l’ambizione iraniana di diventare la principale potenza regionale.
In questo contesto il movimento democratico in Bahrein (dove la maggioranza sciita della popolazione si è ribellata contro il regime sunnita) è una duplice minaccia per l’Arabia Saudita. È una minaccia interna perché mette in discussione la legittimità della monarchia bahreinita (e, di conseguenza, quella della monarchia dell’Arabia Saudita, dove vive un gruppo consistente di sciiti). Inoltre è una minaccia esterna perché, senza volerlo, mette in pericolo un equilibrio strategico considerato vitale: l’opposizione tra Arabia Saudita e Iran, basata su quella che Riyadh considera la divisione definitiva nel golfo Persico, cioè quella tra sunniti e sciiti. Questo timore è rafforzato dall’evoluzione religiosa degli alawiti siriani (una corrente sciita): considerati alla stregua di “eretici”, gli alawiti sono stati riconosciuti come musulmani solo dagli sciiti, rafforzando agli occhi dei sauditi l’idea che le divisioni strategiche si basino essenzialmente sull’opposizione tra sunniti e sciiti.
Ufficialmente l’Iran non sta sfruttando quest’opposizione perché significherebbe confinarsi in un ghetto. Sostenendo i palestinesi ed Hezbollah, Teheran ha cercato di superare questo conflitto religioso, presentandosi come il campione della causa araba. Negli anni ottanta l’Iran era uscito sconfitto dalla contrapposizione tra sciiti e sunniti. Durante la guerra tra Iran e Iraq, solo le minoranze sciite del mondo arabo avevano sostenuto l’Iran (e nemmeno tutte). Saddam Hussein invece aveva potuto contare su una vasta coalizione fondata sul nazionalismo arabo e sul panislamismo sunnita. Invadendo il Kuwait nel 1990, Saddam Hussein ha mandato in frantumi questa coalizione. Gli iraniani hanno imparato la lezione: per promuovere la loro causa non hanno puntato sulla rivoluzione islamica, ma sull’antiamericanismo militante, il sostegno ai palestinesi e il nuovo atteggiamento di garante degli equilibri del golfo Persico.
Nel luglio del 2006 la guerra in Libano – in cui Hezbollah, sostenuto dall’Iran, è riuscito a tenere testa all’esercito israeliano – ha segnato il culmine di questa politica e Hassan Nasrallah, il leader del partito islamista, è apparso come il nuovo campione della causa araba. Pochi mesi dopo la situazione è cambiata: la condanna a morte di Saddam Hussein è stata percepita come una rivincita degli sciiti, sostenuti dagli iraniani e allo stesso tempo dagli statunitensi. Gli sciiti arabi non possono essere ridotti a una “quinta colonna” iraniana. Iracheni e bahreiniti hanno compreso da tempo il rischio di essere strumentalizzati da Teheran: si sentono prima di tutto iracheni e bahreiniti, e lottano per il diritto a essere riconosciuti come cittadini a tutti gli effetti. Anche loro, però, come Hezbollah, hanno bisogno di essere tutelati dall’Iran perché vivono in un ambiente sunnita ostile.
È soprattutto l’Arabia Saudita ad alimentare la grande narrazione di una lotta tra persiani sciiti e arabi sunniti, sullo sfondo della quale tutti gli arabi sciiti sono visti principalmente come persiani di lingua araba, ma anche come eretici, secondo i canoni del wahabismo (il movimento religioso sunnita al potere in Arabia Saudita). Questo è uno dei pochi punti della politica estera saudita ad avere una giustificazione religiosa. Spiega, inoltre, l’ambivalenza di Riyadh verso i movimenti radicali sunniti, dai taliban afgani ai jihadisti di Fallujah. Da molto tempo ormai la causa palestinese è marginale nell’ottica dei sauditi. Il problema principale è la “minaccia iraniana”. Una questione che potrebbe assumere i contorni di una profezia che si autoavvera: negando agli sciiti del Bahrein il diritto alla piena cittadinanza, l’Arabia Saudita li relega al loro status di “quinta colonna” dell’Iran.
Resta da affrontare la questione della Siria. Il regime siriano è il principale alleato dell’Iran e tutto il mondo, dai sauditi agli israeliani, dovrebbe gioire della sua caduta. Tuttavia prevale la preoccupazione, perché la caduta di Assad spalancherebbe le porte sull’ignoto. Quale sarà la politica estera di Damasco quando sarà finita la dominazione del partito Baath? È difficile dare una risposta perché il presidente siriano è strettamente condizionato dalla politica interna. Negli ultimi quarant’anni il regime di Damasco ha sviluppato una strategia della tensione permanente con Israele con l’obiettivo di presentarsi come difensore del nazionalismo arabo contro gli israeliani. Allo stesso tempo ha tessuto le fila di una diplomazia basata sulla realpolitik, stando ben attento a non superare mai certi limiti e a tenere le fila di molte alleanze contemporaneamente.
venerdì 3 agosto 2012
Yemen, liberato e già arrivato a Ciampino l’addetto alla sicurezza Spadotto
E' arrivato in Italia all'aeroporto di Ciampino Alessandro Spadotto, il carabiniere italiano sequestrato il 29 luglio a Sana'a nello Yemen.
L'aereo, un Falcon 900, proveniente da Sana'a, è atterrato all'aeroporto militare di Ciampino. "E' il 27/o caso che si risolve con successo, dall'inizio di questo governo", ha sottolineato con soddisfazione il ministro degli Esteri Giulio Terzi, spiegando che "i rapporti diplomatici e l'intensità delle relazioni anche personali sono molto importanti quando si verificano questi fenomeni". Spadotto è stato accolto dal capo dell'Unità di Crisi della Farnesina, Claudio Taffuri.
Caloroso l'abbraccio del generale dei Carabinieri Antonio Ricciardi, per conto di tutta l'Arma. Dallo scalo romano il militare è stato accompagnato dai colleghi del Ros alla Procura di Roma per essere ascoltato dai magistrati che hanno aperto un fascicolo sul rapimento. Una deposizione in cui il militare dell'Arma è chiamato a ricostruire i vari passaggi della vicenda, a partire da quando, domenica, è stato prelevato da uomini del clan Al-Jalal mentre, in abiti civili, si trovava in un negozio nei pressi della sede diplomatica a Sanaa, fino alla sua liberazione nel Marib, la regione petrolifera ad est della capitale yemenita segnata dagli scontri tra tribù locali e forze governative.
Rivendicando il sequestro, Ali Nasser Huraikdan, capo della tribù al-Jalal, autore del sequestro, ha confermato al quotidiano locale "Akhbar Alxaum! di non appartenere ad alcun gruppo e ha insistito nel ricordare che il sequestro è stato una misura di pressione sul governo yemenita perchè esaudisse le sue richieste, e non sul governo italiano. Huraikdan chiedeva infatti che il suo nome venisse rimosso dalla lista delle persone ricercate in Yemen e dal novero di quelle che non possono recarsi all'estero.
E le stesse parole - "sto bene, non mi hanno trattato male" - Spadotto le ha ripetuto stanotte, subito dopo la liberazione, alla madre Marina e al padre Augusto, rimasti ad aspettarlo - "felicissimi" - a San Vito al Tagliamento (Pordenone). Stamani di buon ora con il carabiniere ha parlato anche il ministro Terzi: "é un italiano che indossa la stessa divisa con cui migliaia di carabinieri tengono alta la bandiera del nostro Paese non solo in patria, ma in tante aree di crisi nel mondo, dove sono rispettati e ammirati da Governi e popolazioni"; "ha mostrato grande coraggio in questi giorni e ne siamo tutti orgogliosi". Il responsabile della Farnesina, poi, con implicito riferimento ai turisti amanti del brivido, ha colto l'occasione per "ricordare l'esigenza di grande prudenza quando ci si trova in situazioni a rischio", sottolineando che i rapimenti sono in aumento anche per le "inspiegabili leggerezze commesse dalle persone che si trovano all'estero e che non hanno motivi seri per recarsi in zone di rischio".
L'aereo, un Falcon 900, proveniente da Sana'a, è atterrato all'aeroporto militare di Ciampino. "E' il 27/o caso che si risolve con successo, dall'inizio di questo governo", ha sottolineato con soddisfazione il ministro degli Esteri Giulio Terzi, spiegando che "i rapporti diplomatici e l'intensità delle relazioni anche personali sono molto importanti quando si verificano questi fenomeni". Spadotto è stato accolto dal capo dell'Unità di Crisi della Farnesina, Claudio Taffuri.
Caloroso l'abbraccio del generale dei Carabinieri Antonio Ricciardi, per conto di tutta l'Arma. Dallo scalo romano il militare è stato accompagnato dai colleghi del Ros alla Procura di Roma per essere ascoltato dai magistrati che hanno aperto un fascicolo sul rapimento. Una deposizione in cui il militare dell'Arma è chiamato a ricostruire i vari passaggi della vicenda, a partire da quando, domenica, è stato prelevato da uomini del clan Al-Jalal mentre, in abiti civili, si trovava in un negozio nei pressi della sede diplomatica a Sanaa, fino alla sua liberazione nel Marib, la regione petrolifera ad est della capitale yemenita segnata dagli scontri tra tribù locali e forze governative.
Rivendicando il sequestro, Ali Nasser Huraikdan, capo della tribù al-Jalal, autore del sequestro, ha confermato al quotidiano locale "Akhbar Alxaum! di non appartenere ad alcun gruppo e ha insistito nel ricordare che il sequestro è stato una misura di pressione sul governo yemenita perchè esaudisse le sue richieste, e non sul governo italiano. Huraikdan chiedeva infatti che il suo nome venisse rimosso dalla lista delle persone ricercate in Yemen e dal novero di quelle che non possono recarsi all'estero.
E le stesse parole - "sto bene, non mi hanno trattato male" - Spadotto le ha ripetuto stanotte, subito dopo la liberazione, alla madre Marina e al padre Augusto, rimasti ad aspettarlo - "felicissimi" - a San Vito al Tagliamento (Pordenone). Stamani di buon ora con il carabiniere ha parlato anche il ministro Terzi: "é un italiano che indossa la stessa divisa con cui migliaia di carabinieri tengono alta la bandiera del nostro Paese non solo in patria, ma in tante aree di crisi nel mondo, dove sono rispettati e ammirati da Governi e popolazioni"; "ha mostrato grande coraggio in questi giorni e ne siamo tutti orgogliosi". Il responsabile della Farnesina, poi, con implicito riferimento ai turisti amanti del brivido, ha colto l'occasione per "ricordare l'esigenza di grande prudenza quando ci si trova in situazioni a rischio", sottolineando che i rapimenti sono in aumento anche per le "inspiegabili leggerezze commesse dalle persone che si trovano all'estero e che non hanno motivi seri per recarsi in zone di rischio".
domenica 29 luglio 2012
Yemen, italiano rapito presso l'ambasciata
Stando a fonti di stampa (France Presse) un cittadino italiano, addetto alla sicurezza presso l'ambasciata italiana a Sana'a, nello Yemen, è stato rapito da uomini armati, che con la forza lo hanno costretto a salire in macchina. La notizia, appresa dall'agenzia, è stata poco dopo confermata dalla Farnesina, che ha attivato tutti i canali in loco, ma mantiene il "massimo riserbo" sulla vicenda. Il sequestro è avvenuto nei pressi della stessa legazione diplomatica, nel rione Hadda. I sequestri di stranieri sono frequenti in Yemen; gli autori sono clan tribali che chiedono riscatti. Quasi sempre, gli ostaggi vengono poi rilasciati.
La Farnesina ha confermato. Il ministero degli Esteri, tramite l'Unità di crisi del ministero, ha immediatamente attivato tutti i canali, ma sulla dinamica dei fatti, il ministero degli Esteri mantiene in questo momento ''il più stretto riserbo'' per favorire una positiva soluzione della vicenda. Il rapimento dell'uomo - di cui non si conoscono le generalità - e' avvenuto in una giornata particolarmente caotica e drammatica per la capitale yemenita. Un centinaio di uomini armati, appartenenti a varie tribù, hanno contemporaneamente preso d'assalto il ministero degli Interni, chiedendo di essere arruolati nelle forze di polizia. Il commando ha anche preso in ostaggio alcuni impiegati e li ha rilasciati alcune ore dopo. Secondo il responsabile del ministero, il gruppo si trova tuttavia ancora all'interno dell'edificio.
Anche dopo l'uscita di scena del presidente - l'ex dittatore Ali Abdullah Saleh - lo Yemen continua ad attraversare una fase di violenze e di scontri tra le varie tribù del Paese che si combattono tra loro per il controllo di aree e fette di potere
Un centinaio di uomini armati hanno fatto irruzione nella sede del ministero dell'Interno dello Yemen, a Sana'a. I rivoltosi, appartenenti a una tribù del Sud del Paese, chiedono di essere assunti nella polizia, a titolo di ricompensa per aver contribuito alla rivolta che ha portato alla destituzione dell'ex presidente Saleh. Gli uomini hanno tenuto brevemente in ostaggio alcuni impiegati, ma continuano ad occupare il palazzo.
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