sabato 26 dicembre 2015

25 dicembre 1990, la prima volta del web


Il World Wide Web, più comunemente conosciuto come Web, il 12 marzo del 1989 l'informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicava un saggio tecnico dal titolo 'Management dell'Informazione: una proposta', in cui esponeva un metodo per migliorare le comunicazioni all'interno del Cern di Ginevra (qui la timeline della nascita del web).

E bene si, era proprio il 12 marzo 1989 quando Tim Berners-Lee presentò il documento Information Management: a Proposal che fu definito "vago ma interessante" e contenente il progetto di un software per la condivisione di documentazione scientifica in formato elettronico indipendentemente dalla piattaforma informatica usata. Oltre alla creazione del software, si iniziarono ad usare le definizioni di "linguaggio HTML" e di "protocollo di rete HTTP" per definire standard e protocolli per scambiare documenti su reti. Dopo alcuni anni in cui la tecnologia veniva usata solo dalla comunità scientifica, il 30 aprile 1993 il CERN ha deciso di rendere il World Wide Web a disposizione del pubblico rinunciando ad ogni diritto d'autore.

Più di un anno dopo, esattamente nel giorno di Natale, nasceva la prima pagina web al mondo. Sir Tim Berners-Lee, l’inventore del protocollo www nel 1989 e l’informatico belga Robert Calliau si mettevano in comunicazione tramite un web browser e un web server per la prima volta il 25 dicembre del ’90. Berners-Lee, oggi 60enne, ha voluto che la sua invenzione rimanesse gratuita e disponibile a tutti, mettendo le basi per la Rete dei nostri giorni.

L’ingegnere informatico oggi lavora all’idea di  “una costituzione globale”, una sorta di 'carta dei diritti' che ha chiamato “The web we want”, il web che vogliamo. Un’esortazione affinché i cittadini siano promotori di una Magna Carta che possa essere sostenuta dalle istituzioni, dai governi e dalle aziende.

Il World Wide Web è stato originariamente co-creato dall'informatico Tim Berners-Lee con Robert Cailliau nel 1989 per favorire la condivisione delle informazioni tra i fisici di università e istituti di ricerca. Il "WWW" ci permette oggi di navigare e fruire di un vasto elenco di servizi e contenuti collegati tra loro attraverso i 'link' e che visitiamo quotidianamente tramite il web.

Quando fu creato, il World Wide Web era solo uno dei tanti servizi simili disponibili su Internet.
La decisione di rendere il WWW un servizio gratuito e aperto a tutti ne permise una rapida diffusione, tanto che oggi è lo standard di trasmissione Internet più popolare.

WWW piattaforma di riferimento per tutti, come per tante cose apparse online, il WWW divenne presto una piattaforma di riferimento per tutti grazie alla estrema semplicità di utilizzo e soprattutto per la facilità di plasmare nuove pagine e servizi. Una delle cose sorprendenti, fu la decisione di Berners-Lee di rendere il tutto aperto, pubblico e gratuito, consentendo oggi a miliardi di persone di poter disporre di un mondo infinito di servizi e contenuti.

domenica 8 novembre 2015

La Birmania è tornata al voto: chiusi i seggi, attesa per i risultati


Seggi chiusi e via allo spoglio in Birmania, dove si sono tenute le prime elezioni libere dal 1990, quando si instaurò una giunta militare. Il regime si è fatto da parte ma si è riservato una quota importante, che rischia di essere una quota di controllo, nel nuovo sistema democratico. Un quarto dei seggi in entrambe le camere è appalto dei militari. Per il resto vige un sistema maggioritario secco.

L’opposizione rappresentata dalla Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace che ha speso quindici anni agli arresti domiciliari, è data per favorita. La settantenne leader ha votato in mattinata, per la prima volta nella sua vita, in un seggio dell’ex capitale, Rangoon, dove si vedevano lunghe file davanti ai seggi.

I primi risultati delle storiche elezioni in Birmania - rinominata Myanmar con la giunta militare - saranno annunciati domani mattina alle 9 locali (le 3,30 in Italia), ha annunciato la Commissione elettorale, mentre nei seggi è già in corso lo scrutinio delle schede votate. Per i risultati completi, ci potrebbe volere più di una settimana. L’NDL della signora Suu Kyi sfida il partito appoggiato dai generali, l’Union Solidarity Development Party (USDP) al potere dal 2011. Lunghe code e grandi folle ai seggi, come a Yangon dove ha votato la signora Suu Kyi, che sorriso e fiori fra i capelli, ha evitato ogni commento.

Ma non si sono verificati problemi rilevanti, secondo il capo degli osservatori europei:
“Finora abbiamo constatato procedure che sembrano abbastanza affidabili, non esenti da problemi o imperfezioni ma alcune delle cose di cui avevamo discusso in precedenza non sembrano porre grandi problemi al momento, per esempio le liste elettorali, non abbiamo constatato per esempio problemi nell’identificazione degli elettori qui a Rangoon, ma questo non esclude che si possano poi ricevere indicazioni diverse dal resto del Paese”.

Gli osservatori internazionali non sono stati però autorizzati a verificare i seggi installati nelle basi militari, dove il voto si è concluso già in tarda mattinata. Nel Paese l’affluenza alle urne è stata massiccia, intorno all’80% secondo la Commissione elettorale centrale. Per i risultati definitivi bisognerà attendere due settimane.

Se Aung San Suu Kyi non avrà i numeri per governare da sola, dovrà cercare un difficile accordo. Probabilmente si rivolgerà ai più forti dei tanti partiti rappresentanti delle diverse etnie che compongono il mosaico birmano. Sarà un passaggio delicatissimo. «La Lega nazionale per la democrazia (Nld) non può andare da sola, ha bisogno di alleati», ha spiegato Khin Zaw Win dell'Istituto Tampadipa di Yangon. E non sarà semplice. Una delle linee di frattura in Birmania è appunto quella etnica. I rapporti tra la maggioranza buddista e le diverse minoranze, molte delle quali islamiche, sono estremamente tesi.

Sebbene la famiglia di Aung San abbia una storia d'integrazione, l'ascesa di un movimento buddista duro e il permanere di focolai di rivolta e della repressione da parte dei militari, non segnala nulla di buono. Inoltre il partito della premio Nobel ha irritato alcuni di questi partiti etnici con la decisione di presentarsi in tutte le aree del Paese.

Il pericolo più grande resta comunque la tensione tra l'attesa di democrazia che i birmani a questo punto hanno e il «grip» che l'ex giunta continua a mantenere su strutture di potere ed economiche nel paese del Sudest asiatico. Un caso tipico è quello della giada, la pietra preziosa tanto cara alla cultura cinese. Secondo l'organizzazione non governativa Global Witness, si tratta di un settore che produce entrate per 31 miliardi di dollari, ben oltre quanto ufficialmente dichiarato dalle autorità. Una ricchezza enorme che finisce nelle mani di figure legate al vecchio regime, compresi membri della famiglia dell'uomo forte di Myanmar, l'ex capo della giunta militare Than Shwe. «Stiamo parlando di persone che avrebbero molto da perdere se s'instaurasse una genuina democrazia che porrebbe domande su tali quantità di denaro», ha spiegato Juman Kubba di Global Witness.

domenica 25 ottobre 2015

Netanyahu: la Spianata delle Moschee luogo di preghiera dei musulmani


Mentre Benjamin Netanyahu assicura, per stemperare gli animi, che non vuole assolutamente cambiare lo 'status quo' sulla Spianata delle Moschee, che continuerà ad essere un luogo di preghiera solo per i musulmani, un altro colono è stato accoltellato in quella che è chiamata 'l'intifada dei coltelli'.

Un monitoraggio 24 ore su 24 della Spianata delle Moschee affidato a un circuito di videocamere di sorveglianza. Questa una delle misure contenuta nell'accordo firmato tra Israele e Giordania con l’obiettivo di ridurre le tensioni a Gerusalemme. L’annuncio è arrivato da John Kerry, presente all’incontro ad Amman tra Netanyahu, Abu Mazen e il Re di Giordania.

“Attiveremo lungo tutta l’area un servizio di videosorveglianza 24 ore su 24. In questo modo garantiremo una visibilità e una trasparenza totale. Questo farà davvero la differenza e scoraggerà chiunque abbia intenzione di violare la sacralità di questi luoghi“. Ha dichiarato John Kerry.

Importante il coinvolgimento di Amman, custode dei luoghi santi per l’Islam di Gerusalemme. Nei quali, Netanyahu ha ribadito di aver ristabilito lo status quo, nel tentativo di spegnere l’ondata di violenze degli ultimi giorni. “ L’accesso dei fedeli alla Spianata delle Moschee sarà assicurato. Cosi come continueremo a garantire il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica. Abbiamo aumentato la cooperazione tra le autorità israeliane e quelle islamiche per garantire i fedeli e i visitatori rispettino la sacralità del luogo“ ha spiegato il Premier israeliano.

10 israeliani e 49 palestinesi sono morti nelle ultime 5 settimane. Il riaccendersi degli scontri tra le due fazioni ha sollevato la preoccupazione della comunità internazionale che sta cercando in queste ore di evitare il crearsi delle condizioni per l’ennesimo conflitto tra israeliani e palestinesi.

"Israele continuerà ad applicare la sua politica di sempre: i musulmani pregano sul Monte del Tempio (Spianata delle Moschee); i non musulmani lo visitano". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu dopo gli accordi annunciati dal segretario di stato Usa John Kerry tra Giordania e Israele. Il premier ha quindi riaffermato che Israele non ha "intenzione di dividere il Monte del Tempio e respingiamo completamente ogni tentativo di insinuare il contrario".

Netanyahu ha infine ribadito che i visitatori e coloro che pregano nel complesso hanno il diritto di farlo "in pace, senza violenza, senza minacce, senza intimidazione e provocazione""; e ha chiesto "l'immediato ristabilimento della calma" e il ritorno alla normalità, dopo tre settimane di crescente violenza.

Ma qualcosa si muove anche tra i palestinesi, ieri sera il segretario generale del partito 'Palestinian National Initiative', (Al-Mubadra), Mustafà Barghouti, parente del famoso Marwan in carcere in Israele, è stato attaccato e ferito, con "un oggetto affilato o un coltello", davanti casa sua a Ramallah da due ignoti. E’ quanto riporta l'agenzia Maan citando fonti vicine allo stesso Barghouti.

Intanto, nel ventesimo anniversario dell'omicidio di Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista di destra israeliano il 4 novembre 1995, migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade di Tel Aviv con lo slogan: "Ebrei e arabi non vogliono odiarsi tra loro. Israele e Palestina: due Stati per due popoli". Tra gli organizzatori del corteo il partito di sinistra Meretz e gli attivisti di 'Pace ora'.

E mentre Israele vive giorni di tensione, diventano sempre di più gli arabo-israeliani che vogliono spostarsi nelle aree calde di Siria e Iraq per unirsi alle fila jihadiste. L'ultimo un 23enne che è riuscito sabato ad attraversare in parapendio la frontiera con la Siria, dalle Alture del Golan, con l'obiettivo di unirsi ai gruppi islamisti ribelli. Nel passato l'intelligence israeliana ha lanciato numerosi allarmi sul fenomeno, considerato estremamente pericoloso.

venerdì 23 ottobre 2015

Netflix: la nuova piattaforma tv arriva in Italia, vediamo come funziona


Dopo i tanti annunci è approdata  la piattaforma tv via internet che in pochi anni si è fatta abilmente largo in tutto il mondo facendo cambiare abitudini al pubblico, prima fra tutta quella di partecipare alle maratone di serie tv, con tutti gli episodi uno di seguito all'altro anziché aspettare gli appuntamenti settimanali.

Alcuni contenuti sono noti tra film, serie originali esclusive, documentari e altri programmi provenienti da tutto il mondo. L'attesa è però anche sulle produzioni italiane di cui si parla da un po’, ad esempio una serie su Mafia Capitale, ma non ancora rivelata. Riuscirà ad affermarsi in Italia, dove peraltro la copertura della banda larga non è totale? La domanda è lecita in un mercato, quello italiano, che è sempre stato definito ristretto e dove finora è soprattutto sul calcio che ci si è divisi gli abbonati tra Sky e Mediaset (Premium).

La risposta arriva da Netflix stesso che, nel momento in cui ha deciso di puntare sull'Italia, ''e' un’opportunità - ha detto Ted Sarandos - siamo qui non per distruggere il sistema italiano ma per partecipare facendolo crescere e contribuendo alla produzione, il che significa lavoro per gli italiani. Aprire in Italia è un atto di fiducia''. Già chiari i costi: un piano Base con una sessione di streaming alla volta e definizione standard a 7,99 euro al mese, un piano Standard con due sessioni di streaming contemporanee e alta definizione a 9,99 euro al mese e un piano Premium, che consentirà quattro sessioni di streaming alla volta e la visione in Ultra HD 4K a 11,99 euro.

Primo mese di lancio gratis per tutti e la promessa iniziale di abbonarsi facilmente con un clic e altrettanto agevolmente revocare. Si potrà accedere da Smart TV, tablet e smartphone, computer e da una serie di console per videogiochi e set-top box connessi a Internet, oltre che da Apple TV e Google Chromecast. Due le partnership già siglate: con Telecom Italia e con Vodafone.
Netflix sarà fruibile anche tramite il set-top box TIMvision e i clienti della compagnia telefonica potranno pagare l'abbonamento Netflix tramite la bolletta TIM, mentre Vodafone offrirà diverse promozioni esclusive che includeranno abbonamenti Netflix con l'acquisto di servizi di fibra ottica o 4G. Vodafone consentirà inoltre agli utenti italiani di semplificare la registrazione e il pagamento dell'abbonamento Netflix, che potrà avvenire tramite il contratto. Ci saranno anche le carte regalo Netflix presso diversi rivenditori autorizzati.

«Netflix rappresenta il passaggio dai network televisivi alle tv app e rivoluziona il modo di approcciarsi alla tv, perché consente di vedere i contenuti su qualunque schermo, a qualsiasi ora. Per avvicinare il pubblico italiano punteremo sulla prova gratuita di un mese: siamo sicuri che quando gli utenti proveranno Netflix se ne innamoreranno perché il servizio è economico (l’abbonamento base costa 7,99 euro al mese); il contratto non è vincolante, ma rinnovabile ogni trenta giorni e i contenuti sono di altissima qualità. Il nostro obiettivo, in termini di spettatori, è di raggiungere un terzo delle famiglie italiane nel giro di sette anni», spiega Reed Hastings, co-fondatore e amministratore delegato.

I programmi saranno in lingua originale, con sottotitoli o doppiate in italiano, le serie originali di Netflix tra cui quelle con Marvel, Darevil e Jessica Jones (entro la fine dell'anno) e poi la miniserie The Defenders, che riunisce i personaggi delle quattro serie precedenti. E poi ancora le serie Sense8, Grace and Frankie, Unbreakable Kimmy Schmidt, Marco Polo e Narcos, i documentari Virunga e Mission Blue, docu-serie come Chef's Table. Alla prassi di acquisto di titoli da qualche tempo si è affiancato anche il salto nella produzione: tra i titoli annunciati figurano Crouching Tiger, Hidden Dragon The Green Legend, Jadotville, The Ridiculous 6 e War Machine di Brad Pitt, mentre alla Mostra del cinema di Venezia ha debuttato con successo il primo film originale Beasts of No Nation, sui bambini soldato. Capitolo a parte le serie cult già in onda in Italia ossia House of Cards (Sky Atlantic) e Orange is the New Black (Mediaset Premium) che comunque Netflix sta cercando di riprendersi.

L’offerta è ricchissima e di qualità: tra i titoli di punta c’è sicuramente Narcos, serie ideata da José Padilha per Netflix incentrata sulla storia vera della dilagante diffusione della cocaina tra Stati Uniti ed Europa, grazie al cartello di Medellín del boss della droga Pablo Escobar.

Attualmente sono in fase di realizzazione ben venti produzioni targate Netflix, e l’anno prossimo il numero è destinato ad aumentare. «Tra le altre serie originali di maggiore successo, vi ricordo Daredevil, Marco Polo con il vostro Pierfrancesco Favino e Orange is the new black», specifica Reed Hastings durante la conferenza stampa tenutasi a Milano, cui hanno partecipato anche gli attori Will Arnett (i Millers), Kristen Ritter (Jessica Jones), Taylor Schilling (Orange is the new black), Pierfrancesco Favino (protagonista del già citato Marco Polo), Daryl Hannah (Sense8) e Stephen DeKnight (showrunner di Daredevil).

Se volete registrarvi, visitate il sito Netflix.com, cliccate sul grande bottone rosso con la scritta ‘Inizia il tuo mese gratuito’ e create il vostro account usando la vostra mail.

mercoledì 21 ottobre 2015

«L’Olocausto fu voluto dal muftì, non da Hitler». Bufera su Netanyahu dopo le affermazioni sulla Shoah



Il premier israeliano: "Sono stati i palestinesi a spingere Adolf Hitler allo sterminio degli ebrei". Stanno provocando una grande risonanza le affermazioni del premier Benyamin Netanyahu nel suo intervento al Congresso sionista mondiale di Gerusalemme, secondo cui Hitler non voleva "sterminare" gli ebrei, ma "espellerli": fu convinto alla Soluzione finale dal Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini. "Hitler -ha detto al Congresso sionista- all'epoca non voleva sterminare gli ebrei ma espellerli. Il Muftì andò e gli disse “se li espelli, verranno in Palestina. “Cosa dovrei fare?” chiese, e il Muftì rispose “Bruciali".

Tra le voci più autorevoli che hanno replicato alle parole di Netanyahu, quella del professor Dan Michman, esperto di fama mondiale e a capo dell'Istituto di ricerca sull'Olocausto all'Università di Bar-Llan e dell'Istituto internazionale di ricerca sull'Olocausto dello Yad Vashem. Hitler, ha spiegato Michman, incontrò sicuramente Hitler, ma ciò avvenne solamente dopo l'inizio della Soluzione Finale.

«C'è un limite alla deformazione della storia» e le affermazioni di Netanyahu «fanno il gioco dei negazionisti dell'Olocausto», ha attaccato il leader dell'opposizione israeliana Itzjak Herzog, chiedo a Netanyahu di correggerla immediatamente perché minimizza la Shoah... e la responsabilità di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo". Un altro deputato, il laburista Itzik Shmuli, ha chiesto che il premier si scusi con i sopravvissuti all'Olocausto. «Il capo del governo israeliano al servizio dei negazionisti! Questo non si era mai visto finora. Non è la prima volta che Netanyahu deforma la storia però una frottola di questa caratura è veramente nuova», ha affermato, citato dal quotidiano Ynet.

A prendere le distanze dalle parole del premier è anche il ministro della Difesa Moshe Yaalon." Ovviamente non fu Haj Amin al-Husseini ad inventare la 'soluzione finale alla questione ebraica'. La storia indica chiaramente che fu Hitler a dare il via e Haj Amin al-Husseini si unì a lui", ha commentato Yaalon, affermando che "gli attuali movimenti jihadisti incoraggiano l'antisemitismo e raccolgono un'eredità nazista".

''Lo Stato di Palestina denuncia le affermazioni Netanyahu in quanto moralmente indifendibili ed infiammatorie'', ha affermato il segretario generale dell'Olp Saeb Erekat. L'Anp rincara, incitamento Israele creerà situazione esplosiva. «Gli sforzi palestinesi contro il regime nazista sono profondamente radicati nella nostra storia», ha affermato il segretario generale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat, in un comunicato. «La Palestina non li dimenticherà mai, anche se sembra che il governo estremista di Netanyahu lo abbia fatto». «A nome delle migliaia di palestinesi che hanno combattuto assieme alle truppe alleate in difesa delle giustizia internazionale - ha aggiunto - lo Stato di Palestina denuncia quelle affermazioni, moralmente indifendibili e diffamatorie». Con le sue dichiarazioni «Netanyahu ha incolpato i palestinesi dell'Olocausto, assolvendo completamente Hitler dall'odioso e inaccettabile genocidio del popolo ebraico». Queste affermazioni - secondo Erekat - «hanno l'effetto di approfondire le divisioni in un momento in cui una pace giusta e duratura è più necessaria che mai».

"L'affermazione di Netanyahu è totalmente senza basi". Così Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. "Che il Muftì spingesse sui nazisti e volesse l'invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler non doveva essere convinto da nessuno".

Netanyahu incontra oggi a Berlino la cancelliera Angela Merkel e, domani, il Segretario di Stato Usa John Kerry. Progettato da tempo, l'incontro con Merkel era slittato dopo le violenze scoppiate nei Territori e in Israele. L'incontro con Kerry è stato fissato giorni fa, nel tentativo di trovare una via d'uscita alla crisi con i palestinesi.

Dopo il coro di proteste provocato dalle sue affermazioni di ieri, arriva oggi una parziale retromarcia del premier israeliano: Non ho avuta alcuna intenzione di sollevare Hitler dalla responsabilità per l'Olocausto e la Soluzione Finale», ha detto Netanyahu, citato dai media. Ma la frase scioccante resta e sarà difficile da cancellare.

"Non c’è nessun motivo per cambiare la storia", ha detto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert. "Conosciamo bene l’origine dei fatti - ha aggiunto - ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi".

sabato 17 ottobre 2015

Consiglio Sicurezza, eletti cinque nuovi membri non permanenti


Giappone, Ucraina, Egitto, Senegal e Uruguay al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Resteranno in carica per due anni a partire dal 1 gennaio. Il Consiglio di sicurezza è formato da cinque membri permanenti e da dieci non permanenti che vengono eletti, cinque all’anno, dall’Assemblea generale.

Quindi l'Ucraina a partire dal 2016 sarà per due anni membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, a seguito di un voto giovedì dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L'adesione dell'Ucraina al Consiglio di Sicurezza Onu è stato accolto da 177 paesi, mentre 14 paesi si sono astenuti dal voto. L'Ucraina era l'unico candidato del gruppo dell'Europa orientale.

Più volte abbiamo assistito all’impotenza - e spesso all’inutilità - delle Nazioni Unite in contesti cruciali come la guerra. A 70 anni dall’entrata in vigore dello Statuto delle Nazioni Unite e a 60 dalla ratifica da parte dell’Italia, con buona pace del nobile intento per cui è stata creata questa istituzione, l’Onu deve accontentarsi di certificare la sua condizione d’impotenza.

Dire che per 70 anni il sistema non ha raggiunto i suoi obiettivi sarebbe inesatto. Certo, ha garantito la pace globale, anche se a costo dello spostamento di molti conflitti verso la periferia. Certo, ha anche assicurato la decolonizzazione, sostituita da quel rapporto asimmetrico ed ineguale che l’Occidente ha imposto e che è stato perpetuato nell’immobilismo del mondo bipolare e dalla inefficienza dei sistemi economici di comando.

Le Nazioni Unite, nate nel 1945 dal fallimentare tentativo d’inizio Novecento della Società delle Nazioni (il cui risultato fu la Seconda Guerra Mondiale), dovrebbero essere uno strumento “per preservare la pace e la sicurezza collettiva grazie alla cooperazione internazionale”. Ma non funzionano.

La situazione internazionale attuale è segnata da conflitti, interventi militari, violazioni dei diritti delle nazioni e dei popoli, dall'offensiva generalizzata dell'imperialismo per saccheggiare le loro ricchezze nazionali, calpestando il diritto internazionale, tutto con l'obiettivo delle potenze imperialiste di imporre la loro egemonia sul mondo. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea, usando come strumento la NATO, fomentano conflitti e guerre in tutti i continenti. Le istituzioni esistenti non sono più adeguate. E non è un caso se molti pensano che l'attuale sistema sia pronto per un cambiamento.

I nuovi membri eletti sono: Egitto e Senegal per i due seggi del gruppo dei paesi africani, il Giappone per il gruppo dei paesi di Asia e Pacifico, l'Ucraina per i paesi dell'Europa dell'est e l' Uruguay per il gruppo dell' America Latina e stati Caraibici.

Gli stati eletti andranno a sostituire Chad, Nigeria, Giordania, Cile e Lituania.
Il gruppo dei paesi dell'Europa occidentale e il gruppo degli altri paesi non hanno subito modifiche (attualmente sono in carica Spagna e Nuova Zelanda), perché i due seggi vengono rieletti negli anni pari. Nella prossima tornata elettorale del gruppo dell'Europa occidentale, prevista appunto per la fine del 2016, correrà anche l'Italia,  candidata per il biennio 2017-2018.

martedì 13 ottobre 2015

Playboy stop al nudo integrale


Svolta storica per la rivista patinata fondata nel 1953 da Hugh Hefner: fine dell'era dei nudi, restano gli scatti in pose provocanti. "Oggi con un click puoi trovare tutto il sesso che vuoi", sottolinea l'amministratore delegato Scott Flanders spiegando la nuova progettazione del periodico.

Il cambiamento avverrà a marzo 2016, quando lo storico magazine "oscurerà" i nudi. Il motivo? Il CEO dell'azienda, Cory Jones lo ha riassunto così qualche mese fa al New York Times: "Ormai manca poco perché qualsiasi atto sessuale immaginabile diventi fruibile gratuitamente. E quindi non ha più senso in questo momento storico... è passato". Una scelta editoriale maturata anche guardando ai numeri: 5 milioni e 600 mila le copie vendute nel 1975, 800 mila quelle di oggi. Addio nudi quindi. Con il benestare del "vecchio" Hugh Hefner, fondatore della rivista, oggi 89 enne, d'accordo con la decisione.

Troppo sesso a portata di un clic quindi e allora, scompaiono le conigliette di Playboy, che per oltre 60 anni hanno acceso l'immaginazione degli uomini e proprio Playboy che con le sue conturbanti conigliette ha acceso l'immaginazione degli uomini di mezzo mondo sdoganando il nudo e il sesso, anche se solo immaginato appunto, cambia rotta.

Il corpo femminile non verrà a mancare naturalmente, e nemmeno le playmate del mese. Solo un po' più vestite. Nel restyling della rivista poi pare farà il suo ingresso anche una rubrica "sex-positive" rivolta agli over 13. E proprio i giovani maschi in carriera diventeranno il nuovo pubblico di riferimento. Più qualità, più contenuti... meno immaginazione e meno nudi.

La rivista resterà caratterizzata da donne in pose provocanti ma non più completamente nude. Si tratta di una svolta epocale per la rivista, che dovrebbe scattare a marzo 2016. Oggi con un click puoi trovare tutto il sesso che vuoi", spiega Flanders, sottolineando che internet ha trasformato l'accesso al mondo del sesso. E' così che il magazine che esordì con Marilyn Monroe in copertina ha visto un crollo delle vendite dalle 5,6 milioni di copie del 1975 alle 800.000 di adesso.

Il primo numero di Playboy uscì nel 1953 con Marylin Monroe in copertina: Hefner investì circa 9.000 dollari e il suo azzardo fu premiato: le copie vendute furono ben 51.000. Oggi il calo delle vendite è significativo. Insomma, un vero e proprio crollo. Da qui l’esigenza di un cambio di rotta: più articoli e più vestiti addosso. Non mancheranno le Playmate e le foto, ma saranno più accollate. E ci saranno anche più approfondimenti scritti. Infatti la nuova versione sarà vietata solamente ai minori di 13 anni.

Il numero più venduto della rivista fu quello del novembre 1972 che registrò più di 7 milioni di copie vendute sul suolo statunitense. Oggi sono poco più di 3 milioni le riviste diffuse, più di Maxim e più di GQ, Esquire e Rolling Stone messe assieme. Fuori dal mercato USA sarebbero circa 5 milioni, vendute in 15 Paesi. Il fatturato del gruppo si aggira intorno ai 300 milioni di dollari ricavati dall'editoria, dal commercio online, dalla TV, dall'abbigliamento e dalla vendita di prodotti elettronici come le slot machines.

Non c'è dubbio che Hugh Hefner abbia creato un colosso mediatico e culturale che ancora oggi non ha rivali. Egli si è dedicato molto al mondo del cinema e al sociale, tant'è che la Playboy Foundation assegna un premio annuale alla libertà di espressione durante il Sundance Film Festival che si tiene ogni anno nello Utah.

Tra le centinaia di donne fotografate sulle pagine della rivista ricordiamo Sophia Loren, Drew Barrymore, Charlize Theron, Loretta Goggi, Madonna, Carla Bruni, Carol Alt, Cindy Crawford, e Farrah Fawcett.

sabato 10 ottobre 2015

Nobel per la Pace al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino



E' stato assegnato al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino il premio Nobel per la Pace 2015. Sono 4 organizzazioni della società civile. La motivazione: «Aiuto decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista e pacifica quando il Paese era sull’orlo della guerra civile». Questa la motivazione:  "per il suo contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia dopo la rivoluzione dei Gelsomini del 2011".

Creato nell'estate del 2013, "quando il processo di democratizzazione era sul punto di crollare sotto il peso di assassini politici e disordini", il Quartetto è formato da quattro organizzazioni della società civile: sindacato Ugtt, confederazione degli industriali Utica, lega dei diritti umani Ltdh e Inoa, ordine nazionale degli avvocati.

"Il Quartetto è riuscito a creare un processo politico pacifico in un momento in cui la Tunisia era sull'orlo della guerra civile. E così ha messo il Paese nelle condizioni di stabilire una costituzione e un sistema di governo che garantisca i diritti fondamentali a tutto il popolo tunisino indipendentemente dal genere, dal credo politico o dalla fede". Il premio Nobel per la pace, precisa il comitato, "è stato assegnato al Quartetto in quanto tale e non alle singole organizzazioni", si legge nella motivazione.

Il quartetto è formato da quattro organizzazioni della società civile: il sindacato generale dei lavoratori Ugtt, il sindacato patronale Utica, l’Ordine degli avvocati e la Lega Tunisina per i Diritti Umani. Nato nell’estate del 2013, «quando il processo di democratizzazione rischiava di frantumarsi per gli omicidi politici e un diffuso malcontento sociale», il quartetto -si legge nella motivazione del premio assegnato dal comitato norvegese dei Nobel- «ha dato vita a un processo politico pacifico alternativo in un momento in cui il Paese era sull’orlo della guerra civile»; ed è stato «determinante per consentire alla Tunisia, nel giro di pochi anni, di creare un sistema costituzionale di governo che garantisce i diritti fondamentali di un’intera popolazione, a prescindere dal sesso dalle convinzioni politiche e dal credo religioso.

Leader sindacato Tunisia, 'sono attonito'  - "Sono attonito". E' la reazione all'assegnazione del premio Nobel per la Pace al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino del leader del sindacato tunisino Ugtt, una delle quattro organizzazioni che ne fanno parte. "Il premio corona oltre due anni di sforzi da parte del Quartetto in un momento in cui la Tunisia era a rischio su tutti i fronti", ha detto Houcine Abassi.

In Tunisia c’è già chi scherza scaramantico «Speriamo che il Nobel per la Pace non ci porti sfortuna». Quando toccò al presidente Obama bastarono pochi mesi perché i critici si scatenassero contro la sua incertezza in politica estera dicendo che era stato un riconoscimento affrettato. E non andò meglio all'Unione Europea, premiata nel 2012 mentre già destre e separatismi gettavano ombre cupe sul patrimonio di benessere accumulato dopo la seconda guerra mondiale. Ma è una battuta, appunto. 

È la prima volta che il riconoscimento viene assegnato alla Tunisia. Il premio sarà consegnato ad Oslo il 10 dicembre. Un premio che è una grande vittoria per la (ancora) fragile democrazia di Tunisi, colpita al cuore negli scorsi mesi da due terribili attacchi terroristici: quello del Museo del Bardo e quello della spiaggia di Sousse che hanno causato 60 vittime e distrutto l'economia turistica del paese. A differenza di altri Paesi, la Primavera Araba in Tunisia ha portato a elezioni pacifiche e democratiche lo scorso autunno, nota il Comitato del Nobel, e «un fattore essenziale» per questo risultato è stato l'azione del Quartetto. 

Perché oggi i tunisini piangono di commozione. Il Nobel per la Pace al quartetto per il dialogo nazionale seguito alla “rivoluzione dei gelsomini” significa infatti che il loro sforzo per andare avanti evitando la deriva del vicino Egitto paga, che puntare su quanto unisce più che su quanto divide è un investimento, che i tristi menagrami dell’inverno islamista come unica possibile soluzione alle primavere arabe del 2011 devono fare i conti con lo sforzo titanico della società civile tunisina.

Sembra un secolo fa quando il fruttivendolo di Mohammed Bouzazizi si dava fuoco a Sidi Bouzid per protestare contro la corruzione della polizia di Ben Ali innescando il domino delle proteste di piazza a Tunisi, Cairo, Bengasi, Sana’a, Manama, Daara e Damasco. Erano 5 anni fa, la sponda sud del mediterraneo cresceva in termini di Pil ma s’impoveriva in termini di classe media, vale a dire che i dittatori producevano benessere per le proprie cerchie ristrette e i giovani laureati (nonché connessi alla Rete globale) non avevano altra chance che emigrare. Si ribellarono quei giovani, seguendo i pionieri tunisini. E oggi che tutto sembra cambiato in peggio, loro, i pionieri, riprendono la staffetta delle umane sorti e progressive.

giovedì 8 ottobre 2015

Nobel letteratura 2015, alla giornalista-scrittrice Bielorussa Svetlana Alexievich




Il Nobel per la Letteratura 2015 è stato assegnato a Svetlana Alexievich "per la sua opera polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo". L'autrice di 'Preghiera per Cernobyl', pubblicata in Italia da e/o e da Bompiani, è nata il 31 maggio 1948.

Come ha annunciato la filologa svedese Sara Danius, neo segretario permanente dell'Accademia Reale svedese, il premio si motiva per «i suoi scritti polifonici, un monumento alla sofferenza ed al coraggio nel nostro tempo». La 67enne cronista e saggista ha raccontato la storia dell’Unione Sovietica nell’ultima parte del XX secolo. Invisa al regime del presidente Aleksandr Lukašenko i suoi libri sono banditi nella sua patria d’origine. Ancora una volta restano fuori i favoriti di sempre: il giapponese Haruki Murakami, insieme all'americano Philip Roth. Niente premio neppure per l’ungherese László Krasznahorkai, l’irlandese John Banville, il drammaturgo keniota Ngugi wa Thiong'o , il poeta coreano Ko Un e la statunitense Joyce Carol Oates.

La Alexievich padre bielorusso e madre ucraina, è una voce particolarmente critica nei confronti del regime bielorusso e i suoi libri non sono pubblicati nel Paese ex sovietico, mentre sono tradotti in oltre quaranta lingue. Già candidata nel 2013 al Nobel per la Letteratura, lo ha vinto a pochi giorni dalle nuove elezioni presidenziali in Bielorussia, ad esito scontato - sarà riconfermato Lukashenko - ma a rischio di una nuova ondata di repressione nei confronti della pur debole opposizione.

Cronista e giornalista investigatrice dei principali eventi della fase finale dell'Unione Sovietica e del suo dissolvimento, dalla guerra in Afghanistan al disastro di Cernobyl, si è occupata di numerose vicende controverse, suscitando scalpore con reportage e libri.

Molto amata nei circoli letterari, la scrittrice bielorussa era tra i favoritissimi della vigilia; e sul suo profilo Twitter già due ore prima dell'annuncio da Stoccolma aveva anticipato di essere stata contattata per il prestigioso riconoscimento: «Mi hanno chiamata adesso dalla Svezia per dirmi che mi hanno dato il Nobel. Sono felice, molto felice. Grazie».

Autrice di opera a metà tra il documentario e la fiction, la scrittrice ha prodotto libri sui temi più delicati come:  "La guerra non ha un volto di donna", (sulle donne sovietiche al fronte nella seconda guerra mondiale), "Ragazzi di zinco" (sui reduci della guerra in Afghanistan), "Incantati dalla morte" (sui suicidi in seguito al crollo dell'Urss) e "Preghiera per Cernobyl" (sulle vittime della tragedia nucleare).   Il suo libro più recente, uscito nel 2014 per Bompiani, è “Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo”.

Ex giornalista, Alexievitch ha scritto storie pazientemente raccolte da testimonianze, è stata tradotta in diverse lingue e pubblicata in tutto il mondo. In “Incantati dalla morte” e “Tempo di secondo mano: la vita in Russia dopo il crollo del comunismo” ha dipinto un ritratto senza cedimenti, ma anche non privo di compassione “dell'homo sovieticus”. “Tempo di secondo mano”, pubblicato da Bompiani, è stato finalista nella cinquina del Premio Terzani 2015.




mercoledì 7 ottobre 2015

El Faro il cargo scomparso nel Triangolo delle Bermuda


L'annuncio della Guardia Costiera statunitense è arrivato implacabile: il cargo El Faro, scomparso il primo ottobre nella zona tragicamente famosa del Triangolo delle Bermuda è affondato alle Bahamas, trascinando negli abissi l'equipaggio composto da 33 persone, durante la tempesta scatenata dal passaggio dell'uragano Joaquin.

Accade proprio alle Bahamas, durante l’attraversamento del famoso Triangolo delle Bermuda. Il Triangolo è ricordato proprio per le storie e le leggende che lo interessano e che riguardano la sparizione misteriosa di navi e aeri.

A dare attenzione a questa zona fu per primo il giornalista Vincent Gaddis, nel 1964, che riportò le sparizioni di una serie di navi e aerei dal 1840. Da qui un susseguirsi di leggende alimentate da idee fantasiose, secondo cui la sparizione sia dovuta agli alieni (tesi sostenuta dallo scrittore Charles Berlitz) o alla presenza di animali sconosciuti. Addirittura sembra anche che Cristoforo Colombo scrisse qualcosa al riguardo. Ma oggi alieni e animali misteriosi centrano ben poco con l’affondamento di “El Faro“.

Le ricerche scientifiche prodotte fino ad oggi, secondo cui la sparizione sia dovuta al passaggio di uragani e tempeste tropicali, è confermata dal passaggio dell’uragano Joaquin, nella zona, e dalla conseguente sparizione dell’imbarcazione. Il mancato ritrovamento della nave è dovuto, probabilmente, all’emissione di gas metano che sembrerebbe capace di “inghiottire” navi e qualsiasi tipo di mezzo. Il Triangolo è frequentato da molti mezzi di trasporto, è la fama che lo circonda attribuisce alla zona molti più incidenti di quanto in realtà ne siano capitati, a causa soprattutto del fatto che non siano stati fissati confini precisi.

Non solo, molto spesso gli scrittori e i registi hanno contribuito a creare questa leggenda “inventando” incidenti e sparizioni mai avvenute o omettendo il ritrovamento di resti. Oggi però nessuna leggenda sembrerebbe avvolgere la misteriosa scomparsa di El Faro, avvenuta dopo il lancio di un SOS. A confermare l’affondamento della nave è il ritrovamento di alcuni salvagenti e contenitori a nord-est di Crooked Island alle Bahamas, che confermerebbero che la zona di ricerca sia quella giusta.

Continuano le ricerche di eventuali sopravvissuti anche se le speranze di trovarli sono sempre più deboli. In mare è stato localizzato un corpo non ancora identificato perché i venti che ancora sferzano la zona hanno reso impossibile il recupero. La Guardia Costiera ha anche ritrovato alcuni giubbotti di salvataggio e due scialuppe, una delle quali danneggiata, ma dei marinai nessuna traccia. Il mercantile, con un carico di container e vetture, era partito da Jacksonville (Florida) ed era diretto a Porto Rico. In apparenza il capitano, definito un ufficiale di grande esperienza, ha deciso di viaggiare nonostante fosse previsto l’arrivo di Joaquin. È possibile che secondo i suoi calcoli fosse sicuro di evitare l’uragano.

Dopo due giorni di navigazione, il cargo si è ritrovato in mezzo alla tempesta dopo il passaggio dell'uragano Joaquin che ha sferzato le Bahamas con venti a 140 km all'ora, prima di diminuire di intensità e dirigersi verso le Bermuda. Il giorno in cui si sono interrotti i contatti con l'equipaggio, il proprietario aveva ricevuto una segnalazione di una perdita di propulsione del natante, che stava imbarcando acqua, anche se in maniera contenuta. A Jacksonville si è tenuta una veglia di speranza e preghiera per i marinai mentre le loro storie raccontate dai parenti commuovono l'America. Come quella di Keith di 33 anni, a breve papà di due gemelli o quella dell'unica donna del gruppo, Danielle Randolph, 34, minuta ma determinata, collezionista di Barbie e appassionata di cucina, ma da sempre innamorata dell'Oceano.

Il cargo battente bandiera americana "El Faro" sarebbe affondato e non ci sono tracce dei 33 membri dell'equipaggio 28 erano cittadini americani, il resto polacchi. Lo hanno fatto sapere le autorità do Washington che si stanno occupando delle ricerche della nave che ha fatto perdere i suoi contatti giovedì scorso dopo essere stata travolta dalla potenza dell'Uragano Joaquin mentre si trovava al largo dei Caraibi.

"Stiamo ancora cercando persone anche se le condizioni per poter sopravvivere sono molto difficili", ha detto capitano della Guardia Costiera statunitense Mark Fedor nel corso di una conferenza stampa.


martedì 6 ottobre 2015

Migranti, accordo Ue-Turchia


La Commissione europea e Ankara hanno trovato un accordo che consenta di arginare il flusso dei rifugiati in Europa. Lo ha riportato il giornale tedesco di Frankfurter Allgemeine, secondo cui la Turchia sarà tenuta a proteggere meglio i proprio confini con la Grecia, attraversati da migliaia di rifugiati. Gran parte di questi confluirebbe in sei nuovi campi, la cui costruzione sarà parzialmente finanziata da Bruxelles, in grado di accogliere in tutto due milioni di persone. L'Ue, dal canto suo, ne prenderebbe in carico fino a mezzo milione, bypassando i trafficanti.

L'accordo prevede, inoltre, che i guardiacoste turco e greco collaborino tra loro nel pattugliamento, sotto la supervisione e il coordinamento di Frontex.

Da inizio anno sono 630mila i migranti entrati illegalmente nell'Ue: a riferirlo è stato il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, in un'intervista al gruppo editoriale francese Ebra. «Alla fine di settembre avevamo registrato 630.000 ingressi illegali», ha spiegato Leggeri. Frontex, ha aggiunto, pianifica di allestire «60 voli per il rimpatrio di migranti» nel 2015, contro i 39 del 2014.

I migranti morti solo dall'inizio dell'anno nel Mediterraneo sono 3 mila (2.987 per l'esattezza delle cifre). Lo rende noto l'Oim, l'organizzazione internazionale per le migrazioni, aggiornando i dati con le ultime 100 vittime registrate da domenica sulle coste libiche. I 2.987 migranti e rifugiati che hanno perso la vita nel Mediterraneo dall'inizio del 2015 sono pari "a quasi i tre quarti dei 4.093 migranti morti in tutto il mondo nel 2015", afferma una nota dell'Oim citando gli ultimi dati del Missing Migrant Project. "Il Mediterraneo resta la rotta piu' mortale per i migranti del nostro pianeta", ha deplorato il direttore generale dell'Oim William Swing. "Queste perdite di vite umane sono inutili, completamente evitabili e assolutamente inaccettabili", ha aggiunto. Il totale degli arrivi per tutto il Mediterraneo è inoltre salito a 557.899 - pari al doppio del totale di 219.000 registrato durate tutto il 2014.

Del tema immigrazione si parlerà anche in occasione della riunione dell'Eurogruppo e dell'Ecofin da cui potrebbero arrivare indicazioni al Governo italiano sul tema della flessibilità 'extra' sui conti pubblici. Martedì inoltre si riapre all'Ecofin il confronto sulla valutazione delle spese per i migranti. Se venissero riconosciute come 'circostanza eccezionale', potrebbero fruttare alla legge di Stabilità uno spazio di manovra di 3,3 miliardi, ovvero 0,2 punti di Pil. Ma la partita è ancora tutta da giocare, perché finora, tra i ministri dell'Ecofin, non c'è un appoggio molto esteso all'idea, e la Commissione ha un po' frenato gli entusiasmi del mese scorso. Intanto il commissario agli affari economici, Pierre Moscovici, in un'intervista mette in evidenza come sia possibile “abbassare la pressione fiscale ma bisognerà compensare con dei tagli strutturali alla spesa pubblica”.

La Commissione Ue presenta le prime proposte concrete, per un importo totale di 1,7 miliardi di euro di fondi Ue nel 2015 e nel 2016, per affrontare la crisi dei rifugiati. E i capi di Stato e di governo Ue, nel vertice della settimana scorsa, si sono impegnati a stanziare una somma corrispondente. I fondi sono destinati a fornire assistenza di emergenza agli Stati Ue più colpiti, potenziare l'organico delle agenzie europee che operano in prima linea e fornire assistenza e aiuto umanitario nei Paesi terzi. La Commissione Ue confida ora nell'adozione rapida delle misure da parte dell'autorità di bilancio (Parlamento e Consiglio europeo) che si era impegnata in tal senso la scorsa settimana.

In una prima fase, per il resto del 2015, la Commissione sta mobilitando 801,3 milioni di euro per le seguenti azioni prioritarie: 100 milioni di euro per rafforzare il Fondo Asilo, migrazione e integrazione (Amif) e il Fondo Sicurezza interna (Isf) per aiuti di emergenza agli Stati Ue più colpiti.

E ciò in aggiunta ai 73 milioni di euro già esauriti; 1,3 milioni di euro per aumentare i finanziamenti alle tre agenzie competenti dell'Ue a copertura di 60 unità di personale per Frontex, 30 per l'Ufficio Ue di sostegno per l'asilo (Easo) e 30 per l'Europol per il 2015; un importo di 300 milioni di euro per rafforzare lo strumento di vicinato (Eni), consentire un aumento del Fondo fiduciario regionale Ue in risposta alla crisi siriana e fornire assistenza ai Paesi terzi che accolgono rifugiati dalla Siria.

Insieme con gli ulteriori 200 milioni di euro riassegnati, il finanziamento totale per il Fondo fiduciario per la Siria ammonterà a oltre 500 milioni di euro. I contributi degli Stati membri dovrebbero essere di livello corrispondente ai finanziamenti dell'Ue: in tal modo il fondo raggiungerà un totale di almeno 1 miliardo di euro.

Altri 200 milioni di euro destinati a fornire risorse immediate per rispondere alle esigenze dell'Unhcr, del Programma alimentare mondiale e di altre organizzazioni competenti al fine di fornire un aiuto immediato ai rifugiati. Questi fondi sono già stati previsti per gli aiuti umanitari e la protezione civile e saranno utilizzati per affrontare la crisi dei rifugiati. I contributi degli Stati membri dovrebbero corrispondere ai finanziamenti Ue.

Ankara si impegna ad aprire nuovi centri per tamponare le partenze di profughi e migranti verso l'Europa. Si apprende da fonti Ue. Il piano d'azione su cui si è raggiunta un'intesa con Ankara prevede una ripartizione di attività tra Grecia e Turchia nell'Egeo. Intanto Atene ha annunciato l'apertura di cinque hotspot sulle isole.

giovedì 1 ottobre 2015

Parigi: apre un’inchiesta per crimini contro l’umanità



 Francia, la  procura di Parigi ha aperto un’inchiesta su presunti crimini contro l’umanità commessi dal regime siriano di Bashar al Assad tra il 2011 e il 2013, come le torture contro gli oppositori in prigione. La notizia è arrivata nei giorni scorsi, mentre all’assemblea generale delle Nazioni Unite la comunità internazionale sta discutendo della crisi siriana. Le indagini della magistratura francese sono partite da 55mila fotografie digitali trafugate in Europa da un ex fotografo della polizia militare siriana nel 2013.

L’uomo, noto con il nome in codice Caesar (o César, in francese), vivrebbe ora sotto protezione in un paese dell’Europa del nord.

Le fotografie mostrano i cadaveri di undicimila vittime di tortura, come stabilito da un rapporto realizzato da un gruppo di procuratori legali ed esperti di medicina legale di fama internazionale, specializzati in crimini di guerra, e pubblicato la prima volta il 21 gennaio 2014 durante i lavori della seconda conferenza internazionale per la pace in Siria che si è tenuta a Ginevra. Se tra le persone ritratte dovessero essere riconosciuti cittadini francesi o francosiriani, la Francia sarebbe competente per giudicare gli autori dei crimini di cui le immagini sono prova.

La storia di Caesar. La testimonianza del fotografo siriano è stata raccolta in un libro della giornalista francese Garance le Caisne intitolato Opération César, che uscirà in Francia il 7 ottobre. Caesar lavorava per la polizia militare siriana anche prima del conflitto. Il suo compito era fotografare le scene del crimine quando erano coinvolti membri delle forze armate. Con l’inizio delle proteste contro il regime, Caesar e i suoi colleghi ricevettero l’ordine di fotografare i corpi delle persone morte nelle strutture di detenzione gestite dalle diverse formazioni dell’esercito siriano. Erano i cadaveri degli oppositori al regime che venivano arrestati nel corso delle manifestazioni di protesta.

Con l’aiuto di un amico, Caesar ha cominciato a copiare di nascosto molte delle fotografie e conservarle in modo sicuro: il suo scopo era aiutare i parenti delle vittime a conoscere la verità sulla sorte dei loro cari. Dopo due anni però i timori per la sua incolumità e quella dei suoi famigliari hanno spinto Caesar a lasciare il paese e cercare asilo in Europa.

Le immagini in mostra. Il rapporto sulle fotografie di Caesar e sulla sua testimonianza è stato presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 15 aprile del 2014. In diverse occasioni successive le immagini sono state mostrate in pubblico e ai membri di diverse istituzioni internazionali. Nel luglio del 2014 il fotografo ha testimoniato davanti al congresso degli Stati Uniti.

A marzo dell’anno successivo le fotografie sono state mostrate al consiglio per i diritti umani dell’Onu, in giugno al parlamento europeo. Una prima mostra è stata organizzata dal Museo dell’Olocausto di Washington, ma trenta foto sono state esposte anche al palazzo delle Nazioni Unite a New York.
L’inchiesta francese si basa sulla testimonianza di un ex fotografo agli ordini della polizia militare siriana, nome di fantasia César, fuggito nel 2013 con 55mila scatti di corpi torturati e intervistato da una giornalista.

Secondo l’uomo le foto servivano a rilasciare certificati di morte senza dover mostrare i corpi alle famiglie e a provare che gli ordini di esecuzione erano stati compiuti.

Garance Le Caisne, giornalista e autrice del libro “Opération César”, che uscirà in Francia il 7 ottobre: “Appena i primi manifestanti morti sono arrivati all’ospedale militare – e a un certo punto sono diventati sempre più numerosi – ha scoperto soprattutto l’orrore, ossia persone con segni di torture incredibili, che pesavano soltanto 30 o 40 chili. Quindi ha davvero visto che le persone morivano di fame o di torture nelle prigioni”.

“Dobbiamo agire contro l’impunità”, ha affermato il capo della diplomazia francese Laurent Fabius che si trova all’Onu dove il conflitto in Siria è al centro dell’Assemblea generale.

Il ministero degli Esteri è all’origine dell’apertura dell’inchiesta preliminare della procura di Parigi lo scorso 15 settembre. Per poter far proseguire l’indagine è necessario che ci siano vittime francesi o che un responsabile dei crimini risieda in Francia.


sabato 26 settembre 2015

Superluna, spettacolo doppio lunedì all'alba


Grande spettacolo nella notte fra domenica 27 settembre, e lunedì. L’attesa degli astrofili di mezzo mondo è finita, domenica avremo l’eclissi di superluna di sangue e sarà possibile osservarla in tutto il Nord e Sud America, Europa, Africa, Asia occidentale e la regione dell’Oceano Pacifico orientale.

Luna piena 'super', alla minima distanza dalla Terra, e 'rossa' allo stesso tempo, tinta dall'ombra del nostro pianeta: una combinazione spettacolare che sarà visibile anche dall'Italia nella tarda notte tra domenica e lunedì. L'eclissi di superluna è un evento astronomico abbastanza raro, la prossima sarà nel 2033. Quella di lunedì notte non sarà un'eclissi 'normale' ma avrà la particolarità di avvenire nello stesso momento in cui la Luna sarà alla minima distanza dalla Terra, ad appena 356.876 chilometri. Il nostro satellite, in versione 'super', non scomparirà del tutto ma sarà completamente coperto da un velo rosso scuro per più di un'ora.

Durante le eclissi totali la Luna infatti non scompare ma diventa molto scura e assume un colore rossastro.

Ecco cosa da tenere a mente

Le eclissi lunari totali si verificano quando la terra, luna e sole sono allineate, e la luna si trova nel cono d’ombra della Terra. Non sono rarissime, si verificano in media almeno 2 volte l’anno. Tuttavia, è raro che un’eclissi lunare totale coincida con una superluna. Secondo la NASA, ce ne sono state cinque nel secolo scorso: 1910, 1928, 1946, 1964 e 1982.

Spettacolo lungo quindi rispetto alle eclissi di sole che durano in genere meno di 10 minuti, grazie al fatto che l'ombra che la Terra proietta verso la Luna è piuttosto ampia, una sorta di lungo tunnel che il nostro satellite deve percorrere per riemergere nella zona in cui è di nuovo completamente illuminato dal Sole, dopo le ore 6 in questo caso.

L'eclissi è un fenomeno del tutto naturale e semplice, dovuto alla geometria del sistema Sole, Terra, Luna. Quando i tre corpi si trovano allineati in quest'ordine la luce del Sole può essere bloccata dalla Terra e quindi abbiamo un'eclissi di Luna, eclissi vuole infatti dire proprio mancanza. Dato che la Luna ruota attorno alla Terra uno potrebbe chiedersi, giustamente, perché le eclissi di Luna non avvengono ogni mese. E' molto semplice: Sole, Terra e Luna hanno orbite inclinate fra di loro.

Questa eclissi sarà effettivamente un po' caratteristica, dato che la Luna sarà molto vicina a noi, e quindi la vedremo un po’ più grande, circa il 14% in più. Il nostro satellite infatti ci gira attorno in un orbita ellittica, e non circolare, e quindi a volte è più vicino altre più lontano La sua distanza da noi varia fra i 356.410 e i 406.740 chilometri. Avendo quindi in questi giorni più superficie illuminata, rispetto a noi beninteso in quanto più vicina, sarà anche più luminosa, ma per accorgersene occorre aver visto altre volte la Luna piena con attenzione.

Resta il colore rosso, in realtà fra il rosa scuro e l'arancio, ce la Luna assumerà durante la totalità, fra le 4 e le 5 di lunedì mattina. Anche questo è un fenomeno molto semplice e bellissimo da vedere. La luce del Sole impatta sulla Terra che con la sua ombra, durante le eclissi di Luna, copre il nostro satellite. Se non ci fosse l'atmosfera terrestre la Luna sparirebbe del tutto dal cielo, ma grazie proprio all'aria che ci circonda, per un solo centinaio di chilometri, la luce solare viene diffusa, come fa la nebbia, e ricade sulla faccia della Luna, con una lunghezza d'onda leggermente diversa, dato che il passaggio in atmosfera vira la luce da bianca a rossastra.

E’ un fenomeno fra i più belli del cielo, che può avvenire anche due volte l'anno, in primavera e autunno. Con la cosiddetta superluna abbiamo eclissi circa ogni 30 anni, ma anche le altre sono bellissime. Chi non volesse poi alzarsi alle 4 di mattina, potrà sicuramente vederla in rete a ore meno antelucane mentre se qualcuno devesse alzarsi apposta e, maledizione, fosse nuvolo, può sintonizzarsi sul canale Nasa che trasmetterà l'eclissi.

Il fenomeno, che ha per conseguenza una luna rossa, è un fenomeno di rifrazione che si può verificare con le eclissi lunari (ma non solo).

Durante un’eclissi lunare, il nostro satellite passa nell’ombra della terra, che la oscura. La luce del sole non riesce ad arrivare diretta sulla superficie lunare, come invece accade normalmente, passa attraverso l’atmosfera terrestre prima di raggiungerla. Atmosfera che si comporta come un prisma scomponendo la luce del sole.

Quella blu e verde sono le prime che vengono diffuse, mentre la luce rossa, l’ultima che viene diffusa, illumina la luna, donandole quel coloro di rosso intenso.

La superluna di sangue inizierà a scurirsi leggermente alle 2.11 del mattino del 28 settembre .
Un’ombra notevole inizierà a cadere sulla luna alle 3.07 e l’eclissi totale inizierà alle 4.11 culminando pochi secondi dopo, alle 4.47 e durerà un’ora e 12 minuti.
Per saperne di più: https://www.nasa.gov/feature/goddard/nasa-scientist-sheds-light-on-rare-sept-27-supermoon-eclipse

USA: ribelli addestrati danno armi al gruppo di al-Qaeda


I ribelli addestrati dagli Stati Uniti hanno consegnato, dopo che si sono arresi, sei pickup armati e munizioni fornite dagli stessi statunitensi ad Al-Qaeda legata gruppo poco dopo l'arrivo in Siria, il Pentagono ha detto venerdì, l'ultimo colpo di un programma del Pentagono che è stato afflitto da problemi sin dal suo inizio.

I ribelli addestrati in Turchia, appena entrati in azione, hanno consegnato armi e munizioni ai jihadisti di Al Nusra. Anziché combatterli, hanno offerto ciò che avevano pur di poter fuggire.

Lo ha reso noto il colonnello Patrick Ryder, portavoce di quello che ogni giorno che passa si sta rivelando il comando colabrodo delle forze armate Usa per la regione, il Centcom. Lo stesso comando accusato di aver alterato i rapporti degli 007 sul terreno prima di passarli alla Casa Bianca per dimostrare progressi inesistenti nella campagna contro Isis.

L’imbarazzante evento risale alla notte tra lunedì e martedì 21 e 22 settembre, quando gli uomini delle “Nuove Forze Siriane”, i cosiddetti ribelli moderati hanno consegnato ad un intermediario di al Nusraa (come fecero le truppe irachene che si sciolsero come neve al sole davanti ad Isis a giungo del 2014 in Iraq, abbandonando carri armati e Humvee agli uomini di Abu Bakr al Baghdadj) per poter avere salva la vita.

La ricalcitrante amministrazione Obama, indecisa su come intervenire in Siria dopo aver tracciato “red-line”, limiti invalicabili che Assad oltrepassò, ha investito 500 milioni di dollari per formare un’unità di 5.000 ribelli moderati all’anno per un periodo di 3 anni, escludendo l’invio di proprie truppe di terra. Ma l’ottimismo iniziale si scontrò contro la sconsolante realtà che gli istruttori americani riuscirono a formare nel 2014 solo l’1% dei presunti 5.000 ‘ribelli’ sicuri: 54. Questi ultimi alla prima prova del fuoco, attaccati dai qaedisti di al Nusra – rivali di Isis – lo scorso luglio, si dileguarono. Il secondo gruppo formato da 70 ribelli di ‘provata’ fedeltà, si sono ora in parte arresi consegnando le loro armi a quanti dovevano combattere.

Tutti eventi che fanno emergere sempre più convincente l’opzione russa a favore di un intervento diretto contro Isis e le altre formazioni jihadiste sul terreno (come dimostrano le forze schierate nella zona occidentale di Latakiae) mentre sta emergendo il fallimento della strategia Usa dei raid aere, iniziati poco più di un anno fa, il 26 settembre in Siria.

Non si può escludere che la decisione del secondo gruppo di cedere l’equipaggiamento per poter fuggire sia stato motivato proprio dal timore di subire un’analoga sorte. Ciò significa che il programma di addestramento di ribelli siriani da parte degli Usa, finanziato con oltre 500 milioni di dollari dal Congresso di Washington, non ha ancora prodotto unità in grado di combattere.

Per ammissione stessa del capo del Pentagono, Ashton Carter, «abbiamo solo 4 o 5 ribelli operativi in Siria». Sarcastico il commento del giornale israeliano “Haaretz”: «Si tratta dei soldati più costosi della storia militare, per ognuno di loro sono stati spesi circa 100 milioni di dollari».

venerdì 25 settembre 2015

Il papa all’ONU: riformare per consentire la partecipazione di tutti i paesi


Palazzo di Vetro blindato e una nuova bandiera innalzata per la prima volta accanto alle 193 dei paesi membri dell'Onu: all'alba i poliziotti delle Nazioni Unite hanno aggiunto il vessillo vaticano a quelli che usualmente sventolano davanti al quartier generale dell'Onu. L'occasione è la visita di Papa Francesco che parla in Assemblea generale. Turtle Bay, come si chiama il quartiere di Manhattan sull'East River in cui sorge l'Onu.

E’ la quinta volta che un Papa parla alle Nazioni Unite, ha ricordato Francesco, all’inizio del suo discorso. E ha voluto subito «rendere omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l'intera umanità in questi 70 anni». «In particolare - ha detto - desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjold (primo segretario generale vittima di un incidente aereo nel 1961) fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione».

Papa Francesco è arrivato all'Onu, dove a riceverlo c'è il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon. Due bambini hanno accolto con un mazzo di fiori Papa Francesco all'ingresso del Palazzo di Vetro dell'Onu. Sono Emile e Maxime Antoine Laberge, rispettivamente di sette e sei anni, canadesi, figli di un membro della missione di pace delle Nazioni Unite ad Haiti morto durante il terremoto del 2010.

Sono molte le emergenze delineate da Francesco all'Onu: la protezione dell'ambiente , la fine dell'esclusione sociale, azione contro narcotraffico e trova necessaria la riforma dell’Onu. Il Papa ha parlato di "ampi settori senza protezione" nel mondo, vittime "di un cattivo esercizio del potere": "l'ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi". "Due settori intimamente uniti tra loro", che la politica e l'economia "hanno trasformato in parti fragili della realtà". Per questo, "è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell'ambiente e ponendo termine all'esclusione".

"La difesa dell'ambiente e la lotta contro l'esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni", ha detto papa Francesco all'Onu citando passi della sua enciclica Laudato si'.

"La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all'ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell'impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli", ha detto nel suo discorso all'assemblea generale dell'Onu.

Un'azione urgente è stata chiesta da Papa Francesco all'Onu contro «il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato». «Ampi settori sono - ha denunciato - senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere».

"La riforma e l'adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un'incidenza reale ed equa nelle decisioni": così Francesco all'Onu, sostenendo la necessità di riforma del Consiglio di Sicurezza e degli organismi finanziari. "L'esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito - ha affermato il Pontefice -, dimostra che la riforma e l'adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l'obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un'incidenza reale ed equa nelle decisioni". "Tale necessità di una maggiore equità - ha proseguito -, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche". "Questo - ha aggiunto - aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l'asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza".

Unione Europea: Hotspot entro novembre




Gli hotspot per l’identificazione dei migranti saranno operativi entro novembre.I capi di stato e di governo europei riuniti il 23 settembre a Bruxelles hanno deciso di accelerare l’apertura dei centri mobili per la registrazione dei profughi con la collaborazione delle agenzie europee in Italia, in Grecia, in Ungheria e probabilmente anche in Romania.

Mentre continua incessante il flusso dei migranti verso l'Europa l'Ue lancia un'operazione anti-scafisti che si chiamerà Sofia, come la bimba nata da una madre somala salvata su una nave della marina tedesca. Intanto l'Ungheria alza muro anche con la Slovenia, e sale la tensione al confine tra la Serbia e la Croazia per chiusura frontiera. Davotoglu chiede sostegno Europa per arrivi profughi da Siria. Tusk; grande marea deve ancora arrivare.

L'Alto rappresentante per la Politica estera Ue, Federica Mogherini, ha proposto di rinominare l'operazione Ue contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo - denominata al momento Eunavfor Med - "Sofia", come la bambina nata recentemente a bordo di una delle navi impegnate nell'operazione, "per dare un segnale di speranza". La proposta nasce, ha spiegato Mogherini, "per dare un segnale di speranza e per onorare le vite delle persone che stiamo salvando e proteggendo". "La fase due dell'operazione europea (Eunavfor) contro i trafficanti di migranti inizierà il 7 ottobre. La decisione politica è presa, gli asset sono pronti".

In una lettera ai leader Ue, il premier turco Ahmet Davotoglu dice di attendere l'arrivo di sette milioni di profughi dalla Siria, che probabilmente vorranno arrivare in Europa e chiede la collaborazione europea affinché si costituisca una 'zona sicura' in territorio siriano per l'accoglienza dei rifugiati. Lo si apprende da fonti Ue.

"La visita al centro di comando dell'operazione Eunavfor Med è stata un'occasione per essere aggiornata su quanto fatto nella fase uno. Ora sappiamo come lavorano i trafficanti di esseri umani della rotta centrale del mediterraneo e siamo pronti a smantellare la loro rete". Lo ha detto l'Alto rappresentante della Politica estera Ue, Federica Mogherini.

Alexis Tsipras finisce sulla graticola al summit straordinario dei leader Ue. Vari partner rimproverano alla Grecia le migliaia di migranti che attraversano la frontiera senza registrazione ed il fuoco che covava nella cenere si accende in una discussione sugli hotspot.

Ma è uno scambio costruttivo, che porta alla decisione di fissare una data certa per la loro attivazione. "Entro fine novembre", spiega il presidente del consiglio Ue Donald Tusk. L'Europa si ricompatta sulla necessità di riportare le sue frontiere esterne sotto controllo, dopo lo strappo con i Paesi dell'Est sui 120mila ricollocamenti. Il vertice apre la strada ad un piano comune per far fronte alla peggiore crisi di profughi dal dopoguerra. Il premier Matteo Renzi parla di "notte importante". E anche dai quattro premier (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Romania) che hanno votato contro il meccanismo di ridistribuzione e si sono visti imporre la decisione non ci sono state reazioni particolari.




lunedì 21 settembre 2015

Nagorno Karabakh, lo Stato non riconosciuto


Nagorno-Karabakh, un territorio conteso nel sud del Caucaso poco conosciuto, se non per alcune cronache degli anni Novanta. Tutto è iniziato alla fine degli Anni 80 con il crollo dell’Unione Sovietica che settant’anni prima aveva regalato questa regione dell’Armenia cristiana all’Azerbaigian musulmano. Nel ’91 il referendum per riottenere l’indipendenza scatenò il conflitto che in due anni causò trentamila morti, migliaia di feriti, quasi un milione di profughi e chi sa quanti dispersi. Decine di villaggi vennero rasi al suolo, i ponti distrutti, chiese e moschee ridotte in macerie. “Fu guerra etnica, non religiosa” sostengono in molti, da una parte e dall’altra. Sospese le ostilità nel maggio del 1994 con l’accordo di Bishkek, gli equilibri tra le parti furono ristabiliti sulle fragili basi una pax armata. Poiché la fine delle operazioni militari non portò al disarmo, il cessate-il-fuoco è stato spesso violato e i negoziati sono da anni intrappolati in un vicolo cieco. Difeso dall’Armenia, conteso dall’Azerbaigian e dimenticato dal resto del mondo, questo piccolo territorio incuneato nel Caucaso meridionale lotta ogni giorno per affermare un’indipendenza che nessuno Stato o organismo al mondo gli riconosce, neppure l’Armenia. Indipendenza ribadita con le elezioni amministrative tenutesi in data 13 settembre del 2014, che la comunità internazionale si è tuttavia affrettata a bollare come illegittime.

Il Nagorno Karabakh ha un’area di 11.458 chilometri quadrati, pari a meno della metà di quella della Sardegna, e una popolazione di 143 mila abitanti, poco meno della metà degli abitanti di Cagliari. È diviso in sette regioni, più la capitale Stepanakert, a statuto speciale, dove vivono oltre 53 mila persone. La seconda città più grande è Shushi. Karabakh è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». «Nagorno» è una parola russa che significa «montagna». La popolazione di origine armena preferisce invece chiamare la regione «Artsakh», il nome antico armeno.

Nel 1992 l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) creò il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro composta da 12 nazioni e guidata da Francia, Russia e Stati Uniti per promuovere i negoziati tra Armenia e Azerbaigian. Nel 1995 il paese adottò una nuova Costituzione, poi sostituita da una nuova carta approvata nel 2006 con un referendum che definì il Nagorno Karabakh uno Stato sovrano (la consultazione venne dichiarata illegittima dall’Azerbaigian). Il processo di pace è andato avanti lentamente. Ci sono stati incontri tra i presidenti di Armenia e Azerbaigian. Ma la situazione di fatto è in fase di stallo. E negli ultimi anni anche il cessate il fuoco è stato violato più volte.

Dalle principali organizzazioni sovranazionali (OCSE e Organizzazione per la cooperazione islamica, OIC), alle grandi potenze europee (Germania e Regno Unito) e mondiali (Stati Uniti e Cina), passando per i Paesi a maggioranza musulmana di tutte le latitudini (dalla Turchia all’Indonesia), un coro unanime ha ribadito l’inopportunità delle consultazioni  del 13 settembre. Per tutti, il voto nel Nagorno Karabakh rappresenta un guanto di sfida lanciato sul tavolo dei negoziati, poiché tenuto in palese violazione degli accordi raggiunti OCSE e in generale della legalità internazionale. Per quanto ineccepibile, questa ragione di principio ne sottende anche un’altra dettata da un più concreto interesse: all’estero nessuno desidera irritare l’Azerbaigian, ricco di petrolio e attore geopolitico di primaria importanza nel Caucaso e nel quadrante dell’Europa orientale, ma nemmeno la Russia, sponsor degli armeni e già ai ferri corti con l’Occidente in conseguenza della crisi ucraina.

L’irrisolta questione del Nagorno Karabakh è così diventata un tipico esempio di conflitto dimenticato, che ha fatto di questo territorio la zona più militarizzata d’Europa, dove le ostilità e la conta delle vittime non si sono mai del tutto arrestate. Un calcolo difficile, quest’ultimo, perché mancano osservatori imparziali e le uniche notizie – fornite dai Governi – sono spesso discordanti.

Oggi il piccolo Stato non riconosciuto è la polveriera d’Europa, dove a crescere, oltre al numero dei caduti, sono anche le spese militari. Secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), se nel 2000 il bilancio destinato al capitolo Difesa ammontava ad appena 68 milioni di dollari per l’Armenia e 120 milioni per l’ Azerbaigian, nel 2013 la spesa è passata rispettivamente a 427 milioni (+528%) e addirittura a 3 miliardi e 440 milioni (+2800%). Secondo la Banca Mondiale, il Pil dell’Armenia nel 2013 è stato pari a 2,977 milioni: in altri termini, la spesa militare dell’Azerbaigian supera di gran lunga l’intera ricchezza nazionale della rivale Yerevan. Un esborso che accresce i timori di una nuova, possibile offensiva di Baku nel tentativo di riprendere il controllo della regione. I media azeri gettano benzina sul fuoco con messaggi minatori nei confronti dei vicini armeni, e anche il presidente dell’Azerbaigian, llham Aliyev, ha più volte dato il suo contributo con messaggi dai toni sempre più minacciosi, salvo poi precisare che «è l’Armenia a non volere la pace».

La vicenda influenza i rapporti economici dell’intera regione con i Paesi confinanti e l’Europa. A sostegno dell’Azerbaigian, oltre al diritto internazionale, c’è l’opportunità di mantenere buoni rapporti con un Paese in fortissima crescita e posizionato in una zona cruciale per lo snodo di gasdotti e oleodotti. Ma a essere impegnate in un ruolo attivo sono innanzitutto le due maggiori potenze del Caucaso, ossia Turchia e Russia, rispettivamente schierate l’una con il governo azero e l’altra con quello armeno.

Tra le conseguenze più eclatanti della questione del Nagorno ci sono appunto i rapporti tra Ankara e la vicina Yerevan, sempre più ai minimi termini nel centenario del Medz Yeghern, il genocidio armeno perpetrato dai turchi tra il 1915 e il 1916; ma è soprattutto la posizione di Mosca che si sta ultimamente concentrando l’attenzione degli osservatori.

Negli ultimi mesi la Russia ha rafforzato ulteriormente il suo controllo sulla regione del sud del Caucaso, e alcuni analisti cominciano a vedere molte analogie con la crisi in Ucraina. La scorsa primavera, per esempio, il governo armeno ha abbandonato l’idea di firmare un accordo di partnership con l’Unione Europea – proprio come fece l’ex presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych, poi sfiduciato dal parlamento ucraino a seguito delle grandi proteste di piazza Indipendenza a Kiev dell’autunno e inverno scorsi – e ha annunciato la sua intenzione di unirsi a un accordo simile proposto dalla Russia.

Diversi analisti nelle ultime settimane hanno criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto all’intervento russo in Nagorno-Karabakh. Le considerazioni che vengono fatte sono due: primo, che senza una risposta adeguata il rischio è di vedere replicato qui quello che è successo con l’annessione della Crimea alla Russia, resa possibile anche grazie all’immobilismo occidentale. Secondo, che come succede spesso le argomentazioni di principio di diversi stati occidentali su dove e come intervenire militarmente o politicamente entrano in contraddizione tra loro. E il risultato è una perdita di credibilità dell’azione occidentale, problema diventato evidente durante la crisi ucraina.

martedì 15 settembre 2015

Che cos’è l’acquis del trattato di Schengen


Complesso di accordi volti a favorire la libera circolazione dei cittadini e la lotta alla criminalità organizzata all'interno dell'Unione Europea (UE) attraverso l’abbattimento delle frontiere interne tra gli Stati partecipanti e la costituzione di un sistema comune di controllo alle frontiere esterne dell’UE. A un primo accordo siglato a Schengen nel 1985 da Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi, ha fatto seguito una Convenzione di attuazione del 1990, entrata in vigore nel 1995. Ulteriori accordi hanno permesso l’adesione al sistema degli altri Stati dell’UE (l’accordo di adesione dell’Italia è del 1990), tranne Regno Unito e Irlanda. Con il Trattato di Amsterdam (1997, entrato in vigore nel 1999) le norme e le strutture previste dagli accordi sono state integrate nel diritto dell’Unione Europea. Dell’area Schengen fanno parte anche tre paesi non aderenti all’UE (Islanda, Norvegia e Svizzera).

Lo spazio Schengen è attualmente composto da 26 paesi, di cui 22 membri dell’Unione europea e quattro non membri (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Non ne fanno parte Bulgaria, Cipro, Croazia, e Romania, per cui il trattato non è ancora entrato in vigore, e Irlanda e Regno Unito, che non hanno aderito alla convenzione esercitando la cosiddetta clausola di esclusione (opt-out).

Le norme principali adottate nel quadro di Schengen prevedono tra l'altro:

l'abolizione dei controlli sulle persone alle frontiere interne;

un insieme di norme comuni da applicare alle persone che attraversano le frontiere esterne degli Stati membri UE;

l'armonizzazione delle condizioni di ingresso e delle concessioni dei visti per i soggiorni brevi;
il rafforzamento della cooperazione tra la polizia (compresi i diritti di osservazione e di inseguimento transfrontaliero);

il rafforzamento della cooperazione giudiziaria mediante un sistema di estradizione più rapido e una migliore trasmissione dell’esecuzione delle sentenze penali;

la creazione e lo sviluppo del sistema d’informazione Schengen (SIS).

All'interno del sistema Schengen, è stato sviluppato un sistema d’informazione SIS che consente alle autorità nazionali per il controllo della frontiera interna di ottenere informazioni su persone o oggetti. Gli Stati membri alimentano il SIS attraverso reti nazionali (N-SIS) collegate a un sistema centrale (C-SIS) integrato da una rete chiamata SIRENE (informazioni complementari richieste all'ingresso nazionale.

I progressi compiuti dall’UE grazie a Schengen sono stati integrati nel trattato di Amsterdam mediante un protocollo addizionale denominato acquis, corrisponde ad un insieme di disposizioni che regolano i rapporti tra gli Stati.. La libera circolazione delle persone, che già figurava tra gli obiettivi dell’Atto unico europeo del 1986, è ormai una realtà, probabilmente oggi superata.

Il Consiglio dell’UE ha dovuto prendere un certo numero di decisioni per arrivare a detta integrazione. Anzitutto il Consiglio è subentrato, in conformità del trattato di Amsterdam, al comitato esecutivo istituito dagli accordi di Schengen. Mediante la decisione 1999/307/CE del 1° maggio 1999, il Consiglio ha stabilito le modalità dell’integrazione del segretariato di Schengen, segnatamente le persone che lo componevano, nel segretariato generale del Consiglio.

Uno dei compiti più impegnativi che ha comportato per il Consiglio l’integrazione dello spazio Schengen è consistito nel selezionare, tra tutte le disposizioni e le misure prese dagli Stati firmatari di detti accordi intergovernativi, quelle che costituivano un vero e proprio acquis.

Cosa prevede il trattato, all’interno di questa zona i cittadini dell’Unione europea e quelli di paesi terzi possono spostarsi liberamente senza essere sottoposti a controlli alle frontiere. Di contro, un volo interno all’Ue che collega uno stato Schengen a uno stato non-Schengen è sottoposto a controlli alle frontiere. La caduta delle frontiere interne ha per corollario il rafforzamento delle frontiere esterne dello spazio Schengen. Gli stati membri che si trovano ai suoi confini hanno dunque la responsabilità di organizzare controlli rigorosi alle frontiere e assegnare all’occorrenza visti di breve durata alle persone che vi fanno ingresso.

L’appartenenza a Schengen implica una cooperazione di polizia tra tutti i membri per combattere la criminalità organizzata o il terrorismo, attraverso una condivisione dei dati. Una delle conseguenze di questa cooperazione è il cosiddetto “inseguimento transfrontaliero”, ovvero il diritto della polizia di inseguire un sospetto in un altro stato Schengen in caso di flagranza di reato per infrazioni gravi.

Anche se le frontiere interne dovrebbero esistere soltanto sulla carta, i membri dello spazio Schengen hanno comunque la possibilità di ristabilire controlli eccezionali e temporanei. Questa decisione dev’essere giustificata da una “minaccia grave per l’ordine pubblico e la sicurezza interna” o da “gravi lacune relative al controllo delle frontiere esterne” che potrebbero mettere in pericolo “il funzionamento generale dello spazio Schengen”, come si legge nella documentazione della
Commissione europea.

Perché la scelta della Germania non equivale a sospendere Schengen. La decisione delle autorità tedesche di reintrodurre i controlli alle frontiere lungo il confine con l’Austria per opporsi al flusso di migranti sembra “a prima vista” corrispondere a questa regola, come ha sottolineato domenica sera la Commissione in un comunicato. Prima dell’iniziativa di Berlino il ripristino temporaneo dei controlli frontalieri si era già verificato una ventina di volte dal 1995 e sei volte dal 2013. Tuttavia “è la prima volta che le frontiere vengono chiuse a causa della pressione migratoria”, ha precisato una fonte comunitaria.

I paesi Schengen che hanno reintrodotto i controlli
Germania. Il 13 settembre sono stati reintrodotti i controlli frontalieri al confine con l’Austria. Il provvedimento è temporaneo e non implica la chiusura delle frontiere.

L’Austria ha ripristinato i controlli dei documenti al confine con l’Ungheria, e 2.200 militari sono stati mandati a presidiare la frontiera. Il ministro della difesa Gerald Klug ha detto che i soldati controlleranno i veicoli e porteranno i migranti arrivati a piedi alle stazioni di polizia, ma non li respingeranno verso l’Ungheria.

Il governo slovacco ha deciso di reintrodurre i controlli frontalieri con l’Austria e con l’Ungheria.
Repubblica Ceca. Praga ha mandato duecento poliziotti ai passi di confine con l’Austria. Il timore del governo è che i migranti provino a raggiungere la Germania passando per il territorio ceco.
Paesi Bassi. Le autorità olandesi hanno annunciato che effettueranno controlli a campione ai confini del paese.

In Francia, i repubblicani – cioè il partito conservatore francese di Nicolas Sarkozy che ha sostituito l’Ump – hanno chiesto di reintrodurre controlli frontalieri provvisori al confine con l’Italia, ma il governo non ha ancora adottato misure di questo genere. Da giugno, comunque, a Ventimiglia la frontiera è stata più volte bloccata per i migranti soprattutto eritrei e sudanesi che volevano passare il confine per raggiungere, attraverso la Francia, il nord Europa.

Danimarca. Il 9 settembre il governo danese ha interrotto temporaneamente i collegamenti ferroviari e stradali con la Germania, nel tentativo di limitare e controllare il transito di migranti diretti in Svezia.

Adesso si parla degli hotspot, i centri di identificazione dei richiedenti asilo da istituire nei Paesi di prima accoglienza a tal fine l’Ufficio europeo per l'asilo (Easo), Frontex ed Europol dovrebbero dare il loro supporto agli Stati membri per velocizzare le pratiche di identificazione, registrazione e foto segnalazione dei migranti e bisogna distinguere i richiedenti asilo dai migranti che non ne hanno diritto. Tra gli obiettivi c’è l'individuazione dei profughi che hanno effettivo diritto all'asilo, dai migranti economici. Gli esperti di Easo aiuteranno i Paesi ad esaminare le domande di asilo "il più velocemente possibile", mentre Frontex aiuterà gli Stati nel coordinamento dei rimpatri di "coloro che non hanno esigenze di protezione internazionale".

I documenti dell'autopsia che scagiona i Marò



Non sono stati loro. L'autopsia sui due pescatori morti al largo delle coste del Kerala. L'analisi sui proiettili dimostra che a esplodere i colpi non furono le armi in dotazione a Salvatore Latorre e Massimiliano Girone.


E' questo ciò che emergere dall'autopsia sui pescatori uccisi in India realizzata dal medico legale indiano, l'anatomo patologo K. S. Sasika. Non sono stati i Marò. I documenti resi pubblici da Dagospia, arrivano in soccorso di quanto già scritto nei giorni scorsi. I legali indiani, infatti, hanno consegnato al Tribunale di Amburgo il documento che fino ad ora era rimasto nascosto nei cassetti delle aule giudiziarie indiane.


Nella seconda pagina, si legge chiaramente che il proiettile estratto dal cervello del pescatore Jalestine non è di quelli dati in dotazione alle truppe italiane. E' troppo grande. Il proiettile misurato dall'anatomo patologo, infatti, ha una ogiva di 31 millimetri, misura una circonferenza di 20 millimetri alla base e nella zona più larga arriva fino a 24 millimetri. Dalle armi dei Marò, invece, possono essere esplosi solo i colpi calibro 5 e 56 Nato, che misurano 23 millimetri appena, ben 8 millimetri in meno di quelli che hanno ucciso i pescatori. Impossibile dunque non capire che chi ha ucciso Jalestine non poteva usare i mitra Minimi e Beretta Ar 70/90 che invece portavano con loro Latorre e Girone. Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia e i suoi legali non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti. Che arrivano a scagionare i Marò a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione. Il documento prova che i proiettili in dotazione ai due fucilieri non sono compatibili con le ferite dei pescatori uccisi.


Quello che rimane da chiedersi, è come sia possibile che l'Italia, i suoi legali, i governi non siano riusciti ad ottenere prima l'accesso a questi documenti a 3 anni dall'inizio della loro ingiusta detenzione.


"Dalle carte depositate emerge anche l’ennesimo particolare incongruo. Il Gps del Saint Antony (il peschereccio indiano, ndr) non fu consegnato da Bosco alla polizia appena arrivò in porto, ma otto giorni dopo, il 23 febbraio, assieme a un computer malridotto. Insomma, volendo, ci fu tutto il tempo per manomettere i dati registrati dall'apparecchio".


I testimoni, i tre pescatori sopravvissuti alla sparatoria del 15 febbraio 2012, ovverro Il comandante del peschereccio Freddy Bosco, 34 anni, residente nello stato meridionale del Tamil Nadu, e il marinaio Kinserian, 47 anni, dichiarano 'onestamente e con la massima integrità' che alle 16,30 del 15 febbraio 2012 il natante 'finì sotto il fuoco non provocato improvviso dei marinai Massimiliano Latorre e Salvatore Girone della Enrica Lexi'. Entrambi, guarda caso, sbagliano nello stesso modo il nome della petroliera, la Enrica Lexie. Entrambi aggiungono che i 'tiri malvagi' hanno provocato la 'tragica morte dei cari amici e colleghi Valentine, alias Jelastin, e Ajesh Binke'. La loro vita dopo la presunta sparatoria è descritta nello stesso modo: 'Indicibile miseria e una agonia della mente, una perdita di introiti'. 'La nostra ordalia – concludono – non è finita'".


Il sito Dagospia  definisce il nuovo documento “un segreto di Pulcinella”. Difficile immaginare che l’autopsia delle vittime non sia mai stato visionata dal governo italiano e da quello indiano. E, dunque, perché non è stato usato come la pistola fumante per scagionare definitivamente Salvatore Girone e Massimiliano Latorre?