lunedì 21 settembre 2015

Nagorno Karabakh, lo Stato non riconosciuto


Nagorno-Karabakh, un territorio conteso nel sud del Caucaso poco conosciuto, se non per alcune cronache degli anni Novanta. Tutto è iniziato alla fine degli Anni 80 con il crollo dell’Unione Sovietica che settant’anni prima aveva regalato questa regione dell’Armenia cristiana all’Azerbaigian musulmano. Nel ’91 il referendum per riottenere l’indipendenza scatenò il conflitto che in due anni causò trentamila morti, migliaia di feriti, quasi un milione di profughi e chi sa quanti dispersi. Decine di villaggi vennero rasi al suolo, i ponti distrutti, chiese e moschee ridotte in macerie. “Fu guerra etnica, non religiosa” sostengono in molti, da una parte e dall’altra. Sospese le ostilità nel maggio del 1994 con l’accordo di Bishkek, gli equilibri tra le parti furono ristabiliti sulle fragili basi una pax armata. Poiché la fine delle operazioni militari non portò al disarmo, il cessate-il-fuoco è stato spesso violato e i negoziati sono da anni intrappolati in un vicolo cieco. Difeso dall’Armenia, conteso dall’Azerbaigian e dimenticato dal resto del mondo, questo piccolo territorio incuneato nel Caucaso meridionale lotta ogni giorno per affermare un’indipendenza che nessuno Stato o organismo al mondo gli riconosce, neppure l’Armenia. Indipendenza ribadita con le elezioni amministrative tenutesi in data 13 settembre del 2014, che la comunità internazionale si è tuttavia affrettata a bollare come illegittime.

Il Nagorno Karabakh ha un’area di 11.458 chilometri quadrati, pari a meno della metà di quella della Sardegna, e una popolazione di 143 mila abitanti, poco meno della metà degli abitanti di Cagliari. È diviso in sette regioni, più la capitale Stepanakert, a statuto speciale, dove vivono oltre 53 mila persone. La seconda città più grande è Shushi. Karabakh è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». «Nagorno» è una parola russa che significa «montagna». La popolazione di origine armena preferisce invece chiamare la regione «Artsakh», il nome antico armeno.

Nel 1992 l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) creò il gruppo di Minsk, una struttura di lavoro composta da 12 nazioni e guidata da Francia, Russia e Stati Uniti per promuovere i negoziati tra Armenia e Azerbaigian. Nel 1995 il paese adottò una nuova Costituzione, poi sostituita da una nuova carta approvata nel 2006 con un referendum che definì il Nagorno Karabakh uno Stato sovrano (la consultazione venne dichiarata illegittima dall’Azerbaigian). Il processo di pace è andato avanti lentamente. Ci sono stati incontri tra i presidenti di Armenia e Azerbaigian. Ma la situazione di fatto è in fase di stallo. E negli ultimi anni anche il cessate il fuoco è stato violato più volte.

Dalle principali organizzazioni sovranazionali (OCSE e Organizzazione per la cooperazione islamica, OIC), alle grandi potenze europee (Germania e Regno Unito) e mondiali (Stati Uniti e Cina), passando per i Paesi a maggioranza musulmana di tutte le latitudini (dalla Turchia all’Indonesia), un coro unanime ha ribadito l’inopportunità delle consultazioni  del 13 settembre. Per tutti, il voto nel Nagorno Karabakh rappresenta un guanto di sfida lanciato sul tavolo dei negoziati, poiché tenuto in palese violazione degli accordi raggiunti OCSE e in generale della legalità internazionale. Per quanto ineccepibile, questa ragione di principio ne sottende anche un’altra dettata da un più concreto interesse: all’estero nessuno desidera irritare l’Azerbaigian, ricco di petrolio e attore geopolitico di primaria importanza nel Caucaso e nel quadrante dell’Europa orientale, ma nemmeno la Russia, sponsor degli armeni e già ai ferri corti con l’Occidente in conseguenza della crisi ucraina.

L’irrisolta questione del Nagorno Karabakh è così diventata un tipico esempio di conflitto dimenticato, che ha fatto di questo territorio la zona più militarizzata d’Europa, dove le ostilità e la conta delle vittime non si sono mai del tutto arrestate. Un calcolo difficile, quest’ultimo, perché mancano osservatori imparziali e le uniche notizie – fornite dai Governi – sono spesso discordanti.

Oggi il piccolo Stato non riconosciuto è la polveriera d’Europa, dove a crescere, oltre al numero dei caduti, sono anche le spese militari. Secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), se nel 2000 il bilancio destinato al capitolo Difesa ammontava ad appena 68 milioni di dollari per l’Armenia e 120 milioni per l’ Azerbaigian, nel 2013 la spesa è passata rispettivamente a 427 milioni (+528%) e addirittura a 3 miliardi e 440 milioni (+2800%). Secondo la Banca Mondiale, il Pil dell’Armenia nel 2013 è stato pari a 2,977 milioni: in altri termini, la spesa militare dell’Azerbaigian supera di gran lunga l’intera ricchezza nazionale della rivale Yerevan. Un esborso che accresce i timori di una nuova, possibile offensiva di Baku nel tentativo di riprendere il controllo della regione. I media azeri gettano benzina sul fuoco con messaggi minatori nei confronti dei vicini armeni, e anche il presidente dell’Azerbaigian, llham Aliyev, ha più volte dato il suo contributo con messaggi dai toni sempre più minacciosi, salvo poi precisare che «è l’Armenia a non volere la pace».

La vicenda influenza i rapporti economici dell’intera regione con i Paesi confinanti e l’Europa. A sostegno dell’Azerbaigian, oltre al diritto internazionale, c’è l’opportunità di mantenere buoni rapporti con un Paese in fortissima crescita e posizionato in una zona cruciale per lo snodo di gasdotti e oleodotti. Ma a essere impegnate in un ruolo attivo sono innanzitutto le due maggiori potenze del Caucaso, ossia Turchia e Russia, rispettivamente schierate l’una con il governo azero e l’altra con quello armeno.

Tra le conseguenze più eclatanti della questione del Nagorno ci sono appunto i rapporti tra Ankara e la vicina Yerevan, sempre più ai minimi termini nel centenario del Medz Yeghern, il genocidio armeno perpetrato dai turchi tra il 1915 e il 1916; ma è soprattutto la posizione di Mosca che si sta ultimamente concentrando l’attenzione degli osservatori.

Negli ultimi mesi la Russia ha rafforzato ulteriormente il suo controllo sulla regione del sud del Caucaso, e alcuni analisti cominciano a vedere molte analogie con la crisi in Ucraina. La scorsa primavera, per esempio, il governo armeno ha abbandonato l’idea di firmare un accordo di partnership con l’Unione Europea – proprio come fece l’ex presidente ucraino filo-russo Viktor Yanukovych, poi sfiduciato dal parlamento ucraino a seguito delle grandi proteste di piazza Indipendenza a Kiev dell’autunno e inverno scorsi – e ha annunciato la sua intenzione di unirsi a un accordo simile proposto dalla Russia.

Diversi analisti nelle ultime settimane hanno criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto all’intervento russo in Nagorno-Karabakh. Le considerazioni che vengono fatte sono due: primo, che senza una risposta adeguata il rischio è di vedere replicato qui quello che è successo con l’annessione della Crimea alla Russia, resa possibile anche grazie all’immobilismo occidentale. Secondo, che come succede spesso le argomentazioni di principio di diversi stati occidentali su dove e come intervenire militarmente o politicamente entrano in contraddizione tra loro. E il risultato è una perdita di credibilità dell’azione occidentale, problema diventato evidente durante la crisi ucraina.

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