martedì 30 dicembre 2014

Alexei Navalny, il blogger anti-Putin è stato arrestato



Alexei Navalny è stato arrestato per essersi allontanato dagli arresti domiciliari per raggiungere la manifestazione in suo appoggio a Mosca. Lo riferisce la tv russa Dojd. "Sono agli arresti domiciliari ma oggi ho troppa voglia di stare con voi", aveva scritto poco prima su Twitter il blogger anti-Putin condannato.

Navalny, diventato la figura carismatica del fronte anti-Putin, ha annunciato in un tweet l'intenzione di partecipare a un raduno in suo sostegno, malgrado si trovi agli arresti domiciliari. Alla manifestazione sono state fermate molte persone: un centinaio secondo il ministero degli Interni russo, 245 secondo alcune fonti dell'opposizione

La polizia ha arrestato Navalny in strada, secondo quanto mostra l'emittente indipendente Dojd. In quanto agli arresti, non aveva il diritto di lasciare la sua residenza per recarsi alla manifestazione, da lui stessa indetta in Piazza del Maneggio, a due passi dalla Piazza rossa. Il popolare e carismatico blogger e oppositore politico di Putin, che denuncia la corruzione in Russia, è da febbraio scorso agli arresti domiciliari. Il blogger è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere - con pena sospesa - per malversazione di fondi pubblici, in un processo in cui il fratello Oleg è stato condannato alla stessa pena, ma che dovrà scontare in una colonia penale. Contro la sentenza si è pronunciata, fra gli altri, l'Ue, che l'ha giudicata "motivata politicamente".

Le autorità russe vieteranno "tutte le manifestazioni non autorizzate". Questa mattina, subito dopo la condanna a tre anni e mezzo per appropriazione indebita, con pena sospesa, il blogger anti Putin Alexei Navalny aveva esortato i suoi sostenitori a scendere in piazza. Il fratello, Oleg Navalny, è stato condannato nello stesso processo a tre a anni e sei mesi da scontare in una colonia penale. Il verdetto, inizialmente previsto per metà gennaio, era stato anticipato a sorpresa a oggi per evitare le manifestazioni di massa annunciate dai sostenitori del blogger anti-Putin.

Navalny è stato fermato dalla polizia prima dell'arrivo alla manifestazione convocata a suo sostegno dopo la condanna a tre anni e mezzo di carcere - con pena sospesa - per malversazione di fondi pubblici, in un processo in cui il fratello Oleg è stato condannato alla stessa pena, ma che dovrà scontare in una colonia penale. Il blogger è stato poi riaccompagnato a casa sua. Dalla parte di Navalny, oltre all'opposizione russa, c'è gran parte del fronte occidentale, per il quale il 2014 e la crisi ucraina sono state il tempo e il luogo per entrare in piena rotta con Vladimir Putin. La condanna del leader dell'opposizione russa "è uno sviluppo inquietante" e gli Stati uniti sono "turbati dal verdetto", ha affermato il portavoce del dipartimento di Stato, Jeffrey Rathke.

Mentre da Bruxelles, esponenti dell'Ue parlano di "motivazione politica della condanna". Anche se l'opposizione russa che ha organizzato la protesta aveva promesso: "È solo l'inizio", nella Mosca intorpidita dal freddo (oggi -14 gradi), la manifestazione a sostegno di Aleksey Navalny e di suo fratello Oleg non è riuscita neppure a raggiungere la meta: Piazza del Maneggio è stata ampiamente cordonata dalla polizia russa, in una capitale mai tanto presidiata e blindata nell'era Putin. Agenti ovunque. Forze speciali, soldati in assetto anti sommossa e persino i cosacchi dappertutto: nelle stazioni della metropolitana, nei sottopassi, sulle scale e lungo i marciapiedi. In questa situazione sono state fermate moltissime persone: un centinaio secondo il ministero degli Interni russo, 245 secondo alcune fonti dell'opposizione, che parlano di 17 pulmini delle forze dell'ordine riempiti di attivisti. L'affluenza alla manifestazione pare che non sia stata straordinaria. Secondo la polizia si parla di 1500 persone che volevano manifestare in centro. A tutto questo si aggiungeva un clima gelido e surreale tra piazza della Rivoluzione e Piazza del Maneggio, quest'ultima deserta e isolata.



venerdì 26 dicembre 2014

25 dicembre 1914: la Tregua di Natale fra britannici e tedeschi



Il 25 dicembre del 2014 le truppe tedesche e i britanniche che si combattevano aspramente dall'agosto del 1913 sul fronte occidentale uscirono allo scoperto e concordarono una tregua all'insaputa dei rispettivi comandi. Era il primo Natale della Grande guerra, ed i soldati delle trincee nemiche smisero di spararsi addosso e stabilirono una breve tregua,venendosi reciprocamente incontro nella cosiddetta "terra di nessuno" tra le due trincee. Per alcune ore britannici e tedeschi uscirono dalle trincee e fraternizzarono. Poi riprese la carneficina.

Ad iniziarla furono i soldati tedeschi. Dalle trincee del Corpo di Spedizione Britannico (BEF) si cominciarono ad intravvedere piccoli lumi provenire dalle trincee nemiche. Erano candele e piccoli ceri che i soldati del Kaiser avevano acceso lungo la linea da loro difesa e sugli alberi. Poi cominciarono a levarsi i primi canti natalizi in tedesco, dai soldati radunati attorno a piccoli fuochi di legna. I Britannici risposero con messaggi urlati a gran voce, quindi presero anch'essi a cantare.

La mattina di Natale i due eserciti combattenti si incontrarono nella "terra di nessuno". Molti furono gli episodi di fraternizzazione e di scambio di piccoli doni. Addirittura furono improvvisate sfide di calcio sul terreno fangoso e reso duro dal gelo.

La piccola tregua fu anche l'occasione per entrambi gli schieramenti di poter seppellire i propri morti, rimasti per giorni tra le due trincee.

Le testimonianze raccontano che o per iniziativa di qualche soldato coraggioso o per delle candele accese nella notte o per un canto natalizio intonato a Natale lungo molte trincee del fronte occidentale soldati tedeschi e dell’Intesa posarono le armi per attraversare la terra di nessuno ed incontrare quello che era (e sarebbe ridiventato all’indomani) il nemico.

Dato il carattere spontaneo dell'episodio e limitato al solo fronte occidentale, la stampa di guerra sottoposta a censura minimizzò e in alcuni casi condannò la fraternizzazione tra combattenti.

Fu un’iniziativa presa dal basso, dai soldati in trincea, che il 25 dicembre di cento anni fa uscirono spontaneamente allo scoperto in alcune zone del fronte occidentale per andare a salutare e a fare gli auguri ai «nemici» senza che ci fosse, da parte dei comandi, alcun via libera. Quando la notizia si diffuse grazie alle lettere dei soldati alle famiglie, i vertici militari di entrambi i contendenti si affrettarono a proibire altre iniziative simili: il generale Horace Smith Dorrien, comandante del secondo corpo d’armata della Bef, la forza di spedizione britannica in Francia, arrivò a minacciare la corte marziale per chi si fosse reso colpevole di fraternizzazione.

Il caporale Leon Harris del 13esimo battaglione del London Regiment in una lettera scritta ai genitori che stavano a Exeter (riprodotta sul sito www.christmastruce.co.uk interamente dedicato a quanto successe cento anni fa): «È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle». Il riferimento al tempo non è di poco conto: «La vigilia — scrive Alan Cleaver nella prefazione al libro La tregua di Natale che raccoglie molte lettere dei soldati dell’epoca — segnò la fine di settimane di pioggia battente, e una gelata rigida e tagliente avvolse il paesaggio. Gli uomini al loro risveglio si trovarono immersi in un Bianco Natale».

Non si sa dove fosse schierata l’unità del caporale Harris ma gli eventi da lui descritti con tanta vivacità si ripeterono più o meno identici in molti punti del fronte. In una lettera alla famiglia del 28 dicembre, il bavarese Josef Wenzl racconta di essere rimasto incredulo quando uno dei soldati cui la sua unità stava dando il cambio gli disse di aver passato il giorno di Natale scambiando regali con i britannici. Ma quando spuntò l’alba del 26 dicembre vide con i suoi occhi i soldati britannici uscire dalle trincee e cominciare a parlare e scambiarsi oggetti ricordo con lui e con i suoi compagni. Poi ci furono canti, balli e bevute. «Era commovente — si legge nella lettera — tra le trincee uomini fino a quel momento nemici feroci stavano insieme intorno a un albero in fiamme a cantare le canzoni di Natale. Non dimenticherò mai questa scena. Si vede che i sentimenti umani sopravvivono persino in questi tempi di uccisioni e morte».

In seguito le alte sfere militari fecero di tutto per scoraggiare il ripetersi di questi episodi, anche se continuarono per tutto il conflitto, in forma isolata e sporadica e coinvolgendo un numero esiguo di soldati. All'avvicinarsi del Natale 1915, i rispettivi comandi generali diedero ordine di ruotare le truppe e aprire un fuoco di artiglieria lungo tutto il fronte. Disposizione ripetuta anche nel 1916 e nel 1917. Nessuno uscì più dalle trincee e quell'ultimo gesto di umanità in un conflitto che causerà 35 milioni di morti e dispersi tra militari e civili, rimase come una sorta di unica isolata «Fiaba di Natale» in quel grande massacro che fu la «Grande Guerra».

Alla fin fine, comunque, pare che il mito avesse ragione e gli storici scettici torto: è stata scoperta una lettera del generale Walter Congreve (decorato con la Victoria cross, la più alta decorazione britannica al valor militare) che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Ma poiché era un generale, non si faceva illusioni e sapeva i bei momenti sarebbero finiti.




Il solstizio d'inverno del 2014 sarà il giorno più corto dell’anno



Nella notte tra 21 e 22 dicembre (precisamente in Italia alle 00:03 del 22), sarà il momento del solstizio d’inverno, appuntamento che segna l’inizio della stagione invernale, almeno in senso astronomico. È il giorno dell’anno in cui il Sole a mezzogiorno sale di meno rispetto all'orizzonte, e sarà la notte più lunga del 2014.

Il solstizio è un fenomeno che accade due volte ogni anno, causato (così come gli equinozi) dalla diversa inclinazione dell’asse di rotazione della Terra rispetto al piano dell’eclittica (ovvero il piano dell’orbita su cui il nostro pianeta ruota intorno al Sole). Questa differenza causa nel corso dell’anno un moto apparente del Sole nel cielo terrestre, che nel nostro emisfero fa sì che raggiunga il suo punto di elevazione massima rispetto all’orizzonte in corrispondenza del solstizio d’estate (21 o 22 giugno), e quella minima nel solstizio d’inverno (21 o 22 dicembre).

In queste date si hanno quindi i giorni e le notti più lunghi, che segnano convenzionalmente anche l’inizio dell’estate (solstizio d’estate) e dell’inverno astronomici (solstizio d’inverno), ovvero i periodi dell’anno in cui il percorso apparente del Sole sale o scende rispetto all’orizzonte, che terminano rispettivamente con l’equinozio d’autunno e con quello di primavera. Attenzione, però, a non confondere le stagioni astronomiche con quelle a cui facciamo riferimento più comunemente, ovvero le stagioni meteorologiche, che definiscono invece i mesi più freddi e più caldi dell’anno.

Il solstizio d’inverno cade proprio in prossimità del Natale. Un caso? Assolutamente no, perché la data era al centro delle festività pagane (probabilmente il Natalis Solis Invictidegli adoratori di Mitra) su cui si ritiene sia stato ricalcato il natale cristiano. Non si tratta comunque di un caso isolato, perché i solstizi rappresentavano un momento importante nel calendario di moltissime altre culture antiche. Come i Maya, che avevano previsto la fine del mondo proprio per il solstizio di inverno del 2012. Per fortuna, sembra si sbagliassero.

Un disegno animato per celebrare online il primo giorno d'inverno: ci ha pensato Google che da anni dedica il logo, "doodle" in gergo, che compare nella pagina del motore di ricerca ad eventi e ricorrenze speciali. Il solstizio d'inverno, popolarmente detto "il giorno più corto dell'anno", cade di solito tra il 20 e il 23 dicembre, secondo alcuni parametri dettati dalla riforma gregoriana per evitare un progressivo disallineamento delle stagioni. Nel 2015 cadrà il 22 dicembre. Quest'anno in Italia per la precisione alle 00.03 del 22.

L'etimologia della parola "solstizio" deriva da "Solis statio", fermata del Sole. Nel giorno del solstizio d'inverno il Sole, nel suo moto apparente, raggiunge il punto più basso del percorso sotto l'equatore celeste e delinea l'arco diurno più corto tra il Sud-Est e il Sud-Ovest, segnando cosi' l'inizio della stagione invernale astronomica nell'emisfero boreale. Pertanto in Italia si assiste al giorno con meno sole: 8 ore e 55 minuti, mediamente. Ma in questo periodo, per noi il più freddo, paradossalmente il Sole è più vicino alla Terra, a causa della ellitticità dell'orbita terrestre. Il 4 gennaio, infatti, si avrà il passaggio della Terra al perielio, a oltre 147 milioni di chilometri, mentre in luglio la distanza Terra-Sole raggiunge i 151 milioni.

Nella storia, il solstizio d'inverno ha rappresentato occasione di festività di vario genere: i Saturnalia nell'antica Roma; Kwanzaa per alcuni afroamericani o lo stesso Natale; Yule nel Neopaganesimo. Non è, poi, vero il detto popolare che individua nel 13 dicembre, Santa Lucia, il giorno con la notte più lunga. Anzi, non è più vero da quando, nel 1582, papa Gregorio XIII riformò il calendario giuliano (introdotto da Giulio Cesare) e cancellò dieci giorni per rimettere al passo il computo del calendario con i fenomeni astronomici.

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USA-Cuba: relazioni Obama Raul Castro. Visto da Yoani Sanchez



Dopo oltre 50 anni di rottura ufficiale delle relazioni diplomatiche, il 17 dicembre Stati Uniti e Cuba hanno posto una svolta ai propri rapporti riaprendo un canale di dialogo ufficiale.

Crolla un altro muro e comincia una nuova era dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba. "L'isolamento non ha funzionato", è giunto il momento di "un nuovo approccio" tra i due Paesi che porti anche alla fine dell'embargo: con una mossa storica, che a sorpresa archivia mezzo secolo di tensioni.

Il primo atto della svolta è stata la liberazione del contractor americano Alan Gross da una prigione a Cuba. Collaboratore di Usaid (l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale che fa parte del Dipartimento di Stato Usa) Gross era stato arrestato 5 anni fa mentre distribuiva materiale elettronico alla comunità ebrea all’Avana con l'obiettivo di creare una rete informatica alternativa e condannato a 15 anni di prigione per spionaggio. Per il rilascio di Gross , gli Usa hanno accettato di liberare per motivi umanitari 3 agenti cubani detenuti negli Stati Uniti, meglio noti come i Miami Five, dopo un processo controverso che li ha condannati per spionaggio nei confronti di gruppi anti-Castro a Miami.

In pratica per il momento il disgelo si traduce nella normalizzazione delle relazioni e nell’apertura di una sede diplomatica statunitense a L'Avana. Ma successivamente in prospettiva arriverà la fine dell'embargo e la cooperazione tra i due paesi su varie questioni, compresa la lotta al crimine e l'eliminazione di Cuba dalla lista nera degli stati terroristi. Da subito, gli Usa si impegnano a facilitare l'accesso alle telecomunicazioni e a internet dei cubani. «Siamo separati da 90 miglia di acqua ma speriamo entrambi in un futuro migliore per Cuba», si legge nel comunicato stampa della Casa Bianca in cui però non viene fatto nessun cenno alla base di Guantanamo.

“Il castrismo ha vinto, anche se il risultato positivo è che Alan Gross è uscito vivo da una prigione che rischiava di diventare la sua tomba” è il primo commento della blogger dissidente Yoani Sanchez sul sito 14y Medio, prima ancora degli attesi discorsi di Raul Castro e Barack Obama. Secondo la Sanchez lo scambio di Gross per gli ultimi tre dei “Miami Five” agenti dell’intelligence cubano condannati negli USA –dimostra che “nel gioco della politica i totalitarismi riescono sempre ad imporsi sulle democrazie”. Questo scrive la blogger, perché controllano l’opinione pubblica all’interno dei loro paesi, determinano i risultati legali a loro piacere e possono mantenersi tre lustri spendendo le risorse di tutta una nazione per ottenere la liberazione delle loro talpe, inviate del terreno dell’avversario, mentre “le democrazie finiscono per cedere perché devono dare una risposta ai loro cittadini, convivere con una stampa incisiva che può rimproverare ai governanti se prendono o non prendono determinate decisioni e sono obbligate a fare tutto il possibile per riportare a casa i loro vivi e i loro morti”.

La presa di posizione della blogger testimonia della sorpresa e dello stordimento di buona parte degli esuli cubani in Florida. Si tratta di un’opposizione che ha anche consolidati rapporti, anche economici con gli Stati Uniti. E che è sempre stata trattata duramente dal castrismo. Infatti a pochi giorni fa la notizia dell’arresto a Cuba di una ventina di militanti dell’organizzazione Damas de Blanco colpevoli di partecipare ad una marcia silenziosa di protesta.

La fine dell’embargo non sarà la fine del dolore. Basta pensare il tempo per capire che la Rivoluzione del 1 gennaio del 1959 non avrebbe liberato Cuba, ma semplicemente sostituito un odiato dittatore con un altro di cognome Castro.

La blogger è stata a Perugia nell’aprile 2013, al Festival internazionale del giornalismo,  e con queste parole espresse il suo pensiero sulla politica castrista: “assaporare la libertà, rendermi conto che in ogni luogo dove sono stata non avevo la polizia alle calcagna, che nessuno mi avrebbe chiesto di mostrare i documenti, che non mi avrebbero mai domandato il motivo per cui mi trovavo  in quel posto. Ecco, questa è stata una scoperta straordinaria: sentirmi libera.
A Cuba provo a comportarmi da libera cittadina, ma devo sopportare tutte le conseguenze negative. Quel che mi manca è tornare a Cuba, ma lo farò presto, perchè la mia vita non è altrove ma in un altra Cuba.

Sta cambiando qualcosa per la generazione Y?
La generazione Y sta cambiando Cuba, non il contrario. Le riforme di Raul Castro sono briciole. Quel che sta cambiando è l’atteggiamento dei cubani, che si stanno togliendo la maschera dell’apatia e dell’indifferenza per chiedere a gran voce un cambiamento sociale ed economico.

Come sono i giovani cubani di oggi?
I giovani cubani è un concetto astratto, una generalizzazione che non mi appartiene. I giovani sono giovani a ogni latitudine, non solo a Cuba. I giovani cubani non sono un’entità monocolore e uniforme come pretenderebbe  il governo. Ci sono giovani comunisti che sostengono il regime, ci sono giovani contestatari, ci sono giovani apatici che pensano solo alla fuga, ci  sono giovani rapper e rockettari… La speranza è che un numero sempre maggiore di giovani prenda coscienza che il cambiamento di Cuba è nelle loro mani, quindi che abbandonino il sogno della fuga per restare in una terra che senza il loro apporto non ha futuro.

C’è un conflitto generazionale a Cuba? In che settori?
La mia generazione è apatica, non crede all’utopia del passato, che ha fallito il suo scopo. I giovanissimi sono ancora più indifferenti alla politica, sono cresciuti con l’idea che “occuparsi di politica” procura guai. A parte questo, vale il discorso che ho fatto prima. Non tutti sono uguali. Ci sono giovani brillanti che formano

Pensi mai alla morte di Fidel? Cambierà qualcosa oppure no?
C’è stato un periodo in cui pensavo che la morte di Fidel avrebbe contribuito a cambiare le cose. Adesso non ci penso più di tanto. Fidel fa parte del passato. Io penso al futuro. Certo, una volta scomparsa la sua pesante ombra verdeoliva su di noi, ci sentiremo tutti più liberi.

Lo stesso senso del giornalismo che muove la Sanchez , che intende il giornalismo come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».





domenica 14 dicembre 2014

Spagna: si cambia la legge sui diritti d’autore e Google chiude le News



Dal prossimo 16 dicembre il gigante dei motori di ricerca, Google, chiuderà il proprio servizio News in Spagna.

La decisione, senza precedenti, anticipa la legge spagnola sul diritto d’autore che entrerà in vigore il primo gennaio prossimo e che obbligherebbe il colosso del web a pagare per i contenuti veicolati.

In molti paesi europei il motore di ricerca è in conflitto con gli editori, i quali rivendicano il diritto alle royalties e lo accusano di abusare della propria posizione dominante.

Google News ha annunciato l’imminente interruzione del suo servizio online in Spagna in risposta alla nuova legge che l’avrebbe obbligata a pagare per la riproduzione delle notizie. La decisione è stata comunicata attraverso un post sul blog dedicato alle politiche europee del gigante di internet dal responsabile di Google News, Richard Gingras. Dal 1 gennaio in Spagna entrerà in vigore la nuova legge sulla proprietà intellettuale che prevede fra le altre cose l’introduzione del diritto irrinunciabile degli editori a chiedere agli aggregatori di notizie sul web (come Google e Meneame) di pagare per le notizie pubblicate. “La nuova normativa”, scrive Gingras, “obbliga ogni pubblicazione spagnola a imporre una tariffa per mostrare le proprie notizie, anche se non vogliono. Google News non ha benefici da questa attività e la nuova normativa rende insostenibile il servizi”, che verrà interrotto il 16 dicembre 2014 con la rimozione dei contenuti dell’editoria spagnola.

La decisione choc sulla Spagna accende un faro sulla guerra fra il motore di ricerca e le notizie online. Il nodo è lo sfruttamento dei contenuti: ma, sul tema, la giurisprudenza apre altre strade.

La notizia che Google, ritenendo eccessivamente oneroso il pagamento di una fee agli editori spagnoli per la visualizzazione di alcuni dei loro contenuti nel servizio Google News, come recentemente previsto da una legge che entrerà in vigore a breve, getta la spugna e “chiude” il servizio in Spagna. La vicenda spagnola è, come noto, analoga a quella tedesca della Google tax, sulle cui ricadute negative, proprio sugli editori, in quel Paese si stanno domandando.

Nella logica degli editori spagnoli dell’AEDE e della loro cosiddetta “Google tax”, non c’è sostanziale differenza tra un link che riporta un “frammento non significativo” di un loro contenuto e chi quel contenuto lo copia integralmente, ospitandolo sul proprio sito invece che rimandando ai loro: sono entrambi esempi di violazione del copyright. Come mirabilmente riassunto dal presidente della italiana Fieg, Maurizio Costa, alla Stampa, rifiutandosi di pagare per portare traffico ai produttori di contenuti, “Google non riconosce il diritto d’autore”.

Perché Google dovrebbe pagare una fee agli editori per il suo servizio? Beh, la risposta è sembrerebbe immediata: perché sta sfruttando i loro contenuti. Sta cioè insinuandosi subdolamente nelle possibili forme di sfruttamento economico dei diritti di proprietà intellettuale spettanti agli editori. Si è ampiamente detto del fatto che Google news non inserisce pubblicità quindi non guadagna da ricavi pubblicitari.
Quello che però sfugge è che lo sfruttamento economico in questione, da cui discenderebbe la necessità di riconoscerne le utilità agli editori, mi sembra possa trovare la sua base giuridica esclusivamente in un asserito atto di comunicazione al pubblico del contenuto (in particolare di messa disposizione del pubblico) che costituisce uno degli atti di sfruttamento economico tipizzati dalla normativa nazionale internazionale e comunitaria sul diritto d’autore.

Siamo proprio sicuri che la visualizzazione di alcuni contenuti nel servizio Google news possa configurare un atto di comunicazione al pubblico degli stessi e più in particolare un nuovo atto di comunicazione al pubblico dei contenuti effettuato da un soggetto diverso che si aggiunge allo sfruttamento originario effettuato dal caricamento online della testata giornalistica? I giudici europei che più volte si sono pronunciati sui confini del diritto di comunicazione al pubblico ci dicono, ed anche recentemente, di no.
Quali sono gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza? Il titolare di un diritto autorizza lo sfruttamento dello stesso sotto forma di comunicazione al pubblico dell’opera prevedendo un certo pubblico. Sulla base di questa previsione determina quanto farsi pagare. I giudici europei hanno perciò ribadito in più occasioni che solo quando la tecnologia renda possibile raggiungere un ulteriore e nuovo pubblico, non preso in considerazione dal titolare nell’atto originario di autorizzazione, siamo di fronte ad un nuovo sfruttamento. Che va pagato.

Il servizio di Google news consiste nella visualizzazione di un contenuto che è già presente in rete e liberamente accessibile. Una recente sentenza della Corte di Giustizia del febbraio 2014 ha stabilito che in caso di linking ad un contenuto presente in un altro sito e accessibile in quel sito in modalità non criptata non c’è un nuovo pubblico e quindi un nuovo atto di comunicazione al pubblico. Mancherebbe dunque la ragione della richiesta di un pagamento.

Secondo l’AEDE il governo di Madrid e le istituzioni comunitarie dovrebbero intervenire per impedire che Mountain View spenga il suo servizio News nel Paese. Strano gli editori scoprano solo ora, poi, il valore di avere più voci e di averle più facilmente a disposizione grazie a Internet. E strano non fossero già a conoscenza che la legge che tanto hanno combattuto per vedere approvata realizza l’esatto contrario di promuovere il pluralismo e la democrazia nel Paese. Come ricorda Luca De Biase, l’antitrust spagnola li aveva già avvertiti: la norma è incompatibile “con una ragionevole concorrenza nel settore”. L’Istituto Italiano per la Privacy, ha confermato che: “i motori di ricerca e gli aggregatori di notizie sono formidabili abilitatori del pluralismo”.

Ancora, gli editori cercano di far passare l’idea che si tratti della lotta tra produttori di contenuti e chi glieli ruba. E invece è niente altro che il tentativo di normalizzare un nuovo e più severo rapporto tra chi in rete scrive e chi aggrega, anche solo per “frammenti non significativi”, quegli scritti. Ma se quello è il principio, si tratta – come scritto entrando nel dettaglio della norma – di una vera e propria tassa sui link. Una tassa che, per la prima volta, gli editori sono obbligati a richiedere pena il verificarsi di quanto accaduto in Germania: ovvero, una tragicomica retromarcia à la Axel Springer una volta ci si renda conto che il traffico collassa del 40%.

Comunque sia, il problema è che si tratta di una cattiva idea, e ripeterla in Belgio, Francia, Germania, prossimamente Italia non servirà a renderla meno cattiva. Semmai, ad aggiungere la premeditazione al danno. E non è questione di articolare una difesa di Google, ma piuttosto di difendere la rete da chi vorrebbe trasformarla in una sorta di televisione che non si spegne mai, o di giornale che non si finisce mai di sfogliare.



lunedì 8 dicembre 2014

Anna Chapman la rossa tentò di stregare Edward Snowden



Anna la rossa', l'ex avvenente spia russa arrestata negli Stati Uniti nel 2010, ha tentato di 'sedurre' Edward Snowden su preciso ordine del Cremlino che puntava a trattenere in Russia il più possibile la talpa del Datagate per scucirgli tutti i segreti dei servizi americani. Lo sostiene un ex agente del Kgb, Boris Karpichkov, secondo il quale del piano russo per incastrare Snowden faceva parte anche un civettuolo tweet del luglio del 2013 nel quale Anna Chapman chiedeva all'ex informatico della Nsa di sposarlo. La 'proposta' della 007 russa fece il giro dei media internazionali ma lei non ne ha mai voluto parlare. Ne' l'ha mai voluta commentare Snowden che, nel frattempo, è stato fotografato a Mosca in compagnia della sua fidanzata storica Lindsay Mills, dalla quale si era separato alle Hawaii sempre nell'estate del 2013 quando la 'talpa' era scappato dagli Stati Uniti ed era approdato in Russia. Per Karpichkov l'informatico fu tentato di accettare la corta della bella Anna, ma si preoccupò delle conseguenze di una relazione del genere. Fosse diventata una storia seria, sostiene l'ex agente del Kgb, la 'talpa' avrebbe avuto il diritto ad ottenere la cittadinanza russa con la conseguenza che nel caso avesse voluto lasciare il Paese avrebbe dovuto chiedere un'autorizzazione. Ad agosto, Snowden ha ottenuto da Mosca un permesso di soggiorno per tre anni, prolungamento dell'asilo temporaneo concessogli nel 2013, con la possibilità di viaggiare all'estero ma per non più di tre mesi. Mentre 'Anna la rossa' ha proseguito la sua carriera di 'celebrity': da quando è stata arrestata dal controspionaggio Usa insieme con altri 007 russi, infatti, è stata fotomodella (anche di servizi osé), conduttrice tv, ospite televisiva, attrice cinematografica ('Bond girl' per un film tratto da un thriller di Ian Fleming), dirigente del movimento giovanile del partito di Vladimir Putin e, infine, stilista.

Mr Karpichkov detto Nigel giornalista Nelson per il Sunday People: 'Se Snowden avesse accettato avrebbe un diritto di cittadinanza russa. Ciò gli avrebbe bloccare in Russia. Come cittadino aveva necessita di permessi per leave.'Mr Karpichkov - che è fuggito in Gran Bretagna dopo 15 anni come un agente del KGB, ma è ancora in contatto con fonti a Mosca - ha detto Snowden divenne 'preoccupato per quello che le conseguenze sarebbero' di che sia collegata a Chapman. Former deputato conservatore Rupert Allason, meglio noto ora come spia scrittore Nigel West, ha detto che Chapman era 'abbastanza sofisticato per vivere con una American'.Mr Allason ha detto al Sunday People:' non ci sono molti di quelli nel FSB (ex KGB). Sarebbe pronta a usare la sua evidente gifts.'In settembre 2013 Chapman ha rifiutato di rispondere alle domande circa la proposta in un'intervista bizzarro cinque minuti con la NBC, e uscì dopo che è stato chiesto il tweet. Lei non ha mai commentato pubblicamente.



Gli scrittori Oz, Grossman e Yehoshua firmano per lo Stato della Palestina



I tre scrittori hanno firmato la richiesta insieme ad altri 800 israeliani tra cui premio Nobel Daniel Kahneman: «È un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato», che chiede ai Parlamenti europei di riconoscere la Palestina come Stato.

Gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua hanno firmato una petizione che chiede ai Parlamenti europei di riconoscere la Palestina come Stato. Secondo l'organizzazione 'Gush Shalom' - citata da Haaretz - i tre autori hanno firmato la richiesta insieme ad altri 800 israeliani tra cui il premio Nobel Daniel Kahneman.

"E' un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato. E anche perché Abu Mazen continui nelle trattative". Così lo scrittore Yehoshua spiega perché ha firmato - assieme ad Amos Oz e a David Grossman - la petizione indirizzata ai parlamenti europei in favore del riconoscimento della Stato di Palestina. Sulle prossime elezioni Yehoshua ha detto che "Netanyahu deve lasciare. E' ora che si formi un blocco di centrosinistra per impedire uno stato binazionale e dire basta agli insediamenti". «Il nostro - ha spiegato ancora - è un atto di incoraggiamento nell’ottica della soluzione a due Stati, soprattutto a favore della ripresa di trattative di pace. Ma anche nei confronti del presidente palestinese Abu Mazen affinché non si allontani dal negoziato. Così come ci rivolgiamo ai settori moderati palestinesi».

La petizione - riferisce Haaretz, che cita l’organizzazione “Gush Shalom” - è stata inviata oggi al parlamento belga, che questa settimana dovrebbe esprimersi sul riconoscimento dello Stato palestinese. La richiesta, trasmessa anche al parlamento danese in procinto di compiere lo stesso passo e alla Camera bassa irlandese, è stata firmata, tra gli altri, dal premio Nobel Daniel Kahneman, dall’ex presidente della Knesset Avraham Burg, dall’ex ministro Yossi Sarid e da Yael Dayan, figlia dell’eroe nazionale Moshe Dayan.

Lo scorso due dicembre la Francia ha votato una mozione simbolica per la Palestina come Stato, mossa compiuta anche dalla Spagna, mentre la Svezia ha optato invece recentemente per un riconoscimento diretto. Al parlamento italiano è stata presentata, da più parti, una mozione analoga, ma ancora non è stata sottoposta al voto.

«L’obiettivo principale - ha spiegato Yehoshua riguardo la petizione - è la soluzione di due Stati per due popoli: uno Stato israeliano e uno palestinese. A partire dai confini del 1967. Per lo scrittore le elezioni in Israele, che per ora sono indette a marzo del 2015 dopo la crisi di governo della passata settimana, sono un’occasione per cambiare il quadro politico complessivo. «Ho l’impressione - ha osservato - che Netanyahu abbia finito, che debba lasciare e uscire di scena». Per questo Yehoshua si è augurato «la costruzione di un blocco di centrosinistra» tra i partiti di quell’area che possa opporsi alla destra. «Bisogna lavorare per questo senza dimenticare - ha concluso - che un possibile appoggio potrebbe arrivare anche dallo Shaas, il partito dei religiosi».



sabato 6 dicembre 2014

Ucraina strangolata dalla crisi energetica



Piove sul bagnato della crisi energetica ucraina. Con la Russia che ha chiuso i rubinetti del gas a giugno e l’elettricità a singhiozzo che mette in ginocchio vita e produttività del Paese, a scarseggiare è ora anche il carbone.

Le importazioni dal Sudafrica, a cui Kiev si era rivolta dopo il blocco delle forniture russe, si sono bruscamente interrotte per un presunto caso di appropriazione indebita e prezzi gonfiati, che ha portato all’arresto del responsabile della compagnia statale che aveva negoziato i contratti.

Proprio lo sblocco delle forniture di carbone è l’intervento considerato più urgente dal Ministro dell’Energia ucraino Volodymyr Demchyshyn: “Soltanto così – ha detto – potremo assicurarci una produzione energetica a basso prezzo. Fino a quel momento non ci resta che utilizzare le centrali termiche. Ne abbiamo diverse, ma la carenza di combustibile ci impedisce di utilizzarle a pieno regime”.

Messa all’angolo, Kiev starebbe già negoziando l’importazione di energia elettrica da Mosca. Una mossa a cui paradosso vuole, che sia costretta proprio dall’inaccessibilità del carbone, provocata dai combattimenti con i ribelli pro-russi.

La Svizzera sta guardando all’Ucraina, la crisi nell’Est del Paese è il tema della conferenza annuale a Basilea dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Ocse). Poche le speranze che sia rispettato l’accordo per un cessate il fuoco raggiunto dai ribelli filorussi con il presidente ucraino dal 9 dicembre.

“La missione di monitoraggio dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa è stata incrementata. Il compito è vigilare sul ritiro delle armi pesanti dalla linea di demarcazione militare e controllare se il cessate il fuoco tra le forze di Kiev e miliziani è rispettato’‘, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov.

‘‘Serve una vera tregua bilaterale’‘ per il ministro degli Esteri ucraino Pavlo Klimkin, che ha parlato di ‘‘un’aggressione russa” invocando un vero processo politico.

‘‘Ci troviamo in una situazione in cui è necessario che l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa trovi un nuovo slancio, serve un impegno veramente politico. L’ Ocse deve essere in grado di far fronte alle sfide per la sicurezza europea, per la pace in tutto il Continente europeo’‘, ha detto Pavlo Klimkin.

La completa cessazione delle ostilità nell’Est dell’Ucraina resta l’obiettivo dei 57 Paesi membri dell’Osce. Il precedente cessate il fuoco del 5 settembre a Minsk tra forze di Kiev e i separatisti filo-russi è rimasto carta straccia.



domenica 30 novembre 2014

Italia, Francia e Belgio nel mirino della Commissione europea



Confermate le indiscrezioni secondo cui la Legge di Stabilità non rispetta a pieno le regole. Sotto la lente anche Francia e Belgio.

Francia, Italia e Belgio finiscono sotto la lente della Commissione europea a causa delle leggi di Stabilità 2015 che rischiano di violare le regole di bilancio comunitarie. E’ quanto riporta l’agenzia Reuters che, citando un documento interno all’esecutivo, rende noto che domani la Commissione europea metterà in luce tali rischi, rinviando qualsiasi decisione formale al mese di marzo.

La Commissione sollecita dunque tutti questi Paesi a rispettare le regole ma rimanda Roma, Parigi e Bruxelles a un secondo esame in marzo. In questo modo viene concesso più tempo ai tre Stati membri per correggere le loro strategie di politica economica in vista della decisione dell'esecutivo Ue.

Inoltre, sempre secondo quanto riporta Reuters, l'esecutivo dovrà decidere se sanzionare la Francia per non aver rispettato gli obiettivi di riduzione del deficit e se aprire una procedura di infrazione nei confronti di Italia e Belgio per l’ alto livello del debito pubblico. A settembre il ministero dell'Economia italiano ha stimato che rispettare integralmente le richieste europee richiederebbe una correzione complessiva "pari a 2,2 punti" di Pil nel 2015, 35 miliardi in valore assoluto.

“La Commissione – dice Gros direttore del Centre for European Policies Studies- ha rinunciato al suo ruolo di garante, ha accettato praticamente tutto quello che gli stati membri hanno presentato”

La Francia aveva detto che avrebbe riportato il deficit sotto la barra del 3% nel 2015, ma ora ha chiesto altri due anni di tempo. Se non porterà avanti le riforme rischia una multa di oltre 4 miliardi di euro.

“La Francia avrà probabilmente tutto il tempo che vuole, perché il Presidente francese presenta un’unica e semplice ragione: “Se non mi date tempo con il mio budget, l’estrema destra del Fronte Nazionale vincerà le prossime elezioni.. non è certo quel che volete…”

La situazione della Francia, ma anche quella dell’Italia e del Belgio, appesantite dal debito pubblico e alle prese con gravi problemi di crescita, saranno nuovamente analizzate a marzo, e rischiano sanzioni.

Quali saranno gli effetti di questa situazione sulla zona euro?
“Non ci saranno grandi cambiamenti nella politica di bilancio, perché i paesi stanno tutti andando un po’ oltre i limiti consentiti e la Commissione permette loro di farlo”.

Anche Spagna, Portogallo, Austria e Malta sono sorvegliate speciali di Bruxelles perché rischiano di violare il patto di stabilità.



sabato 29 novembre 2014

Regno Unito: David Cameron e la nuova politica dell’immigrazione



David Cameron annuncia un giro di vite contro gli abusi al sistema previdenziale britannico da parte degli immigrati europei. Con le legislative in vista, il premier si pronuncia su una delle questioni che più preoccupano gli elettori, limitare l’afflusso dei lavoratori europei, cresciuti del 39% nel 2014. Cameron minaccia di fare campagna per uscire dell’Unione europea nel caso in cui Bruxelles dovesse sbarragli la strada. Margaritis Schinas, portavoce dell’Unione:

“Queste sono idee britanniche e fanno parte del dibattito. Dovranno essere esaminate senza drammi, con attenzione e con calma. Dipende dai legislatori nazionali lottare contro gli abusi del sistema e le normative europee lo consentono”.

Le idee britanniche vedono il primo ostacolo nella Germania, contraria al principio di limitare la libertà di movimento nell’Ue. Il ministro degli esteri tedesco dalla Conferenza di Roma sull’emigrazione:

“Questa conferenza mostra che la strategia di aumentare le barriere per tenere lontani gli immigrati con strumenti esecutivi, non hanno portato soluzioni al grosso problema dell’immigrazione”.

Cameron intende rinegoziare i legami con l’Unione prima del referedum promesso nel 2017 sulla membership. Le misure restrittive proposte dal primo ministro interesserebbero 400 mila migranti.

La marcia verso la possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è cominciata con un vigoroso discorso di David Cameron in una fabbrica Jcb nelle Midlands. Fra le catene di montaggio di un’industria che probabilmente impiega un gran numero di lavoratori stranieri, il premier inglese ha annunciato la sua determinazione a limitare i diritti dei cittadini europei immigrati nel Regno Unito.

Un piano in quattro punti: chi sbarca a Dover e dintorni alla ricerca di lavoro dovrà attendere 4 anni per ottenere i benefici del generoso welfare britannico; se dopo sei mesi non avrà trovato un'occupazione dovrà lasciare il Paese. Chi lavora, invece, dovrà attendere 4 anni per avere benefici fiscali e case popolari oggi garantiti subito e non potrà più ricevere gli assegni famigliari se la famiglia risiede nel Paese d'origine.

«Questi sono punti irrinunciabili del mio negoziato con l’Unione europea… mi auguro che siano accolti da tutti, ma se non sarà così chiederemo deroghe specifiche per il nostro Paese», ha detto il premier britannico. E ha poi aggiunto una velenosa nota: se i partner diranno di sì alle sue richieste farà di tutto per un voto favorevole al referendum sull'Unione europea. Se al contrario l'Unione gli sbatterà la porta in faccia «terrò tutte le mie opzioni aperte». In altre parole David Cameron ha ipotizzato di schierarsi per l'uscita del regno dall’Unione.

L’affondo del premier, seppure attutito dalle positive considerazioni sui benefici effetti dell'immigrazione sull'economia della Gran Bretagna, colpisce al cuore le regole del mercato interno. La libera circolazione dei cittadini è fortemente messa in discussione e Cameron lo sa. Ha giocato infatti d’anticipo lasciando intendere che non tutto il single market è completato e quindi sono legittimi ripensamenti anche sul movimento intraeuropeo dei lavoratori.

L’atteso discorso del premier ha svelato misure che colpiranno circa 300 mila lavoratori europei oggi impiegati in Gran Bretagna. Ed è giunto, non a caso, poche ore dopo la diffusione dei dati sull'immigrazione nel Regno Unito. Il saldo netto è cresciuto del 43% rispetto allo scorso anno, un fenomeno che ha rinforzato le politiche antieuropeiste dell’Ukip, il partito che più minaccia la tenuta dei conservatori di David Cameron alle prossime elezioni politiche.


domenica 23 novembre 2014

Samantha Cristoforetti: pronti al lancio verso la ISS



Nata a Milano e cresciuta in Trentino, trascorrerà sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale. Amante delle escursioni, delle immersioni, del ballo e dello yoga, racconta: "Ho sempre sognato di fare l'astronauta".

Milanese di nascita, cresciuta a Malè in provincia di Trento, ha studiato negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, in Russia. Il suo lavoro l’ha portata un po’ ovunque. La Stazione Spaziale dove passerà i prossimi sei mesi si chiama “Internazionale” e il curriculum di Samantha Cristoforetti è decisamente in linea con questo aggettivo. Gli astronauti dicono che da lassù la Terra appare senza confini, di sicuro lei è già adesso una cittadina del mondo.

Inizia la missione "Futura": alle 22.01 italiane la prima donna italiana ad andare nello spazio partirà dal cosmodromo di Baikonur, in Kazakhstan. Dopo sei ore a bordo della navicella Soyuz, Samantha Cristoforetti arriverà sulla ISS insieme ai colleghi Anton Shkaplerov, russo, e Terry Virts, statunitense. L'attracco è previsto intorno alle 4 del mattino italiane. Sarà l'inizio effettivo della missione Futura dell'Agenzia Spaziale Italiana, che nei prossimi sei mesi prevede circa 200 esperimenti, 10 dei quali esclusivamente dell'Asi.

Per gli astronauti la vigilia riserva sempre un mix di momenti emozionanti, preparativi e obblighi scaramantici. La 37enne nata a Milano e cresciuta a Malè, in Trentino, ieri ha effettuato colloqui tecnico-scientifici, ha affrontato le ultime riunioni sulla missione e ha concluso la giornata guardando un film, “Il sole bianco del deserto”, una tradizione per chi parte dal cosmodromo. "È una giornata così perfetta"

Al direttore dell’Esa Jean-Jacques Dordain che le ha augurato buon viaggio, Samantha Cristoforetti ha detto di essere orgogliosa di rappresentare e di portare avanti l'Europa dello spazio attraverso la bandiera italiana. A chi le ha chiesto cosa prova all’idea di diventare la prima donna italiana nello spazio, ha risposto che il fatto in sé non la colpisce in modo particolare (se fosse stata la seconda o la terza per lei non sarebbe cambiato molto), ma che è orgogliosa di essere stata selezionata nel corpo astronauti dell'Esa e di poter essere un esempio per i giovani nell'intraprendere la strada dello spazio. Sei ore per raggiungere la ISS

La Soyuz con la quale partirà è già posizionata sulla rampa di lancio numero 31 del cosmodromo, la stessa dalla quale partì la prima donna nello spazio, Valentina Tereshkova. Dopo la partenza impiegheranno sei ore per raggiungere la ISS a 400 chilometri di altezza. Oltre 200 esperimenti da compiere. Una volta a bordo, per Samantha Cristoforetti inizieranno sei mesi intensissimi. Il programma della sua missione, la missione “Futura” dell’Agenzia Spaziale Italiana, prevede moltissimi esperimenti: complessivamente ne dovrà compiere circa duecento, dieci dei quali esclusivamente dell’Asi. L’ultima canzone che sarà diffusa nella Soyuz prima della partenza sarà “Get the party started” di Pink, cioè “Che la festa abbia inizio”. Per restare nell’ambito delle citazioni musicali, il volo fino alla Iss sarà solo l’inizio: il meglio deve ancora venire.



sabato 22 novembre 2014

Presidenziali in Tunisia, la prima sfida di una donna



Si aprono domani 23 novembre alle 8.00 e (fino alle 18.00) i seggi elettorali in Tunisia dove si vota per eleggere a suffragio diretto il primo Presidente della Repubblica del dopo Ben Alì. Autorizzato l'uso degli exit polls la cui diffusione è consentita a partire dall'orario di chiusura dei seggi. I risultati ufficiali ci saranno forse già entro lunedì sera. Oltre 20 i candidati in corsa per il Palazzo di Cartagine, ma solo una manciata quelli che hanno qualche possibilità di farcela.

A meno di un mese dalle elezioni legislative che ne hanno ridisegnato il panorama politico la Tunisia è chiamata di nuovo alle per scegliere a suffragio universale il primo Presidente della Repubblica del dopo Ben Ali, che resterà in carica 5 anni.

Favorito indiscusso rimane il leader di Nidaa Tounes, Beji Caid Essebsi, al quale non vengono tuttavia risparmiate critiche come il fatto di essere troppo anziano (88 anni tra pochi giorni), fattore sul quale, tra l’altro, l’interessato ironizza frequentemente, e la sua passata appartenenza al vecchio apparato. Suoi avversari nella corsa alla più alta carica dello Stato, l’attuale Presidente della Repubblica Moncef Marzouki, considerato in calo da quasi tutti gli osservatori politici ed attaccato in questi giorni per il sospetto di aver usato soldi pubblici per la sua campagna elettorale, e qualche outsider come l’uomo d’affari Slim Rihahi dell’Upl (Unione patriottica libera) affermatosi come il terzo partito del Paese alle ultime elezioni, il giudice Khaltoum Kannou, unico candidato donna, o ancora il leader della sinistra Hamma Hammami o l’imprenditore Mohamed Frika.

Essebsi risulta favorito soprattutto dopo la decisione del partito islamico Ennhadhadi non appoggiare nessun candidato alle presidenziali. Il secondo partito del Paese infatti non ha presentato nessun suo candidato preferendo sceglierne uno «consensuale» tra quelli in lizza, ma alla fine non essendo riuscito a trovare un accordo sul nome del candidato ha deciso di lasciare liberi i suoi elettori. Rimane il dubbio se la Tunisia sarà in grado di eleggere o meno il proprio Presidente al primo turno. Se nessun candidato infatti dovesse raggiungere la metà delle preferenze degli elettori più uno, allora si andrà al secondo turno probabilmente il 28 dicembre: un’opzione che i candidati con minori possibilità di vincita auspicano fortemente.

Khaltoum Kannou, 55 anni, il carattere, ed il coraggio, certo non mancano e sa di non avere molte chance ma il suo slogan è battagliero: «Yes We Kannou». Mutuando il motto con cui Barack Obama ha vinto le elezioni, potrebbe fare anche una certa presa. A Durante la dittatura osò perfino spiccare un mandato di cattura contro Moez Trabelsi, il nipote del ex dittatore Ben Ali. Lei sa di essere la sola donna, tra 22 candidati in corsa per la presidenza. E se il sogno diventasse realtà sarebbe la prima presidente donna di un Paese arabo. Il suo curriculm è blasonato: Giudice di cassazione, ex presidente dell'associazione nazionale dei magistrati tunisini, Commissario alla corte internazionale di giustizia. Kannou preferisce giocare la carta dell'indipendenza.

Pur riconoscendo di essere nella “famiglia dei democratici”, ama precisare di non sentirsi vicina ad alcun partito in particolare. E ci tiene ancor di più a voler rivendicare con fermezza la separazione dei poteri e la laicità dello Stato. Il fatto che comunque sia in corsa è già un fatto incoraggiante.

La parola spetterà agli elettori. Solo un mese dopo le elezioni parlamentari, i tunisini torneranno oggi alle urne per eleggere il loro nuovo presidente. E per la prima nella storia del loro Paese lo faranno liberamente, e a suffragio diretto.

Sono elezioni importanti nella fase di transizione che sta vivendo la Tunisia, la culla delle primavere arabe, il solo Paese dove le rivoluzioni non si sono lasciate dietro guerre, caos, o altri regimi, ma un credibile processo democratico guardato con soddisfazione e speranza dalla Comunità internazionale.

Il 26 ottobre, durante le seconde elezioni parlamentari dopo la Primavera, c'è stata una netta affermazione del partito laico Nidaa Tounis (86 seggi su 217) , formazione composta da varie forze politiche in cui figurano anche esponenti del vecchio regime. Il popolare movimenti islamico Ennahda, che aveva vinto le precedenti elezioni del 2011 si è dovuto accontentate del secondo posto con 69 seggi.

Il grande favorito resta Beji Cad Essebsi, fondatore di Nidaa Tounis, ma difficilmente riuscirà a superare la soglia del 50 per cento. In questo caso occorrerà attendere il turno di ballottaggio. Ma l'età di questo esperto politico con oltre mezzo secolo di onorata carriera politica alle spalle, 88 anni, e la sua appartenenza al vecchio apparato potrebbe rappresentare un limite.

Il suo principale rivale è l'attuale presidente ad interim della Repubblica, Moncef Marzouki, tuttavia in calo nei sondaggi e attaccato dai suoi oppositori in questi giorni per il sospetto di avere utilizzato fondi pubblici per la campagna elettorale. Outsider, ma capace di riscuotere un buon risultato, è anche il magnate quarantaduenne Slim Rihahi, definito il “Berlusconi tunisino”, che con il suo nuovo partito Unione Patriottica libera si è affermato con sorpresa al terzo posto nelle elezioni parlamentari ottenendo 16 seggi. Anche Hamma Hammami, 62 anni, sta crescendo nei sondaggi. Ma il leader comunista della coalizione di sinistra, il Fronte popolare, non sembra avere i numeri per arrivare al doppio turno.



I disaccordi sulla Siria rovinano le relazioni tra USA e Turchia



La Turchia è lo Stato cardine dei rapporti tra l’Europa e il Medio Oriente, non solo per la posizione geografica, ma anche per la fiorente economia che consente ai turchi di essere i primi partner commerciali di praticamente tutti i Paesi mediorientali e una considerevole influenza culturale che è stata veicolata, negli ultimi anni, dalla massiccia produzione e diffusione di telenovela e sceneggiati televisivi di varia fattura.

Recep Tayyp Erdoğan, Primo Ministro turco, conservatore ultimamente in vena di polemiche, ha aspramente criticato una di queste telenovela, Muhteşem Yüzyıl (“Il secolo magnifico”), poiché rappresenterebbe il glorioso Sultano Solimano I, detto “il Magnifico”, come dedito alle donne e all’alcol, e ciò offenderebbe i valori dello Stato turco, fatto che costituisce reato. Erdoğan vive il valore dell’epopea dei sultani ottomani in maniera totale, tanto che ha dichiarato che il suo Governo è mosso dallo “spirito fondatore dell’Impero ottomano” e che vorrebbe “un nuovo ordine mondiale nel quale la Turchia è non solo una superpotenza regionale ma ha anche un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, gestisce le antiche terre ottomane non con la forza della spada ma con un potere più morbido, influisce sulle politiche regionali e globali con un mix inedito di pragmatismo e di supremazia dell’Islam sunnita turco”. Tutta questa fiducia sulla “supremazia dell’Islam sunnita turco” sta portando il Primo Ministro a dire ciò che pensa, senza remore, su molti dei propri vicini di casa.

Scricchiolano i rapporti tra Stati Uniti e Turchia, in disaccordo sulla strategia da adottare per affrontare i miliziani islamici dell’ISIL in Siria ed Iraq.

In visita ad Istanbul, il vicepresidente statunitense Joe Biden ha velatamente criticato il presidente turco, l’islamico Recep Tayyip Erdogan. “Pericoloso accentrare troppo potere”, ha detto.

Dal canto suo Erdogan ha contestato l’efficacia occidentale in Medio Oriente.

“La pace mondiale è minacciata, ma in quest’area le istituzioni internazionali stanno fallendo nel loro ruolo di moderazione e stabilizzazione” ha detto.

La Turchia è in disaccordo con la strategia americana in Siria, centrata sugli attacchi aerei e sull’alleanza implicita con il presidente siriano Bashar Al Assad, favorendo un intervento più diretto e la rimozione di Assad e del suo regime.

Il gelo tra Ankara e Washington riflette il sentimento della piazza. La visita di Biden è stata contestata da alcune centinaia di nazionalisti turchi. Un recente sondaggio ha rivelato che tra i turchi neanche uno su cinque vede favorevolmente gli Stati Uniti.



New York Times: Obama cambia i piani della missione in Afghanistan



A maggio, è giusto ricordarlo, Obama aveva detto che le truppe rimaste in Afghanistan, attualmente 9.800 unità, si sarebbero limitate ad addestrare i soldati afgani e a “dare la caccia ai resti di Al Qaeda”.

Il New York Times ha pubblicato un'inchiesta che porta le firme di Mark Mazzetti ed Eric Schmitt, con la collaborazione di Matthew Rosenberg, con la quale rivela che nelle scorse settimane il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato un ordine segreto con il quale autorizza i soldati americani a un'azione in Afghanistan nel 2015 , che autorizza le truppe statunitensi a combattere di nuovo contro i talebani in Afghanistan almeno per un altro anno. Il nuovo piano prevede anche che i caccia e i droni statunitensi faranno da supporto alle missioni dell’esercito afgano.

Il presidente Obama ha firmato un ordine segreto nelle ultime settimane che ampliare il ruolo delle forze armate statunitensi in Afghanistan.

Nel 2015 rispetto a quanto originariamente previsto la presenza sarà più massiccia, una mossa che dovrebbe garantire alle truppe americane un ruolo diretto nella lotta al terrorismo nel paese devastato dalla guerra, almeno per un altro anno. Così scrive il New York Times.

La decisione di Obama, spiega il quotidiano statunitense, consentirà alle forze americane di effettuare missioni contro la talebani e altri gruppi militanti che minacciano le truppe statunitensi e il governo afghano. La nuova autorizzazione consente anche jet americani, bombardieri e droni per sostenere le truppe afghane in missioni di combattimento.

La mossa arriva dopo la promessa di Obama di lasciare le truppe nel paese con due missioni: per addestrare le forze afgane e di sostenere operazioni antiterrorismo contro al-Qaeda. A maggio, inoltre, aveva detto che era "il momento di voltare pagina" sulle politiche concentrate sul Medio Oriente negli ultimi dieci anni.

Ma questo ultima scelta del presidente Usa rivela un cambiamento di politica estera per l'amministrazione Obama. L'autorizzazione è stata fatta su richiesta di comandanti militari, che vogliono più truppe sul terreno per combattere i talebani, così ha riferito l'Associated Press. Ma entro la fine del prossimo anno, la metà delle 9.800 truppe americane avrà lasciato l'Afghanistan. Il resto sarà consolidato a Kabul e Bagram e poi lascerà alla fine del 2016, consentendo a Obama di dire che ha posto fine alla guerra in Afghanistan prima del suo mandato.

Secondo i giornalisti del NYT, la decisione di cambiare la missione è il risultato di un lungo e acceso dibattito che ha messo a nudo la tensione all'interno dell'amministrazione Obama tra due imperativi spesso in comparizione tra loro: da una parte la promessa di Obama di porre fine alla guerra in Afghanistan, dall'altra le richieste del Pentagono che vuole che le truppe americane possano portare a termine con successo le loro ultime missioni nel Paese che da anni è devastato dalla guerra. A tutto questo si è aggiunto il collasso delle forze di sicurezza irachene davanti all'avanzata dello Stato Islamico. Inoltre, sulla decisione ha inciso anche il trasferimento di potere in Afghanistan al presidente Ashraf Ghani, che è più tollerante del suo predecessore Hamid Karzai per quanto riguarda la presenza americana nel suo Paese. Anzi, secondo un funzionario afgano, pare che sia stato proprio Ghani, insieme con il suo nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, a chiedere agli Stati Uniti di continuare a combattere contro i talebani anche l'anno prossimo e ha stretto una collaborazione con il generale John F. Campbell. Tra l'altro, anche quando al comando c'era ancora Karzai, i generali afghani hanno spesso chiesto ai soldati Usa di ignorare le direttive del presidente e di aiutarli con i loro aerei quando si trovavano in difficoltà. D'ora in poi, dunque, richieste di questo genere da parte degli afgani non dovranno più essere fatte in segreto.

Il piano degli Usa è comunque quello che entro la fine del 2015 la metà delle 9.800 truppe che sono ancora presenti in Afghanistan lasci il Paese. L'obiettivo di Obama è quello di poter dire, entro la fine del suo mandato, di aver posto fine alla guerra in Afghanistan.



domenica 16 novembre 2014

G20: venti di guerra fredda



Venti di guerra fredda, sull’impegno a rilanciare la crescita globale a Brisbane.

E’ il presidente russo Vladimir Putin il primo a lasciare il G20 di Brisbane. Sulla sua partenza un piccolo giallo: è andato via prima degli altri reagendo alla freddezza con cui è stato accolto?

Sul dossier ucraino tra Mosca e i paesi della Nato si sono registrate grandi distanze, e le gelide relazioni con gli Usa non hanno fatto un solo passo avanti. Idem con Berlino, che ancora ieri ribadiva la possibilità di nuove sanzioni contro la Russia.

La crisi in Ucraina ha di fatto oscurato gli altri temi del vertice, a partire dalle azioni per rallentare il riscaldamento globale del pianeta.
Di crisi economica e di rilancio delle politiche per la creazione di nuova occupazione, ha parlato il presidente statunitense Obama. Resta tutto da verificare però fino a che punto affermazioni di principio come queste si tradurranno in decisioni vincolanti.

Quando arriva il comunicato sugli accordi raggiunti al G20, Putin è già lontano da autografi e sorrisi tirati di un vertice dominato dalla crisi Ucraina, che si è affrettato a lasciare prima ancora della sua conclusione ufficiale.

"Se la Russia in Ucraina continuerà a violare lo spirito dell'accordo di Minsk, che Putin stesso ha accettato, l'isolamento della Russia continuerà". Lo ha detto il presidente americano Barack Obama in una conferenza stampa al vertice del G20 in Australia. "La Russia ha l'opportunità di prendere una strada diversa per risolvere la crisi in Ucraina nel rispetto della sovranità e del diritto internazionale - ha detto ancora Obama - se lo farà io sarò il primo a eliminare le sanzioni che obiettivamente hanno un effetto devastante su economia russa. Se continuerà a violare il diritto e gli accordi di Minsk allora continuerà anche l'isolamento della Russia".

Usa, Giappone ed Australia si oppongono alle "azioni destabilizzanti" della Russia in Ucraina, chiedendo che i responsabili della distruzione dell'aereo MH17, a luglio, "vengano rinviati a giudizio". E' quanto emerge da un incontro multilaterale ai margini del G20 di Brisbane, in Australia.Il presidente russo Vladimir Putin ha lasciato Brisbane, al termine di un Vertice teso a causa della crisi ucraina. L'aereo presidenziale ha lasciato l'aeroporto della città australiana prima della pubblicazione del comunicato finale: il decollo è stato trasmesso dagli organizzatori del Vertice nel circuito chiuso di immagini televisive a disposizione della stampa.



LuxLeaks sul tavolo del G20



Necessaria più trasparenza sulle tasse delle multinazionali. Sotto il sole e i suoi 40 gradi, la città australiana di Brisbane accoglie questo week-end i leader delle venti maggiori potenze economiche mondiali. Un vertice dominato dal dibattito sulla politica fiscale a livello internazionale.

Tutti gli occhi saranno puntati sul neo-presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker, al centro dell’inchiesta LuxLeaks. Quando era primo ministro del Lussemburgo Juncker avrebbe incoraggiato regimi fiscali tagliati su misura per le grandi multinazionali che si registravano nel Grand Ducato, un sistema legale, che avrebbe permesso di fatto a grandi aziende di eludere le tasse su profitti realizzati in altri stati.

“Non ci sono conflitti di interesse fra la mia posizione di presidente della Commissione europea e le indagini aperte dalla Commissione”. Jean-Claude Juncker ha così rotto il silenzio sullo scandalo dei LuxLeaks, gli accordi fiscali siglati fra il Lussemburgo e centinaia di multinazionali resi noti da un’inchiesta giornalistica internazionale, pubblicata nei giorni scorsi in 31 Paesi. “Per tutta la mia vita ho lavorato per promuovere l’armonizzazione fiscale in Europa”, ha aggiunto intervenuto a sorpresa nella sala stampa della Commissione. “Le Decisioni fiscali sono prassi consolidata, sono dichiarate legali dalla Commissione purché non discriminatorie e questo le leggi del Lussemburgo lo prevedono”.

Juncker si è difeso promettendo un’armonizzazione fiscale a livello europeo con la definizione di regole per fissare una base imponibile comune.

Il presidente della Commissione ne parlerà ora con gli altri leader mondiali, che devono mandare un segnale forte nella lotta all’evasione fiscale ad un’opinione pubblica sempre piu’ scettica e indignata.

Per approfondire i temi al centro di questo vertice abbiamo intervistato, in collegamento da Brisbane, Pascal Saint-Amans, direttore del Centro per la politica fiscale e l’amministrazione presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). “Parliamo dello scandalo che fà notizia, Luxkeaks, è stato veramente sorpreso dal comportamento delle multinazionali in Lussemburgo, una prassi che in realtà come ha detto il ministro delle finanze, è legale? Non c‘è una certa ipocrisia da parte di altri Stati membri?Pascal Saint-Amans, direttore del Centro per la politica fiscale e l’amministrazione presso l’OCSE: “Non è stata una sorpresa. Alcuni paesi utilizzano il ruling, cioé prendono posizione sui regimi fiscali delle società. In questo caso il Lussemburgo, ha utilizzato il sistema in maniera abbastanza opaca in alcune occasioni, ciò che stiamo proponendo al G20 è di rendere questa pratica molto più trasparente. Le imprese sono globali, i governi sono locali.

Abbiamo un problema di regolamentazione, e si rischia di finire in una vuoto giuridico in cui non succede niente, questo non è giusto, perché allora si devono aumentare le tasse sugli altri contribuenti che non possono spostare i loro profitti. Quindi, dobbiamo livellare la base imponibile e garantire lo stesso tipo di trattamento alle imprese locali e a quelle globali, eliminando le lacune. Ciò limiterà le distorsioni e sarà un bene per gli investimenti”.

Pascal Saint-Amans, direttore del Centro per la politica fiscale e l’amministrazione presso l’OCSE: “Ci sono due problemi diversi. Non bisogna confonderli. Uno è il segreto bancario ed è vero che il G20 ha adottato quel progetto nel 2009 e ora siam arrivati ad uno scambio automatico di informazioni bancarie compresi paesi come il Lussemburgo, Svizzera, Singapore, Hong Kong. Tutti i paesi del mondo si sono impegnati a scambiare informazioni bancarie, in modo automatico entro il 2017 o 2018.

La questione del ruling non ha nulla a che vedere con il segreto bancario. Quel che abbiamo proposto al G20 è di rendere queste pratiche molto più trasparenti dandone notifica all’altra amministrazione fiscale. Sono due problemi diversi e su entrambi, grazie al G20, stiamo facendo enormi progressi”.


giovedì 13 novembre 2014

Rosetta: un primato senza precedenti nella storia dell'esplorazione spaziale



A guidare la sonda Rosetta che a novembre atterrerà sulla cometa 67P/Churyomov- Gerasimenko è un italiano, Andrea Accomazzo, direttore di volo dell’Esa. Andrea Accomazzo è lo Spacecraft Operations Manager (SOM) della missione Venus Express dell’ESA. Trentacinque anni, da sempre interessato al volo, con Venus Express si sta spingendo più lontano di quanto non abbia mai sognato. E a velocità maggiori. A Panorama racconta la sua lunga marcia di avvicinamento, durata più di dieci anni. Con un obiettivo mai raggiunto prima nella storia dei voli spaziali: scendere su una cometa con un lander e prelevarne campioni.

Una prima assoluta, una missione inedita che è un vero e proprio viaggio verso l'ignoto che permetterà di 'toccare con mano' un fossile del Sistema Solare: ''è una missione storica, un passo importante nell'esplorazione del Sistema Solare, confrontabile allo sbarco sulla Luna'', ha detto il coordinatore scientifico dell'Agenzia spaziale italiana (Asi), Enrico Flamini.

''Certamente lo sbarco sulla Luna era una missione con uomini a bordo e la tecnologia era molto diversa, ma - ha rilevato Flamini - possiamo dire che fin da adesso Rosetta è una missione eccezionale, nella quale l'atterraggio sulla cometa sarà solo la ciliegina sulla torta''. Chiamata come la stele di Rosetta che ha permesso di decifrare i geroglifici, la missione dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) aiuterà a scoprire i segreti dell'origine del Sistema Solare. Il suo viaggio senza precedenti è cominciato il 2 marzo 2004 e adesso finalmente è arrivata a destinazione, a 30 chilometri dalla sua cometa, la 7P/Churyumov-Gerasimenko. Mercoledì 12 novembre Rosetta si separerà dal lander Philae, che dopo sette ore toccherà il suolo di uno dei corpi celesti più misteriosi e affascinanti.

''Stiamo andando verso un mondo quasi del tutto sconosciuto'', ha osservato l'esperto. ''E' la prima volta che si cerca di atterrare su una cometa: è un passo unico e irripetibile, dalla difficoltà enorme''. Le incognite sono tante, ha aggiunto, ''perchè il margine di errore nell'area dell'atterraggio è di più o meno 600 metri. La zona in cui il lander si poserà è favorevole per il 60%, ma difficile per un 20% e troppo in discesa per la presenza di dirupi per un altro 20%''. In questi giorni la sonda Rosetta sta inviando a Terra le immagini del sito di atterraggio, inizialmente noto come sito J e oggi chiamato Agilkia, e dalla superficie di circa un chilometro quadrato.

Il lander Philae, un piccolo mezzo di 100 chili, è atterrato sul nucleo della cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko. Obiettivo: usare la ricca strumentazione per studiare le caratteristiche dei materiali. È un primato: mai nella storia dell’esplorazione spaziale un veicolo si era adagiato su una cometa. La missione Rosetta dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha raggiunto il più spettacolare e ambizioso dei suoi obiettivi.

Dopo lunghissimi momenti di tensione, l'atterraggio sulla cometa è stato accompagnato da un grande applauso, abbracci e strette di mano nel centro di controllo dell'Esa in Germania, l'Esoc, a Darmstadt. Dalla superficie della cometa il lander Philae ha inviato il segnale alla sonda Rosetta, che lo ha ritrasmesso a Terra. Nonostante tutti i timori, la discesa è andata bene e l'antenna è correttamente rivolta verso l'alto.

L'Agenzia spaziale italiana non solo ha contribuito alle attività di studio della sonda europea, ma ha fornito un sostanziale contributo scientifico, tecnologico e industriale finanziando gli strumenti a bordo della sonda madre (Giada, Virtis e Osiris) e i sottosistemi dei lander: Solar Array e SD2, il primo trapano spaziale che abbia mai volato su una sonda interplanetaria, realizzato da Finmeccanica- Selex ES, che provvederà all'acquisizione e distribuzione dei campioni dal nucleo della cometa. Sempre Finmeccanica Selex ES ha realizzato il sottosistema dei pannelli solari del lander.

Vediamo gli attori di questa impresa:

Rosetta, la sonda che ha viaggiato ben 10 anni per arrivare fino alla Cometa, a una distanza circa tripla di quella della Terra dal Sole, ha dimensioni di circa 3 metri x 2, un peso di 3000 chili e ben 64 metri quadri di pannelli solari,moltissimo per una missione di questo tipo. Si tratta di una satellite “cornerstone” per gli europei, ovvero uno dei principali del decennio, con un costo di varie centinaia di milioni di euro;

Philae è un piccolo mezzo di 100 chili e dimensioni ridotte, diciamo una lavatrice, pieno zeppo di strumenti con cui misurerà le proprietà della cometa: di cosa è composta e che caratteristiche ha il materiale cometario. Chiamato così nel 2004 da una ragazza allora quindicenne, Serena Vismara, Philae è frutto della collaborazione fra l'Agenzia Spaziale Italiana (Asi), quella tedesca Dlr e la francese Cnrs. Grazie al suo mini laboratorio scientifico, Philae potrà analizzare la composizione chimico-fisica del nucleo della cometa.

C67P è una bella cometa scelta come bersaglio più di 10 anni fa. Misura, come abbiamo detto , 4,5 x 3,5 chilometri e, nonostante la sua grandezza e solidità, se lo si ponesse, per assurdo, sull'oceano galleggerebbe come la pietra pomice: la sua densità infatti è minore di quella dell'acqua.

Dopo momenti di tensione è arrivato a destinazione alle 17.04: la discesa è stata regolare, l'antenna è rivolta verso l'alto. Ma gli scienziati restano col fiato sospeso per un rischio distacco. Il lander Philae è atterrato sul nucleo della cometa 67/P Churyumov-Gerasimenko: è il primo veicolo a compiere una simile impresa, segnando un primato senza precedenti nella storia dell'esplorazione spaziale. La missione Rosetta dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) ha raggiunto il più spettacolare e ambizioso dei suoi obiettivi.  L'atterraggio  Dopo lunghissimi momenti di tensione, l'atterraggio sulla cometa è stato accompagnato da un grande applauso, abbracci e strette di mano nel centro di controllo dell'Esa in Germania, l'Esoc, a Darmstadt. Dalla superficie della cometa il lander Philae ha inviato il segnale alla sonda Rosetta, che lo ha ritrasmesso a Terra. Nonostante tutti i timori, la discesa è andata bene e l'antenna è correttamente rivolta verso l'alto. Problema agli arpioni Ma rimane la preoccupazione per gli scenziati: gli arpioni che dovrebbero garantire l'ancoraggio non hanno funzionato perfettamente. Stephan Ulamec dell'Esa ha spiegato: "Abbiamo indicazioni che gli arpioni potrebbero non essersi attivati, il che vorrebbe dire che siamo posati su un materiale mobile e che non siamo fissati. Dobbiamo analizzare la situazione".



domenica 9 novembre 2014

Caduta del Muro di Berlino 25 anni dopo



Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera americana e una sovietica, fu il simbolo più crudele della Guerra Fredda.

Nel 1991 Parlamento e ministeri tornarono a Berlino. Anche se dimenticata da tutti, l'ex capitale ha saputo mantenere un ruolo importante.

I protagonisti dell’evento emblematico della storia politica della caduta del muro di Berlino sono stati, Michail Gorbaciov, George Bush senior e Helmut Kohl, evento che mise fine alla guerra fredda e servì ad unificare la Germania. Il muro fino a venti anni fa era il simbolo di una gioco politico, forse già anacronistico, che aveva diviso a metà il mondo. Cadde, sicuramente all’improvviso come in un veloce ed inaspettato era sorto nel 1961.

E’ significativo ricordare che nell’ottobre del 1989, la leadership di Berlino Est, schiacciata dalle proteste che per un mese sono dilagate nella Germania dell’est, sostituisce alla guida del governo il “falco” Erich Honecker con la “colomba” Egon Krenz.

La strada dell’oriente europeo era già stata aperta dalla Polonia di Lech Walesa e sposata da Gorbaciov nell’Unione Sovietica, strada che mano a mano aveva coinvolto tutti gli attori passivi ed attivi del patto di Varsavia. Tre mesi prima della caduta del muro, l’Ungheria fu il primo paese del patto ad aprire il suo confine verso l’occidente.

Secondo gli atti ufficiali la DDR non aveva prodotto nessun documento ufficiale che riguardava l’apertura delle frontiere. Infatti, l’annuncio fu improvviso e quasi ufficioso, venne fatto in a una conferenza stampa da un portavoce governativo. E secondo molti analisti, le modalità dell’annuncio sarebbero state un escamotage della “colomba”, probabilmente concertata con l’occidente, al fine di evitare che “i falchi” del regime reprime3ssero nel sangue la rivolta popolare, come pochi mesi prima era successo a piazza Tienamen.

La caduta del muro era anche il simbolo dello scontro in atto tra Honecker e Gorbaciov, che si rivelò un partner sostanzialmente ostile per la dirigenza della Germania est. Il leader sovietico riteneva che il comunismo della DDR poteva essere un modello per l’’URRS sotto il punto di industriale. Ma i dirigenti di Berlino est vedevano nella perestroijka e nella glasnot, la nuova politica di Mosca, un pericolo per la stabilità del loro regime.

Gorbaciov si recò a Berlino est nel mese di ottobre per pronunciare un discorso in cui erano evidenti le critiche alla politica ottusa del regime della DDR. Da qui le manifestazioni contro la leadership della Germania est si intensificano e si presentavano sempre più tumultuose. Mosca dette un perentorio ordine ai militari sovietici presenti a Berlino di non intervenire per sedare i tumulti “ da quel momento la cronologia dell’Europa centrale cominciò a galoppare”- come ha sostenuto Sergio Romano.

Il 9 novembre, in un clima dove la confusione aveva preso il sopravvento alla determinazione politica, la Germania dell’est aprì i valichi tra le due Berlino. Oggi si celebra l’evento come sinonimo di libertà la  giornata della libertà.

Durante un incontro a Berlino per ricordare il venticinquesimo anniversario della caduta del muro, Mikhail Gorbačëv ha detto che le tensioni tra Stati Uniti e Russia sull’Ucraina rischiano di portare il mondo sull’orlo di una nuova guerra fredda

L’ex leader sovietico, che ha 83 anni, ha anche detto che un nuovo clima di fiducia può essere ristabilito solo attraverso il dialogo con la Russia. The Guardian

Sembrano lampioni, ma sono pronti a volare. Ottomila ballons percorrono 15 km sulle tracce del Muro di Berlino. 'Accesi' ieri sera, venerdì, dal sindaco Klaus Wowereit hanno dato ufficialmente il via alle celebrazioni per i 25 anni dalla caduta del confine che divise la città per 28 anni. Mentre al Checkpoint Charlie, invecchiato ma in jeans, è arrivato 'Gorby'.

Con la missione di unire rievocazione storica ad azione politica: vuole redarguire Angela Merkel a tutela delle relazioni russo-tedesche. La commemorazione di questo importante anniversario, che ricorre domenica 9 novembre, è iniziata al Bundestag, con un colpo di scena che ha scaldato gli animi. Wolf Biermann, cantautore dissidente della DDR, era stato invitato a dedicare un brano del suo repertorio. Ne ha approfittato, invece, per attaccare la Linke con toni che hanno spiazzato tutti. Seduto su un gradino, la chitarra fra le braccia, Biermann ha puntato gli esponenti della sinistra radicale tedesca e ha detto con voce calma guardandoli dagli occhiali: ''Siete il miserevole resto di quello che per fortuna è stato superato''.

''Come reagii quando Reagan disse 'Mr Gorbaciov tear down this wall?' Non lo presi molto sul serio in effetti. Mi dissi che era un attore, e che doveva trattarsi di una messa in scena'', ha raccontato in serata l'ex leader sovietico, incontrando una folla di giovani al Chekpoint Charlie. Gorbaciov ha affrontato il tema che in questi giorni gli sta a cuore: ''Dobbiamo trarre insegnamento dalla storia. Fino a quando Germania e Russia si capiscono va bene ai nostri due popoli.

Dobbiamo stare attenti che le cose continuino in questo modo. E non perdere il momento per la distensione''. È l'altro fronte, quello esterno, che rende il 25/imo anniversario della caduta del Muro di Berlino momento di particolare suggestione: mentre si tenta di scongiurare una nuova guerra fredda, che riesumi una cortina di ferro nell'est dell'Europa.

Ma il 9 novembre qualcuno annunciò che le frontiere erano aperte. Quelle frontiere che pochissimi cittadini della Germania Est avevano potuto varcare. Solo i vecchi avevano diritto di visitare Berlino Ovest. Invece i berlinesi dell’Ovest, isola ricca e liberale, circondata dal mare del socialismo burocratico fermo agli anni 50, loro sì erano andati tutti quanti almeno una volta all’Est, pagando il visto giornaliero. A mezzanotte, come Cenerentola, dovevano tornare a Ovest.

Riccardo Ehrman: «Così cadde il muro di Berlino»  Riccardo Ehrman, il giornalista italiano che per primo annunciò la caduta del muro di Berlino, racconta, nell'anniversario del venticinquesimo anno, quelle storiche ore.

Sono passati venticinque anni dalla conferenza stampa del 9 novembre 1989, durante la quale fu proprio lui a fare una domanda che segnò la storia, al portavoce del governo della Ddr, Gunter Schabowski.  Con lo stesso tono di voce e l’emozione di venticinque anni fa, Ehrman racconta quelle ore. «Ero stato corrispondente in Canada e a New York, quando sono arrivato a Berlino ho trovato un modo del tutto differente di lavorare, mancava la libertà. La Repubblica democratica tedesca è stata per molti un sogno: era un Paese dove non c’era neanche un disoccupato, tutti avevano una casa, un lavoro, uno stipendio a fine mese. Non c’era la cosa più importante: la libertà».



sabato 8 novembre 2014

Discovery Channel: giovane esperto di fauna si da ingoiare da anaconda



La voglia di fare qualcosa di diverso dal solito, qualcosa di spettacolare che sappia stupire gli altri ma soprattutto che soddisfi la propria voglia di superare i propri limiti conduce spesso a delle decisioni e delle imprese davvero folli. E si fa inghiottire da un anaconda in tv. Ed esplode la protesta del popolo del web e degli animalisti contro lo 'show' in tv a spese del serpente. Al centro delle polemiche c'è Discovery Channel e il programma statunitense "Eaten Alive", che andrà in onda il prossimo 7 dicembre.

Nella trasmissione un giovane di 26 anni, Paul Rosolie, si farà ingoiare vivo - protetto da un costume-corazza da lui disegnato - in Amazzonia da un gigantesco anaconda di 10 metri . Per questo l'organizzazione Peta (Peolple for Ethical Treatment of Animals) ha chiesto di cancellare dalla programmazione quella puntata e su internet è stata già lanciata una petizione su Change.org, per "boicottare Discovery Channel, contro gli abusi sull'animale".

Sono tantissime le persone in tutto il mondo, infatti, che si cimentano in vero e proprio record e che cercano di superare non soltanto i limiti del proprio corpo ma anche quelli stabiliti da altre persone intorno al mondo, come loro assetate di nuove conoscenze.

Ovviamente questo deve sempre avvenire nel rispetto della propria incolumità e degli altri perché in caso contrario può portare a delle vere e proprie tragedie. Spesso, infatti, la cronaca ci racconta di morti o tragedie dovute alla voglia di spingersi sempre oltre e che, se non viene controllata bene, può sfuggire di mano e trasformarsi in qualcosa di assolutamente terribile.

Nonostante i pericoli, però, c’è proprio chi non riesce a fare a meno di cimentarsi in certe imprese, che per molti possono sembrare a dir poco folli. È il caso del protagonista di questo video. lui è Paul Rosolie, un naturalista e documentarista, che i più appassionati di sfide estreme conosceranno sicuramente.

Quest’uomo, infatti, ha preso una decisione a dir poco singolare cimentandosi in qualcosa che mai nessun uomo era mai stato in grado di fare. Quest’uomo, infatti, si è fatto mangiare ed ingoiare vivo da un anaconda  facendo riprender il tutto dalle telecamere di Discovery Channel che a breve manderanno in onda questo speciale documentario.

Paul, infatti, ha fatto tutto questo per poter dimostrare e documentare cosa succede ad un animale quando ingoia la sua vittima. Ovviamente per scongiurare ogni pericolo l’uomo ha creato una tuta molto particolare che ha fatto si, una volta arrivato nello stomaco del serpente, che non venisse digerito dall’animale.

Una vera e propria sfida ai limiti dell’immaginabile ed in cui di certo nessuno si è mai cimentato. Un’impresa anche molto rischiosa che, sebbene Paul abbia preso tutte le precauzioni necessarie, avrebbe potuto trasformarsi in una vera tragedia se qualcosa fosse andato storta.

L’anaconda, infatti, è un serpente decisamente famelico e pericoloso dalla quale bisognerebbe sempre tenersi alla larga piuttosto che sfidarlo in questo modo. Quest’uomo, però, ha deciso di spingersi oltre e di fare quello che nessuno fino a questo momento ha mai pensato o avuto il coraggio di fare.

Rosolie esperto di fauna selvatica, ha firmato una liberatoria per indossare in TV una tuta personalizzata a prova di serpente per farsi ingoiare vivo da un anaconda. La prodezza sarà documentata in “Mangiato Vivo” un nuovo spettacolo di Discovery Channel, ricorda Jackass il reality americano caratterizzato da persone che si cimentano in varie azioni pericolose.

Anaconda di solito si riferisce ad anaconde che possono crescere fino a otto metri di lunghezza. Vivono in zone d’acqua, l’enorme forza muscolare permette loro di cacciare animali di grandi dimensioni: maiali, cervi e capibara sono le prede abituali, catturate quando si avvicinano all’acqua per abbeverarsi. L’anaconda, nascosto sott’acqua e tra la vegetazione galleggiante, esce con lo scatto di una molla quando la preda abbassa il muso e in pochi secondi stringe il corpo della vittima, che a quel punto non ha più possibilità di fuggire e muore per soffocamento. Alcune leggende popolari narrano di vittime umane cadute in trappola di questo mastodontico esemplare, sebbene non ci sia alcuna prova al riguardo.



mercoledì 5 novembre 2014

Gerusalemme: scontri sulla spianata delle moschee



Mercoledì mattina a Gerusalemme si è accesa la tensione sulla spianata del moschee. È il terzo luogo più sacro al mondo per i musulmani. Tutto è cominciato quando un gruppo di attivisti ebrei è voluto entrare nel luogo santo per pregare per la salute del rabbino Yehuda Glick, gravemente ferito in un attentato palestinese la settimana scorsa. Agli ebrei non è permesso.

Si è scatenata la bagarre e alcune persone sono state ferite. Le forze armate israeliane hanno chiuso l’accesso al sito riaprendolo poi in tarda mattinata.

Il luogo è sotto autorità giordana ed Amman, in segno di protesta, ha richiamato il proprio ambasciatore in patria. Un ginepraio di tradizioni che rende la situazione complicata. Un portavoce del presidente palestinese Abba ha criticato Israele, affermando che una cosa del genere non accadeva dal 1967. In realtà altre provocazioni si sono ripetute negli anni. La più nota quando l’ex premier israeliano Ariel Sharon calpestò il suolo della spianata dando di fatto luogo alla seconda intifada nel 2000.

Gli ebrei possono accedere alla spianata come visitatori, ma non possono pregare, ecco perché permettere a un gruppo di attivisti di farlo per la guarigione del rabbino che lotta fra la vita e la morte è stato considerato un intollerabile affronto dai musulmani.

Un membro operativo di Hamas ha investito dei passanti nel rione di Sheikh Jarrah, replicando lo stesso modello di attacco dei giorni scorsi, sempre a Gerusalemme. Il terrorista, ha detto Radio Jerusalem, è stato ucciso.

Da Gaza l'organizzazione islamica, tramite la sua tv, ha fatto sapere di salutare "chi oggi si è immolato per difendere la Moschea di Al Aqsa" ed ha incitato "a prenderne esempio".

Secondo i media, che citano il sito della Jihad islamica, il nome del sospettato per l'attentato a Gerusalemme e' quello di Ibrahim al-Akari, di Shuafat a Gerusalemme est. E' riportato anche il fatto che sia il fratello di uno dei detenuti palestinesi rilasciato nell'ambito dell'accordo per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit e mandato all'estero. I feriti sono 13.



Elezioni midterm Usa, dal governo del Presidente al governo del Congresso



Dopo le elezioni di midterm il presidente Obama si trova contro tutto il Congresso. Per lui due anni in salita.

I repubblicani nella notte delle elezioni di midterm conquistano dopo otto anni il controllo dell'intero Congresso, strappando ai democratici anche il Senato. Si apre così una fase politica nuova negli Stati Uniti, con un presidente democratico che dovrà affrontare gli ultimi due anni del suo mandato da 'anatra zoppa', senza poter contare su una maggioranza parlamentare che appoggi le sue riforme. Un presidente che l'elettorato americano porto' al trionfo nel 2008 e nel 2012 e che oggi, deluse gran parte delle aspettative, ha sconfessato. "Ripudiato", come titola il Washington Post. La vittoria della destra era stata ampiamente annunciata dai sondaggi. Ma alla fine è stata più ampia del previsto. Wall Street brinda e vola: DowJones +0,35%.

Il segnale del cambiamento è arrivato chiaro e forte dagli statunitensi. Il partito dell'Elefantino controllerà il Congresso degli Stati Uniti che si insedierà il prossimo 3 gennaio. Entrambi i rami saranno in mano al Grand Old Party (Gop) che ha strappato ai democratici sette Stati (West Virginia, Arkansas, South Dakota, Montana, Colorado, Idaho e North Carolina), arrivando a controllare 52 seggi su 100.

I segni della gravità della sconfitta democratica e dalla portata della disfatta personale di Obama si ritrovano in tutti gli angoli di questa complicatissima tornata elettorale. I repubblicani stravincono, come previsto, alla Camera, ma, soprattutto, strappa al partito di Obama anche il Senato: un’impresa che ancora una settimana fa sembrava proibitiva e che alla vigilia del voto, dopo i nuovi sondaggi favorevoli ai conservatori, veniva vista da molti come possibile ma solo grazie a una vittoria sul filo di lana, da proclamare dopo aver contato fino all’ultimo voto. Ed hanno conquistato uno dopo l’altro 7 collegi dai quali sino stati scalzati i senatori democratici: il primo a cadere è stato il West Virginia. Poi è toccato a Colorado, Arkansas, South Dakota, Montana, North Carolina, Iowa. La destra è arrivata a quota 52 prima ancora della chiusura delle urne in Alaska, l’ultimo Stato a votare per motivi di fuso orario e nonostante che il risultato della Louisiana, dove sarà necessario andare al ballottaggio, il seggio senatoriale verrà assegnato solo il 6 dicembre.

Contro ogni previsioni i democratici hanno perso anche il governatore dell’Illinois, lo Stato del presidente. Obama, che durante la campagna ha evitato di farsi vedere in collegi “difficili”, data la sua scarsa popolarità attuale, era andato a offrire il suo appoggio a Pat Quinn, che si sentiva sicuro della sua riconferma. E, invece, è stato sonoramente bocciato, come molti altri suoi colleghi di partito, in una giornata davvero nera per la sinistra, abbandonata anche dai gruppi sociali che l’hanno sempre sostenuta: non ci sono ancora i dati finali nazionali, ma in molti Stati è evidente che a mancare ai democratici sono stati soprattutto i voti delle donne, dei neri e delle altre minoranze.

In molti casi a impressionare casi sono anche le differenze numeriche. In Kentucky Mitch McConnell, che sarà il leader della nuova maggioranza al Senato, era favorito, ma si pensava che avrebbe prevalso di tre o quattro punti percentuali, non di 15. Democratici sconfitti anche non North Carolina, lo Stato che ha ospitato la loro “convention” di due anni fa, mentre nel momento in cui scriviamo è ancora testa a testa in Virginia tra il democratico Mark Warner e il repubblicano Ed Gillespie. E pure questa è una notizia che mozza il fiato al partito di Obama perché l’ex governatore democratico avrebbe dovuto vincere con ampio margine.

Ora il presidente tenterà di correre ai ripari convocando per venerdì alla Casa Bianca una riunione “bipartisan” coi leader dei due schieramenti politici. Sicuramente ci saranno dichiarazioni di umiltà, tutti si diranno aperti alla collaborazione. Ma è difficile che si riesca ad andare molto al di là di un’agenda minima sui provvedimenti di spesa di fine anno e, forse, sui negoziati per la conclusione di trattati di libero scambio con l’Europa e gli alleati degli Usa in Asia e nel Pacifico. Difficile che si trovi un’intesa sulle misure principali – riforma fiscale, immigrazione, scuola – che servono al Paese. Troppo profonde le divisioni tra i due schieramenti. Obama potrebbe anche essere tentato di governare negli ultimi due anni a colpi di decreti basati sui poteri esecutivi presidenziali. Ma si tratterebbe comunque di interventi di portata limitata. Provvidenziale arriva, per il presidente, la pausa di una lunga missione internazionale in Cina, Birmania e in Australia per il G-20. Ma sarà un Obama azzoppato quello che verrà ricevuto a Pechino dalla nuova dirigenza cinese, che incontrerà il presidente russo Putin e discuterà al vertice di Brisbane del futuro del mondo.

Adesso il presidente sconfitto dovrà scendere al compromesso sui singoli provvedimenti (sicuramente molto più di quanto ha fatto fino ad ora), oppure forzare la mano a colpi di decreti, ma con il rischio di vedersi bocciare sistematicamente ogni misura approvata. Potrebbe anche scegliere di percorrere entrambe le strade, per cercare di barcamenarsi fino alla prossima estate (quando inizierà il tourbillon della corsa per le presidenziali) e provare in qualche modo a tirare la volata ai democratici, addossando la colpa dello stallo agli avversari.

I repubblicani si sono imposti non solo negli stati più deboli controllati fino a ieri dai loro avversari, ma anche in molte zone che Obama aveva conquistato, cambiando la geografia politica degli Stati Uniti.