Dal prossimo 16 dicembre il gigante dei motori di ricerca, Google, chiuderà il proprio servizio News in Spagna.
La decisione, senza precedenti, anticipa la legge spagnola sul diritto d’autore che entrerà in vigore il primo gennaio prossimo e che obbligherebbe il colosso del web a pagare per i contenuti veicolati.
In molti paesi europei il motore di ricerca è in conflitto con gli editori, i quali rivendicano il diritto alle royalties e lo accusano di abusare della propria posizione dominante.
Google News ha annunciato l’imminente interruzione del suo servizio online in Spagna in risposta alla nuova legge che l’avrebbe obbligata a pagare per la riproduzione delle notizie. La decisione è stata comunicata attraverso un post sul blog dedicato alle politiche europee del gigante di internet dal responsabile di Google News, Richard Gingras. Dal 1 gennaio in Spagna entrerà in vigore la nuova legge sulla proprietà intellettuale che prevede fra le altre cose l’introduzione del diritto irrinunciabile degli editori a chiedere agli aggregatori di notizie sul web (come Google e Meneame) di pagare per le notizie pubblicate. “La nuova normativa”, scrive Gingras, “obbliga ogni pubblicazione spagnola a imporre una tariffa per mostrare le proprie notizie, anche se non vogliono. Google News non ha benefici da questa attività e la nuova normativa rende insostenibile il servizi”, che verrà interrotto il 16 dicembre 2014 con la rimozione dei contenuti dell’editoria spagnola.
La decisione choc sulla Spagna accende un faro sulla guerra fra il motore di ricerca e le notizie online. Il nodo è lo sfruttamento dei contenuti: ma, sul tema, la giurisprudenza apre altre strade.
La notizia che Google, ritenendo eccessivamente oneroso il pagamento di una fee agli editori spagnoli per la visualizzazione di alcuni dei loro contenuti nel servizio Google News, come recentemente previsto da una legge che entrerà in vigore a breve, getta la spugna e “chiude” il servizio in Spagna. La vicenda spagnola è, come noto, analoga a quella tedesca della Google tax, sulle cui ricadute negative, proprio sugli editori, in quel Paese si stanno domandando.
Nella logica degli editori spagnoli dell’AEDE e della loro cosiddetta “Google tax”, non c’è sostanziale differenza tra un link che riporta un “frammento non significativo” di un loro contenuto e chi quel contenuto lo copia integralmente, ospitandolo sul proprio sito invece che rimandando ai loro: sono entrambi esempi di violazione del copyright. Come mirabilmente riassunto dal presidente della italiana Fieg, Maurizio Costa, alla Stampa, rifiutandosi di pagare per portare traffico ai produttori di contenuti, “Google non riconosce il diritto d’autore”.
Perché Google dovrebbe pagare una fee agli editori per il suo servizio? Beh, la risposta è sembrerebbe immediata: perché sta sfruttando i loro contenuti. Sta cioè insinuandosi subdolamente nelle possibili forme di sfruttamento economico dei diritti di proprietà intellettuale spettanti agli editori. Si è ampiamente detto del fatto che Google news non inserisce pubblicità quindi non guadagna da ricavi pubblicitari.
Quello che però sfugge è che lo sfruttamento economico in questione, da cui discenderebbe la necessità di riconoscerne le utilità agli editori, mi sembra possa trovare la sua base giuridica esclusivamente in un asserito atto di comunicazione al pubblico del contenuto (in particolare di messa disposizione del pubblico) che costituisce uno degli atti di sfruttamento economico tipizzati dalla normativa nazionale internazionale e comunitaria sul diritto d’autore.
Siamo proprio sicuri che la visualizzazione di alcuni contenuti nel servizio Google news possa configurare un atto di comunicazione al pubblico degli stessi e più in particolare un nuovo atto di comunicazione al pubblico dei contenuti effettuato da un soggetto diverso che si aggiunge allo sfruttamento originario effettuato dal caricamento online della testata giornalistica? I giudici europei che più volte si sono pronunciati sui confini del diritto di comunicazione al pubblico ci dicono, ed anche recentemente, di no.
Quali sono gli argomenti utilizzati dalla giurisprudenza? Il titolare di un diritto autorizza lo sfruttamento dello stesso sotto forma di comunicazione al pubblico dell’opera prevedendo un certo pubblico. Sulla base di questa previsione determina quanto farsi pagare. I giudici europei hanno perciò ribadito in più occasioni che solo quando la tecnologia renda possibile raggiungere un ulteriore e nuovo pubblico, non preso in considerazione dal titolare nell’atto originario di autorizzazione, siamo di fronte ad un nuovo sfruttamento. Che va pagato.
Il servizio di Google news consiste nella visualizzazione di un contenuto che è già presente in rete e liberamente accessibile. Una recente sentenza della Corte di Giustizia del febbraio 2014 ha stabilito che in caso di linking ad un contenuto presente in un altro sito e accessibile in quel sito in modalità non criptata non c’è un nuovo pubblico e quindi un nuovo atto di comunicazione al pubblico. Mancherebbe dunque la ragione della richiesta di un pagamento.
Secondo l’AEDE il governo di Madrid e le istituzioni comunitarie dovrebbero intervenire per impedire che Mountain View spenga il suo servizio News nel Paese. Strano gli editori scoprano solo ora, poi, il valore di avere più voci e di averle più facilmente a disposizione grazie a Internet. E strano non fossero già a conoscenza che la legge che tanto hanno combattuto per vedere approvata realizza l’esatto contrario di promuovere il pluralismo e la democrazia nel Paese. Come ricorda Luca De Biase, l’antitrust spagnola li aveva già avvertiti: la norma è incompatibile “con una ragionevole concorrenza nel settore”. L’Istituto Italiano per la Privacy, ha confermato che: “i motori di ricerca e gli aggregatori di notizie sono formidabili abilitatori del pluralismo”.
Ancora, gli editori cercano di far passare l’idea che si tratti della lotta tra produttori di contenuti e chi glieli ruba. E invece è niente altro che il tentativo di normalizzare un nuovo e più severo rapporto tra chi in rete scrive e chi aggrega, anche solo per “frammenti non significativi”, quegli scritti. Ma se quello è il principio, si tratta – come scritto entrando nel dettaglio della norma – di una vera e propria tassa sui link. Una tassa che, per la prima volta, gli editori sono obbligati a richiedere pena il verificarsi di quanto accaduto in Germania: ovvero, una tragicomica retromarcia à la Axel Springer una volta ci si renda conto che il traffico collassa del 40%.
Comunque sia, il problema è che si tratta di una cattiva idea, e ripeterla in Belgio, Francia, Germania, prossimamente Italia non servirà a renderla meno cattiva. Semmai, ad aggiungere la premeditazione al danno. E non è questione di articolare una difesa di Google, ma piuttosto di difendere la rete da chi vorrebbe trasformarla in una sorta di televisione che non si spegne mai, o di giornale che non si finisce mai di sfogliare.
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