mercoledì 5 novembre 2014

Elezioni midterm Usa, dal governo del Presidente al governo del Congresso



Dopo le elezioni di midterm il presidente Obama si trova contro tutto il Congresso. Per lui due anni in salita.

I repubblicani nella notte delle elezioni di midterm conquistano dopo otto anni il controllo dell'intero Congresso, strappando ai democratici anche il Senato. Si apre così una fase politica nuova negli Stati Uniti, con un presidente democratico che dovrà affrontare gli ultimi due anni del suo mandato da 'anatra zoppa', senza poter contare su una maggioranza parlamentare che appoggi le sue riforme. Un presidente che l'elettorato americano porto' al trionfo nel 2008 e nel 2012 e che oggi, deluse gran parte delle aspettative, ha sconfessato. "Ripudiato", come titola il Washington Post. La vittoria della destra era stata ampiamente annunciata dai sondaggi. Ma alla fine è stata più ampia del previsto. Wall Street brinda e vola: DowJones +0,35%.

Il segnale del cambiamento è arrivato chiaro e forte dagli statunitensi. Il partito dell'Elefantino controllerà il Congresso degli Stati Uniti che si insedierà il prossimo 3 gennaio. Entrambi i rami saranno in mano al Grand Old Party (Gop) che ha strappato ai democratici sette Stati (West Virginia, Arkansas, South Dakota, Montana, Colorado, Idaho e North Carolina), arrivando a controllare 52 seggi su 100.

I segni della gravità della sconfitta democratica e dalla portata della disfatta personale di Obama si ritrovano in tutti gli angoli di questa complicatissima tornata elettorale. I repubblicani stravincono, come previsto, alla Camera, ma, soprattutto, strappa al partito di Obama anche il Senato: un’impresa che ancora una settimana fa sembrava proibitiva e che alla vigilia del voto, dopo i nuovi sondaggi favorevoli ai conservatori, veniva vista da molti come possibile ma solo grazie a una vittoria sul filo di lana, da proclamare dopo aver contato fino all’ultimo voto. Ed hanno conquistato uno dopo l’altro 7 collegi dai quali sino stati scalzati i senatori democratici: il primo a cadere è stato il West Virginia. Poi è toccato a Colorado, Arkansas, South Dakota, Montana, North Carolina, Iowa. La destra è arrivata a quota 52 prima ancora della chiusura delle urne in Alaska, l’ultimo Stato a votare per motivi di fuso orario e nonostante che il risultato della Louisiana, dove sarà necessario andare al ballottaggio, il seggio senatoriale verrà assegnato solo il 6 dicembre.

Contro ogni previsioni i democratici hanno perso anche il governatore dell’Illinois, lo Stato del presidente. Obama, che durante la campagna ha evitato di farsi vedere in collegi “difficili”, data la sua scarsa popolarità attuale, era andato a offrire il suo appoggio a Pat Quinn, che si sentiva sicuro della sua riconferma. E, invece, è stato sonoramente bocciato, come molti altri suoi colleghi di partito, in una giornata davvero nera per la sinistra, abbandonata anche dai gruppi sociali che l’hanno sempre sostenuta: non ci sono ancora i dati finali nazionali, ma in molti Stati è evidente che a mancare ai democratici sono stati soprattutto i voti delle donne, dei neri e delle altre minoranze.

In molti casi a impressionare casi sono anche le differenze numeriche. In Kentucky Mitch McConnell, che sarà il leader della nuova maggioranza al Senato, era favorito, ma si pensava che avrebbe prevalso di tre o quattro punti percentuali, non di 15. Democratici sconfitti anche non North Carolina, lo Stato che ha ospitato la loro “convention” di due anni fa, mentre nel momento in cui scriviamo è ancora testa a testa in Virginia tra il democratico Mark Warner e il repubblicano Ed Gillespie. E pure questa è una notizia che mozza il fiato al partito di Obama perché l’ex governatore democratico avrebbe dovuto vincere con ampio margine.

Ora il presidente tenterà di correre ai ripari convocando per venerdì alla Casa Bianca una riunione “bipartisan” coi leader dei due schieramenti politici. Sicuramente ci saranno dichiarazioni di umiltà, tutti si diranno aperti alla collaborazione. Ma è difficile che si riesca ad andare molto al di là di un’agenda minima sui provvedimenti di spesa di fine anno e, forse, sui negoziati per la conclusione di trattati di libero scambio con l’Europa e gli alleati degli Usa in Asia e nel Pacifico. Difficile che si trovi un’intesa sulle misure principali – riforma fiscale, immigrazione, scuola – che servono al Paese. Troppo profonde le divisioni tra i due schieramenti. Obama potrebbe anche essere tentato di governare negli ultimi due anni a colpi di decreti basati sui poteri esecutivi presidenziali. Ma si tratterebbe comunque di interventi di portata limitata. Provvidenziale arriva, per il presidente, la pausa di una lunga missione internazionale in Cina, Birmania e in Australia per il G-20. Ma sarà un Obama azzoppato quello che verrà ricevuto a Pechino dalla nuova dirigenza cinese, che incontrerà il presidente russo Putin e discuterà al vertice di Brisbane del futuro del mondo.

Adesso il presidente sconfitto dovrà scendere al compromesso sui singoli provvedimenti (sicuramente molto più di quanto ha fatto fino ad ora), oppure forzare la mano a colpi di decreti, ma con il rischio di vedersi bocciare sistematicamente ogni misura approvata. Potrebbe anche scegliere di percorrere entrambe le strade, per cercare di barcamenarsi fino alla prossima estate (quando inizierà il tourbillon della corsa per le presidenziali) e provare in qualche modo a tirare la volata ai democratici, addossando la colpa dello stallo agli avversari.

I repubblicani si sono imposti non solo negli stati più deboli controllati fino a ieri dai loro avversari, ma anche in molte zone che Obama aveva conquistato, cambiando la geografia politica degli Stati Uniti.



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