mercoledì 28 settembre 2016

Corte dell'Aja condanna per crimini di guerra a jihadista



Un verdetto destinato a diventare una pietra fondante del diritto internazionale.

I giudici della Corte Penale Internazionale dell'Aia hanno giudicato il jihadista maliano Ahmad Al Faqi Al Mahdi colpevole della distruzione di mausolei di Timbuctù, riconosciuti come patrimonio mondiale dell'umanità e lo hanno condannato a nove anni di prigione.

Una sentenza storica quella della Corte Penale Internazionale (CPI) che condanna il jihadista per crimini di guerra e per attacchi contro edifici storici e luoghi di culto.e per la prima volta ha pronunciato la sua ferma condanna per distruzione del patrimonio culturale.

Al Mahdi, condannato per le distruzioni dell'estate 2012 dei tesori culturali di Timbuctu, la città del Mali patrimonio mondiale dell'Unesco, è il responsabile della distruzione delle tombe sufi e delle porte della moschea di Sidi Yahia. La moschea di Sidi Yahia è uno dei simboli di questa città che spunta dal deserto per affacciarsi sulle rive del Niger, al crocevia tra le popolazioni nomadi Tuareg e quelle sedentarie, luogo d'incontro tra chi viaggiava in piroga e chi cavalcava il cammello.

Nel corso dei dieci mesi di permanenza a Timbuctu, i jihadisti di Ansar Eddine, oltre ai mausolei e alla moschea Sidi Yahya, hanno distrutto anche circa 4mila degli oltre circa 100mila manoscritti custoditi nelle 24 biblioteche pubbliche della città, diversi dei quali risalenti al XIII secolo. La furia devastatrice degli islamisti ha richiamato alla memoria quella dell’esercito di occupazione del sultano sadiano Aḥmad al-Manṣur, che, nel 1591, sotto la guida del generale spagnolo Jawdar Pascià, espugnò Timbuctu e uccise o deportò la maggior parte degli studiosi dell’antica città carovaniera.

Le basi giuridiche del processo risiedono in una convenzione sottoscritta nel 1954 da 125 Paesi, che protegge monumenti, siti archeologici, opere d’arte, manoscritti e collezioni scientifiche. Tuttavia, Stati Uniti, Russia e gran parte del Paesi del Medio Oriente non aderiscono alla Corte, che di conseguenza non ha giurisdizione nei loro confronti.

La presidentessa dell'Unesco Irina Bokova, definendo la decisione della Cpi storica per ottenere il riconoscimento dell'importanza del patrimonio per l'intera umanità e per le comunità che lo hanno conservato nei secoli, si è detta convinta che "in un contesto di ripetute violenze contro i popoli e il loro patrimonio, il verdetto della Cpi rappresenti un elemento chiave per contrastare l'estremismo violento".

Nel XV° secolo il capo Timbuctù, Mohammed Nadi, fece un sogno in cui arrivava da lontano un uomo di grandi qualità, un santo. Costruita la moschea Naddi mise la chiave in una buca accanto alla porta. La moschea rimase sigillata per 40 anni fino a quando dall'Andalusia arrivò uno sharif di nome Sidi Yahia. Si diresse verso la moschea e come se già conoscesse il posto prese la chiave dalla buca, aprì la porta ed entrò. Quando Yahia morì fu sepolto nella moschea e una pietra copre la sua tomba: tutti entrano per sfiorarla con la mano e chiedono l'intercessione di uno dei santi più venerati.

“Timbuctù è l’unica città dell’Africa nera che ha avuto un’Università non influenzata dalle scuole di pensiero formatesi in nord Africa o nel Golfo persico,” ha dichiarato Mohamed Haidara, una guida turistica maliana fuggita dalla regione per via della ribellione, “Egitto, Marocco, Algeria, Arabia saudita, sono tutti Stati in cui le università hanno manipolato l’interpretazione dell’Islam a seconda dei propri interessi. I musulmani di Timbuctù vantano invece un’indipendenza storica e religiosa che ha permesso loro di seguire la propria strada moderata – spiega Haidara – è quindi impensabile che ci venga imposta la versione della sharia voluta dagli integralisti”.

Molti studiosi perseguitati nei propri paesi d’origine si trasferivano nella regione con la loro ricchezza intellettuale. Timbuctù diventò presto una città internazionale fornita di oltre 700 mila preziosi manoscritti, tra cui documenti dell’era medievale africana, libri o semplici testimonianze dell’epoca.

“Dal XVI secolo in poi, con la modernità, è iniziato il periodo di decadenza”, ha sostenuto Salem Ould Elhaj, originario di Timbuctù e professore di storia che per oltre trent’anni ha insegnato in diverse scuole del nord maliano, “I cammelli e le piroghe sono stati sostituiti da barche a motore, treni, e aerei. Il progresso scientifico ha distrutto Timbuctù; il commercio cambiò aspetto, non puntava più verso l’interno, ma con incomprensibile avidità si dirigeva verso l’esterno, raggiungendo le coste dell’Africa Occidentale”.

Secondo El-Boukhari Ben Essayouti, coordinatore della ricostruzione, il processo a Mahdi è una lezione importante perché «mostra a tutti che così come non si può uccidere e restare impuniti, allo stesso modo non si può distruggere un patrimonio culturale mondiale e restare impuniti». Lo stesso segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon di recente ha condannato i crimini contro il patrimonio culturale, affermando che si tratta di un attacco al tessuto sociale di un Paese.



Dati da WhatsApp a Facebook, il Garante della privacy chiede trasparenza



L’unione di dati celebrato a fine agosto, grazie al quale Facebook ha a disposizione nuove informazioni provenienti dagli account WhatsApp, non è chiarissimo. Il progetto di Zuckerberg di connettere, almeno in parte, le due piattaforme merita un approfondimento, tale modifica della privacy policy effettuata da WhatsApp, mette a disposizione di Facebook dati sensibili degli utenti del servizio di messaggistica, non convince il Garante che chiede ai due colossi di "fornire tutti gli elementi utili alla valutazione del caso", in particolare riguardo al consenso e alla sua revoca da parte degli utenti.

Così il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato un'istruttoria con l'obiettivo di fare chiarezza a seguito della modifica della privacy policy effettuata da WhatsApp a fine agosto che prevede la messa a disposizione di Facebook di alcune informazioni riguardanti gli account dei singoli utenti di WhatsApp, anche per finalità di marketing''. La comunicazione è arrivata da una nota ufficiale del Garante, dalla quale si evince che WhatsApp e Facebook sono state invitate a fornire «tutti gli elementi utili alla valutazione del caso».

'Il Garante - continua la nota - ha invitato WhatsApp e Facebook a fornire tutti gli elementi utili alla valutazione del caso. In particolare ha chiesto di conoscere nel dettaglio: la tipologia di dati che WhatsApp intende mettere a disposizione di Facebook; le modalità per la acquisizione del consenso da parte degli utenti alla comunicazione dei dati; le misure per garantire l'esercizio dei diritti riconosciuti dalla normativa italiana sulla privacy, considerato che dall'avviso inviato sui singoli device la revoca del consenso e il diritto di opposizione sembrano poter essere esercitati in un arco di tempo limitato''. Inoltre ''Il Garante ha chiesto di chiarire se i dati riferiti agli utenti di WhatsApp, ma non di Facebook, siano anch'essi comunicati alla società di Menlo Park, e di fornire elementi riguardo al rispetto del principio di finalità, considerato che nell'informativa originariamente resa agli utenti WhatsApp non faceva alcun riferimento alla finalità di marketing''.

''La nuova privacy policy adottata da Facebook e WhatsApp pone serie preoccupazioni dal punto di vista della protezione dei dati personali''. A dirlo è Antonello Soro, presidente dell'Autorità italiana. "Il flusso massiccio di dati non riguarda solo gli utenti di Facebook o WhatsApp, ma si estende anche a chi non è iscritto a nessuno dei due servizi, i cui dati vengono comunicati per il semplice fatto di trovarsi in una rubrica telefonica di un utente di WhatsApp".

In particolare, il Garante ha chiesto di conoscere nel dettaglio «la tipologia di dati che WhatsApp mette a disposizione di Facebook; le modalità per l’acquisizione del consenso da parte degli utenti alla comunicazione dei dati; le misure per garantire l'esercizio dei diritti riconosciuti dalla normativa italiana sulla privacy, considerato che dall'avviso inviato sui singoli device la revoca del consenso e il diritto di opposizione sembrano poter essere esercitati in un arco di tempo limitato».

Un'ulteriore richiesta è quella di chiarire «se i dati riferiti agli utenti di WhatsApp, ma non di Facebook, siano anch'essi comunicati alla società di Menlo Park, e di fornire elementi riguardo al rispetto del principio di finalità, considerato che nell'informativa originariamente resa agli utenti WhatsApp non faceva alcun riferimento alla finalità di marketing».

Un colpo basso per la galassia Facebook, chiamata a chiarire una mossa che qualche settimana fa aveva sorpreso un po' tutti. Con un aggiornamento dei termini di servizio, infatti, il 25 agosto WhatsApp comunicava ai propri utenti che dopo 4 anni era arrivato il tempo di cambiare. E che grazie alle nuove impostazioni, Facebook era in grado di offrire «migliori suggerimenti di amici» e mostrare «inserzioni più pertinenti». Un'operazione con chiare finalità di marketing che faceva leva sulla pigrizia dell'utente medio, solitamente poco propenso ad entrare nei dettagli di un servizio che comunque piace e funziona. Ma è qui che sono entrati in azione i guardiani della privacy. Un portavoce del social network ha dichiarato che «WhatsApp è conforme alla legge sulla protezione dei dati dell'Ue. Lavoreremo con il garante della privacy italiano nel tentativo di rispondere alle loro domande e di risolvere eventuali problemi».


martedì 27 settembre 2016

Accordo di pace tra la Colombia e le Farc



L’intesa, che mette fine a una guerra civile cominciata nel 1964, è stata siglata dal capo delle Farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia Rodrigo Londoño, detto Timochenko, e il Presidente Juan Manuel Santos.

Nel corso di una grande cerimonia, avvenuta a Cartagena - la città del Premio Nobel Gabriel Garcia Marquez e tutt'e due hanno usato l'immagine delle farfalle gialle che incarnavano l'amore di Mauricio Babilonia, uno dei personaggi di "cent'anni di solitudine", come metafora della speranza per il futuro del paese.

Alla presenza del segretario generale dell'ONU Ban Ki Moon, a cui hanno partecipato più di 2.500 invitati. Il presidente Santos e il comandante delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), Londoño, detto Timochenko, hanno sottoscritto un documento che “porterà alla costruzione di una pace stabile e duratura”. L’accordo sarà sottoposto a referendum il 2 ottobre.

Il testo dell'intesa è stato sottoscritto con un "baligrafo", cioè una pallottola (bala) trasformata in penna stilografica, gesti simbolici di questo tipo hanno segnato la breve cerimonia. In una scenografia interamente bianca Santos, accompagnato da due bambini, ha aperto una "porta del futuro" per fare salire sul podio i negoziatori dell'accordo e i capi di stato invitati per la storica occasione.

Da parte sua, Timochenko ha offerto una dichiarazione senza precedenti, chiedendo perdono a nome delle Farc "a tutte le vittime, per tutto il dolore che abbiamo causato con questa guerra". Durante il suo discorso, il leader guerrigliero è stato interrotto dal passaggio di una pattuglia di esibizione dell'aeronautica e, guardando in aria, ha commentato con un sorriso: "questa volta vengono a celebrare la pace, non a buttarci addosso le bombe".

Sottolineando che l'accordo di pace colombiano deve servire come esempio per la soluzione di tutti i conflitti del mondo, il capo delle Farc ha lanciato un appello a favore di una trattativa di pace per porre fine alla guerra in Siria, e al conflitto fra israeliani e palestinesi.

L'unico oratore nella cerimonia, oltre ai due firmatari dell'accordo, è stato il segretario generale delle nazioni unite, Ban Ki-Moon, che ha dichiarato ufficialmente aperto il monitoraggio ONU dell'implementazione dell'intesa, commentando che considerava un onore essere presente "nel momento in cui un popolo ha deciso di cominciare a sanare le sue ferite".

Forse il momento più emozionante della cerimonia è stato l'intervento di un coro di donne della comunità afro di bojayà, nel nordest del paese, scenario di una strage di civili nel 2002, durante uno scontro fra le Farc e gruppi paramilitari, nella quale morirono un centinaio di persone, uccise da una bomba lanciata dai guerriglieri dentro a una chiesa. Da allora, le donne di Bojayà, sempre vestite di nero, cantavano il lamento per i loro parenti uccisi. Oggi, per la prima volta vestite di bianco, hanno cantato a cappella per celebrare la pace.



lunedì 26 settembre 2016

Trump-Clinton il super bowl delle presidenziali USA



A caccia del voto degli indecisi, a sei settimane dalle elezioni, negli Stati Uniti Hillary Clinton e Donald Trump si affrontano nel primo dibattito televisivo, alle 3 di notte ora centrale europea.

Per la prima volta li vedremo sfidarsi direttamente, faccia a faccia: Hillary Clinton e Donald Trump, in piedi dietro un leggio, per 90 lunghi minuti. Otto su dieci elettori americani dicono che guarderanno questo primo dibattito presidenziale — un pò per interesse politico e molto per ragioni di intrattenimento. Potrebbe diventare il dibattito presidenziale più visto della storia, con oltre 100 milioni di spettatori (al momento il record spetta a Reagan contro Carter, 1980, 80 milioni).

Quello di questa notte è il primo dei tre dibattiti previsti tra i candidati alla Casa Bianca (il secondo il 9 ottobre, il terzo il 19 ottobre), mentre i loro vice — il democratico Tim Kaine e il repubblicano Mike Pence — si fronteggeranno in un’unica occasione il 4 ottobre.

A poche ore dal primo duello tv tra Hillary Clinton e Donald Trump i sondaggi parlano di un testa a testa tra i due candidati. Secondo il sito specializzato RealClearPolitics, che fa la media di tutte le principali rilevazioni, la ex first lady è in leggero vantaggio, di appena 2,1 punti, con il 45,9% delle preferenze, contro il 43,8% del rivale repubblicano. In passato non si era mai avuto un confronto politico che proponesse soluzioni talmente divergenti per il Paese. Il tema centrale che è poi il primo tema in discussione, riguarda le condizioni di salute dei valori americani, il titolo è “America's Direction”, la direzione dell’America. E non si sono mai avute indicazioni più diverse in termini di valori come in queste elezioni.

Persino il “combattimento presidenziale” del 1980 fra Jimmy Carter e Ronald Reagan, quando molti temevano che a Washington arrivasse un attore impreparato al posto di uno statista come Carter che aveva già lavorato quattro anni alla Casa Bianca, le differenze erano soprattutto sul ruolo che lo stato dovesse giocare nell’economia; sugli ammontari di tasse che gli americani dovevano contribuire alle casse del Tesoro. Ma non si mettevano in dubbio i valori di fondo ereditati dai Padri Fondatori, valori di apertura, tolleranza, altruismo.

Oggi quei valori sono superati da Donald Trump per una semplice ragione: «Siamo in guerra - ha detto più volte il candidato repubblicano - e in una guerra, quando i terroristi ti attaccano in casa non c’è spazio per le buone maniere». Trump in sostanza propone un passaggio verso l’autoritarismo, Hillary invece resta posizionata sull'immagine che tutti hanno dell’America, un paese severo, ma non autoritario all’esterno o all’interno.

Sappiamo che una buona parte dello malcontento deriva dalle difficoltà della classe media, da una crescente sperequazione fra ricchi e poveri anzi, fra super ricchi e il resto del paese. Trump ha ricette molto drastiche: chiudere le frontiere e obbligare le aziende locali a rimpatriare il lavoro. Può funzionare? Tutti gli economisti sono concordi sul fatto che misure protezioniste potranno solo peggiorare le cose. E proprio in questi giorni dai ottenuti dal censimento americano dimostrano che c’è stato un recupero dei redditi per le classi più povere. Di nuovo, la differenza di fondo riguarda la direzione: apertura contro chiusura. Una direzione nuova visto che tradizionalmente, soprattutto in campo repubblicano si è sempre stati per l’apertura dei commerci.

Ma il tema valori diventa caldissimo per il terzo argomento in discussione, la Sicurezza dell’America “American Security”. E dopo una decina di giorni in cui abbiamo visto esplodere la violenza, sia quella di matrice estremista islamica che quella dell’intolleranza razziale, con l’omicidio di due afroamericani disarmati da parte della polizia, il dibattito sulla sicurezza e su come conciliare i valori americani con la necessità di proteggersi, diventa centrale non solo al dibattito di questa sera ma all'intero processo elettorale.

La vigilia dell’atteso faccia a faccia alla Hofstra University, poco fuori New York, per il quale si prevede un record storico di audience con 100 milioni di telespettatori, è stata ancora all’insegna dei veleni. In fondo il Super Bowl della politica non è una gara giocata a colpi di punti programmatici ma una prova di carattere e carisma.

Tutto è cominciato con la pubblicazione dell'ultimo sondaggio di Washington Post/Abc che ha assegnato a Hillary due punti di vantaggio sul rivale, con il 46% dei consensi contro il 44%. La squadra dell'ex first lady ha dunque fatto sapere di aver invitato tra il pubblico il miliardario Mark Cuban, sostenitore di Hillary e storico rivale di Trump.

Dal canto suo, Trump ha minacciato (salvo poi smentire) di schierare in prima fila Gennifer Flowers, l'ex modella diventata famosa per aver rivelato una relazione decennale con Bill Clinton, nel pieno della campagna per la Casa Bianca del 1992.

Il confronto, 56 anni dopo il primo dibattito presidenziale americano in tv tra John F. Kennedy e Richard Nixon, si preannuncia brutale e imprevedibile. Il moderatore è Lester Holt, al suo esordio sul palco della finalissima per la presidenza.

Su una cosa i commentatori sono d’accordo: la maggior parte della gente guarderà questo dibattito per vedere Trump; e Trump vincerà se riuscirà a dimostrare di essere «presidenziale». Infatti, la strategia di Hillary, che si è allenata metodicamente davanti al leggio con un finto rivale, mettendo a punto risposte da due minuti, è non solo di smascherare le bugie di Trump ma mostrare che è «caratterialmente inadatto allo Studio Ovale». Visivamente e fisicamente, il fatto di trovarsi faccia a faccia con Hillary gli darà la dignità del candidato a tutti gli effetti. C’è chi (Frank Bruni, sul New York Times) argomenta che per Trump la cosa migliore sarebbe riuscire ad essere noioso. Se invece esibisse la sua consueta volgarità, in particolare contro una donna, questo potrebbe sancire la sua fine. Nell’incertezza su quale Trump apparirà lunedì sera, Hillary si è addestrata a fronteggiarne di diversi: dal candidato che discute di grandi tematiche promesso dal suo staff, al bullo che insulta e denigra. Resta invece aperta la questione di che cosa significhi essere presidenziale per una donna come Hillary: poiché non è mai successo prima che ci sia stata una donna presidente degli Stati Uniti, tutto — dal tono di voce all’abbigliamento, al livello di emotività — è oggetto di scrutinio.



Chianti, 300 anni fa il bando del Granduca de' Medici



"Trecento anni di storia e neanche una penna bianca" ha ricordato Sergio Zingarelli - riferendoci al simbolo del Gallo nero che contraddistingue il consorzio del Chianti classico da quando nacque nel 1924.. È lo slogan scelto per festeggiare i 300 anni del Chianti Classico.

Sono passati tre secoli dal 24 settembre 1716, giorno in cui il Granduca Cosimo III dè Medici emanò un bando,  Il bando si denominava 'Sopra la Dichiarazione de' Confini delle quattro regioni Chianti, Pomino, Carmignano e Vald'Arno di Sopra', per delimitare le zone di produzione del Chianti Classico, del Valdarno di Sopra, del Pomino/Chianti Rufina, e del Carmignano. Un'area compresa tra le città di Firenze e Siena. Da allora è sempre stato un'eccellenza toscana, italiana, con il suo colore rosso rubino e il sapore armonico e asciutto.

Risale invece al 1924 la nascita del consorzio del Chianti, al quale oggi aderisce il 96% dei produttori, che si fregerà della dicitura 'classico' solo dal 1932, per distinguere le produzioni vinicole che rientrano nei confini storici del bando di Cosimo III de' Medici. Nel 1984 arriva la Docg (Denominazioni di Origine Controllata e Garantita). Fin dalla sua nascita l'organo consortile sceglie come proprio simbolo il 'Gallo nero', che sancì, secondo la leggenda medievale, l'unità politica dell'intero territorio chiantigiano.

La cerimonia per l'anniversario svoltasi a Palazzo Vecchio hanno partecipato i presidenti dei quattro consorzi, Sergio Zingarelli (Chianti classico), Federico Giuntini (Chianti Rufina), Fabrizio Patresi (Carmignano) e Luca Sanjust (Valdarno di sopra). L'assemblea dei soci del Consorzio del Gallo Nero (simbolo del Chianti Classico) ha deciso di avanzare una proposta: l'avvio del processo di inserimento del territorio del Chianti nella lista dei siti patrimonio dell'umanità dell'Unesco e la costituzione di un distretto rurale del Chianti. Il ministero dello Sviluppo economico ha previsto, nel programma filatelico annuale dello Stato, l'emissione di un francobollo celebrativo.

I vitigni che producono il Chianti si estendono per oltre 70mila ettari. La produzione è in media di 35 milioni di bottiglie all'anno di classico. Un vino che si esporta molto all'estero, in circa 100 paesi, e che attira turisti stranieri che ogni anno vengono in questa parte della Toscana per acquistarlo, degustarlo e visitare le cantine storiche in cui si produce.

Negli ultimi cinque anni, il Chianti classico ha segnato una crescita complessiva del 35% nelle vendite a livello globale. Un risultato raggiunto, è stato spiegato, grazie a un processo di profondo rinnovamento finalizzato a riposizionare il Gallo nero sui mercati globali, a partire dall'introduzione di una nuova categoria di vino, la Gran selezione, che non ha tardato a dare frutti, in termini di qualità e competitività. Sul fronte dei mercati gli Stati Uniti si confermano il primo mercato per il Gallo nero, assorbendo circa il 31% delle vendite totali, seguiti dall'Italia con il 20%, dalla Germania con il 12%, dal Canada con il 10%, da Regno Unito con il 5%, dai Paesi Scandinavi, Svizzera e Giappone al 4%, da Benelux, Cina e Hong Kong al 3%, e infine dalla Russia con l'1%.

"Siamo molto soddisfatti dell'andamento del mercato - ha sottolineato Zingarelli - un risultato che premia il lungo lavoro di rilancio della denominazione svolto negli ultimi anni e culminato con l'introduzione della Gran selezione, che oggi rappresenta circa il 4% delle vendite dei vini del Gallo Nero. Un grande vino che ha qualificato ulteriormente la nostra denominazione e che ha già riscosso successi di critica e che in breve tempo si è posizionato nella sfera delle eccellenze enologiche mondiali".

Annunciato in Palazzo Vecchio, un accordo di cooperazione fra il Consorzio del Chianti Classico e il Comité des Vins de Champagne, ed arriva anche la candidatura del Chianti a Patrimonio dell’Unesco lanciata in un videomessaggio dal ministro dell’agricoltura Maurizio Martina.

L’accordo è stato annunciato dal presidente del Gallo Nero Sergio Zingarelli in occasione delle celebrazioni in Palazzo Vecchio a Firenze, per i 300 anni dalla presentazione del bando del granduca Cosimo III de’ Medici con il quale si delimitavano per la prima volta le zone di produzione vincola corrispondente all’attuale territorio del Chianti classico, del Pomino (Chianti Rufina), del Valdarno di Sopra e di Carmignano.

"Siamo pronti a lavorare per la candidatura del Chianti", che corrisponde al territorio dell'attuale Chianti classico, "a Patrimonio dell'Unesco, credo che sia un atto doveroso che possiamo fare insieme per rappresentare al massimo livello una storia di eccellenza come quella del Chianti. Prendersi questo impegno per celebrare i 300 anni di questa esperienza è una scommessa sul futuro che dobbiamo vincere insieme", così, il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina.



giovedì 22 settembre 2016

Tre mesi dal Brexit: Londra e l’Ue



Tre mesi dopo Brexit, tutto è tornato alla normalità in Gran Bretagna, almeno all'apparenza. Superato lo shock iniziale per il risultato a sorpresa del referendum del 23 giugno, non si è verificato il crollo economico che molti temevano e la fiducia resta elevata.

Gli elettori britannici non sono pentiti di avere votato per la Brexit e non vogliono un secondo referendum sull'uscita del Regno unito dall'Unione europea: è quanto ha spiegato oggi l'esperto di sondaggi John Curtice, presentando i risultati di uno studio.

Curtice ha analizzato una serie di sondaggi realizzati dopo il referendum del 23 giugno, nel quale circa il 52% dei britannici si è espresso in favore della Brexit. "Tre mesi dopo restiamo divisi, i pareri non sono cambiati", ha affermato Curtice davanti la stampa.

L'esperto ha anche rilevato numeri più realistici circa le promesse fatte in campagna elettorale di ridurre drasticamente l'immigrazione e impiegare i fondi allocati a Bruxelles sul sistema sanitario pubblico. "Prima del referendum, più della metà della popolazione era in attesa di un calo dell'immigrazione, ma questa percentuale è scesa al 45%", ha detto.

Interpellato sulle aspettative nel Paese con la Brexit, il ricercatore ha spiegato che la grande maggioranza dei britannici cita la fine del contributo finanziario britannico a Bruxelles e la fine della libertà di circolazione, ma anche il mantenimento nel mercato unico. Il ricercatore ha osservato, tuttavia, "una chiara volontà di compromesso", con la maggioranza dei britannici che vuole ampio accesso al mercato unico "mantenendo un certo controllo sull'immigrazione".

Sin dall'annuncio del referendum da parte di Cameron, ho iniziato ad analizzare le conseguenze di una potenziale uscita. I miei risultati denotavano, sin dall'inizio, che il panorama apocalittico, strumentalizzato da coloro che volevano controllare il risultato del referendum, era ingiustificato. Si stava terrorizzando la popolazione britannica, Europea e di riflesso quella mondiale con il "fantasma" Brexit.

A parte che la Gran Bretagna è stata sempre con un piede fuori dall'Ue non avendo adottato la moneta unica, ed era quindi prevedibile che:

1) sarebbe stato il primo paese a lasciare l'Unione;

2) le grida disperate di Merkel e Juncker erano solamente lacrime da coccodrillo in quanto non avevano concesso a Cameron quanto aveva chiesto pre-brexit, e questo, a mio avviso, indicava quasi certamente l'uscita;

3) le pressioni poste da parte di Bruxelles e Berlino sulla GB di uscire immediatamente dall'Unione subito dopo il referendum, erano solo una reazione infantile, in quanto la UE: a) ha perso il 20% delle entrate nelle casse di Bruxelles; b) ha bisogno della GB adesso più che mai poiché le sue prospettive di crescita sono diminuite considerevolmente dopo la perdita della seconda potenza europea e il famigerato "bazooka" di Draghi non sarà sufficiente per far ripartire l'economia; c) qualsiasi forma di "helicopter money" che sta contemplando la Bce è divenuta più complicata e meno probabile.

Anche Obama aveva minacciato pre-Brexit che una eventuale uscita avrebbe causato un'interruzione dei trattati economici/trade e che ci sarebbero voluti anni per la GB a rinegoziare e ricostituire i vari trattati con molti Paesi del mondo incluso gli USA. Due giorni dopo il referendum, il Presidente Americano si rimangia il tutto dichiarando: "Nulla è cambiato tra gli USA e la Gran Bretagna". Tali dichiarazioni contrastanti di Obama non erano altro che un escamotage per proteggere Hillary Clinton da una sconfitta elettorale qualora ci fosse stato il paventato disastro economico.

Anche se i dati economici post-Brexit della Gran Bretagna sono preliminari, essi suggeriscono un trend positivo. La settimana scorsa abbiamo visto un rialzo nel settore edilizio inglese ai livelli del 2013, nell'export e nel settore manifatturiero un dato più alto di quello previsto dagli economisti europei. Questo per via della sterlina che subito dopo il Brexit si è svalutata del 15% circa incentivando le esportazioni e gli investimenti nel Paese. Allo stesso tempo, per la Ue c'è stato un notevole declino (minimi di tre mesi fa) dei dati attinenti all'esportazione dovuti ad un calo della richiesta dei beni di consumo europei.

C'è da chiedersi: ma com'è possibile? Specialmente quando si considera la svalutazione dell'euro dovuto al programma Qe della Bce in corso da due anni? Se nell'equazione aggiungiamo che da maggio 2016 ad agosto 2016 il dollaro statunitense è salito, si avvalora il costante indebolimento dell'euro rispetto alle maggiori monete, ma l'esportazione e gli investimenti nell'Unione invece di incrementarsi scendono.

È chiaro che la colpa non è della sterlina ma di una politica economica europea errata. Senza dimenticare che il tasso di disoccupazione britannico uscito due settimane fa rispecchia un dato positivo risalente al 2008. Coincidenza? Non credo. Ma quando si capirà che c'è una fondamentale frattura del modus operandi della Ue e della Bce? Quante persone e piccole e medie imprese devono ancora soffrire per strategie economiche sbagliate? A parte che le grandi imprese internazionali non investono capitali in Italia, neanche minimi, per via della forte pressione fiscale e della mastodontica macchina burocratica italiana ed europea che fa dell'Italia un paese da evitare, nascondendo invece il suo grande potenziale.

Rimanendo succube del proprio disfunzionale governo nazionale e vittima del controllo di Bruxelles e della Germania, mi domando che speranze ha L'Italia di risollevarsi da questa crisi? L'Inghilterra si è impadronita nuovamente della propria sovranità ed è di nuovo padrona del proprio futuro economico.

Il referendum di questo autunno proposto da Renzi darà agli italiani una chance di riflettere,
perché le proposte adottate nella riforma costituzionale non vanno nel senso della crescita
perché non aiutano l'economia del paese ma hanno uno scopo oscuro e non-funzionale che non giova al PIL. Guarda caso, come avvenuto per la campagna pre-brexit, il premier italiano nelle sue dichiarazione pre-referendarie grida al disastro se i cittadini italiani opteranno per il no alla riforma costituzionale. Una canzone già sentita milioni di volte in passato e auspico che gli italiani siano stufi di ascoltare le stesse cose che vanno nell'interesse di pochi e non di una intera popolazione.

L'Italia ha un indice di povertà molto alto per un paese sviluppato (membro del G8), gli italiani hanno bisogno di riforme che riportino occupazione e benessere, e non di riforme che non si capisce bene cosa riformino e a quale scopo. Sicuro che anche questo sarà a scapito dei cittadini. Da notare che Paesi come la Svizzera, Islanda e Norvegia non appartengono alla UE e giovano di un'economia più stabile e attenta ai bisogni dei cittadini. La priorità della attuale Ue non è certo il cittadino ma qualcosa di astratto che devia notevolmente dal piano originale di una Unione prospera, e se ci mettiamo la continua incompetenza della Bce è una ricetta per il disastro. Se i dati economici della Gran Bretagna continuano a crescere, spingeranno altri Paesi membri a riflettere e mettere ulteriormente in discussione la validità della Ue cosi come concepita oggi. In conclusione, c'è molta carne al fuoco sui cui riflettere prima del referendum.

Il ministro degli esteri britannico Boris Johnson ha affermato che le procedure per ufficializzare l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea potrebbero cominciare già nei primi mesi del 2017. Sempre secondo Johnson, dopo il ricorso di Londra all’articolo 50 del Trattato di Lisbona, non saranno necessari i due anni di trattative previsti dagli accordi tra gli stati membri


mercoledì 21 settembre 2016

Obama, ultimo discorso all'ONU: il mondo deve cambiare rotta



No ai muri. No ai populismi e ai nazionalismi. E soprattutto no al mito degli uomini forti. "In otto anni abbiamo compiuto enormi progressi. Non sarebbe stato possibile se non avessimo lavorato insieme", dice Barack Obama rivolgendosi per l'ultima volta all'Assemblea generale dell'Onu. "Sono davanti a voi per l'ultima volta". Nel suo discorso anche un appello sui migranti. Poi l'attacco a Putin: "Cerca la gloria attraverso la forza".

Obama apre così il suo intervento. Nel ricapitolare i "progressi" compiuti negli anni in cui è stato presidente, ricorda la crisi finanziaria e come dopo questa "abbiamo evitato la catastrofe".

Il mondo è a un bivio "Il mondo oggi si trova davanti a una scelta: o andare avanti o tornare indietro. E noi dobbiamo andare avanti", ha detto il presidente Usa sottolineando la necessità di rafforzare la fiducia dei popoli. Perché "è più difficile governare se la gente perde la fiducia".

Mosca "cerca la gloria con l'uso della forza" "Abbiamo visto la Russia cercare di ottenere la gloria perduta con l'uso della forza", ma il mondo è troppo piccolo per far risorgere "le vecchie mentalità". "Lo abbiamo visto in Medio Oriente, dove i leader perseguono gli oppositori politici o le minoranze. E questo ha aiutato a far crescere l'Isis", sostiene il capo della Casa Bianca.

"Respingere fondamentalismo, razzismo, autoritarismo" "Dobbiamo correggere la globalizzazione, ma no ai nazionalismi e ai populismi", è l'appello lanciato da Obama. "Un Paese circondato dai muri - ha aggiunto - imprigionerebbe se stesso". "No agli uomini forti e a modelli di società guidate dall'alto. La democrazia resta il vero percorso da compiere. E la strada verso la vera democrazia è meglio dell'autoritarismo". ''Dobbiamo respingere qualsiasi forma di razzismo, fondamentalismo e di idee superiorità di razza. Bisogna abbracciare la tolleranza e il rispetto di tutti gli esseri umani e di tutte le culture''.

La critica a Israele "La diplomazia è la vera chiave per fermare la violenza", dice ancora Obama, facendo l'esempio di Israele. "Non si può affermare la propria leadership sminuendo gli altri. Israele sa che non può occupare in via permanente la terra palestinese". Obama ha poi parlato della necessità di lavorare sulla democrazia, «vera chiave per fermare la violenza», facendo l’esempio di Israele. E spiegando che entrambe le parti trarrebbero vantaggio se Israele riconoscesse che non può occupare in modo permanente il territorio palestinese. «Non si può affermare la propria leadership sminuendo gli altri. Israele sa che non può occupare in via permanente la terra palestinese» ha precisato parlando alla 71ma Assemblea Onu.

L’accordo sui rifugiati ''Dobbiamo fare di più per aiutare i rifugiati''. E' l'appello che Barack Obama lancia dall'Assemblea generale dell'Onu. ''Dobbiamo aprire i nostri cuori per accogliere i rifugiati nelle nostre case". "Ci sono tante nazioni che stanno facendo la cosa giusta ma molte nazioni, specialmente quelle benedette dalla loro ricchezza e dalla loro posizione geografica, devono fare di più". Obama ha annunciato l’accordo tra le oltre 50 nazioni che partecipano al Summit. «Verrà raddoppiata l’accoglienza dei profughi arrivando ad accoglierne 360 mila» ha detto il presidente Usa parlando del reinsediamento dei rifugiati.

Corea del Nord "terra desolata" La Corea del Nord è una "terra desolata" afferma Obama. "C'è un forte contrasto fra il successo della Corea del Sud e la terra desolata della Corea del Nord, che mostra come l'economia controllata dalla Stato è una strada senza uscita.

Obama ha ripetuto che negli ultimi otto anni sono stati raggiunti molti risultati, ma che gli Usa non possono essere i gendarmi del mondo. Solo la collaborazione fra gli Stati potrà davvero portare a un miglioramento globale della vita delle persone.

Invita tutti, poi, a non cedere al pessimismo e al cinismo di fronte alle difficoltà. Perché se è vero che la globalizzazione va corretta questo va fatto andando avanti: "Il mondo oggi è di fronte a una scelta, e il rischio è che si possa tornare indietro". Ecco di nuovo lo spettro dei muri, il termine più usato da Obama nel suo intervento. Un lungo applauso lo saluta. Il prossimo anno dal palco dell'Assemblea generale dell'Onu sarà la volta di Hillary Clinton o di Donald Trump.


martedì 20 settembre 2016

Lesbo: incendio in campo profughi



Secondo quanto riporta il Guardian, la polizia avrebbe accertato che le fiamme sono state appiccate da un gruppo di immigrati in segno di protesta per le condizioni del campo. Migliaia di migranti sono in fuga dal campo profughi di Moria, sull'isola di Lesbo, in Grecia, a causa di un violento incendio. I media locali riportano le immagini di fiamme altissime, alimentate dal vento, che stanno distruggendo le tende del campo.

Il quotidiano greco Ekathimerini aggiunge che l’incendio è scoppiato quando circa 300 residenti del campo sono rientrati scortati dalla polizia da una manifestazione in cui 500 cittadini di Lesbo chiedevano la riduzione del numero dei profughi. Tra loro c’erano anche decine di ultranazionalisti, contrari alla permanenza dei richiedenti asilo sull’isola.“ Le organizzazioni per i diritti umani hanno ripetutamente criticato le condizioni dei migranti nei campi greci, puntando il dito contro l’eccessivo affollamento e le cattive condizioni sanitarie. “

Secondo la polizia l'incendio sarebbe doloso. Sarebbero almeno 4mila i richiedenti asilo in fuga. Al momento, secondo i volontari che lavorano nel campo, non ci sarebbero feriti, ma le tende e i prefabbricati che si trovavano all'interno del campo sono stati notevolmente danneggiati.. La polizia avrebbe accertato che le fiamme sono state appiccate da un gruppo di immigrati in segno di protesta per le condizioni del campo, nel quale vivono 5.400 migranti, nonostante abbia una capacità di 3.500 persone.

I vigili del fuoco stanno indagando sulle cause delle fiamme, ma sembra che prima che scoppiasse l’incendio ci fossero tensioni palpabili tra gli ospiti del campo.

Le condizioni di vita all’interno dei campi profughi sono mediocri e la Grecia sta cercando di ridurre il sovraffollamento nei centri sulle sue isole, anche se l’afflusso di migranti è calato rispetto allo scorso anno limitando i nuovi arrivi.

Ci sono oltre 13.500 migranti e rifugiati sulle cinque isole greche prossime alla Turchia, ma la loro capacità sarebbe di meno della metà. In particolare, sull’isola di Lesbo ci sono circa 5.650 migranti e rifugiati, ma le strutture di accoglienza ne potrebbero ospitare solo 3.500.

In tutto sono circa 60mila i migranti bloccati in Grecia e la maggior parte ha dovuto affrontare un pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo per sfuggire a guerre e povertà in Medio Oriente e Africa.

La situazione di incertezza e le lunghe attese per l’espletamento delle procedure relative alle domande di asilo frustrano i richiedenti asilo e possono innescare episodi di rabbia e violenza.



Micro-Star International: uno zaino per la realtà virtuale



In attesa di vedere in azione al 100% le varie soluzioni per la realtà virtuale proposte dai diversi produttori, MSI cerca di accelerare i tempi mettendo a punto un sistema estremamente innovativo chiamato VR One, in grado di rendere la realtà virtuale sempre più portatile e eclettica.

La taiwanese MSI ha presentato un futuristico zaino dedicato agli appassionati della realtà virtuale, ovvero la realtà aumentata, che sta incontrando l’interesse di molte aziende per le possibili applicazioni in tutti i campi.

Si sta parlando di uno zaino dal peso di appena 3,6 kg è in grado di consentire fino 90 minuti di connessione totale in tutta libertà, eliminando i limiti imposti dai cavi di collegamento che integra al proprio interno un PC certificato per l'utilizzo con visori per la realtà virtuale, . MSI VR One, questo il nome del prodotto, è in grado di offrire fino a un'ora e mezza di gioco ai massimi livelli. Dispone di un processore ad alte prestazioni e monta le nuove schede grafiche Nvidia GeForce GTX serie 10.

Tra le caratteristiche dello zaino la possibilità di effettuare anche il cambio a caldo delle batterie, per consentirne l’utilizzo senza sosta. L’imbracatura ospita un vero e proprio pc ad alte prestazioni e consente di poter fare dimostrazione di contenuti VR praticamente ovunque.

MSI VR One infatti può contare sulla presenza di un processore Intel Core i7, affiancato da una GPU di Nvidia (si tratta della GeForce GTX 1070) e da una serie di interfacce per espanderne le potenzialità, tra le quali ben 4 porte USB 3.0, una USB Type-C (con compatibilità a Thunderbolt 3), porte HDMI e mini DisplayPort. Il Corriere della Città

L'ampia e completa dotazione di porte garantisce un'esperienza di VR a oltre 90FPS, soddisfacendo le richiese di qualsiasi dispositivo VR di fascia alta. Il tutto accompagnato da ulteriori quattro porte USB 3.0 per la connessione di periferiche esterne. Tutta questa potenza viene dissipata da un ingegnoso sistema di raffreddamento costituito da 9 heatpipes e due ventoline da 9 cm di diametro, molto silenziose a detta di MSI. Gli unici suoni udibili saranno, quindi, quelli provenienti dal visore per la VR, consentendo di poter immergersi nella realtà virtuale anche di notte senza disturbare nessuno. Quando quest'ultima lampeggia, la carica sta per finire, quindi, è possibile passare alla seconda batteria e continuare a utilizzare MSI VR One prima di dover ricorrere all'utilizzo dell'alimentatore, che è anche in grado di far funzionare il sistema senza batterie.

Caratterizzato in modo davvero futuribile, MSI VR One dispone di due batterie, posizionate rispettivamente nella parte inferiore a destra e a sinistra dello zaino che, se vengono rimosse, portano il peso dello zaino ad appena 2,2 Kg. Inoltre, dispone di quattro porte USB 3.0 per poter collegare ulteriori periferiche esterne.

Non manca la possibilità di gestire, attraverso il software MSI Dragon Center, il funzionamento del sistema attraverso il proprio smartphone. La tecnologia SHIFT consente, invece, di portare le performance e la velocità della ventola al massimo per assicurare la migliore esperienza di VR possibile. MSI VR One dovrebbe arrivare sul mercato a partire dal prossimo mese, ma al riguardo non ci sono informazioni sul prezzo.



domenica 18 settembre 2016

Russia si vota per il rinnovo della Duma




Elezioni in corso in Russia per il rinnovo della Duma, la Camera bassa del Parlamento.

Quattrodici i partiti in lizza ma il risultato appare scontato: la vittoria andrà a Russia Unita, del presidente Vladimir Putin e del premier Dmitri Medvedev, che già domina l’assemblea.
450 i deputati che dovranno essere eletti, metà con il sistema proporzionale, metà con il sistema maggioritario.

Assieme a Russia Unita entreranno con tutta probabilità in Parlamento i tre partiti tradizionali che siedono alla Duma: il Partito Comunista della Federazione Russa di Gennadij Zjuganov, in netto calo di consensi, il partito Liberal-Democratico guidato da Vladimir Žirinovskij e Russia Giusta di Sergey Mironov. Tutti e tre, seppure con lievi differenze, sostengono la politica del Cremlino.
Per tutti gli altri partiti, come L’Altra Russia guidato di Mikhail Kasyanov, le possibilità di essere rappresentati alla Duma sono pressoché nulle.

Risultato scontato, dunque, ma sarà interessante quantificare il calo dei consensi per Putin e il livello dell’astensionismo. Sulla scelta degli aventi diritto al voto peserà la politica estera del Cremlino che, con l’annessione della Crimea, ha modificato le relazioni internazionali. Ma a condizionare i russi sarà anche la crisi economica, non ancora superata, dovuta al deprezzamento del petrolio e alla conseguente svalutazione del rublo.

"Nel nostro paese - ha detto Putin - abbiamo visto che durante la campagna elettorale per le elezioni alla Duma ci sono stati tentativi di manipolare l'opinione pubblica, con riferimenti a questioni sì delicate, ma molto lontane da ciò che interessa veramente a milioni di russi". Una dichiarazione alquanto sibillina, forse indirizzata alla Casa Bianca, che recentemente ha puntato il dito contro la mancanza di democrazia in Russia, ma che potrebbe anche essere riferita alle posizioni del variegato fronte interno d'opposizione, al cui interno militano candidati apertamente sostenuti, ad esempio, da Open Russia, l'organizzazione creata da Mikhail Khodorkovsky, l'ex oligarca trasformatosi in arci-nemico di Putin. Lo sforzo delle autorità, ad ogni modo, è adesso concentrato sul regolare svolgimento delle elezioni e nel Paese sono già presenti i rappresentanti dell'Osce che monitoreranno in quanto osservatori internazionali. E così, dopo tante accuse avanzate dalle opposizioni di non aver avuto realmente pari condizioni di accesso alla campagna elettorale, è la presidente della Commissione Elettorale Centrale, Ella Pamfilova, a togliersi i sassolini dalle scarpe. "Un partito - ha detto senza specificare quale - ha già preparato del materiale sulle violazioni alle elezioni e lo ha mandato ai suoi membri delle commissioni elettorali: ancora non ci sono state le elezioni e loro hanno già interi pacchetti di reclami da presentare".

La posta in gioco d'altra parte è alta: se i partiti come Parnas e Yabloko - ovvero l'opposizione 'reale' - non sembrano poter superare la soglia di sbarramento del 5% prevista per la componente proporzionale federale, nei seggi uninominali si va all'uno contro uno ed è lì che le sigle minori sperano di poter sfondare. Non è dunque un caso che la polizia abbia fermato, a Mosca, 27 persone accusandole di aver violato il silenzio elettorale perché distribuivano volantini a favore di Dmitri Gudkov, candidato in un seggio uninominale per Yabloko.

Tra l'opposizione cosiddetta di 'sistema', ovvero non ostile a Vladimir Putin sulle questioni che contano, sembra in ascesa il partito Liberaldemocratico di Vladimir Zhirinovsky (che in realtà non è né democratico né liberale ma cavalca piuttosto nazionalismo, antiamericanismo, antisemitismo e xenofobia). Con il suo slogan "basta umiliare i russi!" Zhirinovsky sfiora il 14% delle preferenze - dati del Levada Center - e diverrebbe il secondo o il terzo partito della Duma. Zhirinovski, istrionico e rissoso (due anni e mezzo fa si è presentato in parlamento in mimetica accusando gli Usa di aver organizzato a Kiev la rivolta di Maidan), propone di "ricreare i confini dell'Urss" e loda senza mezzi termini l'annessione della Crimea. In realtà l'unica vera incognita è l'affluenza. Secondo i commentatori più critici, più bassa sarà e meglio andrà Russia Unita. Putin, dal canto suo, si è speso molto poco per sostenere il suo partito. "Andate a votare, è vostro dovere", ha raccomandato in tv tre giorni prima dell'apertura delle urne. "Votate per la Russia". Unita, s'intende.

Alta la tensione in Ucraina, che contesta la decisione del Cremlino di aprire i seggi anche in Crimea, annessa a Mosca a seguito di un controverso referendum sull'autodeterminazione della penisola, nel marzo del 2014.

Il voto in Crimea viene contestato anche da Washington. "Gli Stati Uniti non riconosceranno i risultati delle elezioni per la Duma russa organizzate oggi in Crimea, sotto occupazione russa", ha annunciato il dipartimento di Stato americano. "La nostra posizione sulla Crimea è chiara: la penisola resta parte integrante dell'Ucraina", ha sottolineato il portavoce della diplomazia americana John Kirby. "Le sanzioni contro la Russia resteranno in vigore fino a quando la Russia non lascerà il controllo della Crimea all'Ucraina", ha proseguito.


venerdì 16 settembre 2016

Vertice Bratislava: UE sempre più divisa



A tre mesi dal voto britannico con il quale la Gran Bretagna ha annunciato il suo desiderio di uscire dall'Unione europea, i 27 si riuniscono a Bratislava in un vertice informale. L’obiettivo è di fare un esame di coscienza sulle gravissime divisioni che segnano l’Unione, riportare una sembianza di unità tra i governi e concordare una tabella di marcia sulle misure da prendere e sul tavolo ci sono numerose questioni delicate quali: migranti, la lotta al terrorismo, la difesa comunitaria e la gestione della globalizzazione.

Ma come ha chiarito il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, è anche un’occasione per individuare con “brutale onestà” i problemi dell’Unione. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ammesso che l’Ue versa in «una situazione critica», che non è risolvibile in un singolo summit e che a Bratislava è importante fissare l’agenda per «mostrare attraverso i fatti che possiamo fare meglio».

Ha però cercato di ridimensionare le preoccupazioni per un eccessivo irrigidimento delle sue posizioni in vista delle elezioni in arrivo in Germania, che ha convinto leader eurosocialisti come il premier Matteo Renzi e il presidente francese Francois Hollande a cautelarsi preventivamente organizzando la settimana scorsa ad Atene una possibile minoranza di blocco in Europa (con Portogallo, Grecia, Malta, Cipro e Spagna) per arginare eventuali diktat sgraditi di Berlino . Alla vigilia del summit Renzi ha addirittura attaccato la cancelliera sollecitando l’intervento di Bruxelles per i surplus commerciali eccessivi della Germania, che non favoriscono la ripresa della zona euro.

Comunque il risultato del referendum sulla Brexit ha chiarito che l’Unione europea è in profonda crisi. Tra i leader è in corso un dibattito sulla direzione da far prendere al continente. Alcuni Paesi vogliono maggiore integrazione, altri, come Polonia e Ungheria chiedono a Bruxelles la restituzione di parte della loro autorità. La questione darà vita a un corposo dibattito qui al summit. Ma anche la questione terrorismo così come i migranti e l’economia saranno sotto i riflettori.

Ed è il primo summit europeo post-Brexit. In Slovacchia, Paese con la presidenza di turno dell’Unione, i leader dei 27 si ritrovano per la prima volta dopo il voto del 23 giugno che di fatto ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Europa.

Il risultato del referendum in Gran Bretagna ha messo in luce tutte le debolezze del progetto politico europeo, anche se il premier slovacco Robert Fico garantisce l’impegno di tutti per rivitalizzarlo: “Vogliamo tutti – ha detto al suo arrivo al castello che ospita la riunione – mostrare unità e vogliamo mostrare che l’Unione europea è un progetto unico che vogliamo portare avanti. Alla fine della giornata spero che saremo in grado di preparare una road map relativa ai temi più importanti da trattare nei prossimi sei mesi”.

I 27 proveranno a impedire che Londra avvii colloqui bilaterali con gli Stati europei per negoziare la sua permanenza nel mercato unico. Ma a Bratislava sembrano già essersi formate due squadre: una composta dal gruppo Viesegrad (Slovacchia, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca), l’altra dai Paesi dell’Europa del sud. Al centro del contendere la questione migranti con il blocco dei quattro che rifiuta l’accoglienza e gli altri che chiedono più solidarietà. Sul tavolo anche la questione difesa e la flessibilità per i conti pubblici.

Intanto i Paesi dell'Est, quelli appartenenti al cosiddetto "gruppo Visegrad" (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) hanno annunciato che presenteranno un testo di proposte comuni -tra cui la revisione dei trattati- per affrontare i problemi del blocco. "Questo sarà un momento importante nella vita di questi quattro Paesi", ha detto il premier ungherese Viktor Orban, secondo cui la pressione migratoria aumenterà sulla rotta dei Balcani una volta che arriverà l'inverno e le rotte marittime verso l'Italia diventeranno più difficili da percorrere.

Italia e Francia chiederanno maggiori margini di spesa per rilanciare la crescita e l’occupazione. Merkel insiste sui vincoli Ue da rispettare anche con misure di austerità. Sull'immigrazione c’è consenso praticamente solo sul rafforzamento dei confini esterni dell’Ue. L’agenda concordata a Bratislava potrà essere allargata nei successivi summit in programma a Malta e a Bruxelles. Le decisioni importanti, se si arriverà a degli accordi, appaiono di fatto rinviate al summit organizzato a Roma in marzo per commemorare i 60 anni dalla firma dei Trattati comunitari.


Accordo Sykes-Picot e le sfere d’influenza



Ricordare le vicende che hanno infiammato il Medio Oriente dal declino dell’Impero Ottomano fino al secondo dopoguerra è un utile esercizio per una maggiore comprensione degli eventi attuali.

Durante la fase di decadenza dell’Impero Ottomano, le grandi potenze europee avevano cercato di entrare nell’area della Mesopotamia e fino a quando venne aperto il canale di Suez nel 1869, il Medio Oriente veniva considerato come “testa di ponte” tra il Mediterraneo e l’Oceano indiano, per non fare il periplo dell’Africa.

Sykes-Picot, è un accordo - Intesa segreta (1916) fra la Gran Bretagna, rappresentata da Mark Sykes (1879-1918), e la Francia, rappresentata da Francois Georges (1870-1951), con l’assenso della Russia zarista, per decidere le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo ritenuto imminente dell’impero ottomano.

La prima guerra mondiale fu un'operazione geopolitica orchestrata dalla Gran Bretagna per spezzare la cooperazione tra la Germania e la Russia che allora stava prospettando delle trasformazioni economiche portentose.

In questa situazione gli inglesi pianificarono lo smembramento dell'Impero Ottomano che era ormai entrato nell'orbita tedesca, e la creazione di regimi fantoccio, nel contesto di una complessiva riorganizzazione del Medio oriente in sfere d'influenza coloniale. La Francia fu parte di questa spartizione.

Il piano di guerra degli inglesi era abbastanza chiaro: organizzare le forze arabe in modo che dessero vita a quella che doveva apparire una rivolta autonoma contro la Sublime Porta, mandando in frantumi l'Impero Ottomano, e ridisegnare la carta geografica con “stati” arabi completamente nuovi, sapientemente pilotati da Londra. Anche i francesi, che sostennero questo piano, dovevano ottenere le loro marionette secondo la divisione delle influenze che era stata convenuta.

Picot rappresentava il “partito siriano” secondo cui Siria e Palestina, intese come un unico paese, appartenevano alla Francia per motivi storici, economici e culturali. Picot entrò nei negoziati sostenendo che la Francia doveva avere il controllo diretto sulle regioni costiere e il controllo indiretto sul resto della Siria (attraverso un regime fantoccio) come anche sul territorio che si estende ad Est, fino a Mosul.

L'accordo sottoscritto il 16 maggio 1916 parve soddisfare queste richieste: “I governi francese e britannico concordano che la Francia e la Gran Bretagna sono disposte a riconoscere e a proteggere uno stato arabo, o una confederazione di stati arabi, indipendenti sotto la sovranità di un capo arabo. Che i paesi mandatari debbano avere diritti prioritari di impresa e di emissione creditizia degli enti locali e siano le sole a poter fornire consiglieri o funzionari stranieri su richiesta dello stato arabo, o confederazione di stati arabi.

Alla Gran Bretagna fu riconosciuto il controllo, diretto e indiretto, di un’area comprendente la Giordania attuale e l’Iraq meridionale, con l’accesso al mare attraverso il porto di Haifa, mentre la Francia avrebbe avuto la regione siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale, e la Russia Costantinopoli con gli stretti e l’Armenia ottomana. Il resto della Palestina sarebbe stato sotto il controllo internazionale.

Il documento conclude con una nota sulla necessità di informare i governi russo e giapponese, e che occorrerà tener conto delle pretese italiane.

All'inizio il documento fu mantenuto segreto. Sykes si recò a Pietrogrado per informare i russi sull'accordo ed ottenere il loro consenso. Non sapeva che intanto i francesi, in tutta segretezza, avevano negoziato un accordo separato con i russi che riguardava la Palestina. Aristide Briand, il negoziatore, riuscì ad ottenere dai russi il sostegno per un controllo francese della Palestina che invece, secondo l'accordo Sykes-Picot doveva essere retta da un regime internazionale. L'accordo Sykes-Picot rimase segreto fino alla rivoluzione bolscevica del 1917, i documenti furono scoperti in Russia nel gennaio 1918 e resi noti al governo ottomano.

La caduta dell’Impero Ottomano, le aspirazioni dei popoli arabi, perché tutti ambivano all’indipendenza e si manifesta con la tendenza a creare un unico grande stato arabo che finiva per appianare le differenze soprattutto quelle religiose, ma anche economico e sociali, a fronte di spinte panarabe esistevano anche quelle nazionaliste, altro fattore era costituito dagli interessi delle grandi potenze in particolare Francia e Gran Bretagna, che avevano già stabilito patti con l’Impero Ottomano, cioè le cosiddette capitolazioni (come in Cina le concessioni).

Erano questi accordi che permettevano loro di commerciare liberamente in alcune zone, per esempio la Gran Bretagna aveva una sorte di protettorato sul Kuwait già dalla metà dell’800 anche se questo risultava nominalmente sotto la sovranità dell’Impero Ottomano, quindi deteneva interessi diffusi in quest’area, mentre la Francia era più sul lato turco.

Negli accordi Sykes-Picot non mancò di inserirsi anche l’Italia che era uscita da una guerra con la Turchia per la conquista della Libia e per impedire ai turchi di aiutare i libici in questa politica di espansione l’Italia occupò le isole del Dodecanneso temporaneamente, ma scoppiata la guerra ed essendosi alleata con le democrazie occidentali, anche questo settore rientra nella logica della spartizione, solo che l’Italia non ottenne nessun riconoscimento sui territori arabi, li ebbe sulle isole del Dodecanneso e sulla zona turca prospiciente da Adagia fino a Smirne. Dunque la pressione sul Medio Oriente si lega molto alle sorti della Turchia come territorio nazionale ed anche ad un altro fattore e cioè il movimento sionista, che già dalla seconda metà dell’800 propugnava non solo il ritorno degli ebrei nella terra promessa, ma anche la creazione di uno stato nazionale ebraico.

Si può dunque dire che la storia del Medio Oriente è l’intreccio di questi fattori: l’eredità dell’Impero Ottomano, l’interesse delle grandi potenze che pur di conquistare questi territori non mancarono di promettere ai popoli arabi il loro sostegno per il conseguimento dell’indipendenza alla fine della guerra. In realtà però Francia e Gran Bretagna si erano spartite il Medio Oriente e l’unico personaggio che continuava a difendere questa aspirazione fu re Hussein dell’Egiaz, dinastia dell’Arabia Saudita che si poneva come guida per unificare i territori arabi.



venerdì 2 settembre 2016

Presidente Uzbekistan Karimov è morto.Ma è giallo sull’annuncio


Il presidente dell'Uzbekistan, Islam Karimov, è morto. Aveva 78 anni. L'annuncio ufficiale è stato dato dal Parlamento e dal governo della repubblica dell'Asia centrale in un comunicato. La conferma è arrivata in serata dopo ore di notizie contrastanti e smentite governative sulla sorte del leader uzbeko. Al comando dell'ex Repubblica sovietica da 27 anni, Karimov lascia un vuoto di potere difficilmente colmabile. Sabato era stato ricoverato per un ictus. Le esequie si terranno domani nella città natale di Samarcanda. Il presidente russo Putin definisce Karimov "un uomo di Stato della più grande autorità": "una perdita immensa".

 Non si sa chi sia ora al potere, non si sa chi sarà il successore e, soprattutto non si sa se la transizione potrà essere pacifica.

Karimov era stato ricoverato all’inizio della settimana per una emorragia cerebrale. Nei giorni scorsi era già stato dato per deceduto, poi la figlia più piccola, Lola, aveva detto che il padre si stava riprendendo.

Questa sera la notizia ufficiale del governo uzbeko: il settantottenne presidente era deceduto, nonostante le cure prestate anche da medici arrivati appositamente dalla Russia. L’agenzia russa Interfax, che aveva battuto la notizia ha però fatto marcia indietro poco dopo, chiedendo ai suoi abbonati di considerare “nullo” quel lancio. Ma oramai le notizie erano in movimento. In serata alcuni diplomatici stranieri hanno fatto sapere che i funerali dell’anziano leader si terranno già sabato. E se il governo ha informato l’ambasciata del Kirghizistan e quella dell’Afghanistan, vuol dire che la procedura è ormai in movimento.

L’Uzbekistan è un paese relativamente povero, con importanti risorse di gas che però hanno difficoltà a raggiungere i mercati europei. E’ invece importantissimo dal punto di vista strategico ed è sempre stato tenuto sotto stretta osservazione sia dagli americani che dai russi. In particolare lo stato maggiore degli Stati Uniti adopera il territorio uzbeko per le operazioni della coalizione in Afghanistan. Una via alternativa a quella pakistana che, come sappiamo, presenta non pochi problemi. Karimov è sempre stato al potere nel suo paese. Prima dell’indipendenza come segretario del locale partito comunista e subito dopo come presidente praticamente “a vita”.

Ha tenuto il paese in un pugno di ferro, reprimendo qualsiasi ipotesi insurrezionale e anche i movimenti per i diritti civili. Ha sempre temuto la presenza degli estremisti islamici, particolarmente forti in alcune aree dell’Uzbekistan. Combattenti di fede islamica provenienti dall’Uzbekistan sono presenti su tutti gli scacchieri nei quali operano i terroristi dell’Isis.

Karimov è stato molto criticato per il modo in cui ha represso qualsiasi opposizione, ma alla fine nessuno ha mai voluto mettere seriamente in crisi il suo potere. Un Uzbekistan stabile è sempre stata ritenuta la cosa più importante.

E questo vale anche oggi, visto che nel paese non c’è un chiaro successore a Karimov. Potrebbe essere il primo ministro Mirziyoyev oppure il vice premier Azimov o il capo dei servizi di sicurezza Inoyatov. Fuori gioco la figlia Gulnara che anni fa era la assoluta protagonista della vita politica e sociale di Tashkent. Ruppe con il padre, anche per alcuni episodi di corruzione emersi clamorosamente, e dal 2014 è agli arresti domiciliari. Potrebbe emergere la figlia Lola. suo nome richiama i tempi dell’Unione Sovietica, quando l’Uzbekistan era una repubblica socialista e lui, Islam Karimov, nato a Samarcanda nel 1938, faceva parte di quello che sarebbe stato l’ultimo Politbjuro del Pcus guidato da Mikhail Gorbaciov. All’inizio anni Novanta del secolo scorso, vigilia del disfacimento del blocco socialista, l’Uzbekistan iniziava a rivendicare un’altra identità oltre quella comunista, la fede in Allah: Karimov la tollerò ma già nel 1996 proclamava in parlamento «gli islamisti devono essere uccisi con un colpo alla testa». In questi venticinque anni il mondo è cambiato ma come Nursultan Nazarbaev in Kazakhstan - anche lui sopravvissuto alla Storia - Karimov è rimasto al potere.

Il suo nome richiama i tempi dell’Unione Sovietica, quando l’Uzbekistan era una repubblica socialista e lui, Islam Karimov, nato a Samarcanda nel 1938, faceva parte di quello che sarebbe stato l’ultimo Politbjuro del Pcus guidato da Mikhail Gorbaciov. All’inizio anni Novanta del secolo scorso, vigilia del disfacimento del blocco socialista, l’Uzbekistan iniziava a rivendicare un’altra identità oltre quella comunista, la fede in Allah: Karimov la tollerò ma già nel 1996 proclamava in parlamento «gli islamisti devono essere uccisi con un colpo alla testa». In questi venticinque anni il mondo è cambiato ma come Nursultan Nazarbaev in Kazakhstan - anche lui sopravvissuto alla Storia - Karimov è rimasto al potere.

Venticinque anni in cui questa repubblica dell’Asia centrale è rimasta un regime autoritario, un paese a maggioranza musulamana che ha rafforzato la sua identità nazionale e si è sempre più isolato - soprattutto dopo il massacro di civili nella città di Andizhan nel 2005. Un regime illiberale il cui presidente sempre rieletto con più dell’80% dei consensi per decenni ha combattuto i movimenti islamisti. E oggi è il primo ministro turco ad annunciare la morte di Karimov mentre il portavoce del Cremlino dice di non avere notizie ufficiali. Quasi a ridimensionare l’iniziativa del governo a Ankara, da Mosca hanno subito commentato «non riteniamo possibile affidarci a nessun'altra fonte se non alla informazioni ufficiali provenienti da Tashkent» ma poi l’agenzia di stampa russa Interfax ha confermato la morte del presidente citando il governo uzbeko.

La notizia era stata anticipata da fonti diplomatiche: Karimov è morto di infarto a 78 anni e non si sa chi lo sostituirà a guidare il Paese da 32 milioni di abitanti. Il padre padrone della nazione era in ospedale da sabato, le sue condizioni di salute erano peggiorate, non si vedeva in pubblico da metà
agosto.

Come il kazako Nazarbaev, Karimov è da sempre criticato da attivisti per i diritti civili perché ha guidato l’Uzbekistan con mano autoritaria: un despota che ha calpestato i diritti umani, un dittatore brutale, è stata l’accusa. In una sorta di storia parallela, nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, Karimov diventava segretario del partito comunista locale e due anni dopo presidente del la neo repubblica, carica che ha mantenuto fino ad adesso mentre il mondo, persino la Russia, cambiava.

In questo tempo l’Uzbekistan ha fatto pochissimi passi verso la democrazia e come altri paesi dell’ex Urss ha visto crescere gruppi islamici radicali. Poco si sa del reale peso del movimento islamico locale ma è certo che nel recente passato la minaccia del terrorismo islamico è stata reale. Uno dei jihadisti dell’Isis che si è fatto esplodere a Istanbul era originario dell’Uzbekistan. Sul sito dell’Ispi, si può trovare il resoconto di Dario Citati, osservatore internazionale alle elezioni politiche 2015 che hanno visto la scontata rielezione di Karimov: «Contrariamente alle opinioni critiche che giudicano la lotta al radicalismo islamico un pretesto per ridurre le libertà civili e politiche- si legge in un passaggio - nell'ambito della letteratura scientifica gli specialisti sono concordi nel ritenere che la minaccia dell'estremismo e del terrorismo è stata assolutamente reale, e che la risposta muscolare di Karimov è risultata decisiva per scongiurare l'avvento di un “califfato” in Uzbekistan».

Il premio nobel Joseph Stiglitz: cosa pensa dell'Euro



Il progetto europeo, per quanto idealista, è sempre stato un impegno dall'alto verso il basso. Ma incoraggiare i tecnocrati a guidare i vari paesi è tutta un’altra questione, che sembra eludere il processo democratico, imponendo politiche che portano ad un contesto di povertà sempre più diffuso.

Mentre i leader europei si nascondono al mondo, la realtà è che gran parte dell’Unione europea è in depressione. La perdita di produzione in Italia dall'inizio della crisi è pari a quella registrata negli anni ’30. Il tasso di disoccupazione giovanile in Grecia ha invece superato ora il 60%, mentre quello della Spagna è oltre il 50%. Con la devastazione del capitale umano, il tessuto sociale europeo si sta lacerando ed il suo futuro è sempre più a rischio.

I dottori dell’economia dicono che il paziente deve lasciare che la malattia faccia il suo corso, mentre i leader politici che suggeriscono il contrario vengono accusati di populismo. La realtà tuttavia è che la cura non sta funzionando e non c’è alcuna speranza che funzioni; o meglio che funzioni senza comportare danni peggiori di quelli causati dalla malattia. E ci vorrà un decennio o più per recuperare le perdite generate da questo processo di austerità.

In breve, non è stato né il populismo né la miopia che ha portato i cittadini a rifiutare le politiche che gli sono state imposte, ma è la modalità errata con cui sono state portate avanti.

Le risorse e i talenti dell’Europa (il suo capitale umano, fisico e naturale) sono gli stessi del periodo precedente alla crisi. Il problema è che le cure imposte stanno portando ad un significativo sottoutilizzo di tali risorse. Qualsiasi sia la natura dei problemi dell’Europa, una risposta che comporti uno spreco di quest’entità non può rappresentare la soluzione.

La diagnosi semplicistica dei mali dell’Europa che sostiene che i paesi ora interessati dalla crisi stessero vivendo al di sopra delle loro possibilità, è evidentemente sbagliata almeno in parte. Prima della crisi, infatti, sia la Spagna che l’Irlanda registravano un surplus fiscale ed un rapporto debito/PIL basso, e se la Grecia fosse stata l’unico problema a livello europeo, l’Europa avrebbe potuto gestirlo facilmente.

Ci sono una serie di politiche alternative in discussione che potrebbero funzionare. L’Europa ha bisogno di un maggiore federalismo fiscale e non solo di un sistema di supervisione centralizzato dei budget nazionali. Ovviamente, l’Europa potrebbe non avere bisogno del sistema usato negli Stati Uniti che prevede un rapporto di due a uno della spesa federale rispetto alla spesa statale, ma necessita in ogni caso di una spesa maggiore a livello europeo invece dell’esiguo budget attuale dell’UE (ridotto ulteriormente dai sostenitori dell’austerità).

E’ poi necessaria un’unione bancaria, ma deve essere una vera unione con un unico sistema di assicurazione dei depositi, delle procedure risolutive ed un sistema di supervisione comune. Inoltre, sarebbero necessari gli Eurobond o uno strumento simile.

I leader europei riconoscono che senza la crescita il peso del debito continuerà a crescere e che le sole politiche di austerità sono una strategia anti-crescita. Ciò nonostante, sono passati diversi anni e non è stata ancora presentata alcuna proposta di una strategia per la crescita sebbene le sue componenti siano già ben note, ovvero delle politiche in grado di gestire gli squilibri interni dell’Europa e l’enorme surplus esterno tedesco che è ormai pari a quello della Cina (e più alto del doppio rispetto al PIL). In termini concreti, ciò implica un aumento degli stipendi in Germania e politiche industriali in grado di promuovere le esportazioni e la produttività nelle economie periferiche dell’Europa.

Quello che non può funzionare, almeno per gran parte dei paesi dell’eurozona, è una politica di svalutazione interna (ovvero una riduzione degli stipendi e dei prezzi) in quanto una simile politica aumenterebbe il peso del debito sui nuclei familiari, le aziende ed il governo (che detiene un debito prevalentemente denominato in euro). E con l’implementazione di una serie di modifiche nei diversi settori a velocità diverse, la deflazione a livello mondiale innescherebbe degli stravolgimenti enormi nell’economia.

Se la svalutazione interna fosse la soluzione, lo standard dell’oro non sarebbe stato un problema durante la Grande Depressione. La svalutazione interna unita alle politiche di austerità e al principio del mercato unico (che favorisce la fuga di capitali e l’emorragia dei sistemi bancari) è una combinazione altamente dannosa.

Il progetto europeo è stato ed è ancora una grande idea politica con un elevato potenziale di promozione della prosperità e della pace. Ma invece di migliorare la solidarietà all'interno dell’Europa, sta seminando i semi della discordia all’interno e tra i vari paesi.

I leader europei continuano a promettere di fare tutto il necessario per salvare l’euro. La promessa del Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, di fare “tutto il necessario” ha garantito un periodo di tregua temporaneo. Ma la Germania si è opposta a qualsiasi politica in grado di fornire una soluzione a lungo termine tanto da far pensare che sia sì disposta a fare tutto tranne quello che è necessario.

Ovviamente i tedeschi hanno dovuto accettare con riluttanza la necessità di un’unione bancaria che comprenda un sistema di assicurazione dei depositi comune. Ma il passo con cui sostengono queste riforme è in discordanza con i mercati, mentre in diversi paesi i sistemi bancari sono già attaccati al respiratore. Quante altre banche dovranno entrare in terapia intensiva prima che l’unione bancaria diventi una realtà?

E’ vero, l’Europa ha bisogno di riforme strutturali come insiste chi sostiene le politiche di austerità. Ma sono le riforme strutturali delle disposizioni istituzionali dell’eurozona e non le riforme all’interno dei singoli paesi che avranno l’impatto maggiore. Se l’Europa non si decide a voler fare queste riforme, dovrà probabilmente lasciar morire l’euro per salvarsi.

L’Unione monetaria ed economica dell’UE è stata concepita come uno strumento per arrivare ad un fine non un fine in sé stesso. L’elettorato europeo sembra aver capito che, con le attuali disposizioni, l’euro sta mettendo a rischio gli stessi scopi per cui è stato in teoria creato. Questa è l’unica e semplice verità che i leader europei non sono ancora riusciti a cogliere.

Euro, Stiglitz: “Doveva portare prosperità, ha fatto l’opposto. Ora abbandonarlo o crearne uno per il Sud Europa”

Il Nobel per l'economia, in un intervento sul Financial Times, auspica l'abbandono della valuta comune che in alcuni Paesi ha prodotto "recessioni peggiori della Grande Depressione" e ora "è diventata un fine di per sé, che mina altri aspetti più fondamentali del progetto europeo perché semina divisione invece che solidarietà"

L’euro è “difettoso” fin dalla nascita. E ora la soluzione per i problemi dell’Europa può essere solo un ”divorzio amichevole”: o la fine della moneta unica tout court o l’istituzione di una valuta più flessibile, differenziata tra un “euro del Nord” forte e uno del Sud Europa più debole. La ricetta arriva dal premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, che in un intervento sul Financial Times pubblicato in occasione dell’uscita del suo nuovo libro L’euro e la sua minaccia al futuro dell’Europa auspica l’abbandono della valuta comune. “Doveva essere un mezzo per raggiungere degli obiettivi”, come la prosperità e la solidarietà europea, spiega Stiglitz, ma “ha fatto l’opposto”, producendo in alcuni Paesi recessioni “peggiori della Grande Depressione“. E ora “è diventata un fine di per sé, che mina altri aspetti più fondamentali del progetto europeo perché semina divisione invece che solidarietà”.

“Alcuni ritengono che i governanti abbiano fatto una serie di errori, come l’eccessiva austerità e le riforme strutturali mal disegnate. In altre parola, non ci sarebbe nulla di sbagliato nell’euro a cui non si possa rimediare mettendo qualcun altro al comando”, argomenta il docente della Columbia University. “Io non sono d’accordo. Ci sono problemi fondamentali nella struttura dell’Eurozona, le regole e le istituzioni che la guidano e la costituiscono. Problemi che possono rivelarsi insormontabili, aprendo la strada alla possibilità di un più complessivo ripensamento della moneta unica, fino al punto di disfarla”. Questo, secondo l’economista, “non rappresenterebbe la fine del progetto europeo, visto che le altre istituzioni resterebbero, così come la libera circolazione delle merci e delle persone”.

Per spiegare quali solo i “difetti” originari che rendono l’euro insostenibile, Stiglitz prende come esempio due Paesi agli antipodi come performance economiche: Grecia e Germania. “L’alternativa ad aggiustare i tassi di cambio nominali è adattare quelli reali, facendo diminuire i prezzi greci rispetto a quelli tedeschi. Ma non ci sono regole che possano forzare un aumento dei prezzi tedeschi e i costi sociali ed economici che deriverebbero dal far diminuire abbastanza quelli greci sono enormi”. Risultato: “In assenza di una grande strategia, la troika delle istituzioni internazionali si è agitata e ha creato regole per il latte fresco o la dimensione delle pagnotte“.

’Europa “deve focalizzarsi su quello che è importante per raggiungere l’obiettivo di una stretta cooperazione economica e politica”, per la quale la valuta unica “non è necessaria né sufficiente”. Di conseguenza “è importante che possa esserci una transizione senza scossoni fuori dall’euro, eventualmente in direzione di un euro flessibile”, diviso appunto tra uno forte che sarebbe in vigore nei Paesi del Nord Europa e uno debole per il Sud. “Il problema più complesso sarebbe gestire la zavorra del debito“. Ma la soluzione, spiega Stiglitz, c’è: “La strada più facile per farlo è rinominare tutti i debiti in euro nel nuovo euro del Sud”.

Troppo profonde le differenze fra le economie dei Paesi dell'Eurozona, troppo diverse nelle capitali europee le convinzioni di politica economica. Per Joseph Stiglitz, economista e premio Nobel, l'euro, come ha scritto nel suo ultimo libro, è ormai una "minaccia per il futuro dell'Europa". 




Assange-Snowden, amici di Mosca



Assange, si è trasformato nella "lavanderia" dei servizi segreti russi? Il New York Times lancia l'accusa diretta a Julian Assange il fondatore e direttore di WikiLeaks e Edward Snowden la talpa dell'NSA gate che “Per convenienza o coincidenza i documenti pubblicati da Wikileaks hanno spesso avvantaggiato la Russia”.

In modo diretto lancia critiche contro l’australiano in esilio all'ambasciata dell’Ecuador  a Londra dal  2012, le cui rivelazioni si sono tradotte in benefici alla Russia a spese dell’occidente. Anche se Mosca non rispecchia l’ideale di trasparenza che Assange predica da anni nella sua lotta per esporre il comportamento ”illegale e immorale” dei governi occidentali, la maggior parte delle rivelazioni di Wikileaks ha risparmiato la Russia, concedendole più benefici che danni.

E gli ultimi documenti pubblicati sul partito democratico americano suscitano dubbi sul rapporto fra Assange e la Russia.”Secondo fonti, fra i funzionari americani c’e’ un crescente consenso sul fatto che non ci siano legami diretti fra Wikileaks e i servizi di intelligence russa”, ma la tempistica e le rivelazioni sembrano indicare la direzione opposta, ha sostenuto il NYT.

L'imponente dossier contro Assange è una requisitoria dettagliata, documentata, dove lo stesso imputato ha la parola: Assange ha concesso un'intervista ai tre reporter del quotidiano statunitense che firmano l'inchiesta, risponde alle loro accuse. Il verdetto finale su di lui però resta una condanna, secondo gli autori del rapporto investigativo.

E' la prima volta che contro il creatore di WikiLeaks scende in campo un grande quotidiano indipendente con un lavoro così sistematico di demolizione del personaggio. Alla fine Assange ne esce come una marionetta manipolata dall'intelligence di Vladimir Putin, disposto a riciclare qualsiasi notizia che gli viene data, senza interrogarsi sui moventi della fonte.

Gli basta che le notizie siano "contro" il suo bersaglio numero uno: gli Stati Uniti. Riservare lo stesso trattamento ad altre potenze non lo interessa, ammette lui, perché "tutti criticano la Russia, è noioso". Nello stesso tipo di accanimento unilaterale rientra anche il gioco che Assange sta facendo nella campagna elettorale americana.

Le rivelazioni di WikiLeaks vanno di pari passo con le incursioni di hacker russi; le vittime sono sempre da una parte sola: il partito democratico, l'Amministrazione Obama, i Clinton. Si direbbe che anche dentro la politica americana Assange ha fatto una scelta di campo. La stessa di Putin, peraltro, le cui affinità con Donald Trump sono emerse più volte alla luce del sole.

L'ampio dossier ricorda l'irruzione di WikiLeaks nella scena mediatica fin dal 2010 con la divulgazione di tante comunicazioni secrete fra vari rami del governo Usa, comprese le ambasciate e il Dipartimento di Stato. Ne emergeva una descrizione "cinica" della diplomazia americana, con lo sfondo le guerre in Afghanistan e in Iraq. Di recente Assange ha fatto sapere che "ha ancora molto da dire" sul volto oscuro dell'imperialismo americano, il suo disprezzo per i diritti umani, l'avversione a quelli come lui che osano sfidare l'autorità costituita.

Ma un bilancio dettagliato di tutte le rivelazioni di WikiLeaks porta a questa conclusione: non usa lo stesso criterio e lo stesso rigore nel mettere a nudo altri imperialismi. Certo non quello russo. Anzi, i metodi di governo usati da Putin (fino all'assassinio degli oppositori) godono di una sorta di immunità, non rientrano nei bersagli di WikiLeaks.

Col passare del tempo le rivelazioni di WikiLeaks sembrano avere come fonte proprio lo spionaggio russo. E' il caso del materiale sottratto di recente nei siti del partito democratico Usa in piena campagna elettorale. Una campagna in cui Trump ha più volte appoggiato Putin, facendogli anche delle aperture di credito sull'annessione della Crimea e l'invasione dell'Ucraina e auspicando un disimpegno americano dalla Nato.

La conclusione del New York Times: "Sia che questo accada per convinzione, per convenienza, o per coincidenza, le rivelazioni di documenti da parte di WikiLeaks e molte dichiarazioni di Assange hanno spesso aiutato la Russia a scapito dell'Occidente".

 La risposta dell'accusato? Assange si difende accusando a sua volta i democratici Usa e la Clinton di "aizzare un'isteria neo-maccartista sulla Russia". Aggiunge che "non esistono prove concrete" che WikiLeaks riceva le informazioni da servizi segreti stranieri. Ma anche se fossero loro la fonte, dice, accetterebbe ben volentieri quel materiale.

 A criticare il New York Times è anche Glenn Greenwald, il giornalista americano che custodisce i file della “talpa”del Datagate Edward Snowden. ”Ironicamente l’organo di stampa più accusato negli anni di aver pubblicato informazioni segrete che aiutano la Russia è il New York Times’‘ twitta Greenwald, citando la formula usata dallo stesso quotidiano. ”Secondo fonti i giornalisti del New York Times non hanno probabilmente alcun legame diretto con l’Isis e Al Qaida, ma la maggior parte di quello che pubblicano li aiuta”.



Usa 2016, Trump torna alle origini: clandestini? Tolleranza zero



All'indomani di un incontro con il presidente messicano Enrique Pena Nieto dai toni sorprendente pacati, il candidato repubblicano alle presidenziali del prossimo 8 novembre è tornato al vecchio stile. Quello che, in buona sostanza, gli ha fatto stravincere le primarie del partito.  "Costruiremo un muro al confine con il Messico e sarà bellissimo".

Pena Nieto è stato invece fortemente critico dell'insistenza di Trump affinché il Messico contribuisca economicamente alla costruzione della muraglia di confine. In un'intervista del marzo scorso, Pena Nieto aveva detto che ''non c’è alcuno scenario'' nell'ambito del quale il Messico potrebbe accettare questo. Nella stessa intervista, il capo dello Stato aveva paragonato il linguaggio di Trump a quello di Adolf Hitler e di Benito Mussolini, aggiungendo che il tycoon aveva ferito i rapporti tra Usa e Messico.

Il candidato repubblicano, nell’atteso discorso a Phoenix, ribadisce la sua linea di «tolleranza zero» dopo le giravolte degli ultimi tempi. E chiama sul palco i genitori di ragazzi e ragazze uccisi per mano di persone senza visto. «Nessuno tra gli 11 milioni di immigrati irregolari presenti su suolo americano è immune dal rimpatrio forzato». Trump sterza a destra e torna alle origini nell’atteso discorso a Phoenix, Arizona, dove ha chiarito la sua linea sull’immigrazione dopo le giravolte degli ultimi tempi. E chi sperava in una svolta moderata del candidato repubblicano si ritrova invece un Trump da «tolleranza zero»: nessuna amnistia, nessuno sconto per gli irregolari, piuttosto la garanzia di un rimpatrio veloce e certo, il controllo dei confini e la costruzione del muro al confine con il Messico.

Il magnate immobiliare ha più volte proposto di espellere le persone che vivono illegalmente negli Stati Uniti e di costruire una muraglia lungo il confine con il Messico, storicamente uno dei più caldi' a livello mondiale sul fronte dell'immigrazione. Ma in alcuni incontri recenti con supporter ispanici, Trump ha fatto intendere che potrebbe aprire al cambiamento del duro approccio avuto sulla questione durante le primarie.

Dopo una tavola rotonda questo mese, il nuovo direttore della sua campagna ha detto che la posizione di Trump sull'espulsione è ''da definire''. Nei giorni successivi, Trump e il suo staff hanno diffuso messaggi contrastanti, con il candidato stesso che un giorno ha detto a chiare note di potersi aprire ad un ''alleggerimento'' della sua posizione, e alcuni giorni dopo ha affermato che la stessa potrebbe divenire ancora più ''dura''.

L‘equazione immigrazione-sicurezza è, secondo Trump, alla base dei problemi della contemporaneità. Da lì arrivano la crisi, la mancanza di lavoro e anche il terrorismo.

«La verità – ha detto – è che il nostro sistema sull'immigrazione è il peggiore al mondo ma nessuno ne parla perché i media lo nascondono». I clandestini tornano a essere i criminali, non solo perché restano illegalmente nel Paese ma anche perché rubano, molestano, uccidono. Per rendere ancora più evidente il pericolo che si cela dietro qualsiasi immigrato irregolare, Donald Trump ha voluto con sé sul palco di Phoenix i genitori di ragazzi e ragazze uccisi per mano di persone senza visto. Ognuno di loro è intervenuto raccontando la vicenda e affermando che con Trump presidente non sarebbe successo.

«C’è una sola priorità in tutto il dibattito sull'immigrazione - ha dichiarato Trump – e riguarda il benessere degli americani». Un benessere che, secondo il candidato, è stato messo in pericolo dalle politiche di apertura delle frontiere di Obama e Clinton. L’unico punto che non è stato confermato ieri sera riguarda la costituzione di un «corpo speciale per il rimpatrio forzato», che pure ha tenuto banco per mesi nelle dichiarazioni del candidato, per stanare tutti i clandestini presenti su suolo americano. Ma di certo, ha detto il tycoon, «non ci sarà amnistia per nessuno» perché «è nostro diritto scegliere gli immigrati che ci amano e che condividono i nostri valori».


Nel mirino non poteva non finire anche la rivale democratica Hillary Clinton che a detta di Trump vorrebbe un aumento del 550% dei rifugiati provenienti dal Messico. "Io, invece, intendo costruire una zona di sicurezza oltre i confini statunitensi e utilizzare il denaro risparmiato per investirlo in America. L'accesso ai più alti incarichi di governo e i favori che ne conseguono non saranno più in vendita. E mail importanti non saranno più cancellate o modificate digitalmente, cose che sono state scoperte solo pochi giorni fa" ha detto Trump riferendosi alle note vicende del mailgate che affligge la campagna elettorale della Clinton.

Il candidato repubblicano ha poi ribadito l'intenzione di costruire un muro di Berlino al confine con il Messico, impenetrabile ma bellissimo, ha assicurato, e porre termine al cosiddetto "catch and release", la cattura e il rilascio successivo di immigrati clandestini che non hanno commesso violenze. Gli espulsi verranno rimandati nei paesi d'origine che saranno obbligati a riprenderseli.



giovedì 1 settembre 2016

Crociera al polo nord dall'Alaska a New York con la Crystal Serenity



Quest'estate la nave da crociera di lusso Crystal Serenity andrà alla conquista del polo Nord percorrendo quel Passaggio a Nord Ovest, collegamento fra l'oceano Atlantico e il Pacifico, aperto all'alba del 1900 dall'esploratore norvegese Roald Amundsen dopo tre anni di navigazione nelle acque gelide del mare Artico, imprigionate tra i ghiacci.

Soltanto nel 1944 una nave lo ripercorse in un anno. Questa estate la Crystal Serenity, lunga all'incirca 250 metri, 13 ponti, che ospita anche un casinò, un cinema-teatro, sei ristoranti e un campo per la pratica del golf, ha progettato di farcela in un mese.

Il viaggio, organizzato dalla Crystal Cruises Llc, con base a Los Angeles, è andato esaurito in tre settimane, con un migliaio di aspiranti passeggeri disposti a pagare 22 mila dollari ciascuno (all'incirca 19.600 euro), extra esclusi, fra i quali il giro in elicottero lungo la rotta (4 mila dollari, 3.500 euro) o l'escursione di tre giorni alla scoperta del ghiacciaio Eqip Sermia in Groenlandia (6 mila dollari, 5,3 mila euro), nave da 250 metri con una capienza di 1.100 passeggeri, è pronta a partire da Anchorage (Alaska) il 16 agosto, per affrontare, in un mese, la rotta che l’esploratore norvegese Roald Amundsen completò  fra il 1903 e il 1906.

Da quel viaggio di Amundsen, sono state circa 200 le navi hanno percorso quelle 900 miglia, ma la maggior parte di loro l'hanno fatto soltanto nell'ultimo decennio dal momento che il riscaldamento degli oceani ha ridotto la calotta di ghiaccio per un tempo più lungo durante i mesi estivi. Lo scorso agosto, la superficie di ghiaccio intorno al circolo polare artico è stata del 30% meno rispetto a quella di 25 anni fa, secondo i dati forniti dalla stazione nazionale del Colorado.

Verso la metà degli anni 1990, una media di quattro navi effettuavano questa crociera ogni anno; 13 nel 2013, e l'estate scorsa sono state circa 20. La maggior parte del traffico è costituito da piccole navi cargo per servizi alle comunità lungo il percorso. Piccole imbarcazioni da diporto fanno piccole gite. Nell'agosto 2012, una nave con 481 passeggeri, tra i quali molti residenti di questi luoghi, è transitata nel mese di agosto.

L' arrivo a New York previsto per 32 giorni dopo, il programma della crociera prevede soste per ammirare gli Inuit, le balene, i trichechi, le slitte dei cani e gli orsi polari, ad un prezzo esorbitante: per passare nella zona dove finì in tragedia l’avventura del Titanic si pagheranno dai 22.000 ai 120.000$.

Peraltro, tra le condizioni imposte dalla compagnia americana Crystal Cruises c’è l’acquisto di un’assicurazione individuale da 50.000$, nel caso ci fosse bisogno di un elicottero.

Nonostante ciò, l’edizione 2016 ha registrato il tutto esaurito in sole tre settimane, e ci si aspetta un bis nel 2017.

Un percorso non completamente esente dal pericolo, quindi, ma sulla Crystal Serenity pare abbiano pensato a tutto: una nave rompighiaccio di scorta, due elicotteri in avanscoperta per scegliere le rotte più sicure, radar e sonar di ultima generazione, guide artiche sempre sul ponte e una squadra di sub a bordo, sono le misure di sicurezza per vivere questa straordinaria avventura.

Piu' di un secolo dopo, il "Titanic" ci riprova, sfidando le acque dei mari del Nord, sarà la prima grande imbarcazione ad affrontare il delicato passaggio a Nord Ovest, che il progressivo scioglimento dei ghiacciai (nel 2015 la calotta polare ha raggiunto il record di riduzione invernale) ha reso transitabile soprattutto in estate, quando la copertura glaciale raggiunge i minimi stagionali. Se finora a seguire la rotta polare che unisce l’Atlantico al Pacifico erano solo navi di piccole dimensioni, l’avventura della Crystal segnerà l’inizio di una nuova stagione. Non senza preoccupazioni: con l’intensificarsi del traffico marittimo nell’area, la guardia costiera canadese e quella statunitense sono già al lavoro per affrontare incidenti e brutte sorprese che le acque capricciose della Groenlandia potrebbero riservare. Il 13 aprile gli ufficiali saranno impegnati nella simulazione di una grande operazione di salvataggio in situazioni complesse, come il naufragio a mille chilometri dal porto più vicino di una nave con molti passeggeri a bordo. 1700, per l’esattezza, tanti quanti ne trasporterà la Crystal, equipaggio compreso.

“Se qualcosa andasse storto, sarebbe un disastro”, ha riferito al Guardian Richard Beneville, sindaco di Nome, in Alaska, una delle cittadine comprese nell’itinerario turistico. “La maggior parte delle navi che passa di qui trasporta al massimo 150, 200 persone. Questa volta sarà molto diverso”. In caso di emergenza, infatti, i soccorsi potrebbero essere ardui non solo in mare, ma anche sulla terraferma. Nei piccoli insediamenti sulla costa lambiti dalle acque del grande Nord, la ricezione telefonica è spesso irregolare (ai passeggeri sarà vietato l’utilizzo dei telefoni cellulari per non intasare le reti degli Inuit), mancano le strade di comunicazione e i paesi che la Crystal toccherà durante la sua traversata non sono al momento preparati ad accogliere un gran numero di persone: l’ospedale di Nome, uno dei centri più popolosi della zona con tremila abitanti, conta in totale diciotto posti letto appena.

 Comunque, l’idea di attrezzarsi in vista del turismo è già in cantiere, tanto più che questo villaggio affacciato sul mare di Bering mira a diventare un punto strategico del Nord del Paese: se nel 1990 gli attracchi per le imbarcazioni erano 35, nell’ultimo anno hanno superato le 730 unità. I numeri, per ora, gli danno ragione. Resi possibili dall’assottigliamento dei ghiacci dovuto al riscaldamento climatico, nel braccio di mare compreso tra Stati Uniti e Russia la guardia costiera ha registrato solo nel 2015 ben 540 attraversamenti, il doppio rispetto al 2008, da parte di navi cargo coreane, petroliere russe, chiatte e piccole crociere. E con il loro arrivo sono cresciuti anche i timori delle popolazioni locali, preoccupate non solo per la riduzione del ghiaccio (sempre più fragile e meno sicuro come piattaforma per la pesca), ma anche dai danni ambientali legati allo sversamento in mare di olii, combustibili e materiali inquinanti. Nel 2012 i cacciatori dell’isola di San Lorenzo, nei pressi dello stretto di Bering, trovarono foche e uccelli marini con le piume sporche d’olio; un anno prima i biologi avevano notato una misteriosa malattia che decimava le foche, mentre tra i volatili si diffondeva il colera aviario.

Proprio per garantire il rispetto dell’ambiente e della fauna locale, oltre alla sicurezza dei passeggeri, la Crystal accoglierà a bordo un’équipe di ricercatori, biologi, esploratori con già diverse spedizioni nell’Artico alle spalle e piloti dei ghiacciai. Ad accompagnare la più grande e lussuosa nave da crociera, anche un’imbarcazione rompighiaccio e due elicotteri. Scorteranno il lussuoso transatlantico da Seward, nel golfo dell’Alaska, fino a New York attraverso il mare di Beaufort e i fiordi di Baffin Island, seguendo la rotta che Roald Amundsen tracciò a inizio Novecento insieme alla sua ciurma.