mercoledì 28 dicembre 2016

Ue asse Francia e Germania. Europa a due



E’ ancora utile all’Europa che il cancelliere tedesco e il presidente francese appaiano insieme di fronte alla stampa, dopo un vertice dell’Unione, per confermare l’esistenza fra i due Paesi di un rapporto speciale? Le prime riserve sulla opportunità dell’asse (come venne subito definito) risalgono alle prime reazioni provocate dal trattato che Charles De Gaulle e Konrad Adenauer firmarono all’Eliseo il 22 gennaio 1963. Tornato al potere nel 1958, il generale aveva accettato i Trattati di Roma per la creazione del Mercato Comune, firmati in Campidoglio un anno prima; ma non aveva mai nascosto il suo scetticismo per il progetto europeista e, contemporaneamente, la sua diffidenza per le potenze anglosassoni e l’Alleanza atlantica.

Quando il trattato dell’Eliseo arrivò al Bundestag per la ratifica, Adenauer dovette constatare l’esistenza di molte riserve e le superò soltanto con un preambolo in cui si assicurava il Paese che l’accordo con la Francia gollista non avrebbe reso la Germania meno europeista e meno atlantica. Il preambolo non piacque al generale, ma fu accettato a Parigi e il trattato divenne da quel momento il simbolo di una storica riconciliazione fra due Paesi che si erano duramente combattuti nel 1870 e nel 1914. Da quel momento anche i partner europei di Francia e Germania dovettero rassegnarsi. L’asse era una implicita offesa alla parità dei membri della Comunità, ma archiviava un dissidio che aveva insanguinato più volte la storia dell’Europa.

La storica fotografia di François Mitterrand e Helmut Kohl, la mano nella mano di fronte al grande ossario di Douaumont, il 22 settembre 1984, per una celebrazione dedicata alla battaglia di Verdun, dimostrava che l’asse era ancora, per molti aspetti, un valore europeo. Ma anche le grandi memorie sono soggette al logorio del tempo. I rapporti di forza tra i due Paesi sono cambiati. Per molto tempo la inferiorità economica della Francia è stata compensata dalla sua superiorità militare. Ma la fine della Guerra fredda ha ridotto il valore della force de frappe (l’arma nucleare francese) mentre l’unificazione tedesca lasciava sul piatto della bilancia una Germania molto più pesante sul piano economico, demografico e geopolitico. Eppure esiste fra i due Paesi una convenienza reciproca a cui nessuno intende rinunciare. La Germania non ha aiutato la lira, durante la crisi monetaria del settembre 1992, all’epoca del governo Amato; ma ha salvato il franco francese. La Germania ha spalleggiato la Francia nel novembre 2003 quando i due Paesi, grazie alla presidenza italiana, poterono sottrarsi alle misure disciplinari per la violazione delle regole sul deficit. Francia e Germania hanno fatto fronte comune contro la guerra degli Stati Uniti all’Iraq nello stesso anno.

Ma ciò che maggiormente garantisce la sopravvivenza dell’asse è probabilmente una sorta di reciproca prudenza. Il rischio di una guerra franco-tedesca non esiste più, ma ciascuno dei due Paesi ha comunque interesse a tenere d’occhio il partner, a seguirne le evoluzioni politiche, a spegnere subito le divergenze che inevitabilmente sorgono fra due grandi Paesi anche quando sono amici e alleati. Nell’ambito della Unione europea, poi, i due Paesi devono sempre accordarsi per evitare di muoversi in direzioni diverse e pregiudicare così la credibilità dell’asse. Finché il quadro politico non cambierà radicalmente, vi sarà sempre una riunione franco tedesca prima di ogni vertice e una conferenza stampa franco-tedesca alla fine dell’incontro. Quanto alla posizione assunta da Matteo Renzi a Bratislava, non è difficile comprendere le ragioni del suo disappunto per un vertice piuttosto modesto e il suo desiderio di non lasciare agli euro-scettici del suo Paese il diritto di criticare l’Europa. Ma se avesse voluto contribuire al declino dell’asse franco-tedesco avrebbe dovuto, in linea con le iniziative prese nel corso dell’estate, partecipare alla conferenza stampa di Merkel e Hollande.

I Paesi che contano, Francia e Germania, hanno già redatto un programma di riforma dell'Europa.

Berlino e Parigi, in qualche modo, vogliono sfruttare l'ondata britannica per aumentare "l'integrazone dei Paesi Ue" e, soprattutto, le prerogative delle istituzioni europee. Il piano è stato firmato dai ministri degli esteri dei due Paesi (il tedesco Frank-Walter Steinmeier e il francese Jean Marc Ayrault) e presentato un po' in sordina al vertice straordinario dei ministri europei a Visegrad di due giorni fa. Un documento che da più parti, soprattutto in Polonia, è stato letto come "il progetto per un Superstato Europeo" che toglierà ulteriore sovranità agli Stati nazionali (leggi il documento).
"Il nostro obiettivo - scrivono Francia e Germania - è quello di muoverci ulteriormente verso l'Unione politica in Europa e invitare gli altri europei a unirsi a noi in questo sforzo". Bene. Bello. Interessante. "Più Europa", insomma, sarebbe la risposta agli euroscettici che stanno spopalando nei Paesi membri e che, invece, chiedono "meno Europa". Ma vediamo in cosa consiste questo rivoluzionario documento.

Sicurezza Europea
Per far fronte agli attentati terroristici, l'obiettivo è quello di "considerare la nostra sicurezza come una e indivisibile". Come realizzarlo? Semplice: "Germania e la Francia - si legge nel documento - propongono un 'European Security Compact' che comprenda tutti gli aspetti della sicurezza e della difesa". In particolare, "l'UE dovrebbe essere in grado di pianificare e condurre operazioni civili e militari in modo più efficace, con il supporto di una catena civile-militare permanente di comando". Poi Bruxelles "dovrebbe essere in grado di contare su forze ad alta prontezza e di fornire un finanziamento comune per le sue operazioni" e "se necessario, gli Stati dovrebbero considerare la creazione di forze navali permanenti". In poche parole, un esercito europeo che scavalchi quelli nazionali.

Non solo. Secondo Berlino e Parigi, i Paesi membri dovrebbero sostenere Bruxelles per creare una "piattaforma europea per la cooperazione di intelligence" per migliorare la sicurezza interna. Anche qui, gli Stati dovrebbero favorire "lo scambio di dati", la "pianificazone di emergenze europee per grandi scenari di crisi" e la creazione di un sistema di risposta europea. Oltre che la "creazione di un corpo europeo di protezione civile".

Infine, nel lungo termine, Francia e Germania puntano a creare un ufficio giudiziario europeo, con un Procuratore sovranazionale per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Cosa che prevede, ovviamente, una sorta di armonizzazione dei sistemi penali dei Paesi membri.
Per ottenere tutto ciò, l'idea è quella di far riunire periodicamente un "Consiglio di sicurezza europeo" che discuta della difesa comunitaria.

Immigrazione
Anche sul tema migranti, Francia e Germania puntano a togliere potere ai governi nazionali. Non solo con la difesa delle frontiere esterne, più volte sbandierata ma mai realizzata, ad opera delle istituzioni europee. La proposta è quella di rendere Frontex autonoma dagli Stati con personale proprio. E il secondo punto riguarda la creazione di un ESTA europeo per concedere i visti agli immigrati diretti in Europa.

L'Euro per salvare l'Ue
Non manca, ovviamente, un riferimento all'unione economica. Per Berlino e Parigi, solo l'Euro può continuare a far da collante dell'Ue. E così propongono di "rafforzare la convergenza economica" per "salvaguardare l'irreversibilità" della moneta unica. In che modo? "Migliorando la responsabilità democratica", ovvero facendo in modo che i cittadini in un modo o nell'altro si convincano che l'Euro è una buona cosa. Inoltre, si prevede di ampliare il "Fondo Europeo per gli investimenti strategici" insieme alla creazione di un'autorità di vigilanza comune.

Un modo, insomma, per spingere gli Stati a trasferire all'Ue i poteri sugli eserciti, sui sistemi economici e sui controlli delle frontiere. Come teme la Polonia.

lunedì 26 dicembre 2016

Da David Bowie a George Michael: il 2016 porta via le stelle del mondo della musica



Il mondo dello spettacolo è sconcertato dalla morte di George Michael a 53 anni. Tante le star che hanno pubblicato sui social network — Twitter e Instagram — un pensiero per il cantante, come Elton John che su Instagram scrive di essere sotto choc per la triste notizia. «Ho perso un caro amico - il più gentile, l’anima più generosa e un artista geniale. Il mio cuore va alla sua famiglia, gli amici e tutti i suoi fan»

«Last Christmas» è una delle canzoni più famose che ha cantato con il suo gruppo, gli Wham. E proprio la sera di Natale, è morto George Michael. Aveva 53 anni e si trovava «serenamente a casa sua», ha raccontato il suo agente, che ha dato la notizia. Il suo vero nome era Georgios Kyriacos Panayiotou ed era nato nel nord di Londra. Nella sua carriera ha venduto oltre 100 milioni di copie, una carriera lunga, durata quasi quattro decenni.

Divenne celebre nel corso degli Anni 80 quando fondò - era il 1981 - con Andrew Ridgeley gli Wham.

Michael, dopo i successi iniziali, aveva avuto lunghi periodi in cui si era eclissato, per poi tornare sul palco. Uno dei motivi dei suoi alti e bassi era legato ai problemi con la droga, che lo portarono anche in tribunale e in carcere. Vanno ricordate le innumerevoli prese di posizione contro la politica di Margareth Thatcher ma anche contro quella di Tony Blair sull’Iraq, le molte battaglie in difesa dei diritti dei gay e anche la partecipazione al Live Aid e al Mandela Day. George Michael è solo l’ultima star scomparsa quest’anno. Prima di lui, grandi come Prince, Leonard Cohen e David Bowie. In un 2016 che può essere definito l’anno che ha portato via le stelle del mondo della musica.

La morte di George Michael è arrivata al termine di un autentico anno nero per la musica, il 2016, che si è portato via tante stelle che hanno fatto la storia della musica:

David Bowie, 10 GENNAIO, il "Duca Bianco" del Rock si è spento per un tumore all'eta' di 69 anni appena, due giorni dopo la pubblicazione dell'album "Blackstar"Il 10 gennaio, all’età di 69 anni, è morto David Bowie, dopo una lotta contro il cancro al pancreas durata 18 mesi. Una carriera durata 50 anni. Tra i suoi numerosi successi, amati, ascoltati e cantati in tutto il mondo, ricordiamo Life on Mars?, Heroes, Space Oddity e Under Pressure. L’ultimo album, Blackstar, considerato ora una sorta di ‘testamento’, era uscito poco tempo prima della scomparsa.

Glenn Frey, 18 GENNAIO il chitarrista e cofondatore degli Eagles insieme a Don Henleydi "Hotel California" è morto all'età di 67 anni per le complicazioni di un'artrite reumatica. Il ribelle del rock ‘n’ roll Glen Frey, Per gli Eagles scrisse e cantò tra i maggiori successi, tra cui «Take It Easy», «Tequila Sunrise», «Lyin’ Eyes» e «Heartache Tonight». È stato anche coautore di «Hotel California», canzone più nota del gruppo californiano.

Nato a Detroit nel 1948, dopo lo scioglimento degli Eagles, negli anni Ottanta Frey intraprese la carriera da solista. Fu autore di alcuni brani, inseriti nel telefilm Miami Vice, al quale peraltro il musicista partecipò in qualità di guest star. Come attore, ebbe una parte anche nel film Jerry Maguire con Tom Cruise A partire dal 1994 ha partecipato a numerosi progetti di riunificazione degli Eagles.

Paul Kantner, 28 GENNAIO, addio al cofondatore dei Jefferson Airplane, banda pioneristica del rock psichedelico, aveva 74 anni. Il chitarrista si è spento a San Francisco per un attacco cardiaco. Fondò i Jefferson Airplane insieme con Marty Balin e Grace Slick nel 1965, e ne divenne subito il leader portando la band al successo con brani come «Somebody to love» o «White Rabbit». Il gruppo si esibì anche a Woodstock nel 1969. Soffriva di cuore da diversi anni e aveva avuto un infarto a marzo del 2015. Esponente di rilievo della campagna per la legalizzazione della marijuana, Kantner sosteneva che l’uso di Lsd e delle droghe psichedeliche in generale aiutava l’espansione della mente e la crescita spirituale. Odiava invece la cocaina. Dopo aver trascorso con la prima band gli anni ‘60 e ‘70, fonda un secondo gruppo, i Jefferson Starship.

Maurice White, 4 FEBBRAIO, il fondatore degli Earth, Wind & Fire, band che ruppe il tabù razziale nella musica pop, si è spento all'eta di 74 anni. Aveva il morbo di Parkinson. Maurice White, fondatore e leader del gruppo degli Earth, Wind & Fire, è morto il 3 febbraio. Nel corso della carriera ha però pubblicato anche un album da solista, che ha preso il suo nome. Negli Anni ’90 è stato colpito dal morbo di Parkinson e ha deciso, fin da subito, di smettere di esibirsi dal vivo. Restò comunque attivo, soprattutto nell’ambito della produzione, fino alla morte avvenuta all’età di 74 anni.

Vanity, 15 FEBBRAIO è scomparsa, a 57 anni, Vanity, nota per aver militato nel trio musicale femminile Vanity 6. Fu scoperta da Prince, con cui ebbe anche una relazione. A causa di una vita piena di eccessi, alla fine degli Anni ’90 ha lasciato il mondo della musica per dedicarsi alla religione. Malata da tempo di peritonite sclerosante incapsulante, patologia causata dalla dialisi, è morta a causa di un’insufficienza renale.

Keith Emerson, 11 MARZO, tastierista e fondatore degli Emerson Lake & Palmer si e' suicidato nella sua casa di Los Angeles l'11 marzo, all'eta di 71 anni. Keith Emerson, tastierista e membro del gruppo rock progressivo Emerson Lake & Palmer, è morto a 72 anni. Depresso a causa di una malattia alla mano destra che gli rendeva quasi impossibile suonare il suo strumento, si è ucciso con un colpo di pistola alla testa la notte tra il 10 e l’11 marzo.

Phife Dawg, 22 MARZO, se ne è andato per il diabete all'età di 45 anni il rapper americano che aveva dato vita alla band A Tribe Called Quest.Amico d’infanzia di Q-Tip, Phife Dawg costituiva il fulcro degli A Tribe Called Quest assieme a Jarobi e Ali Shaheed Muhammad nel 1985. Negli anni successivi il gruppo diventò famoso per i suoi testi impegnati e per gli inserti jazz. Tra le hit di una lunga carriera ricordiamo Bonita Applebum (di cui esiste un recente remix di Pharrell) e la più nota Can I Kick It, con il campionamento di Walk on the Wild Side, iconico brano di Lou Reed.

Merle Haggard, 6 APRILE, il leggendario cantante country è morto nel giorno del suo 79mo compleanno, nella sua casa nella San Joaquin Valley in California, lasciando un vuoto nel mondo della musica country. Nella sua lunga carriera e tra i suoi brani, «Okie from Muskogee» e «Workin’ Man Blues»,  aveva collezionato tre Grammy e 38 singoli al numero uno della classifica americana, uno dei più famosi è Okie From Muskogee che nel 1969 si inserì nella discussione sulla guerra in Vietnam.

Prince, 21 APRILE, l'icona del Pop che ha segnato un'epoca con canzoni come "Purple Rain" e con la sua trasgressività si è spenta all'età di 57 anni per un'overdose di farmaci.  il «folletto di Minneapolis». Genio della musica, avrebbe compiuto 57 anni a giugno. Una delle icone nere del pop anni’80, deceduto nella sua casa di Minneapolis. Il cantante era stato ricoverato d’urgenza il 15 aprile scorso, costringendo il suo jet privato a un atterraggio d’emergenza in Illinois. Ma era apparso ad un concerto il giorno successivo per assicurare i fan sulle sue condizioni di salute. Cordoglio da tutto il mondo. Obama: «Abbiamo perso un’icona della creatività, uno dei più preziosi e prolifici musicisti del nostro tempo».

Leonard Cohen, 7 NOVEMBRE, il poeta e cantante canadese è morto a 82 anni poco dopo la pubblicazione dell'ultimo album, "You Want It Darker". Sue alcune canzoni celeberrime, tra cui «Hallelujah», brano di culto e oggetto di numerosissime cover. Ma il suo capolavoro resta probabilmente la ballata «Suzanne». L’annuncio della scomparsa su Facebook. Un mese prima, stava presentando il suo ultimo disco, «You want it darker».

Sharon Jones, 18 NOVEMBRE, l'ambasciatrice del soul e funk, ribattezzata la "James Brown femminile", se ne è andata per un tumore all'età di 60 anni. La prima diagnosi del cancro arriva nel 2013, arriverano due operazioni e ricoveri per tentare fino all'ultimo di far regredire la malattia; nonostante questo, Sharon Jones non ha lasciato mai la musica, aggrappandosi a essa come si fa con la vita: di più, ha usato la stessa potenza che distillava sul palco, quando portava dal vivo il suo sanguigno mix di soul funk, per contrastare il male che l'aveva colpita. Aveva addirittura deciso di farsi seguire dalle telecamere nel momento più difficile della sua carriera, per fermare sulla pellicola quella lotta: così nel 2015 esce il documentario Miss Sharon Jones!, diretto dal premio Oscar Barbara Kopple, resoconto intimo e gioioso dello spirito di una donna piena di energia, prima ancora che artista, ribattezzata non a caso la 'James Brown al femminile'.

Greg Lake, 7 DICEMBRE, nove mesi dopo Keith Emerson si è spento per un tumore anche l'altro co-fondatore, Greg Lake. Aveva 69 anni. Famoso soprattutto tra gli appassionati del progressive, il bassista Gregory Staurt Lake — noto come Greg Lake — era uno dei membri della band protagoniste degli anni ‘70, gli Emerson, Lake & Palmer. Il 7 dicembre è morto a 69 anni a causa di un tumore. Inglese, aveva collaborato a due album dei King Crimson, prima di unirsi al chitarrista Emerson — scomparso a marzo — per fondare un duo. Poi trasformatori in trio con l’arrivo di Carl Palmer nel 1970. Negli ultimi anni aveva collaborato con gli Who.

Rick Parfitt, 24 DICEMBRE il chitarrista degli Status Quo è deceduto all'età di 68 anni per una grave infezione. Rick Parfitt, storico chitarrista degli Status Quo, è morto la vigilia di Natale all’età di 68 anni, per una grave infezione. Gli Status Quo, fondati nel 1962, sono considerati uno delle principali rock band britanniche, e in cinque decenni anno venduto oltre 120 milioni di copie. Il compositore era stato ricoverato giovedì in un ospedale di Marbella, in Spagna, per le complicazioni di una lesione preesistente alla spalla. «Mancherà molto a famiglia, amici e compagni di band, come pure ai tecnici e ai fan di tutto il mondo che ha conquistato in 50 anni grazie all’enorme successo degli Status Quo», si legge nella nota del suo rappresentante. A ottobre Parfitt aveva annunciato l’intenzione di abbandonare, su consiglio medico, le esibizioni dal vivo con il gruppo, dopo avere subìto un attacco di cuore in estate. Gli Statu Quo raggiungono il primo successo nel 1968, con «Pictures of Matchstick Men».

GEORGE MICHAEL, 25 DICEMBRE un'insufficienza cardiaca lo ha ucciso nel suo letto a 53 anni.


sabato 24 dicembre 2016

L'Onu vota contro le colonie di Israele



Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite l’America non ha usato il suo diritto di veto e non si è allineata a favore di Israele in una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. In questo caso la risoluzione era di condanna per gli insediamenti nei territori occupati, insediamenti definiti “illegali” e controproducenti per il negoziato di pace che si propone di creare due stati. Gli Stati Uniti si sono astenuti consentendo così il passaggio di fatto della risoluzione, la prima in 36 anni contro gli insediamenti israeliani, un esito senza precedenti sotto molti punti di vista.

L’ira di Israele - che aveva già definito «vergognosa» l’attesa mossa di Obama alla vigilia del voto - non si è fatta attendere, con l’ambasciatore presso il Palazzo di Vetro che ha parlato di «risoluzione scandalosa». Mentre l’annuncio dell’ astensione Usa da parte dell’ambasciatrice americana Samantha Power è stata accolta nella sala dei Quindici con un’ovazione: «Gli Stati Uniti - ha detto - non possono sostenere allo stesso tempo gli insediamenti israeliani e la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese».

Per Obama si tratta di una piccola rivincita dopo aver fallito nel favorire i negoziati tra israeliani e palestinesi, fin dal 2009 la sua priorità numero uno in politica estera. Con la decisione di dare carta bianca al segretario di stato John Kerry la cui missione era di portare a casa una storica pace. Così non è stato, anche a causa dei gelidi rapporti tra Obama e Netanyahu che hanno fatto precipitare le relazioni tra Usa e Israele ai minimi di sempre.

A distanza di poche ore sono stati altri quattro Paesi a ripresentare il testo (Malesia, Nuova Zelanda, Senegal e Venezuela). A quel punto i giochi erano fatti. La risoluzione è passata con 14 voti e l’astensione degli Usa. E dire che nel 2011 l’amministrazione Obama era invece ricorsa al veto contro una simile condanna della politica israeliana sulle colonie. Mentre ha posto il veto in Consiglio di sicurezza altre 40 volte su risoluzioni critiche verso Israele. L’unica astensione Usa che si ricordi risale all'amministrazione Bush nel 2009, quando gli Usa non posero il veto sui un testo sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.

Dopo il voto, Donald Trump ha twittato: «Per quel che riguarda l’Onu, le cose andranno diversamente dopo il 20 gennaio».

«Israele respinge la risoluzione dell’Onu», definisce il voto del Consiglio di Sicurezza «vergognoso» e annuncia che non la rispetterà. Lo ha detto l’ufficio del premier Benyamin Netanyahu, citato dai media locali. Israele «respinge la risoluzione dell'Onu» sulle colonie e fa sapere che non la rispetterà. La vicenda comincia quando l'Egitto, membro a rotazione del consiglio di Sicurezza dell'ONU decide di presentare una mozione di condanna di Israele per nuovi insediamenti in particolare nei vecchi territori della Cisgiordania (West Bank). Negli anni Israele, contravvenendo secondo i paesi arabi ad accordi che facevano parte dei protocolli del processo di pace che garantivano lo status quo. «L’amministrazione Obama non solo ha fallito nel proteggere Israele dall'ossessione dell’Onu, ma ha collaborato con l’Onu alle sue spalle. Israele non vede l’ora di lavorare con il presidente Trump per arginare gli effetti di questa risoluzione assurda», conclude l’ufficio del premier.

Diametralmente opposte le parole del portavoce di Abu Mazen, secondo cui il voto del Consiglio di Sicurezza contro le colonie in Cisgiordania «rappresenta un grande schiaffo alla politica israeliana ed è un’unanime condanna internazionale delle colonie», oltre ad essere «un forte sostegno allo soluzione a due Stati».

Il Presidente Barack Obama frustrato dallo stato dei negoziati di pace, era determinato a chiudere la sua amministrazione con un messaggio negativo molto forte contro l'attuale governo israeliano e contro Israele anche se questo capita a meno di un mese dalla sua uscita dalla scena politica. C’è stata una spinta statunitense a riprendere in mano la risoluzione adottata a quel punto da altri membri a rotazione del Consiglio di Sicurezza, tra cui , la Nuova Zelanda, il Senegal, la Malesia e il Venezuela. Si è così verificata una improbabile alleanza diplomatica fra Washington e Caracas, il Presidente Maduro infatti ha ereditato il suo incarico da Chavez, nemico di sempre degli Stati Uniti e di Obama in particolare. Ma per la Casa Bianca era troppo importante lasciare questo messaggio forte come eredità dell'amministrazione Obama e bloccare allo stesso tempo il tentativo irrituale di un presidente eletto di interferire in una scelta politica dell'amministrazione ancora in carica.

Netanyahu ha richiamato per consultazioni gli ambasciatori in Senegal e Nuova Zelanda, due tra i paesi promotori della risoluzione Onu.

Il voto del Consiglio di Sicurezza contro le colonie in Cisgiordania "rappresenta un grande schiaffo alla politica israeliana ed è una unanime condanna internazionale delle colonie", oltre ad essere "un forte sostegno allo soluzione a due Stati". Lo ha detto il portavoce del presidente dell'autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen, Nabil Abu Rudeineh, all'agenzia di stampa ufficiale Wafa.

È stato a quel punto, dopo la profonda irritazione americana e di altri paesi per l'intervento irrituale di Trump, che si è trovato il modo di ripresentarla. Alcuni senatori repubblicani a Washington, contrari all'azione di Obama, hanno anticipato che taglieranno fondi di cooperazione ai paesi che hanno ripresentato la risoluzione.


venerdì 9 dicembre 2016

Politica: anno 2016 la caduta dei leader in Europa



Dal 25 aprile 2016, data del Vertice a 5 in Germania, soltanto Angela Merkel è stata riconfermata alla guida del suo Paese. Complici referendum ed elezioni politiche, gli altri leader hanno abbandonato o sono prossimi a farlo.

Cinque leader a colloquio ad Hannover, in Germania: è il 25 aprile 2016. Da sinistra, David Cameron, Barack Obama, Angela Merkel, Francois Hollande e Matteo Renzi. Un’immagine che è diventata virale sui social network a poche ore dalla sonora vittoria del ‘No’ al Referendum costituzionale che ha portato alle dimissioni del premier italiano Matteo Renzi. Una foto che è virale perché racconta in meno di sei mesi come sono cambiati gli equilibri internazionali. Dei cinque leader ritratti in questa immagine, soltanto Angela Merkel è stata riconfermata alla guida del suo Paese. Referendum interni e elezioni politiche hanno cambiato il volto della politica in Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia.

Un anno nero, anzi, nerissimo per molti leader del Vecchio Continente, e non solo. Soprattutto per quelli che si ostinano a puntellare questo cadente edificio che è l'Ue.

Il vento antiestablishment li ha travolti quasi tutti, è in tutto l’Occidente che nel 2016 si è assistito ad un vento antiestablishment che soffia contro le leadership al potere, smentendo sondaggi e previsioni dei media. L’immagine simbolo di questo rivolgimento sono le foto, ormai virali sui social, del vertice su terrorismo e crisi migratoria del 25 aprile scorso ad Hannover che vedeva riuniti Renzi, Cameron, la cancelliera tedesca Angela Merkel e i presidenti americano Barack Obama e francese Francois Hollande.

Sono passati quasi otto mesi dal 25 aprile scorso, quando ad Hannover, in Germania, si riunivano Barack Obama, Angela Merkel, David Cameron, François Hollande e Matteo Renzi. Cinque leader mondiali chiamati allora a discutere della situazione della Libia e della Siria, oltre alla crisi dei migranti e alla lotta al Daesh o Stato Islamico, presente in entrambi gli Stati. Eppure sembra passato un secolo. Questo momento, immortalato in un'immagine, è diventata subito virale in rete dopo la schiacciante sconfitta del 'Sì' al referendum costituzionale, che è costata la carica al premier italiano Matteo Renzi.

Tanta l'ironia sui social network, dove a poche ore dall'esito del referendum è rimbalzata questa immagine, diventata il simbolo del cambiamento in atto nel panorama politico internazionale. Molti utenti sul web hanno fatto notare come dei cinque leader immortalati nella foto sia rimasta in piedi solo Angela Merkel, che qualche settimana fa ha annunciato la sua quarta candidatura alle elezioni federali che si terranno in Germania nel 2017.

La stessa sorte della cancelliera tedesca non è toccata però al vicino di casa François Hollande, che qualche giorno fa ha annunciato di rinunciare alla ricandidatura per le presidenziali francesi previste nell'aprile 2017, o a Barack Obama, presidente uscente degli Stati Uniti, dopo 8 anni alla Casa Bianca. E come Renzi, che in seguito al referendum ha rassegnato le dimissioni, lo stesso aveva fatto l'ex primo ministro inglese David Cameron il 24 giugno scorso, all'indomani del voto su Brexit. In quel caso, dopo l'addio a Downing Street, il testimone è passato a Theresa May.

La proliferazione e la crescita di tanti movimenti anti europeisti ha precise motivazioni, che non possono essere circoscritte con sufficienza, come fa la sinistra, nel populismo o nella xenofobia. No, c'è ben altro. Non è l'Europa che non va, ma questa Ue costruita a tavolino che, imprimendo delle priorità, come la moneta unica e non solo, ha fallito il suo obiettivo: la totale integrazione dei suoi membri. Non staremo qui a elencare le disparità, sappiamo bene cosa accade. E questo ha fatto riflettere molti cittadini, che quando hanno potuto esprimersi hanno molto spesso fatto tremare le fondamenta dell'Ue, soprattutto nel 2016.

Le vittime illustri sono tante, a cominciare dall'ex premier britannico David Cameron. Come per Renzi, anche per l'ex leader conservatore è stato fatale un referendum. Entrambi sono accomunati dallo stesso errore: puntare tutto sul voto e legare il proprio destino al risultato. L'epilogo lo conosciamo, i cittadini della Gran Bretagna hanno deciso di uscire dall'Ue. Cameron, come altri leader, non ha valutato attentamente il sentimento popolare. La crisi economica, l'emergenza immigrazione, le minacce terroristiche hanno pesato più dell'amore, che forse non c'è mai stato, per quest'Europa. Quando gran parte dei conservatori, capeggiati dal suo rivale Boris Johnson, gli ha voltato le spalle abbracciando la Brexit con gli indipendentisti dell'Ukip è stata la fine. Per i britannici il principio di sovranità è qualcosa di sacro, proprio per questo non avevano aderito all'euro: perché avere il controllo della moneta significa avere il controllo dell'economia. E così Londra ha lasciato l'Ue e Cameron ha presentato le dimissioni.

Ma in Europa sono pochi a sorridere. Anche in Francia c'è chi ha traballato a lungo e ha deciso di gettare la spugna. Parliamo del presidente François Hollande. Il Paese ha attraversato anni difficili, la crisi è andata di pari passo con il declino industriale, e poi le tensioni etniche nelle periferie, gli attentati. In questo clima d'emergenza è mancata totalmente una guida e Hollande ha dimostrato di non avere carisma e neppure capacità di leadership. Nel partito socialista sono scoppiate rivalità interne che finora covavano sotto la cenere e il presidente ha così deciso di non ricandidarsi di nuovo all'Eliseo. In questo scenario, è cresciuto a dismisura il Front National di Marine Le Pen, consapevole che i francesi hanno chiaro in testa quali siano le priorità. Ai socialisti, piombati nella più totale confusione, non resta che aggrapparsi al futuro candidato neogollista all'Eliseo, quel François Fillon, ultraconservatore e tutt'altro che amante di questa Europa. Ma, dicono in casa Ps, meglio lui che lo spettro Le Pen.

L'unica a resistere sembra essere Angela Merkel, anche se la Cdu è già in allarme dopo le batoste elettorali alle amministrative. Ma la cancelliera ha deciso di ripresentarsi, nonostante la sua politica di apertura agli immigrati (imposta a tutta Europa e non solo alla Germania) abbia fatto rinascere un partito nazionalista e sia stata mal digerita da gran parte dei tedeschi. La Merkel tira dritto ma rischia molto, anche se nel suo partito, nonostante la fronda, non c'è ancora un rivale di rilievo. Se non dovesse farcela, i quattro Paesi più importanti d'Europa avrebbero perso tutti i loro leader sotto i colpi dell'euroscetticismo. Come gli Usa hanno voltato le spalle a Obama per Trump.


La popolazione originaria del Canada



I primi abitanti del Canada giunsero probabilmente dalle steppe siberiane e dalle montagne della Mongolia circa 15.000 anni fa attraversando la lingua di terra che un tempo collegava l’Asia con le Americhe e che ora è sommersa dalle acque nello stretto di Bering. Nel corso di migliaia d’anni queste popolazioni si sparsero in tutta l’America settentrionale e finirono per creare quattro grandi gruppi molto diversi tra loro per lingua e cultura: gli indiani della costa del Pacifico e delle montagne, quelli delle pianure, tra cui Sioux, Blackfeet e Irochesi che popolavano la vallata del San Lorenzo, e Algonchini e Athapescan, che si erano stabiliti nella regione compresa fra l’Atlantico e l’Artico. Purtroppo in seguito alla pressione della colonizzazione europea la maggior parte degli usi e dei costumi di questi popoli andarono persi e solo gli Inuit conservano ancora tracce del loro stile di vita tradizionale. Molto prima che le altre popolazioni europee iniziassero ad esplorare il mondo circostante arrivarono in queste zone i Vichinghi, che sbarcati in Islanda intorno all’870 giunsero nei secoli seguenti fino a Terranova dove costituirono insediamenti provvisori che utilizzarono per la raccolta del legname e di altri prodotti da trasportare in Groenlandia e Scandinavia. Per motivi che ci sono però ancora incomprensibili intorno al 1410 le loro migrazioni cessarono e anche i villaggi furono abbandonati.

Uno studio genetico conferma il collasso della popolazione originaria del Canada in seguito al contatto con gli europei. Lo studio ha analizzato il dna degli tsimshian, una popolazione originaria della British Columbia, lo stato sulla costa nordoccidentale del paese nordamericano.

Michael DeGiorgio, Ripan Malhi hanno studiato il dna di 25 individui vissuti tra mille e seimila anni fa. Le loro caratteristiche genetiche sono state paragonate a quelle della popolazione tsimshian contemporanea. Il confronto ha mostrato che sono avvenuti cambiamenti nel sistema immunitario delle persone e che la popolazione ha subìto una crollo demografico, una riduzione del 57%, nel diciannovesimo secolo.

Secondo i ricercatori, i dati genetici confermano i racconti sulle epidemia portate dagli europei. In particolare, il vaiolo sembra aver giocato un ruolo decisivo nel decimare la popolazione locale. Lo studio è stato pubblicato su Nature Communications.

Nessuno straniero mise più piede sulle coste canadesi fino al 1497 quando vi sbarcò Giovanni Caboto partito con la benedizione e i finanziamenti della corona inglese. Lo seguì pochi anni dopo il francese Jacques Cartier, che prima di spingersi ad esplorare il fiume San Lorenzo aveva rivendicato alla Francia la Penisola di Gaspé. Né l’uno né l’altro riuscirono però ad accendere l’interesse per quelle terre povere di spezie e di sete preziose e ricche solo di pesce e di foreste. Nel 1605 però Samuel de Champlain ricevette l’incarico di stendere una mappa del fiume San Lorenzo dal re di Francia, desideroso di emulare il successo degli spagnoli creando insediamenti stabili nelle terre rivendicate da Cartier. Fu l’inizio dello sfruttamento delle ricchezze naturali del Canada occidentale da parte di centinaia di persone provenienti da tutta Europa, desiderose di arricchirsi grazie al fiorentissimo commercio delle pelli. Intorno alla fine del XVII secolo Luigi XIV introdusse un governo stabile nella regione denominata Nuova Francia cercando di porre fine allo stato di semi anarchia che affliggeva i coloni. Venne così impiantato un sistema gerarchico di stampo feudale che diede sicurezza agli abitanti e generò un periodo di prosperità. Dal canto loro gli inglesi fondarono nel 1670 la Hudson’s Bay Company che pur essendo nominalmente solo una società con l’obiettivo di sfruttare le naturali ricchezze del territorio divenne in breve tempo una grande potenza sia economica sia militare, attorno alla quale si aggregò la comunità anglosassone.

La rivalità tra i due gruppi finì per sfociare in un periodo di scontri che ebbe termine col trattato di Utrecht del 1713 (con il quale la Francia cedeva all'Inghilterra le regioni della Nuova Scotia, della Baia di Hudson e alcune terre a sud dei Grandi Laghi) e definitivamente con la guerra dei Sette Anni (1756-63), alla fine della quale i francesi firmarono la resa e rinunciarono a tutti i territori del nordamerica. La popolazione francofona e quella anglofona si trovarono così unite sotto la giurisdizione inglese, ma la profonda frattura determinata dalle differenze linguistiche e culturali era tanto profonda che ancora oggi, malgrado tutti i tentativi fatti per equiparare i due gruppi, non è stata risolta. Nel 1774 per esempio fu varato il Québec Act, che assicurava ai francesi ampie garanzie politiche, economiche e culturali, anche allo scopo di assicurarsi il loro appoggio per cercare di controbattere il grande peso specifico che andavano assumendo gli Stati Uniti nel continente americano. In effetti, quando l’anno dopo ebbe inizio la guerra d’Indipendenza (1775-83), le colonie canadesi, sia francofone sia anglofone, decisero di non prendervi parte, prevedendo che i contatti con l’Inghilterra avrebbero garantito più vantaggi economici che non l’unione con gli Stati Uniti d’America. La legge costituzionale del 1791 divise il territorio del Québec in due parti: Canada Superiore (attuale Ontario), prevalentemente inglese, e Canada Inferiore (Québec), a maggioranza francese. Nonostante la creazione di questi due grandi nuclei, il territorio rimaneva ancora un’aggregazione di colonie separate.

Fu solo grazie allo sforzo di alcuni uomini politici che vedevano nell’unione delle colonie l’unico modo per opporsi alla sempre crescente importanza degli USA che fu avviato, nel 1867, il processo di unificazione dello stato, compiutosi nel 1949 con l’ingresso di Terranova nella confederazione, 18 anni dopo che lo statuto di Westminster aveva reso il Canada uno stato autonomo all'interno dell’impero britannico. Le trasformazioni politiche e sociali all’interno del paese non si sono ancora concluse a causa delle forti pressioni dovute all’opposizione dei due principali gruppi linguistici cui si sono aggiunte, da qualche anno a questa parte, le richieste autonomistiche delle comunità indiane. Malgrado per molti anni lo sviluppo economico del paese abbia risentito di queste tensioni, oggi il Canada fa parte dei G8, il gruppo formato dalle otto potenze economiche più importanti del mondo.

sabato 26 novembre 2016

La morte di Fidel Castro, Yoani Sanchez e gli esuli festeggiano



La notizia della morte di Castro, il "fondatore della rivoluzione", è stata data da suo fratello Raul, attuale presidente di Cuba, poco prima di mezzanotte e gli esuli si sono riversati sulle stradi principali di Little Havana. In alcune dichiarazioni rilasciate a Efe Ramon Saul Sanchez, capo dell'organizzazione di esuli Cuban Democracy Movement, ha parlato della morte di un "tiranno".

"Mia madre è cresciuta sotto Fidel Castro, io sono nata sotto Fidel Castro... mio figlio è nato sotto Fidel Castro, i miei nipoti nasceranno senza Fidel Castro". E' solo uno dei tweet che la dissidente cubana Yoani Sanchez ha postato dopo la notizia della morte dell'ex presidente cubano.

"Durante la mia infanzia e adolescenza Fidel Castro ha deciso da quello che ho mangiato, fino al contenuto dei miei libri di scuola...", scrive in un altro tweet. E ancora: "Mai nell'ultimo mezzo secolo, era stato così dimenticato quanto al momento della sua morte", prosegue in un ulteriore 'cinguettio'.

Scene di gioia per le strade di Little Havana, a Miami, dove una folla di cubani-americani si è riversata in strada per festeggiare la morte di Fidel Castro. Molti i cori e gli slogan contro "il dittatore" e lungo Calle Ocho, il cuore della piccola Avana.

Finalmente" Fidel Castro muore. Lo scrive in un tweet 14 y medio, il blog della nota dissidente Yoani Sanchez commentando la morte dell'ex presidente cubano. Anche un altro media, Diario de Cuba, commenta la notizia del decesso del "dittatore che aveva ceduto il potere al fratello Raul Castro nel luglio del 2006". L'altra faccia della morte del lìder màximo è quella degli oppositori e dissidenti, che non si fanno scrupolo a festeggiare il decesso.

Decine di esuli cubani si sono riuniti al Caffé Versailles a Miami, con le bandiere del loro paese e quelle degli Stati Uniti. I canali televisivi locali hanno mostrato le immagini della folla al di fuori del famoso caffè, che è già stato teatro di feste simili ogni volta che si sono diffuse voci sulla morte del Lìder Maximo, e in occasione di manifestazioni di protesta o riunioni di esuli a Miami.

La parabola biografica di Fidel Castro è inseparabile dalla storia della rivoluzione cubana della quale fu il Lider Maximo, una rivolta armata lanciata alla fine degli anni '50 contro il regime di Fulgencio Batista che poco tempo dopo l'abbattimento del tiranno cominciò a trasformarsi in un regime totalitario. Ancora oggi Cuba è il paese dell'emisfero occidentale nel quale il governo è responsabile delle peggiori violazioni e soppressioni dei diritti umani, secondo numerosi esperti e ONG, che nel corso degli anni hanno affrontato con dati e analisi questo aspetto oscuro dell'Avana.

La totale corruzione del regime ha reso difficile la raccolta di informazioni affidabili. Ciò non ha però impedito agli organismi a difesa dei diritti umani di segnalare per esempio che il governo reprime "sistematicamente individui e gruppi che lo criticano o rivendicano i loro diritti" (Human Rights Watch, 2013), mantiene "un ferreo controllo di oppositori, attivisti dei diritti umani e giornalisti indipendenti" (Amnesty International, 2014), nell'ambito di una "permanente e sistematica di violazione dei diritti dei cittadini" (Commissione Interamericana dei Diritti Umani, 2014).

Di fatto, nei suoi lunghi anni al potere Castro ha eliminato le libertà civili nell'isola, dove non esiste pluralismo politico, né diritto di assemblea o di manifestazione. E ancora, viene sottolineato da più fonti, le autorità controllano ogni forma di espressione pubblica. Sulla base del modello delle repubbliche popolari dell'Europa dell'Est, si è sviluppato un sistema di controllo e repressione sociale capillare di terribile efficacia.

E' difficile stabilire il numero esatto delle vittime del castrismo: Amnesty registra 237 condanne a morte per motivi politici dal '59 all'87, ma lo storico britannico Hugh Thomas sostiene che ci sono state 5.000 esecuzioni dal '59 al '70. Il 'Libro Nero del Comunismo', curato da Stephane Courtois, parla di 15-17 mila morti per motivi politici dal trionfo della Rivoluzione fino alla metà degli anni '90. Una cifra meno aleatoria e sicuramente significativa è quella dei cubani andati via dall'isola, malgrado le forti restrizioni all'emigrazione, da quando i Castro sono al potere: in totale circa 1,2 milioni, pari al 10% della popolazione cubana. Un numero che aiuta a capire perché le rimesse dei cubani all'estero rappresentano un'entrata di valuta estera superiore a quella dell'industria turistica.

La storia di Fidel, che è la storia di Cuba, è segnata dai capitoli che hanno accompagnato lo sviluppo autoritario del governo, a partire dalle fucilazioni nella prigione della Cabana all'Avana e la fondazione del primo campo di lavoro a Guanahacabibes nel '59: entrambi coordinati da Ernesto 'Che' Guevara. Oltre alla condanna a 20 anni di carcere per "sovversione" del comandante ribelle Huber Matos, che scontò tutta la sua pena e morì in esilio nel febbraio del 2014.

Nel '61 Castro pronunciò d'altra parte il suo famoso discorso rivolto agli intellettuali che segnò la fine della libertà artistica ("Quali sono i diritti degli artisti? Dentro la rivoluzione tutto, contro la rivoluzione nessun diritto"). Dieci anni dopo il poeta Herberto Padilla fu processato per "attività sovversive" e obbligato ad un'autocritica pubblica nello stile dei processi stalinisti.

Nel 1989 il generale ed eroe della 'revolucion' Arnaldo Ochoa venne fucilato per narcotraffico e tradimento. Ogni iniziativa dei dissidenti viene schiacciata con una combinazione di repressione poliziesca e 'manifestazione spontanea delle masse': nel 1998 Oswaldo Payà lanciò il 'Progetto Varela', raccogliendo le firme per promuovere una riforma costituzionale. Fidel rispose con un appello al popolo e nel giugno del 2002 convocò in piazza oltre 9 milioni di cubani.

Nel 2003 lanciò la 'Primavera Nera', durante la quale decine di dissidenti furono arrestati e condannati a lunghi anni di carcere. Le mogli e le familiari delle vittime di quell'ondata repressiva fondarono le 'Damas de Blanco' - Premio Sakharov dell'Europarlamento nel 2005 - che ancora oggi sfilano ogni domenica andando a messa nel centro dell'Avana, circondate da gruppi che gridano contro "i nemici della Rivoluzione".

Ricordiamo che la blogger cubana Yoani Sanchez non era potuta uscire da Cuba, nemmeno per ritirare un premio alla Columbia University di New York , dove le era stato assegnato un riconoscimento prestigioso: una menzione per giornalismo eccellente dal Maria Moors Cabot Prize, uno dei più antichi al mondo. Era già successo per ritirare un premio in Spagna per il suo lavoro di reporter digitale.

Da quando è diventata celebre per il blog Generacion Y, dove racconta la vita di tutti i giorni a Cuba e non ha risparmiato critiche all’autorità politica, Yoani è stata invitata all' estero numerose volte, ma non è mai riuscita a lasciare l' isola. In una intervista sul settimanale brasiliano Veja, ha raccontato di aver chiesto il visto di uscita in dieci occasioni, sempre motivandolo con inviti ricevuti. In tre casi il permesso è stato esplicitamente negato, negli altri la blogger non ha ricevuto in tempo la risposta, a causa di lungaggini burocratiche, e ha desistito. Nella stessa intervista, ha confermato che non intende approfittare di un eventuale visto di turismo per lasciare Cuba, come spesso decide di fare chi lo ottiene, in quanto: ”La materia prima del mio lavoro è la realtà cubana. Non voglio e non posso restare lontana dalle mie storie. Da tempo ho capito che la vita per me non esiste in altro posto che non sia Cuba. È il mio Paese e qui tornerò sempre”.

Un altro episodio che ha mostrato la cruda realtà dell’isola caraibica, che la blogger, insieme ad un altro reporter digitale le autorità cubane, con l’aiuto degli agenti della Sicurezza dello Stato, usando “molta violenza fisica e verbale” hanno impedito loro di partecipare a una manifestazione per la pace e la non violenza all’Avana. È stato un sequestro nel peggior stile della camorra. Mi hanno detto: Fino a qui sei arrivata. Non farai più niente».

Nell’aprile del 2007 comincia l’avventura del Blog Generación Y, definito come “un esercizio di codardia”, perché è uno spazio telematico dove può dire quello che è vietato sostenere nella vita di tutti i giorni. Yoani vive all’Avana insieme al giornalista Reinaldo Escobar, con il quale divide la sua vita da quindici anni, e adesso può dirsi più informatica che filologa. Ha pubblicato in Italia Cuba libre - vivere e scrivere all’Avana. Generación Y è un Blog ispirato alla gente come me, con nomi che cominciano o contengono una "y greca". Nati nella Cuba degli anni 70 e 80, segnati dalle scuole al campo, dalle bambole russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione. Per questo invito a leggermi e a scrivermi soprattutto Yanisleidi, Yoandri, Yusimí, Yuniesky e altri che si portano dietro le loro "y greche".



giovedì 24 novembre 2016

Come nasce il black friday



Il giorno del Ringraziamento, o Thanksgiving Day, è una festa celebrata negli Stati Uniti ogni quarto giovedì di novembre e in Canada ogni secondo lunedì di ottobre. Dunque il 24 novembre di quest'anno negli Usa si festeggia il giorno del Ringraziamento. Il primo giorno del Ringraziamento viene comunemente fatto risalire al 1621, quando nella città di Plymouth, nel Massachusetts, i padri pellegrini si riunirono per ringraziare il Signore del buon raccolto.

Il "venerdì nero" viene l'indomani del Ringraziamento (la festa che si celebra il quarto venerdì di novembre negli Usa e in Canada) ed è il giorno in cui, secondo una tradizione consolidatasi negli anni Sessanta, i negozianti americani propongono sconti speciali allo scopo di favorire lo shopping e dare il via alle spese natalizie.

Perché proprio "nero"? Perché all'epoca i registri contabili dei negozianti si compilavano a penna, usando inchiostro rosso per i conti in perdita e quello nero per i conti in attivo. E nel venerdì dopo il ringraziamento, grazie a queste promozioni, i conti finivano decisamente in nero.

Secondo un’altra tesi, l'origine del nome è meno poetica. Il "nero" sarebbe causato dal traffico sulle strade e dalla congestione nei negozi, provocata da migliaia di americani attirati da sconti - validi soltanto quel giorno - anche dell'80 per cento.

È tradizione, specialmente negli Stati Uniti, che per il Black Friday i negozi facciano dei notevoli saldi sui prodotti in vendita. Questa tradizione viene ripresa da alcuni anni anche in diversi negozi di paesi europei. In Italia il Black Friday ha iniziato ad essere popolare solo negli ultimi anni: specialmente nei negozi online come Amazon, che propongono per l’occasione sconti e offerte che a volte durano solo poche ore. Negli Stati Uniti in molti dormono addirittura nei sacchi a pelo davanti ai negozi già dalla notte precedente, accalcandosi poi all'entrata per poter comprare i prodotti più scontati (più o meno come capita periodicamente anche davanti agli Apple Store quando iniziano le vendite di iPhone).

Secondo una versione della storia il nome “Black Friday” deriverebbe proprio dalla ressa e dalle code interminabili che si formano fuori dai negozi delle catene più importanti: “venerdì nero” fu una delle espressioni utilizzate dalla polizia di Philadelphia, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per descrivere il traffico e gli ingorghi pazzeschi che si creavano in occasione delle vendite seguenti il giorno del Ringraziamento.

Il Black Friday e l’andamento delle vendite di questa giornata particolare sono guardati con interesse anche dagli analisti finanziari perché rappresentano un valido indicatore sia sulla predisposizione agli acquisti sia indirettamente sulla capacità di spesa dei consumatori americani. Il Black Friday è solitamente seguito dal Cyber Monday, il primo lunedì successivo al venerdì nero: è un lunedì di grandi sconti relativi a prodotti di elettronica.

Il Black Friday è riuscito a imporsi anche in Italia, soprattutto grazie all'influenza di mega portali che arrivano proprio dagli USA, come Amazon. Un impatto che negli ultimi tre anni è cresciuto vertiginosamente, tanto da spingere anche gli store fisici ad introdurre i super sconti del venerdì “nero”.

Esite anche un Cyber Monday (lunedì cibernetico): cade il primo lunedì successivo al Black Friday e viene dedicato agli sconti sui negozi online, sebbene ormai anche questi ultimi dedichino ai loro utenti offerte lampo durante il venerdì nero.

Il Black Friday delle offerte commerciali in tutto il mondo, con Amazon e Ali Baba a fare la parte del leone. Ma c'é anche una giovane azienda italiana che può conquistare uno spazio importante. Satispay (che sta avendo successo nel settore del Mobile Payment, sempre più diffuso e in grande crescita) in occasione del black friday porta dall'ambito tipicamente online fino agli esercizi fisici, anche i piccoli e indipendenti, tipicamente penalizzati in realtà dai grandi sconti online del 25 novembre. Satispay porterà nelle tasche dei suoi utenti un cashback che andrà dal 30% fino al il 60% sulle spese effettuate in ben 4000 negozi fisici appartenenti alle più diverse categorie merceologiche.


Occhio alle truffe. L'allarme arriva da Kaspersky lab, azienda che si occupa di sicurezza informatica: i giorni del Black Friday e del Cyber Monday sono molto propizi per le truffe online, con un aumento considerevole soprattutto del phishing (il metodo delle mail esca con link fasulli). Per evitare di diventare una vittima delle truffe di phishing, gli esperti di Kaspersky Lab consigliano di prendere le seguenti precauzioni:

non cliccare su alcun link ricevuto da persone sconosciute o su link sospetti inviati da amici sui social network o via email.

Potrebbe trattarsi di link letali, appositamente creati per scaricare malware sui dispositivi o per rimandare a pagine di phishing che mirano a rubare le credenziali degli utenti; non inserire i dettagli della carta di credito su siti sconosciuti o sospetti, per evitare di farli cadere nelle mani dei cyber criminali.

Un segnale è che questi siti offrono offerte vantaggiose che sembrano troppo buone per essere vere; controllare sempre che il sito sia autentico prima di inserire le proprie credenziali o informazioni personali (è meglio controllare almeno l'URL). I siti fasulli potrebbero sembrare proprio come quelli autentici; installare una soluzione di sicurezza sui propri dispositivi, con tecnologie integrate progettate per prevenire le frodi finanziarie.

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mercoledì 23 novembre 2016

Francia: situazione centrali nucleari "molto preoccupante"



La situazione della sicurezza delle centrali nucleari francesi è "molto preoccupante". E' quanto ha affermato Pierre-Franck Chevet, presidente dell'Asn (Autorità della sicurezza nucleare). Quest'ultima ha avviato una campagna senza precedenti di controlli a tappeto in tutte le centrali sul territorio francese. Da settembre 21 reattori sono stati chiusi d'urgenza, con potenziali rincari sulle bollette non solo d'Oltralpe ma anche italiane. L’atomo francese è semi-paralizzato. Due terzi del totale dei siti nucleari sono stati bloccati, o stanno per esserlo, dall'Autorità nazionale di controllo. L’Italia è coinvolta suo malgrado e senza poter fare granché, perché fra i reattori fermati ne figurano anche sei collocati vicino al confine italiano, a Bugey, a Cruas e a Tricastin, mentre in quegli stessi siti, a ridosso della nostra frontiera, continuano a funzionare altri cinque reattori (sicuri?) a pochi metri da quelli insicuri.

Il quadro della stabilità dei reattori nucleari francesi è "molto preoccupante. Lo ha detto a Le Figaro il direttore della 'Autorité de sûreté nucléaire' (Asn) Pierre-Franck Chevet, in seguito alla scoperta di una crepa nella copertura del reattore sperimentale Epr (reattore ad acqua pressurizzata) in costruzione a Flammanvile in Normandia e dopo che le autorità di controllo hanno deciso di fermare 12 reattori (di Edf) sui 58 operativi. Chevet ha spiegato che un problema è rappresentato dall'eccesso di carbonio presente nell'acciaio speciale usato per costruire le centrali. Edf - ha detto - ha fornito un dossier per ogni reattore e "nella migliore delle ipotesi" entro un mese la Asn sarà in grado di decidere se far ripartire o meno i reattori, al più tardi "a gennaio del 2017".

L'autorità, ha sottolineato Chevet, ha deciso di agire "calma e rigore": un'anomalia era già stata rilevata nei generatori di vapore e ciò aveva spinto a una serie di controlli su vasta scala. Poi, all'inizio degli anni Novanta erano state verificate alcune corrosioni nelle coperture di diversi reattori, e Edf era intervenuta sostituendole. Nel 2013 ho segnalato la necessità essere in grado di passare a cadenze regolari da 5 a 10 reattori", in modo da avere impianti in grado di sostituire altri che presentassero "anomalie". L'energia transalpina è direttamente dipendente da 58 reattori del colosso energetico che garantisce il 75% dei bisogni in energia. In parallelo, nell'intervista a Le Figaro, Chevet ha denunciato "l'esistenza di pratiche inaccettabili dall'inizio degli anni sessanta nella fabbrica del Creusot (di Areva, ndr): l'esistenza di 400 dossier volontariamente nascosti al cliente e all'Asn, e riguardanti anomalie, nonché la scoperta di documenti di fabbricazione che appaiono falsificati".

Il primo evento è che molte centrali nucleari francesi sono state spente per guai tecnici davvero seri. Così — secondo evento — in Francia la corrente elettrica scarseggia. Quindi la Francia deve importare elettricità dai Paesi vicini. Così l'aumento della domanda fa salire le quotazioni del chilowattora alla Borsa elettrica italiana.
Oggi è difficile stimare quanto ci peserà il rincaro, ma potrebbe essere superiore a 1 miliardo se l'emergenza elettrica dovesse durare fino a febbraio.

Già oggi sono rincarate le forniture spot dei grandi consumatori che si approvvigionano sul mercato, presto dovrebbero esserci ricadute anche per le bollette delle famiglie. L’Autorità dell’energia non dà anticipazioni, ma lascia presagire un effetto rilevante sulle nostre bollette.

Il fenomeno è cominciato in settembre quando l'autorità francese sulla sicurezza nucleare Asn (Autorité de sûreté nucléaire) ha chiesto una fermata urgente di 21 dei 58 reattori dell'EdF, la società elettrica statale francese.

Oltre all'Italia, il problema interessa in modo pesante Svizzera, Belgio, Spagna, Germania e Gran Bretagna.

In Germania e Inghilterra la vicenda francese potrebbe avere ricadute aggiuntive sulle centrali atomiche tedesche e sul progetto nucleare francese a Hinkley Point in Inghilterra.

Come si forma il prezzo del chilowattora
Il Prezzo unico nazionale (Pun) si forma ogni giorno alla borsa del Gestore del mercato elettrico e pesa per circa un terzo della bolletta.  Per anni il Pun è sceso moltissimo per il calo della domanda e per il contributo delle fonti rinnovabili di energia, ma il consumatore ha assaporato solamente le briciole dei ribassi perché gli altri due terzi della bolletta sono cresciuti: incentivi, agevolazioni a diversi settori, voci fiscali e parafiscali, il canone tv, sussìdi incrociati.

Ora però è rincarato anche il Pun: è cresciuto del 23%.
A titolo di confronto, il prezzo di mercato all'ingrosso un mese e mezzo fa era sui 45 euro per mille chilowattora. Effetto Francia, e la media di ottobre era già salita a 53 euro. Ancora più salato il prezzo medio di novembre, 61 euro

Ora è sufficiente una giornata meno ventosa del solito, quando i ventilatori fermano le braccia sulle creste dei monti, per far salire il prezzo ancora di più: 68 euro il 16 novembre, 70 euro il 7 novembre, 78 euro il 14 novembre, 80 euro per mille chilowattora il 15 novembre, giornata in cui le ore a maggiore domanda sono state coperte con prezzi oltre i 150 euro.


martedì 22 novembre 2016

Leonard Cohen, il più grande poeta in musica


Ad agosto scorso Leonard Cohen aveva scritto una lettera a Marianne, la donna che negli anni '60 aveva ispirato alcuni dei suoi pezzi più famosi, "So Long", "Marianne", "Bird on Wire", e che stava per morire. "Marianne è venuto il tempo in cui si è vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi: credo che ti seguirò presto. So di esserti così vicino che se tu allungassi la mano, potresti raggiungere la mia", scriveva Cohen quasi annunciando la sua morte. Un mese fa era uscito il suo ultimo album, You Want It Darker, che è anche il suo testamento spirituale, come si conviene a chi vive, scrive e sente con le antenne del visionario (in particolare, Cohen era devoto alla Kabbalah), titolo finale di un'avventura artistica vissuta in bilico tra musica, parola scritta e ricerca interiore. Cohen è stato un vero poeta della musica, di quella generazione emersa fra gli anni Sessanta e Settanta.

Tornato negli Stati Uniti, conobbe la cantante folk Judy Collins, che inserì due canzoni di Cohen nel suo album In my life. Una delle due era il primo successo di Cohen Suzanne. Le sue frequentazioni nella “Grande Mela” comprendevano all’epoca Andy Warhol e i Velvet Underground con la loro musa, la cantante tedesca Nico, le cui atmosfere sul filo della depressione ripropose nel suo album del 1967 Songs of Leonard Cohen.

Altro suo brano celebre è stato Hallelujah (1984), una composizione resa famosa dall'interpretazione di Jeff Buckley nel 1994 e dai tanti altri artisti, da Bono a Michael McDonald, che hanno voluto cimentarsi sulle emozioni di quelle note.

«Non ho mai avuto la sensazione che ci fosse una fine - diceva nel 1992 -. Che ci fosse un momento di ritirarsi». E così è stato: Cohen è stato uno dei pochi artisti della sua generazione ad avere successo anche superati gli ottanta anni.

L'ultimo, lapidario commento globale lo fece poco meno di un mese fa, chiudendo in modo definitivo il dibattito sull’opportunità del Nobel per la Letteratura all’amico (e alter ego nella narrazione dell’epica americana) Bob Dylan: «It’s like pinning a medal on Mount Everest for being the highest mountain». Punto.

Così fu, lo scorso inverno, per il potente “Blackstar” di David Bowie, uscito profeticamente il giorno prima della sua morte. A Cohen è andata forse peggio, essendosene andato due giorni dopo l’elezione di Donald Trump, se non altro perché il nuovo presidente rappresenta una certa idea di America e del mondo sulla quale il cantautore canadese ci avrebbe detto, e dato, molto. Da buon Monaco Zen, senza la retorica militante di un certo mondo liberal americano.

Ma Cohen è stato un poeta politico solo nel senso arcaico del termine; laddove il folksinger Dylan ha incarnato (e in parte prodotto) il racconto del cambiamento sociale e culturale dell’America della Frontiera, il songwriter Cohen ha disegnato intuizioni e visioni esistenziali, offrendoci alcune tra le poesie musicali più metafisiche, trascendentali e spirituali della seconda metà del novecento.

“I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable. That’s about it for me”. Dall'ultima intervista di Leonard Cohen al New Yorker
 
Tra i molti riconoscimenti, il Premio Príncipe de Asturias de Las Letras (nel 2011), di cui è disponibile online un memorabile speech. Ci mancherà, ma da oggi li saremo ancora più grati di esserci stato. L’ultima intervista, profetica, poetica e lapidaria, al New Yorker: «I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable. That’s about it for me».

Nato nel 1934 a Montreal, in Canada, da una famiglia di origini ebraiche, Cohen è arrivato alla musica tardi, quando aveva trent'anni. Già il suo esordio discografico nel 1967, "Songs of Leonard Cohen", che non ebbe alcun successo, e' segnato dal brano capolavoro "Suzanne" e da un clima raccolto, dove la forza della parola si sposava con il minimalismo degli arrangiamenti. Due anni piu' tardi arriva la notorietà con "Songs From a Room", dove c'e' la magnifica "Bird On Wire".

lunedì 14 novembre 2016

Superluna a che ora si vede e perché



La notte tra il 14 e il 15 novembre la Luna sarà piena e al perigeo: ecco perché sarà la super Luna più grande degli ultimi 70 anni, e perché, anche questa volta, difficilmente ce ne accorgeremo. Anche se il termine è tutto fuorché scientifico, con l'espressione super Luna si intende la coincidenza del plenilunio con il momento di massimo avvicinamento alla Terra (perigeo).

Non è un evento raro (accade circa una volta all'anno) e neppure nefasto. Ma il 14 novembre 2016, quando il nostro satellite entrerà nella fase di Luna piena circa un paio d'ore dopo il perigeo, gli amanti del cielo notturno potranno assistere a una super Luna ancora più "super".

La chiamano Superluna. In realtà è sempre lei, il nostro satellite naturale che continua a ruotare regolarmente intorno alla Terra. Un termine non astronomico, per definire la coincidenza di una Luna piena con la sua minore distanza dalla Terra. Lunedì, soprattutto in serata, la vedremo più grande e luminosa del solito. E’ un fenomeno che si verifica con regolarità periodica, perché la luna non compie un’orbita attorno alla Terra perfettamente circolare, bensì ellittica, cioè un po’ allungata, ma questa sarà la più grande e luminosa degli ultimi 68 anni. Per vederne un’altra simile dovremmo aspettare altri 18 anni, fino al 2034.

L'effetto è un aumento delle dimensioni apparenti della Luna visto dalla Terra. Per stimare le dimensioni apparenti degli oggetti celesti in astronomia si usa il diametro angolare (o dimensione angolare) di un oggetto è la misura del suo diametro rispetto alla distanza dall'osservatore, sulla terra, secondo una formula matematica. A fini osservativi il diametro angolare si rivela molto più utile della semplice misura del diametro del corpo, perché fornisce una stima delle sue dimensioni apparenti o  "l'illusione lunare", ovvero l'effetto ottico che rende la Luna apparentemente più grande quando è vicina all'orizzonte rispetto a quando è alta nel cielo (una differenza che può arrivare al 300%). Secondo gli esperti la Luna diventerà piena circa due ore dopo il suo passaggio nel perigeo, risultando particolarmente grande e brillante.

L'associazione della Luna con le maree oceaniche ha portato a credere che in presenza di una superluna ci possa essere un rischio maggiore di eventi come terremoti ed eruzioni vulcaniche. Tuttavia, secondo gli scienziati, solo le maree potrebbero essere leggermente più ampie rispetto alla norma, senza comunque portare conseguenze evidenti.

Tempo permettendo potremo vedere la Luna al massimo come detto alle 21 circa, oltre tre ore dopo il suo sorgere alle 17.18. Ma sarà piena già dalle 14.52, ma non visibile perché sotto l'orrizzonte. Però al sud il maltempo potrebbe negare la visione, mentre è più probabilità di ammirarla invece al nord.

Un evento eccezionale, perché? L'orbita della Luna è ovoidale, vi sono periodi del suo ciclo in cui è più vicina o più lontana da noi, in più la dimensione dell'orbita muta leggermente nel tempo, quindi il perigeo non avviene ogni mese alla stessa distanza dalla Terra. Questo mese, la Luna raggiunge ufficialmente il perigeo alle 0.21 del mattino del 14 novembre ora italiana, quando si troverà a soli 356.508 chilometri dal nostro pianeta.

Attenzione l'occasione è unica perché la prossima volta in cui la Luna ci apparirà così grande e luminosa sarà il 25 novembre 2052, quando il nostro vicino celeste sarà a soli 356.424 chilometri di distanza.

Il 23 giugno 2013 si è avuta la più vicina e grande luna piena del 2013. E nel 2014 il fenomeno ha avuto la massima visibilità il 10 agosto, in coincidenza con la notte di San Lorenzo.

Una Luna piena al perigeo può risultare il 14% più grande e il 30% più brillante di una Luna piena in apogeo, ma non è sempre facile notare la differenza. La luminosità può essere schermata dalle nuvole o annullata dalle luci delle città; e senza riferimenti reali in cielo per "prendere le misure", anche il vantaggio in termini di diametro angolare (cioè la misura del suo diametro rispetto alla distanza dall'osservatore) rischia di perdersi. Una Luna molto vicina all'orizzonte e a punti di riferimento terrestri (come alberi o case), per esempio, risulta apparentemente molto grande anche se in apogeo, come si può vedere in queste foto di Super Lune di qualche tempo fa.


domenica 13 novembre 2016

Bataclan, un anno dopo riapre con Sting



La musica di Sting fa rinascere il Bataclan «Ricordiamo i morti, celebriamo la vita». Una serata speciale che segna la riapertura ufficiale del Bataclan a un anno dall'attacco terroristico dell'Isis in cui 90 persone sono state trucidate. Un concerto “sold out” dopo solo un'ora dalla messa in vendita dei biglietti martedì scorso. Con incasso devoluto interamente alle due principali associazioni dei parenti delle vittime.

Sting è salito sul palco del Bataclan. parlando in francese chiedendo al pubblico di osservare un minuto di silenzio, straziante, a cui è seguito subito la musica. 'Fragile', 'Message in a Bottle', fino a 'Roxane' e tanti altri successi. Per circa un'ora e mezza carica di emozione, l''Englishman in New York' ha scatenato Parigi.

Dopo un anno di silenzio il Bataclan è tornato a cantare, anche se la direzione ha rifiutato di far entrare due dei componenti degli Eagles of Death Metal che volevano assistere al concerto di Sting. "Sono venuti ma li ho mandati via. Ci sono cose non si perdonano", ha detto il direttore della Sala concerti Jules Frutos, citato dalla stampa francese. A inizio ma p?o=rzo, ancora segnato dal massacro, il leader del gruppo aveva detto che a suo avviso l'attacco era stato preparato dall'interno della sala esprimendo sospetti nei confronti del servizio di sicurezza.

La Francia ha reso omaggio a quanti persero la vita negli attacchi terroristici: e il presidente della Repubblica, Francois Hollande, ha scoperto lungo tutta la mattinata targhe con i nomi delle vittime nei diversi luoghi colpiti.

L'omaggio è cominciato allo Stade de France, con una targa in onore dell'unica vittima sul posto, Manuel Dias, un autista di bus di 63 anni: il figlio, Michael, ha fatto un appello all'integrazione e alla conoscenza reciproca come strumento di lotta al terrorismo. Poi Hollande è rientrato verso la città compiendo una cupa processione nei locali, caffè e ristoranti, che furono teatro degli attacchi. Il presidente francese, accompagnato dal sindaco di Parigi, Anna Hidalgo, si è raccolto in silenzio dinanzi al Carillon e a Le Petit Camboge e anche qui ha deposto una mazzo di fiori sotto la targa con i nomi delle vittime, osservando un minuto di silenzio.

Una terza placca è stata svelata da Hidalgo e Hollande per le vittime nel X e XI arrondissement, 39 in tutto, a La Bonne Biere, Le Comptoir Voltaire e La Belle Epoque. E un'altra a Boulevard Voltaire. Ultima tappa del circuito di omaggio ufficiale, sulla scia simbolica del sangue versato quella notte, le due placche in marmo di fronte al Bataclan, il locale parigino che fu il luogo più colpito la tragica notte (una per le vittime nel locale, una per tutte le vittime degli attentati). E anche dinanzi al Bataclan sono stati letti i nomi delle persone che persero la vita nella sala da concerto, 90 in tutto, tra cui quello della ricercatrice italiana, Valeria Solesin, che studiava demografia alla Sorbona. Imponenti le misure di sicurezza: i cittadini che volevano assistere alle commemorazioni sono stati tenuti a distanza, gli abitanti di Boulevard Voltaire non sono stati autorizzati ad aprire le finestre.  Alle 12:30 sono stati rilasciati palloncini nel cielo, nell'XI arrondissement a "rappresentare simbolicamente, nel loro insieme e nella loro diversita'", tutte le vittime.

Tra i 1.500 spettatori nella serata di riapertura, era presente anche Aurélien, un cuoco francese di 25 anni, che ha deciso di tornare nel luogo in cui ha perso il suo migliore amico. E nel quale lui si è salvato per miracolo nascondendosi dietro al bancone del bar. "Essere qui è un dovere", ha affermato, che per almeno venti minuti fece il morto, sdraiandosi a terra tra i fusti di birra. "Voi non potete immaginare che cosa sia stato". Nonostante la ristrutturazione ad Aurélien tutto "sembra identico. Vi giuro era proprio così non è cambiato nulla", insiste sfiorando quello stesso comptoir che gli ha salvato la vita prima di lanciarsi verso l'uscita di sicurezza. Ne uscirà illeso, ad altri è andata peggio. Sui 130 innocenti barbaramente uccisi tra i locali del centro di Parigi e lo Stadio di Saint-Denis qui ne vennero trucidati novanta. E tanti tra familiari e superstiti hanno voluto esserci stasera.

I biglietti messi in vendita la settimana scorsa sono andati esauriti in meno di quaranta minuti. Ingenti le misure di sicurezza, con 14 nuove telecamere di videosorveglianza, un sistema di chiusura automatica delle porte in caso di emergenza e un esercito di addetti alla protezione del sito tra guardie private, gendarmi e Police Nationale.

Il ricavato andrà interamente devoluto alle associazioni delle vittime: Life for Paris e 13 novembre, Fraternité et Verité.

Sting aveva "manifestato un reale desiderio, quasi un bisogno" di partecipare alla riapertura, ha raccontato Jules Frutos, direttore del teatro, rendendo omaggio all'impegno della star britannica.

Tra i presenti al concerto anche ila ministro della Cultura, Audrey Azoulay. In quasi dieci mesi di lavori il Bataclan è stato rimesso completamente a nuovo anche se la struttura rimane identica, con la fossa e le balconate in cui vennero fatti ostaggio e poi uccisi tanti spettatori. Per non conservare nulla di quella notte - dice Fruitos - è cambiato tutto, "dal soffitto al pavimento, dalla pittura alle mattonelle". L'ingresso è effettivamente più allegro e luminoso, con la nuova scritta rosso fuoco 'Bataclan' le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Anche se all'esterno del locale rimane sempre lo stesso tendone giallo-nero della notte degli attacchi. Le porte chiuderanno nuovamente domani per la giornata di commemorazioni a un anno esatto dall'eccidio. Il presidente, Francois Hollande, e il sindaco, Anne Hidalgo, sveleranno una targa in sei luoghi colpiti dal commando dell'Isis, tra cui lo stesso Bataclan.
Nel music hall si tornerà a suonare mercoledì con Pete Doherty. Seguiranno nei giorni successivi artisti come Youssou Ndour e Marianne Faithfull. Prove generali nella speranza di un progressivo ritorno alla normalità. Ma dimenticare no, è impossibile.

Il concerto si prolunga. C'è tempo per un'ultima canzone. Sting da solo sul palco, alla chitarra, intona “Empty chair” (dal suo ultimo album “57th & 9th”) dedicata a James Foley, videoreporter americano ucciso in Siria nel 2014. Poi ringrazia (”merci Bataclan”). E lascia il palco. Non riapparirà. L'emozione compressa trova una via di uscita in un lungo applauso finale che sembra essere un ultimo tentativo per convincere Sting e i suoi musicisti a tornare a suonare. E invece capisci che è un ultimo omaggio alle vittime.




mercoledì 9 novembre 2016

Grecia, la mappatura di una rovina romana sotto il mare di Epidauro



Alcuni resti di un edificio romano sono stati ritrovati sotto l'acqua nei pressi di Epidauro nella regione di Argolide nel Golfo Saronico. Per la prima volta, la Soprintendenza alle  Antichità subacquea, un reparto speciale del Ministero greco della Cultura che si occupa della conservazione di antiche reliquie sotto il mare, ha realizzato la mappatura topografica della zona, in collaborazione con la agenzia di stampa cinese Xinhua.

Città del Peloponneso, nòmos di Argolide, posta nella penisoletta di Aktè (oggi Nisi), nel Golfo Sarònico. La città antica occupava il sito in cui sorge la cittadina di Palaià Epidauros. Pausania, ricorda templi e monumenti, ma l'unica identificazione possibile è quella del tempio di Atena Kissàia, sull'acropoli.

A nove chilometri dalla città, verso S, in una pianura dominata dall'Arachnaion (m 1199), e circondata da montagne, sorgeva il santuario di Asklepios che aveva a N il Tithion, a S e S-O il Koryphaion, a S-E il Kynortion, sulla strada per Nauplia la collina di Koronis, mentre, ad occidente, le alture di Alogomandra precludevano la vista del mare. Nel sito stesso del santuario e nelle colline vicine, numerose sono le sorgenti ed i corsi d'acqua, cui erano riconosciuti particolari virtù terapeutiche, mentre la loro presenza era indispensabile alle pratiche del culto di Asklepios.

In Epidauro gli scavi hanno rivelato la presenza di un culto antichissimo per l'eroe e dio Maleatas, di probabile origine pre-greca: questa divinità fu assimilata ad Apollo intorno alla metà del sec. VII a. C. e il dio assunse l'epiteto di Maleàtas. Entrambi i culti ebbero sede sulla cima del Kynortion, dove sono state ritrovate testimonianze archeologiche databili fin dall'epoca micenea. Quando Asklepios prese il sopravvento su Apollo Maleàtas, il santuario fu spostato verso N-O, cioè nel luogo delle attuali rovine: tuttavia, le ricerche archeologiche non hanno rivelato, finora, tracce di un tempio di Asklepios anteriore a quello del IV sec. a. C.

Le fonti classiche hanno tramandato poche notizie sulla più antica storia di Epidauro. Il nome sembra ricondurci ad una popolazione primitiva non greca cui si sovrapposero, in seguito, i Dori di Argo. Presto Epidauro dovette assumere una qualche importanza se ad essa è attribuita, da alcune fonti (Herod., vur, 46; Paus., ii, 29, 5), la colonizzazione dell'isola di Egina. Verso la fine del sec. VIII a. C., troviamo Epidauro nella lega di Calauria a parità di condizioni con Atene, Nauplia, Orcomeno, Prasia, Ermione, Egina. Un periodo di soggezione ad Argo dovette essere quello in cui Fidone assicurò alla sua città il dominio su tutta l'Aktè intorno alla metà del VII sec. a. C. Alla fine del secolo, il governo dell'Argolide, e quindi anche di Epidauro, passò nelle mani di Corinto, grazie all'abile ed energica politica di Periandro. Alla caduta dei Cipselidi, tuttavia, la città è nuovamente libera. Comincia, ora, la politica delle grandi leghe raggruppate intorno alle due potenze egemoniche: Atene e Sparta. Epidauro sceglie la lega peloponnesiaca controllata da Sparta per avere un appoggio contro le mire di Argo che, con l'Elide e Mantinea, era entrata nell'orbita ateniese.

Ad una guerra fra Argo ed Epidauro, si venne, durante una pausa delle guerre del Peloponneso, dopo la pace di Nicia. Epidauro si difese bene e giunse a minacciare da vicino Argo, per cui le grandi potenze furono costrette ad intervenire per evitare che venisse turbato l'equilibrio raggiunto fra i due blocchi. Nel IV sec. a. C., la funzione politica di Epidauro è pressoché nulla, ma sempre più cresce la sua importanza quale metropoli del culto di Asklepios. Di questo periodo sono le maggiori costruzioni del santuario che vengono realizzate con il contributo delle città vicine, ma soprattutto, con le ricchezze che i numerosi pellegrini versano annualmente nelle casse dello stato. Sono stanziate grosse somme ed ingaggiati i migliori artisti, fra i quali Timotheos e Policleto il giovane. Nell'età ellenistica Epidauro è al centro di alcune vicende delle lotte fra i Diadochi e, dopo la presa di Corinto (243 a. C.), entra a far parte della Lega Achea. Durante il II sec. a. C. sono costruiti nuovi edifici, è allargata la cinta e sono restaurati e trasformati numerosi monumenti. La decadenza comincia lenta con il III sec. d. C., si accentua con il definitivo trionfo della nuova religione e le invasioni barbariche aggiungono all'abbandono la rovina.

lunedì 7 novembre 2016

Reporters sans frontières: Hadi Abdullah nominato “giornalista dell’anno



Il siriano Hadi Abdullah, 29 anni, ha vinto la 25esima edizione del Premio Reporters senza frontiere (Rsf) per la libertà di stampa. Lo ha annunciato l'associazione che ha anche incoronato il sito di informazioni cinese 64Tianwang e i giornalisti Lu Yuyu e Li Tingyu, incarcerati in Cina.

Il giovane siriano "non esita ad avventurarsi in zone pericolose - dove nessun giornalista occidentale si arrischia ad andare - per filmare e interrogare attori della società civile", indica Rsf che con il premio intende celebrare giornalisti, blogger e attivisti che in misura diversa e in condizioni avverse, minacciati e perseguitati, si sono distinti nella difesa della libertà di stampa.

Brevemente rapito lo scorso gennaio dal fronte al Nusra, Hadi Abdullah "ha sfiorato la morte più volte", sottolinea l'associazione che aggiunge che il suo cameraman è stato ucciso da una mina artigianale esplosa nell'appartamento che dividevano. Nell'attacco è rimasto gravemente ferito anche Hadi. Nessuno dei premiati sarà presente alla cerimonia di consegna che si terrà domani a Strasburgo a margine del "Forum mondiale della democrazia" organizzato dal Consiglio europeo ma Hadi Abdullah interverrà tramite un collegamento video.

Nel 2015, il premio era stato assegnato ad una giornalista siriana, Zaina Erhaim, che lavorava dalla città di Aleppo.

Abdullah non potrà ritirare il suo premio, martedì 8 novembre a Strasburgo, ma molto probabilmente interverrà alla cerimonia attraverso un collegamento video. L’organizzazione che si occupa di monitorare la libertà di stampa in tutto il mondo ha premiato anche il sito d’informazione cinese 64Tianwang e i due cinesi Lu Yuyu et Li Tingyu, attualmente agli arresti.

«Un anno eccezionale per la censura»: è il titolo dell’ultima campagna pubblicitaria che Reporters sans frontières (Rsf) lancia in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, il 3 maggio. Sfilano con un calice in mano dodici leader mondiali, dal russo Vladimir Putin all’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che «celebrano la loro vittoria» sui giornalisti scomodi.

I dati dell’ultimo rapporto di Rsf sono scioccanti: redazioni attaccate a colpi di granata in Burundi, giornalisti licenziati per un tweet in Turchia, blogger condannati a frustate in piazza e dure pene detentive in Arabia Saudita, campi militari per la «rieducazione» dei reporter in Thailandia.

Scorrendo la classifica del 2016 ci sono molte conferme di oscurantismo ma anche qualche sorpresa. Tra queste, la posizione dell’Italia che si classifica soltanto al 77° posto su 180, scendendo di ben 4 scalini rispetto al 2015. Peggio di noi, nell’Unione europea, c’è solo la Grecia. Meglio di noi, invece, spiccano molti Stati meno sviluppati di noi economicamente, come il Ghana (26°), il Burkina Faso (42°), Haiti (53°), la Serbia (59°), il Senegal (65°), la Tanzania (71°) o il Nicaragua (75°). Il rapporto denuncia in «il livello molto inquietante di violenze perpetrate contro i giornalisti (intimidazioni verbali o fisiche, minacce di morte...)» in Italia: «Quelli che indagano sulla corruzione o il crimine organizzato sono i primi a finire nel mirino». Ma nella «scheda» viene citato anche lo Stato del Vaticano, dove «è la giustizia che se la prende con la stampa, nel contesto degli scandali Vatileaks e Vatileaks 2».

In testa alla classifica si riconfermano i più liberali Paesi del nord Europa — Finlandia, Paesi Bassi, Norvegia, Danimarca — ma anche piccole realtà come il Costarica (6°) o la Giamaica (10°), che superano di gran lunga la Gran Bretagna, patria del giornalismo anglosassone, che è solo al 38° posto, o gli Stati Uniti, fermi al 41°.


domenica 30 ottobre 2016

Elezioni USA 2016: Clinton-Trump ultimo sondaggio



Il 63% dell'elettorato ritiene che le nuove indagini dell'Fbi circa le mail di Hillary Clinton quando era segretario di Stato non cambiano la loro decisione sul voto. E' quanto emerge da un sondaggio Abc/Washington Post, il primo condotto dopo la comunicazione di James Comey (Fbi) sul ritrovamento di nuove mail legate a Clinton. Il rilevamento conferma inoltre una corsa serrata con il 46% delle preferenze a livello nazionale per la candidata democratica e il 45% per il repubblicano Donald Trump.

Donald Trump supera Hillary Clinton in Florida, Stato cruciale per conquistare la presidenza. Emerge da un sondaggio del New York Times che attribuisce al tycoon un vantaggio di quattro punti percentuali con il 46% delle preferenze sulla ex segretario di Stato, che si attesta al 42%. Il rilevamento è stato effettuato prima che emergessero le nuove mail su Clinton al vaglio dell'Fbi.

E' quanto emerge da un sondaggio Abc/Washington Post, il primo condotto dopo la comunicazione di James Comey (Fbi) s ul ritrovamento di nuove mail legate a Clinton. Il rilevamento conferma inoltre una corsa serrata tra i due candidati con il 46% delle preferenze a livello nazionale per la candidata democratica e il 45% per il repubblicano Donald Trump.

La situazione non sembra modificarsi anche per quanto riguarda gli stati chiave per la vittoria finale. Donald Trump ha quattro punti di vantaggio in Florida, secondo un sondaggio pubblicato oggi dal New York Times. Secondo il 'poll' infatti il repubblicano è al 46% mentre Hillary Clinton sarebbe al 42%. Nel primo rilevamento che il Times ha fatto in Florida - considerato al momento forse lo stato chiave più importante per le sorti delle elezioni dell'otto novembre - un mese fa, Trump era indietro rispetto a Clinton di un punto percentuale.

Anche il sondaggio Nbc/Wall Street Journal vede il candidato repubblicano in rimonta in Florida, anche se rimane indietro, di un solo punto percentuale, rispetto a Hillary Clinton. In particolare il 'poll' sottolinea come la democratica abbia un grande vantaggio, il 54% contro il 37%, tra gli elettori che hanno già votato avvalendosi del sistema dell'early vote. Mentre la situazione si rovescia se si considerano gli elettori che devono ancora votare, con Trump che ha il 51% e Clinton il 42%.

La candidata democratica continua invece ad avere sei punti di vantaggio - 47 a 41 - in North Carolina. Anche in questo stato l'early vote è nettamente in suo favore: il 61% contro il 33% di Trump. Un diverso sondaggio, della Cbs News, dà Clinton in testa solo di 3 punti in North Carolina, dandola in vantaggio anche in Pennsylvania (8 punti) e Colorado (3 punti), mentre Donald Trump sarebbe avanti di due punti in Arizona.

Trump ha definito lo scandalo come il «più grave dall'epoca del Watergate», azzardando un parallelo con il furto organizzato dalla campagna repubblicana di Richard Nixon di documenti dagli uffici del partito democratico a Washington che portò al procedimento di impeachment contro il presidente.

Il direttore dell’Fbi James Comey venerdì, a sorpresa, ha annunciato la riapertura - o meglio un supplemento - delle indagini sulla vicenda delle email della Clinton, quando era segretario di Stato, gestite dal suo server personale. Una decisione presa dopo aver scovato nuovo e non meglio definito materiale nel computer dell’ex marito della stretta collaboratrice di Clinton, Huma Abedin: l’ex deputato Anthony Weiner, la cui carriera è stata bruciata da scandali di sexting e sotto indagine per aver inviato immagini e messaggi osceni a una ragazza di 15 anni in North Carolina. Comey ha affermato che gli agenti non hanno tuttora determinato la rilevanza delle nuove e-mail scoperte, comparse in un conto di posta elettronica che Abedin aveva sul pc del marito, fatto che ha generato ancora più confusione sullo stesso operato dell’Fbi.

Il presidente della campagna elettorale di Clinton, John Podesta, ha criticato esplicitamente Comey, sostenendo che il suo intervento è «straordinario» nella storia delle elezioni americane e che le sue dichiarazioni sono «piene di insinuazioni e povere di fatti». Ha aggiunto che Comey «deve delle spiegazioni all’opinione pubblica» e che, da quanto ha ammesso, «non ci sono prove di violazioni, né accuse e neppure indicazioni che questo materiale abbia davvero a che fare con Hillary». Anche il sospetto che Comey possa aver agito per un eccesso di cautela e per proteggere la sua posizione da futuri attacchi repubblicani e che l’Fbi, formalmente alle dipendenze del Dipartimento della Giustizia, sia vittima di battaglie politiche interne è stato adombrato da alcuni analisti democratici.
Clinton ha chiesto ora all’Fbi e a Comey immediati chiarimenti, a cominciare dal rilascio di tutto il materiale in loro possesso per evitare il pericolo di inquinamenti negli ultimi giorni della campagna. Ha anche indicato di ritenere che gli elettori abbiano ormai tenuto conto del caso delle e-mail, del quale si è scusata ma sempre sostenendo di non aver commesso reati, e che ora è importante evitare distrazioni e «scegliere un presidente».

Ma la paura serpeggia tra i democratici, anche ai vertici della campagna e del partito. «Siamo stati investiti da un autotreno», ha ammesso Donna Brazile, vicina alla Clinton e alla guida del Comitato nazionale del Partito democratico. Il timore è che gli sviluppi, anche se rimanessero avvolti nell'ambiguità e non rivelassero nuovi errori o peggio reati, possano pesare nella dirittura d’arrivo verso le urne. Possono aiutare Trump a mobilitare il suo elettorato, come già dimostrato dai primi rally del fine settimana. E soprattutto potrebbero alienare elettori ancora indecisi e indipendenti, che già vedono nella Clinton un deficit di onestà e trasparenza, e raffreddare gli entusiasmi della stessa base democratica, che fin dalle primarie aveva mostrato scarso entusiasmo per la candidata.


sabato 29 ottobre 2016

Storia recente della Crimea. Dall’Ucraina alla Russia



Le recentissime evoluzioni in Crimea, accompagnate dall’inasprirsi della crisi ucraina, impongono un’ulteriore riflessione sullo status e sulla lunga storia di questa importantissima penisola. Come è noto, la Crimea è all’origine della tragedia nell’Ucraina. All’inizio di marzo la società russa e il popolo della Crimea hanno esultato mentre il presidente Vladimir Putin pronunciava magniloquenti parole sulla nave della Crimea ritornata per sempre nel porto russo.

Nel marzo 2014, dopo la destituzione nel mese precedente del presidente ucraino V. Januković e l’insediamento a Kiev di un governo provvisorio filo-occidentale, le forze filorusse hanno assunto il controllo delle basi militari ucraine in Crimea., e il Consiglio supremo della Repubblica autonoma ha votato la secessione dall’Ucraina e la richiesta di annessione alla Federazione russa, decisione confermata con il 97% dei voti favorevoli da un referendum popolare. Nonostante il mancato riconoscimento della comunità internazionale e l’emanazione di sanzioni da parte di Stati Uniti ed Unione europea, il 18 marzo V.V. Putin ha firmato il trattato di adesione della C. alla Federazione russa.

“La Crimea è sempre stata ed è ritornata ad essere russa”. Queste parole furono replicate come uno scongiuro. Ma la riannessione di una provincia altrui, anche con pretesti che possono apparire giusti, non può mai passare in modo silenzioso e tranquillo. Fra occupanti e occupati sorgono conflitti che poi si prolungano per decine di anni e costano milioni di vittime. Pensiamo al conflitto fra la Germania e la Francia, fra l’Austria e la Serbia per la Bosnia. Il Donbass è il proseguimento diretto della politica russa nei confronti dell’Ucraina, soltanto che il risultato è apparso molto più sanguinoso.

Se la Crimea fosse sempre stata nostra e fosse stata perfidamente sottratta all’Ucraina come “un cesto di patate”, la questione sarebbe chiusa, l’ingiustizia si doveva riparare. Sarebbe doveroso uscire senza il gioco dei gentili “uomini verdi” e raggiungere la giustizia attraverso le istanze internazionali. La Crimea poteva porre il problema di separarsi dall’Ucraina, come la Scozia dall’Inghilterra e la Catalogna dalla Spagna.

Dal 1441 la Crimea divenne un Khanato indipendente, staccandosi definitivamente dall’oramai morente Khanato dell’Orda d’Oro.

La sua formale autonomia non durò a lungo: infatti, nel 1475, dovette riconoscere l’autorità della Sublime Porta, divenendone dipendente. Per quasi trecento lunghi anni, la maggioranza della popolazione, i tatari di Crimea, rimasero sotto la dominazione ottomana, conservando, però, a differenza di molte entità assorbite dall’Impero Ottomano, una certa autonomia. L’allontanamento definitivo da Costantinopoli e l’avvicinamento a Pietroburgo si ebbe quando la zarina Caterina II di Russia, che mirava ad espandersi a ovest ai danni dell’Impero Ottomano, dichiarò guerra al sultano. Scoppiò così l’ennesimo conflitto che portò il “khanato”, con il trattato di Kuchuk-Kainarji del 1774, ad avvicinarsi alla Russia. Il regno dell’ultimo khan di Crimea vide in quegli anni turbolenti la crescita sempre più consistente della compagine russa nella regione, e il verificarsi di numerose rivolte interne. Il pretesto per eliminare ogni forma di autonomia arrivò l’8 di aprile del 1783, quando le truppe imperiali russe, allarmate da una guerra intestina al khanato, intervennero annettendo così l’intero territorio. Dopo l’annessione i russi fondarono la città di Sebastopoli, che sarà un’importantissima base navale sul Mar Nero.

Nel 1853 scoppiò la famosa guerra di Crimea a causa dell’invasione russa dei principati ortodossi di Valacchia e Moldavia, vassalli della Sublime Porta, il che portò all’intervento franco-britannico a supporto degli ottomani aggrediti. In questa guerra ritroviamo anche un pezzetto di storia patria, poiché fu al suo termine il primo ministro del Regno di Sardegna, il conte di Cavour, chiese di prolungare di un giorno i lavori del Congresso di Parigi per mettere tutte le grandi potenze al corrente sulla questione italiana. La sconfitta russa del 1856, non causò la perdita della penisola, sebbene la roccaforte di Sebastopoli venne espugnata dagli anglo-francesi.

La Crimea rimase parte dell’Impero russo fino alla sua caduta, avvenuta con la Rivoluzione di Febbraio del 1917, entrando poi a far parte dell’effimera Repubblica di Russia. Dopo la presa del potere da parte dei Bolscevichi, capeggiati da Lenin, la Crimea divenne l’ultima roccaforte dell’Armata Bianca durante la guerra civile (1918-1921). Fu proprio dal porto di Odessa che partirono le ultime navi con a bordo esuli russi anti-bolscevichi. Il 18 ottobre 1921, le truppe rivoluzionarie occuparono la penisola e proclamarono la Repubblica socialista autonoma di Crimea che, con la proclamazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (nel dicembre 1922), entrò a far parte del vasto territorio dell’URSS.

Il travaglio della regione non ebbe però fine: invasa dagli eserciti austro-tedeschi (nel 1918) e poi dai nazisti (nel 1941-44), fino al 1944, la Crimea rimase a maggioranza russo-tatara. Con l’occupazione tedesca della regione, si riaccesero le speranze di autonomia del paese, già flebilmente risvegliatesi dopo il crollo del regime zarista, in un’effimera organizzazione statale con tendenze nazionaliste tatare. Tuttavia, dopo la ritirata delle potenze dell’Asse e l’avanzata dell’Armata Rossa verso ovest, le popolazioni tatare, viste come collaboratori del nemico, vennero prese di mira da Stalin: già nel maggio del 1944 i tatari di Crimea vennero deportati in massa verso Oriente. Un’esperienza simile era già stata vissuta da un’altra minoranza della penisola, quella italiana, di dimensioni microscopiche, ma ben radicata in alcune parti del territorio; i sovietici li spazzarono via durante le Purghe negli anni trenta, bollandoli come “fascisti”.

Il ritorno dei sovietici fu contrassegnato da una rapida eliminazione delle tendenze nazionaliste e culturali tatare. Tutti i toponimi tatari furono abrogati e sostituiti con i corrispondenti russi; si mantennero, in via del tutto speciale, solo quelli di Balaklava e Bachčisaraj. Nell’estate 1945 la Repubblica autonoma di Crimea venne degradata a rango di regione (oblast’ in russo), cioè ad una entità meramente amministrativa, sotto la giurisdizione della Repubblica socialista sovietica russa.  Sempre nel  1945 –in febbraio-, nei pressi di Jalta si svolse una delle conferenze più importanti e decisive del secondo conflitto mondiale alla quale presero parte i vertici dei paesi Alleati.

Il 19 febbraio 1954, il segretario del PCUS Nikita Krusciov, per commemorare il trecentesimo anniversario del Trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e russi, trasferì l’Oblast’ di Crimea nella Repubblica socialista Ucraina. Fu un fatto puramente formale, perché l’Unione Sovietica, pur essendo una federazione, era uno stato fortemente accentrato. Ma rappresentò anche un omaggio alla terra natia del Segretario del PCUS. Tale gesto fu oggetto di proteste anche all’interno dei quadri del Partito e dalla popolazione russa di Crimea, fortemente ostile agli ucraini.

All’indomani della dissoluzione dell’URSS, la Crimea generò varie frizioni tra le neonate repubbliche ex-sovietiche di Russia ed Ucraina. La questione venne superata nel 1995, tre anni dopo la proclamazione della Repubblica autonoma di Crimea, quando il parlamento della Repubblica autonoma riconobbe la sua appartenenza all’Ucraina. Si scongiurò così una possibile secessione e vi fu la promessa, da parte di Kiev, di garantire diritti speciali alla Crimea che difatti, fino ad oggi, ha mantenuto lo status di repubblica autonoma. Al tempo stesso si mantenne un accordo ucraino-russo in merito ad una base navale stabile nel porto di Sebastopoli dove la flotta della Federazione Russa conta 25 mila uomini. Tale accordo è stato rinnovato più volte ed è valido fino al 2042, ma l’attuale situazione pone dei dubbi e delle incertezze per il futuro a venire. Soprattutto perché a Sebastopoli si trova, ancorata, anche la flotta ucraina.

Inoltre dobbiamo tener presente che l’Impero russo dei secoli XVIII, XIX e l’attuale Russia non avevano lo stesso governo. Nell’Impero non entravano soltanto i territori dell’attuale Russia, ma anche buona parte dei territori dell’Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, Caucaso, governi baltici, perfino la Polonia e la Finlandia. E tutti i popoli, in modo eguale, consideravano propria la terra della Crimea e la irrigarono con il proprio sudore ed il proprio sangue. Durante la guerra di Crimea (1853-1856) nell’Armata russa erano forse pochi gli ucraini, i bielorussi, i georgiani, tedeschi e polacchi?

L’Impero russo era un paese di molti popoli e l’attuale Federazione russa non può pretendere di avere certe terre solo per il motivo che un tempo facevano parte dell’Impero dei Romanov. I bolscevichi rifiutarono di essere la successione dell’Impero russo, dichiararono di voler fondare un nuovo stato di operai e contadini, suddivisero l’Impero dei territori da loro conquistati in stati formalmente indipendenti, uniti apparentemente in un libero legame.