martedì 22 novembre 2016

Leonard Cohen, il più grande poeta in musica


Ad agosto scorso Leonard Cohen aveva scritto una lettera a Marianne, la donna che negli anni '60 aveva ispirato alcuni dei suoi pezzi più famosi, "So Long", "Marianne", "Bird on Wire", e che stava per morire. "Marianne è venuto il tempo in cui si è vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi: credo che ti seguirò presto. So di esserti così vicino che se tu allungassi la mano, potresti raggiungere la mia", scriveva Cohen quasi annunciando la sua morte. Un mese fa era uscito il suo ultimo album, You Want It Darker, che è anche il suo testamento spirituale, come si conviene a chi vive, scrive e sente con le antenne del visionario (in particolare, Cohen era devoto alla Kabbalah), titolo finale di un'avventura artistica vissuta in bilico tra musica, parola scritta e ricerca interiore. Cohen è stato un vero poeta della musica, di quella generazione emersa fra gli anni Sessanta e Settanta.

Tornato negli Stati Uniti, conobbe la cantante folk Judy Collins, che inserì due canzoni di Cohen nel suo album In my life. Una delle due era il primo successo di Cohen Suzanne. Le sue frequentazioni nella “Grande Mela” comprendevano all’epoca Andy Warhol e i Velvet Underground con la loro musa, la cantante tedesca Nico, le cui atmosfere sul filo della depressione ripropose nel suo album del 1967 Songs of Leonard Cohen.

Altro suo brano celebre è stato Hallelujah (1984), una composizione resa famosa dall'interpretazione di Jeff Buckley nel 1994 e dai tanti altri artisti, da Bono a Michael McDonald, che hanno voluto cimentarsi sulle emozioni di quelle note.

«Non ho mai avuto la sensazione che ci fosse una fine - diceva nel 1992 -. Che ci fosse un momento di ritirarsi». E così è stato: Cohen è stato uno dei pochi artisti della sua generazione ad avere successo anche superati gli ottanta anni.

L'ultimo, lapidario commento globale lo fece poco meno di un mese fa, chiudendo in modo definitivo il dibattito sull’opportunità del Nobel per la Letteratura all’amico (e alter ego nella narrazione dell’epica americana) Bob Dylan: «It’s like pinning a medal on Mount Everest for being the highest mountain». Punto.

Così fu, lo scorso inverno, per il potente “Blackstar” di David Bowie, uscito profeticamente il giorno prima della sua morte. A Cohen è andata forse peggio, essendosene andato due giorni dopo l’elezione di Donald Trump, se non altro perché il nuovo presidente rappresenta una certa idea di America e del mondo sulla quale il cantautore canadese ci avrebbe detto, e dato, molto. Da buon Monaco Zen, senza la retorica militante di un certo mondo liberal americano.

Ma Cohen è stato un poeta politico solo nel senso arcaico del termine; laddove il folksinger Dylan ha incarnato (e in parte prodotto) il racconto del cambiamento sociale e culturale dell’America della Frontiera, il songwriter Cohen ha disegnato intuizioni e visioni esistenziali, offrendoci alcune tra le poesie musicali più metafisiche, trascendentali e spirituali della seconda metà del novecento.

“I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable. That’s about it for me”. Dall'ultima intervista di Leonard Cohen al New Yorker
 
Tra i molti riconoscimenti, il Premio Príncipe de Asturias de Las Letras (nel 2011), di cui è disponibile online un memorabile speech. Ci mancherà, ma da oggi li saremo ancora più grati di esserci stato. L’ultima intervista, profetica, poetica e lapidaria, al New Yorker: «I am ready to die. I hope it’s not too uncomfortable. That’s about it for me».

Nato nel 1934 a Montreal, in Canada, da una famiglia di origini ebraiche, Cohen è arrivato alla musica tardi, quando aveva trent'anni. Già il suo esordio discografico nel 1967, "Songs of Leonard Cohen", che non ebbe alcun successo, e' segnato dal brano capolavoro "Suzanne" e da un clima raccolto, dove la forza della parola si sposava con il minimalismo degli arrangiamenti. Due anni piu' tardi arriva la notorietà con "Songs From a Room", dove c'e' la magnifica "Bird On Wire".

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