domenica 30 ottobre 2016

Elezioni USA 2016: Clinton-Trump ultimo sondaggio



Il 63% dell'elettorato ritiene che le nuove indagini dell'Fbi circa le mail di Hillary Clinton quando era segretario di Stato non cambiano la loro decisione sul voto. E' quanto emerge da un sondaggio Abc/Washington Post, il primo condotto dopo la comunicazione di James Comey (Fbi) sul ritrovamento di nuove mail legate a Clinton. Il rilevamento conferma inoltre una corsa serrata con il 46% delle preferenze a livello nazionale per la candidata democratica e il 45% per il repubblicano Donald Trump.

Donald Trump supera Hillary Clinton in Florida, Stato cruciale per conquistare la presidenza. Emerge da un sondaggio del New York Times che attribuisce al tycoon un vantaggio di quattro punti percentuali con il 46% delle preferenze sulla ex segretario di Stato, che si attesta al 42%. Il rilevamento è stato effettuato prima che emergessero le nuove mail su Clinton al vaglio dell'Fbi.

E' quanto emerge da un sondaggio Abc/Washington Post, il primo condotto dopo la comunicazione di James Comey (Fbi) s ul ritrovamento di nuove mail legate a Clinton. Il rilevamento conferma inoltre una corsa serrata tra i due candidati con il 46% delle preferenze a livello nazionale per la candidata democratica e il 45% per il repubblicano Donald Trump.

La situazione non sembra modificarsi anche per quanto riguarda gli stati chiave per la vittoria finale. Donald Trump ha quattro punti di vantaggio in Florida, secondo un sondaggio pubblicato oggi dal New York Times. Secondo il 'poll' infatti il repubblicano è al 46% mentre Hillary Clinton sarebbe al 42%. Nel primo rilevamento che il Times ha fatto in Florida - considerato al momento forse lo stato chiave più importante per le sorti delle elezioni dell'otto novembre - un mese fa, Trump era indietro rispetto a Clinton di un punto percentuale.

Anche il sondaggio Nbc/Wall Street Journal vede il candidato repubblicano in rimonta in Florida, anche se rimane indietro, di un solo punto percentuale, rispetto a Hillary Clinton. In particolare il 'poll' sottolinea come la democratica abbia un grande vantaggio, il 54% contro il 37%, tra gli elettori che hanno già votato avvalendosi del sistema dell'early vote. Mentre la situazione si rovescia se si considerano gli elettori che devono ancora votare, con Trump che ha il 51% e Clinton il 42%.

La candidata democratica continua invece ad avere sei punti di vantaggio - 47 a 41 - in North Carolina. Anche in questo stato l'early vote è nettamente in suo favore: il 61% contro il 33% di Trump. Un diverso sondaggio, della Cbs News, dà Clinton in testa solo di 3 punti in North Carolina, dandola in vantaggio anche in Pennsylvania (8 punti) e Colorado (3 punti), mentre Donald Trump sarebbe avanti di due punti in Arizona.

Trump ha definito lo scandalo come il «più grave dall'epoca del Watergate», azzardando un parallelo con il furto organizzato dalla campagna repubblicana di Richard Nixon di documenti dagli uffici del partito democratico a Washington che portò al procedimento di impeachment contro il presidente.

Il direttore dell’Fbi James Comey venerdì, a sorpresa, ha annunciato la riapertura - o meglio un supplemento - delle indagini sulla vicenda delle email della Clinton, quando era segretario di Stato, gestite dal suo server personale. Una decisione presa dopo aver scovato nuovo e non meglio definito materiale nel computer dell’ex marito della stretta collaboratrice di Clinton, Huma Abedin: l’ex deputato Anthony Weiner, la cui carriera è stata bruciata da scandali di sexting e sotto indagine per aver inviato immagini e messaggi osceni a una ragazza di 15 anni in North Carolina. Comey ha affermato che gli agenti non hanno tuttora determinato la rilevanza delle nuove e-mail scoperte, comparse in un conto di posta elettronica che Abedin aveva sul pc del marito, fatto che ha generato ancora più confusione sullo stesso operato dell’Fbi.

Il presidente della campagna elettorale di Clinton, John Podesta, ha criticato esplicitamente Comey, sostenendo che il suo intervento è «straordinario» nella storia delle elezioni americane e che le sue dichiarazioni sono «piene di insinuazioni e povere di fatti». Ha aggiunto che Comey «deve delle spiegazioni all’opinione pubblica» e che, da quanto ha ammesso, «non ci sono prove di violazioni, né accuse e neppure indicazioni che questo materiale abbia davvero a che fare con Hillary». Anche il sospetto che Comey possa aver agito per un eccesso di cautela e per proteggere la sua posizione da futuri attacchi repubblicani e che l’Fbi, formalmente alle dipendenze del Dipartimento della Giustizia, sia vittima di battaglie politiche interne è stato adombrato da alcuni analisti democratici.
Clinton ha chiesto ora all’Fbi e a Comey immediati chiarimenti, a cominciare dal rilascio di tutto il materiale in loro possesso per evitare il pericolo di inquinamenti negli ultimi giorni della campagna. Ha anche indicato di ritenere che gli elettori abbiano ormai tenuto conto del caso delle e-mail, del quale si è scusata ma sempre sostenendo di non aver commesso reati, e che ora è importante evitare distrazioni e «scegliere un presidente».

Ma la paura serpeggia tra i democratici, anche ai vertici della campagna e del partito. «Siamo stati investiti da un autotreno», ha ammesso Donna Brazile, vicina alla Clinton e alla guida del Comitato nazionale del Partito democratico. Il timore è che gli sviluppi, anche se rimanessero avvolti nell'ambiguità e non rivelassero nuovi errori o peggio reati, possano pesare nella dirittura d’arrivo verso le urne. Possono aiutare Trump a mobilitare il suo elettorato, come già dimostrato dai primi rally del fine settimana. E soprattutto potrebbero alienare elettori ancora indecisi e indipendenti, che già vedono nella Clinton un deficit di onestà e trasparenza, e raffreddare gli entusiasmi della stessa base democratica, che fin dalle primarie aveva mostrato scarso entusiasmo per la candidata.


sabato 29 ottobre 2016

Storia recente della Crimea. Dall’Ucraina alla Russia



Le recentissime evoluzioni in Crimea, accompagnate dall’inasprirsi della crisi ucraina, impongono un’ulteriore riflessione sullo status e sulla lunga storia di questa importantissima penisola. Come è noto, la Crimea è all’origine della tragedia nell’Ucraina. All’inizio di marzo la società russa e il popolo della Crimea hanno esultato mentre il presidente Vladimir Putin pronunciava magniloquenti parole sulla nave della Crimea ritornata per sempre nel porto russo.

Nel marzo 2014, dopo la destituzione nel mese precedente del presidente ucraino V. Januković e l’insediamento a Kiev di un governo provvisorio filo-occidentale, le forze filorusse hanno assunto il controllo delle basi militari ucraine in Crimea., e il Consiglio supremo della Repubblica autonoma ha votato la secessione dall’Ucraina e la richiesta di annessione alla Federazione russa, decisione confermata con il 97% dei voti favorevoli da un referendum popolare. Nonostante il mancato riconoscimento della comunità internazionale e l’emanazione di sanzioni da parte di Stati Uniti ed Unione europea, il 18 marzo V.V. Putin ha firmato il trattato di adesione della C. alla Federazione russa.

“La Crimea è sempre stata ed è ritornata ad essere russa”. Queste parole furono replicate come uno scongiuro. Ma la riannessione di una provincia altrui, anche con pretesti che possono apparire giusti, non può mai passare in modo silenzioso e tranquillo. Fra occupanti e occupati sorgono conflitti che poi si prolungano per decine di anni e costano milioni di vittime. Pensiamo al conflitto fra la Germania e la Francia, fra l’Austria e la Serbia per la Bosnia. Il Donbass è il proseguimento diretto della politica russa nei confronti dell’Ucraina, soltanto che il risultato è apparso molto più sanguinoso.

Se la Crimea fosse sempre stata nostra e fosse stata perfidamente sottratta all’Ucraina come “un cesto di patate”, la questione sarebbe chiusa, l’ingiustizia si doveva riparare. Sarebbe doveroso uscire senza il gioco dei gentili “uomini verdi” e raggiungere la giustizia attraverso le istanze internazionali. La Crimea poteva porre il problema di separarsi dall’Ucraina, come la Scozia dall’Inghilterra e la Catalogna dalla Spagna.

Dal 1441 la Crimea divenne un Khanato indipendente, staccandosi definitivamente dall’oramai morente Khanato dell’Orda d’Oro.

La sua formale autonomia non durò a lungo: infatti, nel 1475, dovette riconoscere l’autorità della Sublime Porta, divenendone dipendente. Per quasi trecento lunghi anni, la maggioranza della popolazione, i tatari di Crimea, rimasero sotto la dominazione ottomana, conservando, però, a differenza di molte entità assorbite dall’Impero Ottomano, una certa autonomia. L’allontanamento definitivo da Costantinopoli e l’avvicinamento a Pietroburgo si ebbe quando la zarina Caterina II di Russia, che mirava ad espandersi a ovest ai danni dell’Impero Ottomano, dichiarò guerra al sultano. Scoppiò così l’ennesimo conflitto che portò il “khanato”, con il trattato di Kuchuk-Kainarji del 1774, ad avvicinarsi alla Russia. Il regno dell’ultimo khan di Crimea vide in quegli anni turbolenti la crescita sempre più consistente della compagine russa nella regione, e il verificarsi di numerose rivolte interne. Il pretesto per eliminare ogni forma di autonomia arrivò l’8 di aprile del 1783, quando le truppe imperiali russe, allarmate da una guerra intestina al khanato, intervennero annettendo così l’intero territorio. Dopo l’annessione i russi fondarono la città di Sebastopoli, che sarà un’importantissima base navale sul Mar Nero.

Nel 1853 scoppiò la famosa guerra di Crimea a causa dell’invasione russa dei principati ortodossi di Valacchia e Moldavia, vassalli della Sublime Porta, il che portò all’intervento franco-britannico a supporto degli ottomani aggrediti. In questa guerra ritroviamo anche un pezzetto di storia patria, poiché fu al suo termine il primo ministro del Regno di Sardegna, il conte di Cavour, chiese di prolungare di un giorno i lavori del Congresso di Parigi per mettere tutte le grandi potenze al corrente sulla questione italiana. La sconfitta russa del 1856, non causò la perdita della penisola, sebbene la roccaforte di Sebastopoli venne espugnata dagli anglo-francesi.

La Crimea rimase parte dell’Impero russo fino alla sua caduta, avvenuta con la Rivoluzione di Febbraio del 1917, entrando poi a far parte dell’effimera Repubblica di Russia. Dopo la presa del potere da parte dei Bolscevichi, capeggiati da Lenin, la Crimea divenne l’ultima roccaforte dell’Armata Bianca durante la guerra civile (1918-1921). Fu proprio dal porto di Odessa che partirono le ultime navi con a bordo esuli russi anti-bolscevichi. Il 18 ottobre 1921, le truppe rivoluzionarie occuparono la penisola e proclamarono la Repubblica socialista autonoma di Crimea che, con la proclamazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (nel dicembre 1922), entrò a far parte del vasto territorio dell’URSS.

Il travaglio della regione non ebbe però fine: invasa dagli eserciti austro-tedeschi (nel 1918) e poi dai nazisti (nel 1941-44), fino al 1944, la Crimea rimase a maggioranza russo-tatara. Con l’occupazione tedesca della regione, si riaccesero le speranze di autonomia del paese, già flebilmente risvegliatesi dopo il crollo del regime zarista, in un’effimera organizzazione statale con tendenze nazionaliste tatare. Tuttavia, dopo la ritirata delle potenze dell’Asse e l’avanzata dell’Armata Rossa verso ovest, le popolazioni tatare, viste come collaboratori del nemico, vennero prese di mira da Stalin: già nel maggio del 1944 i tatari di Crimea vennero deportati in massa verso Oriente. Un’esperienza simile era già stata vissuta da un’altra minoranza della penisola, quella italiana, di dimensioni microscopiche, ma ben radicata in alcune parti del territorio; i sovietici li spazzarono via durante le Purghe negli anni trenta, bollandoli come “fascisti”.

Il ritorno dei sovietici fu contrassegnato da una rapida eliminazione delle tendenze nazionaliste e culturali tatare. Tutti i toponimi tatari furono abrogati e sostituiti con i corrispondenti russi; si mantennero, in via del tutto speciale, solo quelli di Balaklava e Bachčisaraj. Nell’estate 1945 la Repubblica autonoma di Crimea venne degradata a rango di regione (oblast’ in russo), cioè ad una entità meramente amministrativa, sotto la giurisdizione della Repubblica socialista sovietica russa.  Sempre nel  1945 –in febbraio-, nei pressi di Jalta si svolse una delle conferenze più importanti e decisive del secondo conflitto mondiale alla quale presero parte i vertici dei paesi Alleati.

Il 19 febbraio 1954, il segretario del PCUS Nikita Krusciov, per commemorare il trecentesimo anniversario del Trattato di Pereyaslav tra i cosacchi ucraini e russi, trasferì l’Oblast’ di Crimea nella Repubblica socialista Ucraina. Fu un fatto puramente formale, perché l’Unione Sovietica, pur essendo una federazione, era uno stato fortemente accentrato. Ma rappresentò anche un omaggio alla terra natia del Segretario del PCUS. Tale gesto fu oggetto di proteste anche all’interno dei quadri del Partito e dalla popolazione russa di Crimea, fortemente ostile agli ucraini.

All’indomani della dissoluzione dell’URSS, la Crimea generò varie frizioni tra le neonate repubbliche ex-sovietiche di Russia ed Ucraina. La questione venne superata nel 1995, tre anni dopo la proclamazione della Repubblica autonoma di Crimea, quando il parlamento della Repubblica autonoma riconobbe la sua appartenenza all’Ucraina. Si scongiurò così una possibile secessione e vi fu la promessa, da parte di Kiev, di garantire diritti speciali alla Crimea che difatti, fino ad oggi, ha mantenuto lo status di repubblica autonoma. Al tempo stesso si mantenne un accordo ucraino-russo in merito ad una base navale stabile nel porto di Sebastopoli dove la flotta della Federazione Russa conta 25 mila uomini. Tale accordo è stato rinnovato più volte ed è valido fino al 2042, ma l’attuale situazione pone dei dubbi e delle incertezze per il futuro a venire. Soprattutto perché a Sebastopoli si trova, ancorata, anche la flotta ucraina.

Inoltre dobbiamo tener presente che l’Impero russo dei secoli XVIII, XIX e l’attuale Russia non avevano lo stesso governo. Nell’Impero non entravano soltanto i territori dell’attuale Russia, ma anche buona parte dei territori dell’Ucraina, Bielorussia, Kazakistan, Caucaso, governi baltici, perfino la Polonia e la Finlandia. E tutti i popoli, in modo eguale, consideravano propria la terra della Crimea e la irrigarono con il proprio sudore ed il proprio sangue. Durante la guerra di Crimea (1853-1856) nell’Armata russa erano forse pochi gli ucraini, i bielorussi, i georgiani, tedeschi e polacchi?

L’Impero russo era un paese di molti popoli e l’attuale Federazione russa non può pretendere di avere certe terre solo per il motivo che un tempo facevano parte dell’Impero dei Romanov. I bolscevichi rifiutarono di essere la successione dell’Impero russo, dichiararono di voler fondare un nuovo stato di operai e contadini, suddivisero l’Impero dei territori da loro conquistati in stati formalmente indipendenti, uniti apparentemente in un libero legame.



Crimea qual è la situazione oggi?



La penisola della Crimea, o più semplicemente Crimea, si trova a nord del Mar Nero e a sud dell’Ucraina. In questo territorio convivono 175 nazionalità (solo per fare un paragone, in Russia in totale vivono 193 popoli). Secondo un censimento del 2015, buona parte dei cittadini sono russi (un milione e mezzo, ovvero il 68%), seguiti da ucraini (344.500, 15,7%) e tatari di Crimea (232.300, 10,6%).

E’ stato un plebiscito annunciato e che nessuno può contestare: 1.233.002 persone, il 96,77% degli elettori della Repubblica autonoma di Crimea (dichiaratasi indipendente) hanno deciso di tornare con Santa Madre Russia, dalla quale in una notte di bagordi alcolici la aveva separata nel 1954 l’allora presidente (ucraino) dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Nikita Krusciov. Visto questo precedente viene da chiedersi come mai nelle piazze della Crimea che festeggiavano la vittoria e la riannessione dopo 60 anni ci fossero, nel mare di bandiere tricolori russe, anche molte bandiere dell’Urss di kruscioviana memoria, e perché ancora di più bandiere rosse con la falce e martello e la stella ne sventolino e innalzino sui palazzi pubblici i russi delle regioni dell’Ucraina del sud-est.

A chi appartiene?

Secondo la legislazione russa, appartiene alla Federazione Russa. L’Ucraina e la comunità internazionale (il G7, la Nato e l’Unione Europea) ritengono però che la penisola faccia ancora parte dell’Ucraina. L’adesione della Crimea alla Russia è avvenuta dopo una serie di manifestazioni di massa a Kiev nell’inverno 2013-2014 (il cosiddetto Euromaidan), seguite dalla salita al potere dell’opposizione in parlamento e dalla cacciata del Presidente ucraino Viktor Yanukovich. La Crimea si è opposta al “cambiamento anticostituzionale del potere a Kiev” e si è staccata dall’Ucraina, condannando il sentimento antirusso nel Paese.

Le autorità della Crimea hanno adottato una Dichiarazione di indipendenza e organizzato un referendum, al termine del quale è risultato che il 95,6% degli abitanti ha votato per l’adesione della penisola alla Russia.

Perché molti Paesi considerano la Crimea parte dell’Ucraina?

Cento Paesi membri delle Nazioni Unite non riconoscono la legittimità del referendum della Crimea, sostenendo che esso violi la Costituzione ucraina. Secondo loro, nessuna decisione in merito alle frontiere ucraine può essere presa sulla base di un referendum nazionale. Secondo la legge ucraina, la Russia si sarebbe annessa un parte di territorio di uno Stato confinante. In segno di protesta, gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea hanno introdotto delle sanzioni nei confronti di alcuni alti funzionari russi e contro alcuni settori dell’economia russa.

La Crimea ha sempre fatto parte dell’Ucraina?

La penisola è appartenuta alla Russia dal 1783 al 1954, prima che il governo sovietico decidesse di consegnarla alla Repubblica di Ucraina come “regalo” per l’anniversario dell’annessione dell’Ucraina alla Russia, avvenuta nel 1654. Per la maggior parte degli abitanti della Crimea, questa decisione all’epoca non aveva alcun tipo di conseguenza, poiché tutta la procedura era avvenuta all’interno dell’Unione Sovietica. Con la caduta dell’Urss e l’indipendenza dell’Ucraina, la Crimea è rimasta in suo possesso.

Cosa è successo con l’elettricità?

Dopo l’adesione alla Russia, la penisola ha subito un blackout. Tutto è partito con l’acqua: Kiev ha fermato i rifornimenti in Crimea (prima di allora, l’Ucraina copriva l’85% del fabbisogno di acqua potabile nella penisola).

Successivamente la Crimea è stata privata delle forniture e dei prodotti ucraini. I tatari di Crimea, gli attivisti ucraini e alcuni membri di un’organizzazione di estrema destra hanno bloccato le strade fra la Crimea e l’Ucraina, rendendo impossibile l’accesso ai camion che trasportavano cibo. Nel novembre 2015, la penisola si è vista costretta a dichiarare lo stato di emergenza a causa di un blocco di energia: alcuni individui non identificati, vicini alla parte ucraina, avrebbero fatto saltare le linee elettriche che alimentavano la penisola.

Oggi il problema dell’approvvigionamento di acqua è stato parzialmente risolto e anche il deficit alimentare, grazie ai prodotti russi, è stato ristabilito. Il 2 dicembre è stato avviato un ponte energetico con la regione di Krasnodar.

I sistemi di pagamento Visa e Mastercard nella penisola non funzionano a causa delle sanzioni e, al momento della stesura di questo articolo, tali carte potevano essere utilizzate solo se emesse da banche russe.

I russi sono contenti dell’adesione della Crimea?

Sì, anche se l’euforia per il ritorno della Crimea è logicamente calata in due anni: se nel 2014 la decisione era stata accolta positivamente dal 79% della popolazione, in un anno è calata al 69%, secondo il centro Levada. A livello generale, il consenso su questo tema regge ancora, sia a livello di governo, sia all’interno della società.

Si può circolare legalmente tra la Crimea e l’Ucraina?

I cittadini ucraini possono entrare in Crimea con il proprio passaporto. Kiev infatti considera che i confini non siano altro che una separazione amministrativa, e Mosca non ha introdotto limitazioni: tra i due Paesi esiste infatti un regime senza visti, così come già avveniva prima degli eventi che hanno interessato la Crimea.

Gli stranieri, invece, devono ricevere dai servizi ucraini per l’immigrazione un’autorizzazione particolare per recarsi in Crimea attraverso l’Ucraina e devono rientrare passando per lo stesso punto dal quale sono partiti.

Scambio di accuse fra i leader dei due Paesi. Kiev allerta le truppe. Mosca: "Azioni di terrorismo". Gli Usa: "Nessuna prova per le parole del Cremlino"

Torna a salire la tensione fra Mosca e Kiev, con scambi di accuse durissime fra i presidenti russo e ucraino Vladimir Putin e Petro Poroshenko. Il tutto accompagnato da movimenti di truppe sui confini dei due Stati. Al centro, di nuovo, la penisola di Crimea.

Della questione si occuperà il Consiglio di sicurezza dell'Onu che si riunisce d'urgenza su richiesta di Kiev. "Siamo pronti ad affrontare nuovi sviluppi provocatori e quando verrà superato un certo punto chiederemo la convocazione del Cds", aveva anticipato ieri l'ambasciatore ucraino all'Onu Volodymyr Yelchenko parlando ai giornalisti.

Sempre ieri era stato Vladimir Putin ad accusare l'Ucraina di aver tentato di effettuare un'incursione nella penisola di Crimea, annessa da Mosca dopo il controverso referendum del 16 marzo 2014. "Si tratta di una notizia estremamente preoccupante. Infatti i nostri servizi di sicurezza sono riusciti ad ostacolare un'incursione nel (nostro) territorio ad opera di una squadra di sabotatori del ministero della Difesa ucraino" aveva dichiarato il presidente russo accusando le autorità di Kiev di "agire come terroristi".

Per il servizio di sicurezza russo (Fsb) gli attentati "orchestrati dalla Direzione generale di intelligence del ministero della Difesa ucraino, avevano come obiettivo infrastrutture vitali per la penisola" di Crimea. "I terroristi - secondo i servizi russi - vogliono destabilizzare la situazione sociopolitica durante le elezioni federali e regionali" convocate per il prossimo 18 settembre".

Le accuse che Mosca rivolge a Kiev sono "fantasie" nonché "un pretesto per ulteriori minacce militari contro l'Ucraina", ha dichiarato ieri sera il presidente ucraino Petro Poroshenko. "La Russia accusa l'Ucraina di terrorismo nella Crimea occupata nello stesso modo insensato e cinico col quale sostiene che non ci sono truppe russe nel Donbass", ha aggiunto Poroshenko che oggi ha disposto "l'allerta massima", per prepararsi al combattimento, per tutte le unità militari al confine con la Crimea e nel Donbass. Ne ha dato notizia lo stesso Poroshenko su Twitter.

Putin ha riunito il consiglio di sicurezza russo e ha fatto sapere che "misure supplementari sono state discusse per la sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture vitali in Crimea". I membri del Consiglio, ha riferito il Cremlino, "hanno studiato nel dettaglio gli scenari che riguardano le misure antiterrorismo per proteggere la frontiera terrestre, le acque territoriali e lo spazio aereo della Crimea". "Siamo pronti a tutto, anche ad una possibile invasione russa", ha detto alla France presse un alto responsabile dei servizi di sicurezza ucraini.

Gli Stati Uniti non hanno al momento alcuna prova che confermi le accuse russe di incursioni ucraine e di possibili attacchi terroristici in Crimea, ha scritto su Twitter l'ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, ricordando che "in passato la Russia ha spesso lanciato false accuse all'Ucraina per distogliere l'attenzione dalle proprie azioni illegali". L'ambasciatore ha poi escluso che le sanzioni americane contro Mosca per l'annessione della Crimea possano essere revocate se la penisola non tornerà sotto sovranità ucraina.

La marina russa prevede di tenere esercitazioni nel mar Nero per respingere attacchi da parte dei sabotatori. L'annuncio è stato dato dalle agenzie di stampa russe citando una nota del ministero della Difesa secondo cui le esercitazioni sono state previste per respingere un attacco sottomarino da parte di sabotatori via mare.

Secondo il portavoce delle guardie di frontiera di Kiev, Oleg Slobodian, negli ultimi giorni la Russia ha concentrato un numero maggiore di militari ben equipaggiati in Crimea nei pressi del confine de facto con l'Ucraina: "Queste truppe arrivano con equipaggiamenti moderni e ci sono unità d'assalto aereo", ha dichiarato Slobodian.

Il presidente ucraino ha avvertito di voler parlare direttamente con il presidente russo Vladimir Putin e con alcuni leader occidentali dopo l'aumento delle tensioni tra Kiev e Mosca. Poroshenko ha chiesto al suo ministro degli Esteri di organizzare conversazioni telefoniche con Putin e con i leader di Germania e Francia, con il vicepresidente Usa Joe Biden e con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.

Lo scontro di queste ore tra Mosca e Kiev è il più grave dai tempi dell'arrivo al potere di un governo filo occidentale in Ucraina al posto del presidente russo Viktor Ianoukovitch. Il conflitto ucraino ha già fatto più di 9.500 morti. Funzionari della Nato hanno fatto sapere che anche l'Alleanza atlantica è preoccupata per l'aumentare della tensione e sta monitorando la situazione da vicino.

L’esercito russo ha installato nella zona dei missili S-400, una mossa che rischia di aumentare la tensione con l’Ucraina, in un momento in cui diversi osservatori denunciano un’intensificazione degli scontri armati tra filorussi ed esercito ucraino. La Russia nei giorni scorsi ha accusato l’esercito di Kiev di aver ucciso due soldati russi in due operazioni avvenute nel weekend in Crimea.

La Crimea è persa per l’Ucraina perché non è mai stata sua, perché ospita la base della Flotta Russa del Mar Nero a Sebastopoli , una città dove il potere ucraino non è mai arrivato, perché sulle barricate di Kiev è ricomparso, appena schermato dalle bandiere dell’unione europea, lo spettro del nazismo ucraino, dell’eterno fascismo anti-russo incarnato dai militanti incappucciati di Svoboda e di Pravy Sektor e di altre milizie neo-nazi che, mentre la Crimea votava, organizzavano sanguinose provocazioni nelle regioni orientali russofone dell’Ucraina.

Queste cose le sa anche Barack Obama che in una telefonata con Putin ha detto che «Il referendum in Crimea viola la Costituzione ucraina», che è stata appena ripristinata dai vincitori della guerra civile di Kiev che hanno sostituito quella approvata dallo stesso Parlamento ucraino. La Crimea è perduta ed Obama quando disse che comunque esisteva ancora «Una via diplomatica per risolvere la crisi che permetterebbe di rispettare gli interessi della Russia e del popolo ucraino», più che ad un’impossibile ritorno indietro di Mosca sulla Crimea pensa probabilmente a come non far subire all’Ucraina la sorte della Yugoslavia, dove furono Washington, la Nato ed i suoi alleati europei (Italia compresa) a sbriciolare uno Stato federale sovrano (e poi la Serbia) nel nome della sovranità popolare e dell’appartenenza etnica.

Infatti Putin ha risposto ad Obama che «La tenuta del referendum in Crimea è conforme alle norme del diritto internazionale e della carta della Nazioni Unite e tiene conto del precedente del Kosovo». Mosca che si è battuta contro l’indipendenza del Kosovo che ancora non riconosce, la sbatte ora in faccia agli occidentali ricordandogli che, italiani compresi, hanno ancora truppe armate a controllare la situazione in un Paese strappato alla Serbia con un intervento militare diretto nel quale hanno combattuto contro l’esercito di un Paese sovrano.



venerdì 28 ottobre 2016

Antartide: la più grande riserva naturale al mondo



In Antartide sarà creata la più grande riserva naturale marina del mondo. Si tratta di una superficie di 1,55 milioni di chilometri quadrati nel mare di Ross, che copre circa il 12 per cento dell’oceano Atlantico. La pesca commerciale sarà vietata per 35 anni. La decisione è stata presa dopo un vertice internazionale della Commissione per la conservazione delle risorse dell’Antartico in Australia.

Uno storico accordo internazionale è stato raggiunto da 24 paesi fra cui l'Italia, oltre all'Unione Europea, per creare il più grande parco marino al mondo nell'Oceano Meridionale, nel Mare di Ross presso l'Antartide. E' il risultato raggiunto dopo cinque anni di compromessi e di negoziati falliti, dalla Commissione per la conservazione delle risorse marine viventi dell'Antartide (Ccamlr) che ha concluso venerdì la riunione annuale di due settimane a Hobart in Tasmania.

L’accordo è stato firmato a Hobart, in Australia, alla fine dell’incontro annuale della Commissione per la protezione delle risorse marine viventi in Antartide (CCAMLR), che esiste dal 1982. L’accordo è stato raggiunto il 28 ottobre dopo cinque anni di trattative fra i 24 paesi della Commissione e l’Unione Europea. La riserva sarà attiva per 35 anni, a partire da dicembre 2017: nel 2052 si dovrà decidere se prolungare le misure di protezione oppure sospenderle. La riserva sarà anche la prima zona protetta in acque internazionali.

La creazione della zona protetta nel Mare di Ross era stata proposta dagli Stati Uniti e dalla Nuova Zelanda e finora era stata ostacolata dalla Cina e dalla Russia, che praticano la pesca in quella zona. Le regole di protezione non prevedono però una diminuzione della quantità totale di pesce che può essere pescato nel Mare di Ross, ma vieteranno di pescare nelle zone più vicine alle coste dell’Antartide, cioè quelle più importanti per la sopravvivenza dell’ecosistema, dove si trovano i pesci più giovani. Grazie alle restrizioni le navi russe non potranno pescare gli esemplari più giovani di Dissostichus mawsoni (detto merluzzo dell’Antartico), una specie di pesce che si trova nelle acque oltre il Circolo polare antartico, e così non provocheranno un’eccessiva diminuzione della popolazione; inoltre non priveranno di cibo le orche, che si nutrono appunto di merluzzo dell’Antartico.

La protezione era considerata urgente data l'importanza, per le risorse naturali dell'intero pianeta, dell'Oceano Meridionale, che secondo le stime produce circa tre quarti delle sostanze nutrienti che sostengono la vita nel resto degli oceani. Le acque che circondano l'Antartide sono tra le più incontaminate al mondo, ma sono anche tra le più vulnerabili e il braccio di ferro sul loro destino andava avanti da tempo.

Secondo fonti del Guardian si era parlato di fissare la durata delle protezioni nella riserva per 50 anni, ma la Russia si è opposta. Secondo BBC, la Cina aveva proposto invece di fissare il limite a 20 anni. Evan Bloom del dipartimento di Stato americano ha detto al Guardian che sia gli Stati Uniti che altri paesi avrebbero voluto che l’area protetta fosse permanente, come richiesto dalla definizione di area marina protetta della World Conservation Union – una nota ONG ambientalista – ma non è stato possibile convincere i paesi contrari.

Il Mare di Ross è una baia profonda che molti scienziati ritengono sia l'ultimo ecosistema marino rimasto intatto sulla Terra - un laboratorio vivente ideale per studiare la vita in Antartide e gli effetti del cambiamento climatico sul pianeta.

Nell'Oceano Antartico vivono più di 10.000 specie, tra cui la maggior parte dei pinguini del mondo, balene, uccelli marini, il calamaro colossale e gli austromerluzzi, che sono l'obiettivo principale dei pescherecci che operano in questa regione ai confini del mondo.


giovedì 27 ottobre 2016

I paesi arabi devono prepararsi alla caduta dello Stato islamico



Rami Khouri, giornalista libanese è columnist del Daily Star, quotidiano di Beirut.
Gli eventi sul campo in diversi paesi stanno dimostrando quanto fosse corretto quello che molti di noi hanno detto negli ultimi due anni: lo Stato islamico non è una forza militare seria né un’entità sovrana credibile e legittima, e una volta affrontato seriamente sparirà inevitabilmente come la foschia mattutina.

Stato Islamico, o Isis, o Daesh, o Califfato, come uno scelga di chiamarlo, non è oggi e non è mai stato prima, quando pareva vincente, «una forza militare seria né un’entità sovrana credibile». Rami Khouri, giornalista libanese, evita di aggiungere che le sopravvalutazioni soprattutto occidentali sono state frutto della paura rispetto ad un terrorismo medioevale che ti colpisce in casa nei modi più cruenti immaginabili. Per valutazione ormai condivisa da analisti e intelligence mondiali, «il sedicente “stato” o “califfato” che opera in aree della Siria, della Libia e dell’Iraq è destinato a sparire», ma non i problemi legati alla sua nascita e non cancellati dalla sua scomparsa.

In un momento in cui diventa sempre più chiaro che il sedicente “stato” o “califfato” che opera in aree della Siria, della Libia e dell’Iraq è destinato a sparire, l’obiettivo critico negli anni a venire sarà riconoscere i rapporti tra le forze che ne determineranno la scomparsa.

Solo negli ultimi sei mesi le forze aeree straniere si sono coordinate con importanti truppe di terra provenienti da Iraq, Siria, Kurdistan, Libia, Iran e altre entità sostenute dall’Iran, per attaccare con forza le città controllate dall’Is in Siria, Libia e Iraq. Non c’è da stupirsi, dunque, se le forze dell’Is sono state sconfitte e hanno battuto in ritirata. Il contesto puramente militare di questo gruppo criminale è il più semplice da affrontare.

I contesti dello Stato islamico

Gli altri due contesti che definiscono la vita dell’Is sono le condizioni socioeconomiche e politiche specifiche del mondo arabo. È importante ricordare che lo Stato islamico è emerso da tre contesti – militare, politico e socioeconomico – in sacche di paesi arabi e non arabi (a cominciare dall’Afghanistan) che condividono alcune caratteristiche: sistemi politici autocratici, disfunzionali e corrotti, conflitti settari interni, disparità socioeconomiche diffuse che creano una classe di emarginati e disperati, un panorama frammentato conseguenza di un militarismo locale ed esterno (soprattutto statunitense).

Lo Stato islamico è nato perché queste condizioni hanno creato le due principali forze che lo hanno partorito: masse di individui insoddisfatti che cercavano un’alternativa alla loro vita difficile e governi inetti incapaci o riluttanti ad affrontare l’Is una volta che si è affermato sul loro territorio. Cambiare la situazione militare è relativamente semplice, come vediamo in questi giorni, ma cambiare le altre due dimensioni è indispensabile per ottenere una vittoria a lungo termine e soprattutto offrire una prospettiva di vita decente agli abitanti di questi paesi.

L’aspetto preoccupante è che le persone sostengono lo Stato islamico come alternativa più facile a una vita di stenti

Le analisi dei politologi e dei sondaggisti che operano all’interno del mondo arabo e dunque comprendono intimamente i meccanismi delle nostre società spezzate (e si meritano tutto il mio rispetto) lasciano pensare che il supporto attivo o anche l’accettazione remissiva dello Stato islamico tra le popolazioni arabe coinvolga tra il 5 e il 20 per cento della popolazione. In altre parole, su 400 milioni di arabi esiste un numero compreso tra i 20 e gli 80 milioni di individui che sostengono o comprendono le ragioni dello Stato islamico. Il numero di sostenitori più coinvolti, finanziatori, ammiratori, membri e facilitatori logistici dell’Is nel mondo arabo probabilmente non supera le poche centinaia di migliaia, ma il serbatoio di possibili aderenti o simpatizzanti è nell’ordine dei milioni.

L’aspetto realmente preoccupante di tutto questo è che queste persone non sostengono lo Stato islamico perché ne condividono l’ideologia, ma solo perché l’Is rappresenta la più comoda alternativa alla vita di stenti che conducono, un destino che considerano inevitabile per i loro figli e nipoti. Queste dimensioni politiche e socioeconomiche della loro vita e della loro società causano povertà, dolore, esclusione, discriminazione, sofferenza.

Nessun cambiamento in vista

Se da un lato è confortante assistere a uno sforzo militare coordinato locale e straniero per respingere lo Stato islamico, questo non basterà a liberare la nostra regione (e il mondo) dagli effetti di questi movimenti criminali ed estremisti, che sostanzialmente sono la conseguenza delle nostre carenze politiche e socioeconomiche. Né i governi arabi né altri di peso come Stati Uniti, Russia, Iran e Regno Unito hanno mostrato alcun segno (nemmeno un accenno o un gesto di comprensione) di voler intraprendere uno sforzo serio per migliorare radicalmente le condizioni che alimentano l’estremismo ideologico e la militanza criminale.

I governi di Egitto, Giordania, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Algeria e altri paesi arabi sono minacciati dallo Stato islamico più di chiunque altro, ma sono gli stessi che mostrano la minore volontà (o capacità) di avviare il cambiamento radicale necessario per estirpare l’Is alla radice. I loro sostenitori stranieri negli Stati Uniti, in Iran, nel Regno Unito e altrove sembrano felicissimi di continuare a vendergli miliardi di dollari di armi senza spingerli verso le difficili riforme politiche ed economiche che servirebbero per porre fine a questa guerra.

Fino a quando non miglioreremo queste dimensioni politiche e socioeconomiche lo Stato islamico e altri movimenti simili, se non peggiori, continueranno a emergere dalle nostre società arabe con la stessa naturalezza della foschia mattutina.

Né i governi arabi né altri Paesi di peso politico economico planetario, come Stati Uniti, Russia, Iran e Regno Unito «hanno mostrato un accenno, un gesto di comprensione, nel voler migliorare le condizioni che alimentano l’estremismo ideologico e la militanza criminale. I governi di Egitto, Giordania, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Algeria e altri paesi arabi sono minacciati dallo Stato islamico più di chiunque altro, ma sono gli stessi che mostrano la minore volontà di avviare il cambiamento radicale necessario per estirpare l’Is alla radice». Per la nostra attualità, basta pensare all'attenzione riservata al flusso migratorio, senza cercare di contrastarne le origini.

«I loro sostenitori stranieri negli Stati Uniti, in Iran, nel Regno Unito e altrove sembrano felicissimi di continuare a vendergli miliardi di dollari di armi senza spingerli verso le difficili riforme politiche ed economiche che servirebbero per porre fine a questa guerra».

«Fino a quando non miglioreremo queste dimensioni politiche e socioeconomiche lo Stato islamico e altri movimenti simili, se non peggiori, continueranno a emergere dalle nostre società arabe con la stessa naturalezza della foschia mattutina».


lunedì 24 ottobre 2016

Ungheria, 60 anni fa si spegneva il sogno



Budapest, 23 ottobre 1956. Tutto era cominciato dalla morte di Stalin nel marzo 1953. La successiva destalinizzazione iniziata da Nikita Kruscev era culminata nel XX congresso del PCUS, dove furono portati alla luce i crimini del dittatore nel cosiddetto "rapporto segreto" ed il suo iperbolico culto della personalità. L'effetto sugli stati satellite del Patto di Varsavia è violento. Le prime manifestazioni, represse, avvengono poco dopo la morte dell'ex dittatore comunista a Berlino Est.

Il processo di democratizzazione avviato dal premier comunista riformatore Imre Nagy fu soffocato nel sangue dalle forze armate sovietiche. Tutto cominciò nello splendido centro storico di Budapest sessant'anni fa, oggi il mondo dei Millennials non lo sa o lo ha dimenticato. Ungheria, 23 ottobre 1956. I cecchini della AVH, Allam védelmi hatosàg, l'odiata e temuta polizia segreta, cominciarono all'improvviso a sparare sulla grande folla della manifestazione pacifica per la democratizzazione, voluta dagli studenti in appoggio al premier comunista riformatore Imre Nagy.

Sangue, morti per le strade, reazioni esasperate e violente della piazza. E poche ore dopo tutto precipitò: guidate dal giovane, 'smart boy' comunista riformatore anche lui, il generale Pàl Maléter, le forze armate nazionali si schierarono con gli insorti, e indussero l'Armata rossa alla ritirata. Ungheria '56, sessant'anni dopo: oggi quello splendido paese mitteleuropeo è libero, membro di Ue e Nato.

Nell'Europa divisa dalla guerra fredda tra mondo libero e Impero del Male, il paese era allo sfascio: economia un tempo mitteleuropea in rottami, fame diffusa, classe media e imprese distrutte, mercato nero quotidiano, oltre centomila prigionieri politici in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. Torture ed esecuzioni segrete divenute pratica quotidiana nelle carceri della AVH. Così non possiamo continuare, dissero in riunioni del Comitato centrale Nagy, Maléter, i loro seguaci. Chiesero le dimissioni dei vertici del regime. La gente fu con loro, decise di rischiare in piazza. Sapendo bene che il premier Nagy non aveva il controllo di polizia e servizi.

Sembrò una vittoria, l'Armata rossa dopo i primi scontri con i soldati di Maléter si ritirò. Lasciò quasi tutto il territorio magiaro. Vennero le settimane della libertà. Nagy e il suo governo si misero subito al lavoro su progetti di riforme radicali: sistema socialista ma con libere elezioni, diritto alla neutralità, amnistia, diritto a lasciare il Patto di Varsavia, l'alleanza militare imposta dal Cremlino ai paesi occupati e ridotti a colonie sfruttate come il Congo lo fu dal Belgio.

Per 4 giorni l'Ungheria vivrà un periodo di effimera libertà, sempre minacciato dall'imminente contrattacco sovietico e funestato dalla violenza degli scontri quotidiani con la polizia segreta e con i militari dell'Urss. Poco dopo l'inizio della rivolta parte dell'esercito regolare ungherese comandato dal generale Pal Maleter (ministro della Difesa nel governo Nagy) appoggia la protesta, rimanendo passivo nei confronti dei manifestanti.

Quando Imre Nagy si appella all'ONU e dichiara la volontà di uscire dal Patto di Varsavia, le autorità sovietiche decidono per l'invasione dell'Ungheria con un ingente spiegamento di uomini e mezzi corazzati.

Nel governo Nagy si consumava il tradimento da parte del segretario del partito comunista Ungherese Janos Kadàr, che scelse di riallinearsi con l'Urss condannando definitivamente l'esito della rivoluzione. Tra il 4 e il 10 novembre 1956 l'Armata Rossa penetra in territorio magiaro fino alla capitale Budapest, anticipata da incursioni aeree dell'aviazione sovietica. Il giorno stesso Nagy fu sostituito da Kadàr, ed in seguito tratto in arresto dopo una breve permanenza nell'ambasciata Jugoslava proprio mentre i carri sovietici soffocavano la rivolta per le vie della capitale.

Vennero i giorni e le settimane della Grande illusione, Orbàn oggi preferisce non parlarne troppo per non inimicarsi l'amico e compagno di modello autoritario Vladimir Vladimirovic Putin. Illusioni alimentate irresponsabilmente dall'Occidente: gli ungheresi liberi a termine contarono su un aiuto. Che sarebbe stato impossibile, salvo scatenare la terza guerra mondiale.

"I sogni muoiono all'alba", scrisse allora Indro Montanelli, straordinario cronista da Budapest libera per quelle poche settimane. L'Impero colpì ancora. Invano il presidente jugoslavo Tito cercò di consigliare a Mosca, e anche a Nagy, moderazione e ricerca di compromesso. Alla fine a Tito, leader del solo paese socialista indipendente da Mosca e in buoni rapporti col mondo libero (la Jugoslavia), non restò altro che proclamare l'allarme rosso militare e offrire a Nagy asilo nell'ambasciata jugoslava a Budapest. I sogni muoiono all'alba: nella prima settimana di novembre venne spietato e sanguinario il contrattacco dell'Armata rossa, si sentiva umiliata dai soldati di Maléter e aveva sete di vendetta.

Decine di Panzer divisionen, centinaia di migliaia di soldati dei corpi scelti, squadriglie e squadriglie di caccia Mig e bombardieri Iljushin carichi di bombe incendiarie, assaltarono all'alba Budapest e tutta l'Ungheria. Resistenza disperata, nemico troppo più forte, due settimane di combattimenti. Migliaia o forse decine di migliaia di morti, le statistiche furono poi in mano al regime  di Janos Kàdàr, il proconsole imposto. Due settimane di combattimenti disperati, stupri in massa da parte degli invasori, fuga in massa di circa mezzo milione d'ungheresi a piedi verso l'Austria che tanti dei migliori scrittori della vitale, splendida letteratura magiara raccontarono poi in libri pubblicati non in patria. Il peggio venne dopo. Centinaia, o più, di persone torturate, stupri ed esecuzioni in carcere. Fino all'inganno perfido teso da Kàdàr a Nagy e a Tito: 'consegnati, ti perdoneremo'. Tito diffidava, Nagy si fidò e finì processato e impiccato. Nei decenni successivi, Kàdàr comprò il consenso del paese sconfitto con consumismo  e con una censura ammorbidita per cineasti, scrittori, intellettuali, giornalisti.

Nagy e Maléter furono esempio per le speranze di riformare il socialismo di Alexander Dubcek a Praga (stroncate anche quelle da un'invasione sovietica), poi della voglia di libertà dei dissidenti cecoslovacchi attorno a Vaclav Havel, e ancor più di Solidarnosc, il movimento democratico polacco che avviò la fine dell'Impero. Ci conoscemmo negli anni della guerra fredda, Fejto e io, quando una fine dell'oppressione sembrava a noi occidentali impossibile, ma non a lui né all'altro grande intellettuale ungherese scappato dopo il '56, Pàl Lendvai, poi alta sfera del Financial Times. Li rincontrai in quell'estate indimenticabile del 1989 al solenne funerale-riabilitazione di Imre Nagy, loro a fianco di Judit la vedova indomabile e fiera. A quella cerimonia il discorso più coraggioso fu tenuto da un giovane allora dissidente liberal, Viktor Orbán: "Fuori le truppe sovietiche occupanti". Bei ricordi, ma lontani. Orbàn, abilissimo trasformista è divenuto popolare premier nazionalconservatore al potere dal 2010.

Il 4 novembre l'Unione Sovietica, conscia che l'Ungheria avrebbe potuto diventare un pericoloso precedente di uno stato che sarebbe uscito dall'orbita di Mosca, e che esisteva il rischio di un intervento militare occidentale nel paese, iniziò l'invasione con un'ingente forza di oltre 200mila uomini.

Nagy si rifugiò inizialmente presso l'ambasciata della Iugoslavia, paese comunista ma non strettamente legato all'Unione Sovietica, dove rimase fino al 22 novembre, data in cui, a rivoluzione conclusa, fu consegnato ai sovietici che nel frattempo l'avevano sostituito con János Kádár. Nel giugno del 1958, il nuovo governo ungherese impiccò Nagy.

La rivolta ungherese e la sua repressione ebbero conseguenze sul comunismo in tutto il mondo. In Italia, dove i comunisti filosovietici erano rappresentati dal Pci, il più grande partito comunista dell'occidente, la spaccatura sul tema della rivoluzione fu evidente.
Mentre numerosi intellettuali firmarono il Manifesto dei 101, a sostegno dell'insurrezione, il Pci denunciò la rivoluzione, tacciando i suoi partecipanti di essere teppisti. Il leader comunista Palmiro Togliatti votò inoltre a favore della condanna a morte di Nagy nel 1957.




venerdì 21 ottobre 2016

Unesco, voto anti-Israele sui luoghi santi del Medio Oriente



L'Unesco ha ufficialmente adottato una risoluzione su Gerusalemme est voluta dai Paesi arabi a nome della protezione del patrimonio culturale palestinese, ma contestata con veemenza da Israele perché nega il legame millenario degli ebrei con la Città vecchia dove sorge il Muro del pianto, il luogo più sacro agli ebrei di tutto il mondo. Tra l'altro, nel testo presentato col fine di "tutelare il patrimonio culturale della Palestina e il carattere distintivo di Gerusalemme Est", i luoghi santi della Città Vecchia sono indicati solo con il nome arabo, cosa che ha indignato gli israeliani.

Sostenuta dall'Autorità palestinese e presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, la risoluzione era stata esaminata e votata giovedì scorso a Parigi dai 58 stati membri del consiglio esecutivo dell'organizzazione per la pace e la cultura dell'Onu. Oggi, al termine dei dibattiti, "è stata definitivamente adottata, senza bisogno di una seconda votazione", così ha dichiarato un portavoce dell'agenzia culturale dell'Onu.

Per Israele si tratta di un vero e proprio bacio di Giuda. Il consiglio esecutivo dell’Unesco riunito a Parigi ha ufficialmente adottato una risoluzione chiamata “Palestina occupata” che riguarda la città vecchia di Gerusalemme (che si trova a Gerusalemme Est, annessa nel 1967).

Una risoluzione che ha provocato la rabbia delle autorità israeliane. Per lo stato ebraico questo testo, sostenuto da diversi paesi arabi (Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar, Sudan) in nome della protezione del patrimonio culturale palestinese, nega il legame storico che unisce gli ebrei al Monte del tempio facendo riferimento a quest’ultimo solo con il suo nome arabo di Haram al Sharif (Spianata delle moschee).La risoluzione dell’Unesco sui luoghi santi del Medio Oriente denominati in arabo «è una vicenda che mi sembra allucinante, ho chiesto al ministro Esteri di vederci subito al mio ritorno a Roma».

La Spianata delle moschee, che gli ebrei chiamano Monte del tempio, situata dove un tempo sorgeva il primo tempio all’epoca del re Salomone (nel decimo secolo avanti Cristo), è il sito più sacro della religione ebraica e il terzo luogo più santo dell’islam dopo la Mecca e la Medina, ricorda i24news.

Solo gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, l’Estonia, la Lituania e i Paesi Bassi si sono pronunciati contro la risoluzione, che era già stata votata una prima volta in commissione il 13 ottobre (24 voti favorevoli, sei contrari e 28 astensioni).

E se favorisse Israele?
L’Autorità Nazionale Palestinese si è detta soddisfatta per la decisione dell’agenzia delle Nazioni Unite e perché la risoluzione conferma che Israele è una “forza di occupazione”. A sua volta il rappresentante di Israele all’Unesco, Carmel Shama-Hacohen, ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco, rallegrandosi per il cambiamento di posizione espresso dal Messico, che si è astenuto, e per la posizione del Brasile, che ha espresso alcuni dubbi sul linguaggio della risoluzione.

Su Newsweek Michael Rubin, un ex responsabile del Pentagono ed esperto di Medio Oriente, è molto critico nei confronti dell’Unesco, che per lui è “inquinata dall’odio politico” e quindi ha perso credibilità.

Per Daniel Gordis di Bloomberg, questa risoluzione, che segue la vecchia strategia seguita da Yasser Arafat (l’ex leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, morto nel novembre 2004), potrebbe in fin dei conti favorire gli interessi di Israele. A condizione però che la sua reazione rimanga misurata e non sproporzionata, cosa che finirebbe per aumentare il rifiuto della comunità internazionale nei confronti di Tel Aviv.


Attacco informatico: Twitter, Spotify e New York Times. Web «down» negli Usa



Prima la notizia della portaerei hackerata, poi tutta una serie di down per alcuni dei siti Internet fra i più importanti del Paese. Non è un bel giorno, questo, per l'America digitale. Un susseguirsi di attacchi hacker violentissimi sta minando le certezze statunitensi. E che possa essere un assaggio di cyber war appare molto più che una semplice ipotesi, soprattutto dopo le polemiche di questi giorni che hanno visto coinvolte la Casa Bianca e la Russia di Putin. Ma andiamo con ordine.

Il Dipartimento americano per la sicurezza nazionale ha aperto un'inchiesta sul maxi-cyber attacco sferrato sulla costa orientale degli Stati Uniti da hacker ai siti web di molte società, da Twitter al New York Times. Lo riporta la Nbc.

 Un enorme cyeberattacco ha colpito il traffico di centinaia di siti web, soprattutto per gli utenti internet della costa est degli Stati Uniti, compresi quelli di Twitter, Financial Times, Spotify, Reddit, e-Bay e New York Times. Lo riportano i media Usa.

Il blocco di alcuni dei principali siti web causato da un attacco hacker negli Stati Uniti e' durato circa due ore, mentre ora il traffico e' ripreso regolarmente. Lo rende noto la societa' Dyn, i cui server sono stati presi di mira - si spiega - da pirati informatici che hanno mandato in tilt il sistema provocando un sovraccarico di traffico.

Il Financial Times lo ha definito «un enorme cyber-attacco», e l’aggettivo non pare esagerato se si pensa al numero – centinaia – di siti coinvolti. E al loro nome: da quello del quotidiano economico stesso al New York Times, da Twitter a Pinterest, da Reddit a Spotify e eBay (qui l’elenco completo). Si è trattato di un vero blackout, pur delimitato a livello geografico: a soffrire dell’inacessibilità sono stati soprattutto gli utenti americani, e in particolar modo quelli residenti nella costa est del Paese.


L’obiettivo dell’attacco in stile Ddos – sigla ormai conosciuta ai più che significa “Distributed denial of service”, un’enorme numero di “chiamate” continue che abbattono i server – è stata l’azienda Dyn del New Hampshire, quello che si può definire un elenco telefonico della Rete. Il lavoro della Dyn è di tradurre gli indirizzi che comunemente digitiamo nei browser – come Corriere.it - negli indirizzi Ip, i numeri di riferimento che la Rete riconosce per “servirci” il sito richiesto.

L’attacco, non rivendicato in alcun modo, sarebbe partito alle 7 del mattino ora locale (le 13 italiane) e come detto ha interessato larga parte della costa est degli Usa, come mostrato dall’immagine sopra. Se i motivi non sono noti, più evidenti sono i danni per milioni di dollari causati da un “buio” di questa portata. Il servizio di distribuzione dei siti richiesti infatti sarebbe stato ripristinato solo tre ore dopo, intorno alle 9.45 della costa est.

Al momento è difficile stabilire la matrice dell'attacco. L'ipotesi russa, visti i rapporti tesissimi fra i due Paesi e le note capacità informatiche degli hacker all'ombra del Cremlino, è sicuramente una pista caldissima. I servizi di Dyn sono stati messi ko da un violento attacco DDoS (distributed denial of service). Ma cos'è un attacco DDoS?

In sostanza è una variante di un attacco DoS, nella quale si impiega un vastissimo numero di computer infetti per sovraccaricare il bersaglio (il sito, o l'insieme di siti) con traffico fasullo. È come se decine di milioni di persone cliccassero contemporaneamente su un sito, andando così a saturare tutte le risorse di banda a disposizione. Il risultato è semplice: sito down. Ovviamente nei casi di attacchi vengono usati botnet in grado di cooptare milioni di computer infetti affinché partecipino - involontariamente - all'attacco.



mercoledì 19 ottobre 2016

Elezioni Usa, Malik Obama si schiera con Donald Trump



Hillary Clinton è avanti di 9 punti su Donald Trump. E' quanto emerge dall'ultimo sondaggio di Bloomberg, che dà la ex first lady al 47% contro il 38% del tycoon. Il candidato libertario, Gary Johnson, è all'8% e la candidata dei Verdi, Jill Stein, al 3%. Il 5% degli intervistati comprende gli indecisi, coloro che non andranno a votare e chi si rifiuta di esprimere la propria preferenza.

Tutto e' pronto alla University of Nevada di Las Vegas per l'ultimo grande appuntamento mediatico della campagna elettorale americana. L'ultimo duello tv tra Donald Trump e Hillary Clinton, per il quale ci si attende un nuovo record di ascolti con oltre 80 milioni di persone incollate al piccolo schermo. La parola d'ordine e' una sola: vietato sbagliare.

Il dibattito, che cade a 21 giorni dall'Election Day dell'8 novembre, avrà inizio alle 8 di sera ora di Las Vegas (le 3 del mattino in Italia) e avrà come i precedenti una durata di 90 minuti. A moderare sara' l'anchorman di Fox News Chris Wallace. La serata sarà divisa in sei segmenti di 15 minuti l'uno, ognuno su uno dei temi principali della campagna elettorale. Ogni candidato avra due minuti per rispondere. I due contendenti avranno anche la possibilità di rispondersi a vicenda.

Mancano meno di venti giorni alle elezioni presidenziali, e la campagna ormai è senza esclusione di colpi: Trump "punta" persino sui parenti di Obama.

Ci sarà infatti anche un Obama al terzo e ultimo dibattito presidenziale statunitense tra la candidata democratica, Hillary Clinton, e il candidato repubblicano, Donald Trump, in programma questa sera a Las Vegas: Malik, fratellastro del presidente Barack, è stato invitato dal miliardario di New York.

Malik, 58 anni, è nato a Nairobi ed è cittadino statunitense. "Sono eccitato all'idea di andare al dibattito. Trump può rendere di nuovo grande l'America" ha detto Malik, intervistato dal New York Post.

Il candidato repubblicano ha detto: "Non vedo l'ora di incontrare e di stare con Malik. Capisce molto più di suo fratello". Malik ha poi dichiarato al quotidiano di non credere alle accuse sessuali contro Trump: "Perché non sono uscite fuori prima?". Il fratellastro del presidente americano ha anche accusato Hillary Clinton di essere la responsabile del caos e delle violenze attuali in Medio Oriente: un vero e proprio "trumpiano doc". Malik Obama aveva annunciato il suo endorsement a Trump alcuni mesi fa, mettendo in serio imbarazzo il presidente degli Stati Uniti.

Ce l’ha col presidente in carica per l’uccisione di Muammar Gheddafi e con Hillary Clinton per il vecchio scandalo delle mail, quando la candidata ed ex first lady era segretario di Stato. Per questo Malik Obama, fratellastro di Barack Obama, ha deciso di votare per il candidato repubblicano Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

A rivelarlo in esclusiva è il New York Post, che dedica due pagine allo sfogo di Malik, attualmente presidente di una controversa fondazione caritatevole intitolata alla memoria del padre Barack H. Obama, in Virginia.

«Mi piace Donald Trump perché parla con il cuore», ha detto al New York Post Malik Obama, che al fratellastro rinfaccia di non averlo mai aiutato o supportato nelle sue attività. «Make America Great Again è un grande slogan», continua Malik, che sulla copertina del quotidiano americano compare con tanto di cappellino rosso e motto pro-Trump.

E se col presidente degli Stati Uniti dice di non parlare ormai da un anno, la stima per il tycoon di New York è tale e tanta che Malik confessa che sarebbe onorato di poter incontrare di persona Donald J. Trump. Alla faccia del fratellastro e di tutto il Partito Democratico.



martedì 18 ottobre 2016

Riunione a Parigi il 20 ottobre sul futuro di Mosul



La Francia e l’Iraq hanno invitato una ventina di paesi, tra cui la Turchia e i paesi del Golfo, a “preparare il futuro politico di Mosul” dopo l’offensiva lanciata il 17 ottobre. L’esercito iracheno, i peshmerga curdi e le milizie sciite, sostenute da una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, avrebbero già inflitto dure perdite ai jihadisti, che controllano Mosul dal giugno del 2014. Secondo l’Unicef più di mezzo milione di bambini è minacciato dai combattimenti in corso. Si stima che in totale i civili in pericolo siano un milione e mezzo.

Ritirandosi, l’Isis lascia terra bruciata. Dà fuoco ai campi di sterpaglia secca, facili da accendere, come ben sanno i contadini abituati a lavorare d’autunno. Incendia abitazioni, fattorie, distributori di benzina e piccoli carretti carichi di taniche di carburante sparsi nella campagna. Colonne di fumo nero si librano nel cielo.

L’orizzonte è offuscato, l’aria inquinata, si aggiunge sporco allo sporco. «Il fumo li nasconde ai droni e agli elicotteri della coalizione alleata. Sotto la sua protezione i jihadisti del Califfato piazzano le cariche esplosive, le mine anti-uomo, nascondono dietro i muri le loro auto kamikaze pronte lanciarsi contro le nostre colonne», dicono i soldati peshmerga (i battaglioni curdi nell’Iraq settentrionale), legandosi fazzoletti scuri attorno al viso. In alto sfrecciano i jet della coalizione guidata dagli americani, con una forte partecipazione canadese. A terra lo sferragliare dei tank, i tremolii del suolo al loro passaggio, l’eco di esplosioni e raffiche.

«Nessuno sa bene cosa avverrà della maggioranza sunnita della popolazione di Mosul. Quanti di loro stavano davvero con l’Isis? Quanti ne sono invece ostaggi o collaboratori riluttanti? In verità non lo sappiamo e tutto ciò costituisce una gigantesca ipoteca politica», ci dice una vecchia conoscenza tra i diplomatici occidentali che da anni lavorano a Erbil. Si ipotizza oltre un milione di profughi.

Vengono allestiti campi di tende. Il fatto che siano solo poche migliaia sino a ora è così spiegato: l’Isis minaccia di uccidere chiunque cerchi di fuggire. Propaganda e classica confusione delle notizie in guerra vanno a braccetto. Sostiene in modo sorprendentemente diretto Ahmed Meithan, sergente 26enne della Al Furqa al Dhabbiah, traducibile come «L’Unità Dorata», il fior fiore delle forze speciali irachene, mandate specificamente dai comandi di Bagdad per mettersi alla testa delle colonne che prenderanno il centro della città. «Sono oltre tre mesi che ci addestriamo per questo compito.

Abbiamo unità simili alla nostra anche a sud e ad est. Militari curdi, milizie sunnite e soprattutto milizie sciite dovranno evitare di entrare nel cuore di Mosul. Lo faremo invece noi, che siamo soldati iracheni, sciiti o sunniti non importa, abbiamo ordini precisi per risparmiare la popolazione ed evitare scontri settari», spiega Meithan. Con un’aggiunta: «Al momento il nostro attacco a tenaglia mira a guadagnare territorio e isolare Mosul. In meno di due giorni abbiamo liberato una ventina di villaggi, molti dei quali curdi. Ci stiamo avvicinando a quelli cristiani. Ma, una volta dentro Mosul città, la sfida sarà più politica che militare. Dovremo guadagnarci la fiducia della popolazione. E sarà molto complicato. Ci sono partiti, minoranze, interessi diversi ed opposti in gioco».

Secondo l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati le persone in fuga da Mosul potrebbero arrivare a 100.000. Il ministro della Difesa francese ritiene che i combattimenti potrebbero continuare per mesi. Gli sciiti iracheni protestano contro la partecipazione dell'esercito turco alla battaglia di Mosul. La Croce Rossa Internazionale teme l'uso di armi chimiche .

Il ministro della Difesa francese ritiene che i combattimenti potrebbero continuare per mesi Secondo il ministro della Difesa francese, Jean-Yves Le Drian i combattimenti per strappare Mosul alle milizie dello Stato Islamico potrebbero anche durare mesi: "potrebbe essere una battaglia lunga, non è una guerra-lampo, un blitzkrieg", ha avvertito Le Drian, che martedì prossimo ospiterà a Parigi un vertice con dodici pari grado di altrettanti Paesi facenti parte della coalizione internazionale anti-Isis guidata dagli Usa. "E' una faccenda di lunga durata, destinata a durare parecchie settimane, forse mesi", ha aggiunto il ministro francese, riprendendo le parole pronunciate ieri dal comandante della coalizione, il generale americano Stephen Townsend.

Intanto a Baghdad migliaia di seguaci del religioso sciita iracheno Muqtada al-Sadr si sono radunati davanti all'ambasciata turca per protestare contro l'intervento di Ankara negli affari interni dell'Iraq e la presenza delle truppe turche nel Paese. Lo sceicco Ali al-Saadi, uno degli organizzatori, ha riferito che i manifestanti hanno intonato degli slogan contro Ankara a cui è stato richiesto più volte di ritirare le sue truppe dalla base di Bashiqa, 14 chilometri a nord della città di Mosul. Il governo iracheno ha più volte chiesto alla Turchia di ritirare le sue truppe da Bashiqa, dove militari turchi formano le milizie sunnite locali. Ankara ha però rifiutato categoricamente di ritirare il contingente, dichiarando che la sua è una missione volta all'addestramento e non a combattere, malgrado la presenza di carri armati e blindati. La protesta di oggi coincide con la notizia, diffusa dal primo ministro turco Binali Yildirim, sulla partecipazione dell'aviazione turca nei raid della coalizione internazionale impegnata nella liberazione di Mosul, roccaforte dell'Isis in Iraq.

In un ulteriore sviluppo la Croce Rossa internazionale ha comunicato di temere l'uso di armi chimiche nella battaglia per Mosul e di essersi preparata a questa evenienza. "Non possiamo escludere l'uso di armi chimiche" nella battaglia per liberare Mosul dal sedicente Stato Islamico (Is), ha ammesso Robert Mardini del Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc). Incontrando i giornalisti, Mardini ha spiegato che l'Icrc si sta preparando i propri operatori sanitari e sta inviando equipaggiamento alle strutture sanitarie vicino a Mosul "in modo che possano trattare casi di persone contaminate e provvedere alla decontaminazione".


lunedì 10 ottobre 2016

Morto il regista polacco Andrzej Wajda, l'uomo dell'impegno politico




Aveva 90 anni. Palma d'oro nel 1981 e Oscar alla carriera nel 2000. E' morto a Varsavia il più famoso regista polacco, Andrzej Wajda. Aveva 90 anni. Wajida ha vinto la Palma d'oro nel 1981 col suo "L'uomo di ferro" e nel anno 2000 ha ricevuto l'Oscar alla carriera.

L’impegno politico e civile, i temi dell’antisemitismo e della lotta ai totalitarismi hanno segnato l’intera opera del regista che aveva da poco raggiunto i 90 anni, festeggiandoli proprio con «Immagini residue», il suo sessantacinquesimo lungometraggio, l’ultimo di una carriera lunga 60 anni. Figlio di un militare di carriera assassinato dai Sovietici nel 1940, in quello che poi divenne noto come il massacro di Katyn (episodio ricostruito nel film omonimo del 2007), Wajda si era arruolato durante l’ultima guerra nelle formazioni partigiane non comuniste e subito dopo, nel 1953, si era iscritto alla Scuola Cinematografica di Lodz, dove aveva iniziato a girare cortometraggi.

Negli Anni ‘90, in linea con la scelta di assumere la carica politica di senatore di Solidarnosc, la sua ispirazione si concentra sugli argomenti intorno a cui ruota la sua intera esistenza, lasciando però, sempre al centro di tutto, l’attenzione verso gli esseri umani, con le loro pulsioni e la loro possibilità di scegliere tra il bene e il male. Il suo ultimo film, dedicato a un artista vittima, nel dopoguerra, repressioni dovute al rifiuto di piegarsi alle norme del «realismo socialista», è il testamento di un regista che non ha mai fatto un passo indietro sul cammino della libertà: «”Immagini residue” - spiegava Wajda - è il ritratto di un uomo integro, un uomo sicuro delle proprie decisioni, un uomo dedito a un’arte di non sempre facile apprendimento».

Ha sempre trattato nelle sue opere la storia complessa e drammatica della Polonia. Un suo importante film è stato Walesa – L’uomo della speranza, uscito nel 2013. Il regista, nato a Suwalki il 6 marzo 1926, secondo i media locali si è spento a Varsavia. Il suo classico L’uomo di marmo, del 1977, è una critica convinta dellostalinismo nel suo paese: in L’uomo di ferro, del 1981, raccontò la storia degli scioperi che si erano svolti l’anno precedente e la lotta per la nascita di liberi sindacati, Solidarnosc.  Wajda ha studiato alla Scuola nazionale di cinema di Lodz e i suoi primi tre film,Generazione (1954), I dannati di Varsavia (1957) e Cenere e diamanti (1958) sono considerati dei classici della scuola di cinema polacca. In questi film, il regista, affronta i temi della guerra e dell’arrivo al potere del Partito Comunista dopo il 1945.

Il suo ultimo film "Afterimage" sarà presentato giovedì prossimo a Roma durante la Festa del cinema, presenti l'equipe e gli attori che lo hanno realizzato. Il film racconta la vita del pittore polacco Wladyslaw Strzeminski (1893-1952) e delle repressioni da lui subite nel dopoguerra in Polonia per il rifiuto di piegarsi alle regole del 'realismo socialista', ovvero la dottrina ufficiale imposta agli artisti dal Partito comunista.

 Wajda è il simbolo del cinema polacco che sta "annusando i tempi" e cerca di sottoporre le risposte alle domande che si pongono gli spettatori polacchi: è quanto ha scritto nel suo commiato per il regista piu' noto critico cinematografico polacco, Tadeusz Sobolewski. Sobolewski ricorda come il film 'L'uomo di marmo' realizzato nel 1977 precedeva solo di qualche anno lo sciopero dell'agosto 1980 a Danzica e la nascita del sindacato Solidarnosc, il tema poi continuato da Wajda con 'L'uomo di ferro' realizzato nel 1982 nonché, dopo anni, con il film sul premio Nobel Lech Walesa 'L'uomo della speranza', presentato nel 2013. Wajda, che ha subito il duro impatto della Seconda guerra mondiale e nelle fosse di Katyn ha perso il padre, secondo Sobolewski ha cercato con vari film, compreso 'Katyn' del 2007, di avvisare e prevenire affinché' i suoi connazionali non ripetono più "i sacrifici inutili", "l'eroismo invano", "il culto della sconfitta". "Ha creduto nella missione del cinema, nella responsabilità dell'artista di fronte alla società", ha sottolineato Sobolewski.

sabato 8 ottobre 2016

John Rockefeller un secolo fa



John Rockefeller, fondatore della dinastia Standard Oil, diceva da ragazzo a Cleveland, Ohio, «Ho solo due ambizioni, guadagnare 100.000 dollari e arrivare a cento anni». Morirà nel 1937, due anni e due mesi prima di doppiare il secolo, ma con un patrimonio stimato da Forbes in 340 miliardi di dollari rivalutati al 2015 che fa di lui l’uomo più ricco della storia, quattro volte Bill Gates, «Titano del capitalismo» secondo lo storico Chernow. Il suo schivo nipote, David Rockefeller, compie invece il secolo che ha eluso il titanico nonno, e oggi celebra l’evento regalando un’oasi naturale al Maine, dove passava le vacanze da scolaro.

La sua ambizione, quando aveva soli 16 anni, era di guadagnare 100.000 dollari e vivere 100 anni. Ma John Davidson Rockefeller, che ha vissuto 97 anni, ha guadagnato molto di più: a 25 anni era l'uomo più ricco dei suoi tempi e nel 1916 Forbes lo incoronò il primo miliardario al mondo con una fortuna pari ad attuali 30 miliardi di dollari.

Il suo successo, iniziato nel 1870 con la fondazione di Standard Oil, è alla base ancora oggi delle fortuna della famiglia Rockefeller, una delle paperone al mondo con 10 miliardi di dollari, ma non più ai vertici della gerarchia finanziaria americana. La sua eredità è visibile in tutta America. Uno dei contributi maggiori è stato l'assegno staccato dallo stesso John Rockefeller per fondare l’Università di Chicago: un contributo per creare il primo ateneo Battista da 80 milioni di dollari, pari ad attuali 2 miliardi di dollari. Ma il contributo più famoso è di suo figlio John Rockefeller Junior, che ha realizzato il Rockefeller Center di New York.

La scalata al successo di John Rockefeller, devoto religioso e avido giocatore di golf, è avvenuta con alle spalle solo un breve periodo di studi da ragioniere presso una scuola professionale di Cleveland, in Ohio, dove si è trasferito con la famiglia quando aveva 14 anni. Nel 1855, a 16 anni, ha trovato lavoro in una società di Cleveland che acquistava e vendeva grano, carbone e altre commodity. Quattro anni dopo fondo, con alcuni partner, una sua società. Il 1859 è anche l'anno della prima trivellazione per il petrolio americano. Nel 1863 Rockefeller entrava nel boom dell'industria petrolifera investendo in una raffineria di Cleveland, poi divenuta la più grande della città. E' stato a quel punto che Rockefeller ha deciso di accendere un prestito per acquistare le quote dei suoi soci e iniziare a gettare le basi di Standard Oil, che ha fondato nel 1870.

Da li' una corsa senza fine, con Standard Oil che ha iniziato a crescere con acquisizioni, fino a diventare monopolista del settore. Un monopolio durato anni, fino al 1911, quando la Corte Suprema ordinò di smantellarla dopo anni di battaglia legale. Rockefeller ha guidato il suo colosso fino alla metà degli anni 1890, per poi dedicarsi alla filantropia.

I campi petroliferi della Pennsylvania occidentale erano allora oggetto di uno sfruttamento febbrile, che moltiplicava le torri di trivellazione e creava città in pochi giorni, mentre i barili di greggio si accumulavano sulle rive del fiume Allegheny e nelle stazioni costruite in tutta fretta. Rockefeller comprese rapidamente che se voleva riuscire nella attività della raffinazione e delle perforazioni era necessario mettere ordine nel sistema produttivo e sforzarsi di controllarne i prezzi. Nel 1870 creò la Standard Oil, con un capitale record di un milione di dollari e siglò un accordo con le compagnie ferroviarie per distribuire il petrolio a basso costo.

La Standard Oil non era all'epoca una grande impresa. Era però la cerniera efficiente di un cartello petrolifero, una sorta di federazione che riuniva i principali operatori nel campo della raffinazione per il controllo dei prezzi.

Presentato da Rockefeller come un sistema di cooperazione necessario in un panorama industriale senza regole ne legge, ovvero come un antidoto al darwinismo economico-sociale, il cartello venne ripetutamente denunciato dai contemporanei, indignati per i metodi intimidatori impiegati dall'uomo d'affari per raggiungere i suoi fini.

E certo Rockefeller non usava molta diplomazia per convincere i suoi concorrenti ad aderire alla federazione e a porsi sotto la bandiera della Standard Oil. Non esitava nemmeno a ricorrere alle minacce e ai sabotaggi per forzare la mano dei recalcitranti. Sta di fatto che verso il 1880 il cartello controllava ormai il 90% delle capacità di raffinazione del paese.

La seconda tappa della costruzione dell'impero risale al 1882, con la creazione del cartello. Il cartello conferì i poteri dei dirigenti delle imprese federate ad una autorità centrale formata da trustees, cioè da amministratori delegati. Cambiamenti tecnici motivarono questa trasformazione: i vagoni cisterna degli anni 1870 furono infatti soppiantati dagli oleodotti, che alimentavano con continuità le raffinerie, che conseguentemente obbligavano a ingrandire e installare nuove raffinerie vicino alle grandi città, come New York o Philadelphia.



Theresa May: «Brexit al via a marzo, la scelta democratica non verrà sovvertita»



La Gran Bretagna attiverà all'inizio del 2017, al massimo "entro marzo", l'articolo 50 del trattato di Lisbona per l'avvio formale dell'iter di divorzio dall'Ue. Lo ha detto la premier Theresa May, scoprendo le carte al talk show di Andy Marr, sulla Bbc, nella giornata di apertura della Conferenza annuale del Partito Conservatore a Birmingham.

È compito del governo decidere quando avviare l'articolo 50 che sancisce l'uscita dall'Ue, non di Westminster.

Theresa May scioglie il mistero, sulla tempistica e le modalità del divorzio europeo con un'azione di comunicazione che muove da un'intervista al Sunday Times, una alla Bbc fino all'appassionato discorso alla platea del congresso Tory a Birmingham. Ed è proprio lì che il premier britannico ha scandito i termini della Brexit che verrà annunciando che nel Queen speech della prossima primavera apparirà fra le altre leggi destinate ad essere.

Poco dopo, è arrivato il commento del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk: «È un annuncio benvenuto che fa chiarezza», ha fatto sapere, pur aggiungendo che nel negoziato gli altri 27 difenderanno i loro interessi.

Se questa è la tempistica, il processo è altra cosa. E su questo Theresa May ha voluto essere rassicurante. «L'acquis comunitario (ovvero la summa delle norme varate con l'Ue e adottate da Londra ndr) sarà legge anche per la Gran Bretagna. In altre parole nulla cambierà. Anche per i diritti dei lavoratori Ue oggi residenti che tale diritto manterranno fino a quando io sarò premier». Le eventuali modifiche all'acquis comunitario.

Il referendum sulla Brexit "è stato legittimo", anzi è stato "il più grande voto per il cambiamento che questo Paese abbia mai avuto" e "la Gran Bretagna lascerà l'Ue": così la premier Theresa May alla conferenza annuale del Partito Conservatore, ribadendo che "Brexit significa Brexit" e di volerne "fare un successo". Ironia poi su su chi rifiuta il risultato del referendum o pensa di ricorrere alle corti di giustizia: "Ma andiamo...".

"I diritti esistenti dei lavoratori europei" residenti in Gran Bretagna saranno "garantiti in pieno" anche dopo la Brexit: lo ha assicurato Theresa May. Tali diritti, ha insistito May, sono al riparo "almeno finche' io saro' primo ministro".

Il primo passo - scrive il Telegraph - per lasciare l'Ue è l'abrogazione dell'European Communities Act del 1972, il là vero e proprio per l'intero processo.

In parlamento approderà un "Great Repeal Bill", che riporterà tutto il potere nelle mani dei parlamentari e dei pari. Utilizzando l'articolo 50 del Trattato di Lisbona, inizierà il percorso di due anni che porterà al divorzio definitivo.

L'annuncio della May, aggiunge il quotidiano britannico, è il primo impegno concreto da che a luglio ha preso il suo posto da primo ministro.



martedì 4 ottobre 2016

L'attacco di Assange: 'Clinton e Trump tormentati dalle ambizioni'



Il fondatore dell'organizzazione no-profit annuncia nuove rivelazioni, in occasione del decimo anniversario. Leak che potrebbero incidere sulle sorti delle presidenziali statunitensi Hillary Clinton e Donald Trump sono "tormentati dalle proprie ambizioni": lo ha detto il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, rispondendo a domande poste in un teatro di Berlino con cui è connesso in video-collegamento dall'ambasciata ecuadoriana a Londra in occasione del decennale dell'organizzazione che pubblica documenti segreti.

Assange ha annunciato nuove pubblicazioni di documenti ogni settimana per i prossimi mesi. In particolare,  la diffusione del nuovo materiale di Wikeleaks si protrarra' per dieci settimane e saranno "significative per le elezioni americane" perché contengono materiale "interessante sulle fazioni del potere americano". Ha quindi ricordato che in dieci anni di attività Wikileaks ha pubblicato dieci milioni di documenti. Si tratta di 10 miliardi di parole, in media 3.000 documenti al giorno.

Pubblicheremo nuovi documenti relativi alle elezioni statunitensi e che riguarderanno altri tre governi", lo rivela il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, in occasione del decimo compleanno dell'organizzazione no-profit nata con l'intento di diffondere informazioni segrete d'interesse pubblico. Con indosso una maglietta nera su cui campeggia la scritta bianca "truth", verità, Assange non poteva trovare miglior modo di festeggiare l'anniversario della propria creatura: ovvero annunciando altre notizie scomode in arrivo. Il rilascio dei file è atteso prima dell'otto novembre e dovrebbe avvenire a cadenza settimanale per le prossime dieci settimane. Un'attività che non si fermerà nemmeno se lui stesso dovesse scegliere di abbandonare la guida dell'organizzazione, assicura Assange nel video trasmesso a Berlino, dove sono in corso le celebrazioni.

In questi dieci anni, è stato pubblicato tanto. Dieci anni di scoop. Dieci anni di rivelazioni che hanno fatto discutere. Così può essere sintetizzata l'attività di Wikileaks che adesso spegne le candeline. È il 4 ottobre del 2006 quando Julian Assange, giornalista e hacker australiano dall'inconfondibile chioma argentea, ne registra il dominio: Wikileaks.org. Il simbolo è una clessidra con dentro un globo: in alto nero, in basso azzurro. Limpido. L'opacità ha le ore contate, la neonata organizzazione ''corsara'' promette di traghettarci nell'era della trasparenza. Di rivoluzionare il mondo dell'informazione e di attaccare il potere. Per farlo utilizza una piattaforma web a prova di censura, in cui sdogana mediaticamente l'utilizzo della crittografia per proteggere le fonti. Un sistema che funziona dato che da quel 4 ottobre a oggi sono stati messi online dieci milioni di documenti, 10 miliardi di parole. All'incirca tremila file al giorno: carteggi, faldoni top secret che hanno svelato crimini contro l'umanità, messo in imbarazzo i governi del pianeta, nonché i consigli di amministrazione di grandi colossi finanziari.