lunedì 24 ottobre 2016
Ungheria, 60 anni fa si spegneva il sogno
Budapest, 23 ottobre 1956. Tutto era cominciato dalla morte di Stalin nel marzo 1953. La successiva destalinizzazione iniziata da Nikita Kruscev era culminata nel XX congresso del PCUS, dove furono portati alla luce i crimini del dittatore nel cosiddetto "rapporto segreto" ed il suo iperbolico culto della personalità. L'effetto sugli stati satellite del Patto di Varsavia è violento. Le prime manifestazioni, represse, avvengono poco dopo la morte dell'ex dittatore comunista a Berlino Est.
Il processo di democratizzazione avviato dal premier comunista riformatore Imre Nagy fu soffocato nel sangue dalle forze armate sovietiche. Tutto cominciò nello splendido centro storico di Budapest sessant'anni fa, oggi il mondo dei Millennials non lo sa o lo ha dimenticato. Ungheria, 23 ottobre 1956. I cecchini della AVH, Allam védelmi hatosàg, l'odiata e temuta polizia segreta, cominciarono all'improvviso a sparare sulla grande folla della manifestazione pacifica per la democratizzazione, voluta dagli studenti in appoggio al premier comunista riformatore Imre Nagy.
Sangue, morti per le strade, reazioni esasperate e violente della piazza. E poche ore dopo tutto precipitò: guidate dal giovane, 'smart boy' comunista riformatore anche lui, il generale Pàl Maléter, le forze armate nazionali si schierarono con gli insorti, e indussero l'Armata rossa alla ritirata. Ungheria '56, sessant'anni dopo: oggi quello splendido paese mitteleuropeo è libero, membro di Ue e Nato.
Nell'Europa divisa dalla guerra fredda tra mondo libero e Impero del Male, il paese era allo sfascio: economia un tempo mitteleuropea in rottami, fame diffusa, classe media e imprese distrutte, mercato nero quotidiano, oltre centomila prigionieri politici in un paese di meno di 10 milioni di abitanti. Torture ed esecuzioni segrete divenute pratica quotidiana nelle carceri della AVH. Così non possiamo continuare, dissero in riunioni del Comitato centrale Nagy, Maléter, i loro seguaci. Chiesero le dimissioni dei vertici del regime. La gente fu con loro, decise di rischiare in piazza. Sapendo bene che il premier Nagy non aveva il controllo di polizia e servizi.
Sembrò una vittoria, l'Armata rossa dopo i primi scontri con i soldati di Maléter si ritirò. Lasciò quasi tutto il territorio magiaro. Vennero le settimane della libertà. Nagy e il suo governo si misero subito al lavoro su progetti di riforme radicali: sistema socialista ma con libere elezioni, diritto alla neutralità, amnistia, diritto a lasciare il Patto di Varsavia, l'alleanza militare imposta dal Cremlino ai paesi occupati e ridotti a colonie sfruttate come il Congo lo fu dal Belgio.
Per 4 giorni l'Ungheria vivrà un periodo di effimera libertà, sempre minacciato dall'imminente contrattacco sovietico e funestato dalla violenza degli scontri quotidiani con la polizia segreta e con i militari dell'Urss. Poco dopo l'inizio della rivolta parte dell'esercito regolare ungherese comandato dal generale Pal Maleter (ministro della Difesa nel governo Nagy) appoggia la protesta, rimanendo passivo nei confronti dei manifestanti.
Quando Imre Nagy si appella all'ONU e dichiara la volontà di uscire dal Patto di Varsavia, le autorità sovietiche decidono per l'invasione dell'Ungheria con un ingente spiegamento di uomini e mezzi corazzati.
Nel governo Nagy si consumava il tradimento da parte del segretario del partito comunista Ungherese Janos Kadàr, che scelse di riallinearsi con l'Urss condannando definitivamente l'esito della rivoluzione. Tra il 4 e il 10 novembre 1956 l'Armata Rossa penetra in territorio magiaro fino alla capitale Budapest, anticipata da incursioni aeree dell'aviazione sovietica. Il giorno stesso Nagy fu sostituito da Kadàr, ed in seguito tratto in arresto dopo una breve permanenza nell'ambasciata Jugoslava proprio mentre i carri sovietici soffocavano la rivolta per le vie della capitale.
Vennero i giorni e le settimane della Grande illusione, Orbàn oggi preferisce non parlarne troppo per non inimicarsi l'amico e compagno di modello autoritario Vladimir Vladimirovic Putin. Illusioni alimentate irresponsabilmente dall'Occidente: gli ungheresi liberi a termine contarono su un aiuto. Che sarebbe stato impossibile, salvo scatenare la terza guerra mondiale.
"I sogni muoiono all'alba", scrisse allora Indro Montanelli, straordinario cronista da Budapest libera per quelle poche settimane. L'Impero colpì ancora. Invano il presidente jugoslavo Tito cercò di consigliare a Mosca, e anche a Nagy, moderazione e ricerca di compromesso. Alla fine a Tito, leader del solo paese socialista indipendente da Mosca e in buoni rapporti col mondo libero (la Jugoslavia), non restò altro che proclamare l'allarme rosso militare e offrire a Nagy asilo nell'ambasciata jugoslava a Budapest. I sogni muoiono all'alba: nella prima settimana di novembre venne spietato e sanguinario il contrattacco dell'Armata rossa, si sentiva umiliata dai soldati di Maléter e aveva sete di vendetta.
Decine di Panzer divisionen, centinaia di migliaia di soldati dei corpi scelti, squadriglie e squadriglie di caccia Mig e bombardieri Iljushin carichi di bombe incendiarie, assaltarono all'alba Budapest e tutta l'Ungheria. Resistenza disperata, nemico troppo più forte, due settimane di combattimenti. Migliaia o forse decine di migliaia di morti, le statistiche furono poi in mano al regime di Janos Kàdàr, il proconsole imposto. Due settimane di combattimenti disperati, stupri in massa da parte degli invasori, fuga in massa di circa mezzo milione d'ungheresi a piedi verso l'Austria che tanti dei migliori scrittori della vitale, splendida letteratura magiara raccontarono poi in libri pubblicati non in patria. Il peggio venne dopo. Centinaia, o più, di persone torturate, stupri ed esecuzioni in carcere. Fino all'inganno perfido teso da Kàdàr a Nagy e a Tito: 'consegnati, ti perdoneremo'. Tito diffidava, Nagy si fidò e finì processato e impiccato. Nei decenni successivi, Kàdàr comprò il consenso del paese sconfitto con consumismo e con una censura ammorbidita per cineasti, scrittori, intellettuali, giornalisti.
Nagy e Maléter furono esempio per le speranze di riformare il socialismo di Alexander Dubcek a Praga (stroncate anche quelle da un'invasione sovietica), poi della voglia di libertà dei dissidenti cecoslovacchi attorno a Vaclav Havel, e ancor più di Solidarnosc, il movimento democratico polacco che avviò la fine dell'Impero. Ci conoscemmo negli anni della guerra fredda, Fejto e io, quando una fine dell'oppressione sembrava a noi occidentali impossibile, ma non a lui né all'altro grande intellettuale ungherese scappato dopo il '56, Pàl Lendvai, poi alta sfera del Financial Times. Li rincontrai in quell'estate indimenticabile del 1989 al solenne funerale-riabilitazione di Imre Nagy, loro a fianco di Judit la vedova indomabile e fiera. A quella cerimonia il discorso più coraggioso fu tenuto da un giovane allora dissidente liberal, Viktor Orbán: "Fuori le truppe sovietiche occupanti". Bei ricordi, ma lontani. Orbàn, abilissimo trasformista è divenuto popolare premier nazionalconservatore al potere dal 2010.
Il 4 novembre l'Unione Sovietica, conscia che l'Ungheria avrebbe potuto diventare un pericoloso precedente di uno stato che sarebbe uscito dall'orbita di Mosca, e che esisteva il rischio di un intervento militare occidentale nel paese, iniziò l'invasione con un'ingente forza di oltre 200mila uomini.
Nagy si rifugiò inizialmente presso l'ambasciata della Iugoslavia, paese comunista ma non strettamente legato all'Unione Sovietica, dove rimase fino al 22 novembre, data in cui, a rivoluzione conclusa, fu consegnato ai sovietici che nel frattempo l'avevano sostituito con János Kádár. Nel giugno del 1958, il nuovo governo ungherese impiccò Nagy.
La rivolta ungherese e la sua repressione ebbero conseguenze sul comunismo in tutto il mondo. In Italia, dove i comunisti filosovietici erano rappresentati dal Pci, il più grande partito comunista dell'occidente, la spaccatura sul tema della rivoluzione fu evidente.
Mentre numerosi intellettuali firmarono il Manifesto dei 101, a sostegno dell'insurrezione, il Pci denunciò la rivoluzione, tacciando i suoi partecipanti di essere teppisti. Il leader comunista Palmiro Togliatti votò inoltre a favore della condanna a morte di Nagy nel 1957.
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