mercoledì 29 novembre 2017

Record Bitcoin da 10mila a 11mila dollari in poche ore


Si è ripetuto diverse volte nella storia, quando le promesse di strabilianti guadagni hanno gonfiato le quotazioni di beni e azioni, fino ad arrivare al duro ritorno alla realtà. È quello che molti temono si stia ripetendo con il bitcoin, la criptovaluta che ha superato per la prima volta prima i 10mila dollari, poi addirittura gli 11mila dollari poche ore dopo.

Un anno fa era poco sopra 700 dollari, a inizio anno ha superato i mille e solo un mese e mezzo fa ha sfondato la soglia di 5.000. Oggi è su livelli pari a oltre il doppio. In termini percentuali la progressione è ancora più chiara: +20% nel corso dell’ultimo fine settimana, quasi 70% nelle ultime due settimane e 900% in dodici mesi.

Il record di quseti giorni è dipeso da diversi fattori. Primo fra tutti l'apertura sulla piattaforma Coinbase, il più grande exchange Usa, di oltre 100.000 nuovi conti nei giorni della Festa del Ringraziamento, tra il 22 e il 24 novembre. Il numero totale di account sulla piattaforma ha così raggiunto quota 13,1 milioni.  A trainare il recente balzo del Bitcoin è stato anche l'annuncio di Shinhan Bank, la seconda banca commerciale sudcoreana, che verso la metà del prossimo anno attiverà un sevizio di custodia dei Bitcoin, dando ai clienti la possibilità di usare un 'wallet' (applicazione dedicata che permette di acquistare e vendere Bitcoin) realizzato dallo stesso istituto.

Alcuni analisti suggeriscono che l'exploit del Bitcoin riflette la decisione di indirizzarsi verso un'alternativa rispetto ai mercati globali tradizionali, ma mettono in guardia dal rischio di una bolla valutaria. "C'è molta schiuma", ha avvertito Mike Novogratz, un gestore di hedge fund, "e secondo me questa sarà la più grande bolla delle nostre vite".

I bitcoin e le criptovalute sono delle "attività, dei contratti, vulnerabili a crisi di sfiducia che possono essere repentine". Lo afferma il vice dg della Banca d'Italia Fabio Panetta in audizione alla Commissione finanze della Camera. Per Panetta si tratta di fenomeni difficili da regolamentare, come ha dimostrato l'esperienza della Cina. "Non vorrei essere nei panni di chi dovrà scrivere le norme". Peraltro non "abbiamo nessuna visibilità sul volume delle transazioni tranne quanto vengono convertite in euro ma queste sono la 'punta dell'iceberg'".

La Federal Reserve sta "iniziando a pensare a un'offerta" di valute digitali. Lo dice, secondo l'agenzia Bloomberg, William Dudley, presidente della Fed di New York, il quale precisa che "è prematuro" sostenere che ci sia ancora qualcosa di concreto in proposito. A chi gli chiede dei bitcoin, le criptovalute il cui prezzo dall'inizio dell'anno è cresciuto del 900% arrivando da meno di mille dollari a oltre 11.000, Dudley replica: "Sono molto scettico, penso che si tratti più che altro di un'attività speculativa".

La corsa della moneta virtuale non è una novità e procede ormai da tempo. La questione che si pone per i mercati è se questa moneta, che non si "batte" ma si "estrae", che un anno fa valeva mille dollari o poco meno e oggi ha superato gli 11mila, che oggi conta 16 milioni e mezzo di criptomonete e che mai potrà superare quota 21 milioni (di criptomonete), sia una nuova bolla speculativa. Il premio Nobel all'Economia Joseph Stiglitz dice in un'intervista a Bloomberg che il Bitcoin "ha successo solo per il suo potenziale di aggirare le regole e per la mancanza di supervisione: dovrebbe essere vietato. Non ha alcuna funzione sociale. E' una bolla che regala emozioni forti a molte persone andando su e giù".

A quanto pare rischia di non avere confronti nella storia, superando di gran lunga tutte le bolle dell’ultimo secolo, compresa quella della net economy a cavallo del nuovo secolo. Ma che, performance alla mano, si confronta con quella pià grande della storia, quella che colpì i tulipani nel 1.600, quando l’”esuberanza irrazionale” aveva fatto lievitare le quotazioni dei bulbi multicolori sull’onda di speranze rivelatesi poi assolutamente irrealistiche. Tanto da provocare una precipitosa caduta verticale dei prezzi.

È stato Convoy Investments a fare i conti mettendo a confronto le quotazioni degli ultimi tre anni prima dello scoppio di ciascuna bolla. Il bitcoin ha visto lievitare le quotazioni di 50 volte nell’ultimo triennio, arrivando ormai al picco dei tulipani, ma superando qualsiasi altra del passato.

D’altra parte il fatto che il bitcoin abbia comportamenti “non normali” fa parte del suo appeal che ha scatenato la nuova “corsa all’oro digitale”: la criptovaluta ha in qualche modo ridefinito il concetto di denaro e creato un concetto, al momento inesistente di asset digitale scaro (si sa già che i bitcoin non saranno più di 21 milioni, oggi siamo a oltre 16 milioni in circolazione.
Come sottolinea il report di Convoy, sono due i fattori che identificano le bolle finanziarie. Da una parte l’aumento a ritmi in rapida accelerazione e insostenibili delle quotazioni: “Se bitcoin proseguisse a questi ritmi per un altro paio d’anni arriverebbe a una capitalizzazione di mercato superiore al Pil americano”.

Dall’altra parte un ritorno dell’investimento sproporzionato rispetto al reddito reale generato dal bene: per le azioni è il dividendo, per le valute il tasso d’interesse, per i bond la cedola. Se teniamo presente che il bitcoin non ha alcun valore intrinseco e che non può generare alcun reddito se non la speranza di ulteriori apprezzamenti della quotazione, il report conclude facilmente che “il bitcoin è nel mezzo di una enorma bolla speculative”, anche se Convoy non si spinge a fare previsioni su quando (e se) potrà scoppiare.
Come sottolinea il report, “questa bolla assomiglia molto per natura a quella tecnologica della fine degli anni 90: alla fine internet ha cambiato qualsiasi aspetto della nostra vita, ma questo non significa che aziende come pets.com non fossero al tempo decisamente sopravvalutate”.

Il bitcoin non è altro che la prima, più visibile applicazione di una tecnologia che promette di trasformare tanti settori, la blockchain, il registro pubblico distribuito che elimina la necessità di un certificatore per qualsiasi tipo di transazione che implichi un trasferimento di valore. Che potrebbe essere il vero valore che rimane se e quando scoppierà la bolla.



Brexit: il conto per uscire dall'Europa



I quotidiani inglesi non parlano d'altro: è stato raggiunto l'accordo finanziario tra il Regno Unito e l'Unione Europea con il quale il primo si assume la responsabilità di pagare fino a 100 miliardi di euro per uscire dall'Europa, anche se il costo per la Brexit oscilla tra i 44 e i 55 miliardi di euro.

Il costo del divorzio tra Londra e Bruxelles ammmonterà fra i 45 e i 55 miliardi di euro. Una fattura che il Regno Unito dovrà pagare all'Europa per poter uscire dall'Unione. L'accordo sulla cifra sarebbe stato già raggiunto. La notizia è rimbalzata questa mattina sulle prime pagine di diversi quotidiani britannici ed è stata confermata dalla televisione di Stato. Ma come si arriva a questa cifra?

30 miliardi
Ogni anno il budget europeo prevede degli stanziamenti pluriennali per il finanziamento di diversi progetti. Al momento dunque Londra deve saldare almeno 30 miliardi di euro per i progetti a venire.

20 miliardi
Ma Londra sarà costretta a versare nelle casse dell'UE almeno 20 miliardi per gli impoegni legali assunti per il periodo 2014-2020. Poi ci sono altri impegni economici assunti nel passato che il Regno Unito dovrà rispettare.

Gli altri 'spiccioli'
Bruxelles vorrebbe anche almeno 7 miliardi di euro per pagare una parte delle pensioni dei funzionari europei, oltre al contributo per la politica migratoria o quella relativa agli investimenti strategici.

Secondo alcuni analisti in realtà la somma totale potrebbe facilmente superare i 100 miliardi di euro. Il prossimo 4 dicembre è previsto un incontro tra il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, il capo dei negoziati per la Brexit Michel Bernier e la premier britannica Theresa May.

Si tratta di una prima importante fase prodromica a quella dei negoziati necessari per definire gli accordi commerciali tra la Gran Bretagna e l'Unione Europea.

Come ha affermato, cautamente, il capo negoziatore dell'Ue, Michel Barnier “ci stiamo ancora lavorando duramente, spero di poter annunciare presto un'intesa”, sebbene tale tipologia di accordo si configuri certamente come una sconfitta per il Regno Unito.

Sulla base di tale preliminare accordo la premier britannica Theresa May e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker si incontreranno a pranzo lunedì 4 dicembre, sue giorni prima che la Commissione discuta sullo stato dei negoziati.

Non vi sono commenti a tale accordo né dal governo britannico né tantomeno dalla Commissione europea, ma quello che è certo è che intanto il prezzo della sterlina sale a 1,33 dollari e nei confronti dell'euro a 0,89.

Il calcolo viene effettuato in questo modo: 10 miliardi all'anno per i due anni di transizione dopo Brexit chiesti da Londra tra il 2019 e il 2021, (che i Ventisette sono pronti a concederle), a cui bisogna aggiungere 20-30 miliardi che sono gli impegni finanziari promessi ma non ancora versati inclusi nel bilancio comunitario 2014-2020. A questo totale bisogna sommare alcuni miliardi fuori bilancio per pagare tra le altre cose le pensioni dei funzionari europei.

Oltre al nodo finanziario, su cui si stanno facendo progressi, restano aperte due altre questioni: il diritto dei cittadini e il rapporto tra la Repubblica d'Irlanda e l'Irlanda del Nord. Quest'ultimo aspetto è diventato particolarmente difficile da risolvere dopo che il governo irlandese ha deciso di alzare la posta, chiedendo specifiche garanzie a Londra. Dublino vuole che nell'Ulster ci sia nei fatti uniformità regolamentare per preservare i vantaggi del mercato unico sull'intera isola. «Vogliono una soluzione che valga per l'intera isola, tale da preservare gli strettissimi scambi commerciali sui due lati della frontiera», nota un diplomatico nazionale. Per il Regno Unito, la richiesta irlandese appare difficile da accettare. In ballo, c'è la sovranità stessa della Gran Bretagna. «D'altro canto – spiega ancora l'esponente comunitario –, dietro a Brexit c'è proprio la volontà di staccarsi dall'Unione, abbandonare l'assetto regolamentare comunitario».

Molti diplomatici ammettono che il governo irlandese ha deciso di fare la voce grossa, nel timore che rinviando la questione all'accordo definitivo Dublino rischi di dover accettare la posizione inglese. Ufficialmente, l'Irlanda può contare sull'appoggio dei suoi partner, ma nella sostanza la posizione irlandese è molto particolare. Agli altri governi preme soprattutto trovare una soluzione sulle finanze e sui diritti dei cittadini. «La questione irlandese è tale: prettamente irlandese», ammette un altro diplomatico.

Per Londra, garantire l'unità regolamentare sull'intera isola significherebbe avere due regimi in uno stesso paese. Sarebbe anche interpretato come un primo passo verso una clamorosa riunificazione dell'isola. In un recente vertice europeo l'allora premier Enda Kenny aveva ottenuto che fosse precisata la possibilità per l'Irlanda del Nord, una volta eventualmente inglobata nella Repubblica d'Irlanda, di aderire direttamente all'Unione, come la DDR in occasione della riunificazione tedesca.


venerdì 24 novembre 2017

Putin, missione compiuta in Siria: la regia del dopo Sato Islamico è sua



Gli accordi di Sochi normalizzeranno la situazione in Medio Oriente. Lo ha assicurato il presidente russo Vladimir Putin che definisce costruttivo l’incontro con il presidente iraniano, Hassan Rohani e quello turco Recep Tayyip Erdogan.

Sulla composizione del Congresso di dialogo nazionale promosso dal Cremlino, la Turchia continua a rifiutare la presenza dei rappresentanti curdi.

“L’azione militare su vasta scala contro i gruppi terroristici in Siria sta volgendo al termine – ha detto Putin – Sottolineo che grazie agli sforzi di Russia, Iran e Turchia, siamo riusciti a prevenire il crollo della Siria”. L’intesa è totale ha aggiunto Erdogan, ma non specifica se siano state prese decisioni sulla presenza dei curdo-siriani. “L’accordo che abbiamo raggiunto è importante, ma non è ancora abbastanza – ha aggiunto Erdogan – è fondamentale che tutte le parti interessate contribuiscano a trovare una soluzione politica permanente e accettabile per il popolo siriano”.

Nei giorni scorsi il presidente siriano Bashar Assad era salito a Sochi, la capitale diplomatica di Putin sul Mar Nero, per rendere omaggio all’uomo che gli ha salvato il regno e il posto. C’è ancora molto da fare prima di ottenere una vittoria completa sui terroristi», ha ammesso Putin. Ma ciò che conta per lui è annunciare che si torna a casa; avviare il ridimensionamento della missione in Siria mantenendo comunque la base navale di Tartous e quella aerea di Latakia. Nel frattempo, l’imperativo di un’uscita di scena di Assad sembra finito in disparte, anche se il leader siriano ha pochi margini di manovra: a Sochi non ha potuto far altro che cedere all’ospite la gestione del dopoguerra nel suo Paese.

E Putin ha iniziato a definirlo due giorni dopo - mercoledì - con gli altri due vincitori: il presidente turco Recep Tayyep Erdogan e l’iraniano Hassan Rohani. L’esito del conflitto li ha portati vicini, strana coppia a cui Putin è riuscito a strappare l’appoggio comune a un Congresso di “dialogo nazionale” che si svolgerà per l’appunto a Sochi, e che mira a riuscire dove americani ed europei finora hanno fallito: mettere di fronte il governo siriano e l’opposizione, fargli costruire la nuova Siria insieme dopo sei anni di massacri.

Dopo aver affiancato Turchia e Iran, convincere a collaborare quel che resta dell’opposizione ad Assad sarà la prova del nove per Putin che in qualche modo vuole strappare l’iniziativa alle Nazioni Unite, affiancandosi ai negoziati che riprenderanno a fine mese a Ginevra. Con il presidente russo parlano tutti: dopo aver visto Assad, Putin ha telefonato a Donald Trump e all’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al re saudita Salman. Con ciascuno di loro Putin sottolinea gli interessi comuni, in particolare con l’Arabia che con Mosca sta gestendo una fase delicata di ripresa dei prezzi del petrolio: altro terreno dall’equilibrio scivoloso, dove anche il punto di vista di due grandi produttori come russi e arabi non sempre coincide. In Siria, Putin dovrà far coesistere il consolidamento di Teheran con il ridimensionamento di Riad, che ha armato l’opposizione ad Assad. La guerra starà finendo, ma la partita diplomatica inizia ora.

I vertici della repubblica islamica degli ayatollah, hanno dichiarato che la guerra al Califfato è vinta: un segnale che secondo loro può cominciare la spartizione in zone di influenza.

L’agenda però la dettano i russi, entrati in guerra a fianco di Damasco nel settembre 2015, mentre i turchi sono soddisfatti dalla presenza militare nel Nord della Siria in funzione anti-curda e Israele continuerà a occupare le alture del Golan conquistate nel 1967. Gli iraniani puntano a mantenere quell’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah che rende furibondi i sauditi e nervosi gli israeliani. Il casus belli è sempre questo da oltre tre decenni: la repubblica islamica sciita, persiana ed erede di un impero millenario.

Gli Stati Uniti con la Russia dovrebbero sancire questa spartizione dove convivono in un affollato condominio militare. L’accordo tra Putin e Trump (ieri i due presidenti hanno avuto un colloquio telefonico di circa un’ora) potrebbe essere il risultato della dichiarazione di Da Nang, al vertice asiatico dell’Apec, quando in un raro comunicato congiunto hanno affermato di concordare sull’«integrità della Siria e la sua sovranità». Quanto sarà integra e sovrana la Siria per la verità è nebuloso: i russi hanno insistito con Assad per fare un accordo con l’opposizione e chiudere la partita. Anche se è evidente che Mosca manterrà le basi in Siria e gli Usa un contingente militare, che pur vittorioso con i curdi siriani a Raqqa, appare vulnerabile per la presenza di Assad e delle milizie sciite. Mentre è fuori discussione che gli americani resteranno in Iraq, a maggioranza sciita e alleato dell’Iran, dove sono presenti le truppe di una dozzina di Paesi, Italia compresa.

Da questa ipotesi di spartizione vengono emarginate le monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa, che hanno sostenuto la guerra per procura contro Assad e l’Iran. Possono sperare in qualche compensazione nei negoziati dell’Onu ma sono briciole rispetto all’obiettivo che perseguono dal 1979, quando la rivoluzione di Khomeini fece fuori lo Scià in questa rivalità hanno investito 60 miliardi di dollari nella guerra di Saddam contro Teheran e molti altri ancora sostenendo i gruppi radicali sunniti e jihadisti. Non solo: Riad è impantanata in una guerra in Yemen che non riesce a vincere contro gli Houthi, la tribù sciita zaydita sostenuta da Teheran. Per i Saud, custodi della Mecca e riferimento di un miliardo e mezzo di musulmani, è quasi un’umiliazione.

Gli arabi del Golfo devono però lamentarsi con se stessi e i turchi: sono stati mollati da Erdogan, il quale dopo essersi proposto come il leader dei sunniti, appoggiando i Fratelli Musulmani in Egitto e la guerriglia contro Assad, ha fatto buon viso a cattivo gioco e, pur di sigillare le frontiere all’irredentismo curdo, ha abbandonato il campo occidentale della Nato e gli arabi per mettersi d’accordo con Putin e Teheran. Tutto questo è il risultato dei calcoli sbagliati degli arabi e degli occidentali: nel 1980 Saddam pensava di abbattere Khomeini, sostenuto dai soldi del Golfo, poi ha dovuto firmare una tregua sullo Shatt el Arab. Nel 2001 gli americani in Afghanistan credevano di mettere fine al terrorismo che invece è ancora una spina nel fianco anche dell’Europa. Nel 2003 gli Usa hanno fatto fuori Saddam e regalato all’Iran una vittoria strategica. Nel 2011 puntavano con Turchia e monarchie arabe a eliminare Assad e invece hanno riportato la Russia da protagonista in Medio Oriente.

Vediamo che le possibilità di pace o  di nuove guerre si ponderano. Sono in gran parte legate alla capacità di Usa e Russia di tenere a bada i loro scalpitanti alleati nella regione. Ma dipendono anche da calcoli meno dignitosi rispetto alla necessità di stabilizzare una regione chiave per la sicurezza europea. Gli Usa - ma anche la Francia - sono condizionati da Israele e dalle forniture di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati: hanno innescato, in cambio di miliardi di dollari, una corsa agli armamenti senza freni. Basta scorrere i dati 2016 dei bilanci della difesa: Usa 611 miliardi di dollari, Cina 215, Russia 69, Arabia Saudita 64, Emirati 23, con solo 1,5 milioni di abitanti, Iran 12, con una popolazione di 80 milioni. Questo è un motivo molto significativo perché finita una guerra, un’altra potrebbe cominciare.



giovedì 23 novembre 2017

Libano: il ritorno di Saad Hariri



Su cosa accadrà nei prossimi giorni ci sono soltanto ipotesi, mentre a Beirut esplode la festa per il rientro del Premier. Hariri, che si è fermato a pregare sulla tomba del padre, aveva rassegnato improvvisamente le dimissioni il 4 novembre dall’Arabia Saudita, Paese nel quale è rimasto due settimane e che, secondo lo stesso Presidente libanese Michel Aoun, lo teneva in ostaggio.

Una tesi smentita da Hariri stesso e in ogni caso archiviata dopo l’invito da parte di Emmanuel Macron a Parigi, dove Hariri si è fermato alcuni giorni.

Questi i commenti entusiasti dei sostenitori di Hariri per le strade della capitale: “È impossibile dire quanto siamo contenti” dice un manifestante. “È come se Beirut fosse di nuovo Beirut” ribatte un altro giovane sceso in strada. “È l’intero Libano che è tornato”.

Mohammed Omar Hussein, un altro simpatizzante del Premier: “Quando Saad Hariri è in Libano ci sentiamo vivi. Quando non c‘è siamo come morti. Senza Saad Hariri il Paese chiamato Libano non esiste”.

Il Premier aveva giustificato le dimissioni in polemica con le violazioni di Hezbollah. Il movimento sciita alleato dell’Iran e con un profondo controllo della vita politico-sociale libanese non rispetta l’impegno di dissociarsi dai conflitti in Medio Oriente.

Saad Hariri resta. Almeno per il momento. Il primo ministro libanese, a capo di un governo di unità nazionale, ha accettato la richiesta del presidente Michel Aoun di sospendere le dimissioni. Hariri, 47 anni. “Rimaniamo insieme – ha detto – e continuiamo insieme a difendere il Libano. La stabilità è data dalla natura araba del Libano”.

Il premier, che ha anche passaporto saudita, ha chiesto un passo indietro agli Hezbollah, gli alleati sciiti dell’esecutivo, e ha accusato l’Iran di voler interferire nelle questioni interne libanesi. Per le strade della capitale la gente sembra appoggiarlo.

“Ha portato unità tra la gente – spiega un uomo – fra Cristiani e musulmani. È una brava persona e renderà il Libano migliore”

“Vogliamo Saad – aggiunge un diciassettenne – Non vogliamo che lasci perché lo amiamo. Perché è il nostro leader sunnita. Se se ne va, il Libano andrà in rovina. Vogliamo soltanto Saad”.

Per Hariri la crisi può essere risolta solo con la neutralità del Libano, e il ritiro delle milizie di Hazbollah da tutti i conflitti regionali, in Siria, Iraq, e nello Yemen. Poco prima il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, si era espresso in toni concilianti dicendosi aperto al dialogo.

Mercoledì mattina Hariri aveva assistito assieme al capo di Stato alla parata militare per la Festa dell’Indipendenza, 74 anni dopo la fine del mandato francese in Libano.

Ricordiamo che il Libano subisce da decenni l’influenza dei vari attori regionali, di cui spesso si ritrova ad essere il terreno di scontro. Soprattutto dopo il ritiro delle truppe siriane, in seguito all’assassinio di Raifq Hariri nel 2005, sono Arabia Saudita e Iran i due paesi che più di tutti gli altri fanno sentire il proprio peso sulle dinamiche interne al paese. Gli iraniani con la fondazione e il finanziamento di Hezbollah, movimento politico militare nato nel 1982 per respingere l’invasione israeliana del Libano; i secondi soprattutto con la storica cooptazione di esponenti della borghesia sunnita, sin dagli anni ‘40. Quando Riad denuncia le «ingerenze iraniane negli affari libanesi», non lo fa da una posizione imparziale, perché Riad guarda al Libano e lo considera estensione del proprio «cortile di casa» da più di mezzo secolo. Storicamente, buona parte dei primi ministri sunniti del Libano (il primo ministro deve essere sempre sunnita, così come il presidente deve essere cristiano e lo speaker della Camera musulmano sciita) hanno sempre conservato interessi economici e finanziari in Arabia Saudita, della quale spesso hanno la cittadinanza che gli permette di operarvi liberamente (un cittadino straniero può condurre affari solo tramite uno sponsor locale in Arabia Saudita).



venerdì 17 novembre 2017

Venezuela, default di un solo giorno grazie a Russia e Cina




Mani tese da Russia e Cina per scongiurare il default del Venezuela. Il Paese sudamericano a un passo dal default, ha raggiunto ieri un accordo con Mosca per ristrutturare parte del suo debito per una cifra pari a oltre 3 miliardi di dollari. L’accordo che era nell’aria, prevede che il Venezuela effettui pagamenti minimi sulle sue obbligazioni russe nel corso dei prossimi sei anni.

Quindi il  Venezuela in poche ore,  è passsato dall'insolvenza alla solvenza,.perché il ministro della Comunicazione venezuelano, Jorge Rodriguez, ha annunciato che il governo di Nicolas Maduro ha iniziato i pagamenti degli interessi sul debito estero. I creditori non hanno smentito. L'aiuto a Maduro è arrivato da Russia e Cina.Dichiarazioni che arrivano solo qualche giorno dopo che Standard & Poor’s aveva già dichiarato il default parziale del Venezuela, perché il governo aveva violato diverse scadenze al termine del periodo di grazia di 30 giorni; stessa sorte è toccata al gruppo petrolifero Pdvsa, per aver ritardato una settimana nel pagare due scadenze per un importo di 2.000 milioni di dollari.

Ciò che pareva un inspiegabile scivolone finanziario si è trasformato in un default di un giorno che non arreca danni a nessuno ma consente a molti di “staccare” lucrosi dividendi: a tutti i creditori, Stati Uniti, Canada e allo stesso Venezuela.

Secondo Enzo Farulla, analista, già Raymond James, ha afffermato che: «Ne hanno guadagnato tutti, compreso il Venezuela che ha ricomprato il suo debito a prezzi stracciati». Mentre Claudia Calich, fund manager di M&G Investments ha dichiarato: «Il recente annuncio di una possibile ristrutturazione del debito del Venezuela è stato fatto prima di quanto ci si aspettasse. La maggior parte degli operatori di mercato non si aspettava un evento creditizio già quest'anno, ma per il prossimo anno, tenendo conto dei livelli a cui scambiavano i bond a breve scadenza. Di conseguenza, le obbligazioni a più breve scadenza, che avevano i prezzi più elevati, hanno registrato una performance debole, mentre le obbligazioni a più lunga scadenza a minor prezzo hanno sovraperformato».

Il ministro Rodriguez, in merito all'incontro organizzato a Caracas fra rappresentanti del governo e dei detentori privati di titoli pubblici o dell'azienda petrolifera statale Pdvsa, ha detto che è servito per «cominciare a rompere l'assedio brutale e la guerra economica» lanciati contro il suo paese da Washington e «dai suoi alleati genuflessi della destra venezuelana». E poi ancora: «Posso dire a quelli che pensavano che avrebbero ottenuto una vittoria attraverso le agenzie di rating, che non sono mai riusciti a prevedere nessuna delle crisi finanziarie che hanno scosso il mondo ma sono tanto bravi nel punire un Paese che ha sempre pagato, come noi. E posso dire che ancora una volta sono stati sconfitti», ha sottolineato Rodriguez. «Il presidente Maduro ha disegnato un meccanismo che ci permetterà di pagare il nostro debito estero in modo completo: siamo un esempio per il mondo», ha concluso il ministro.

Un altro fattore, tutt'altro che secondario e peraltro non nuovo, è l'appoggio politico e soprattutto finanziario di Russia e Cina al governo del Venezuela. Mosca ha dato luce verde alla ristrutturazione del debito da 3,15 miliardi di dollari del Venezuela. Lo fa sapere il ministero delle Finanze citato dalla Tass. Caracas, in base ai termini dell'accordo, ripagherà il debito “entro 10 anni”.

La Cina, che detiene 23 miliardi di dollari dei 150 del debito venezuelano, non ha rilasciato comunicazioni ufficiali, anche se il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang ha dichiarato che «il Governo e la popolazione del Venezuela sapranno gestire la situazione interna, inclusa quella inerente il debito». Nel linguaggio paludato della diplomazia cinese ciò si traduce in una dichiarazione di appoggio a Maduro o almeno di solidarietà. Non poco per Maduro che negli Stati Uniti, in Europa e in America Latina trova ben pochi alleati.

martedì 14 novembre 2017

I governi che manipolano l'informazione online



Nell'ultimo anno i governi di 30 Paesi hanno usato qualche forma di manipolazione dell'informazione online, attraverso commentatori pagati, troll, bot, siti di news falsi e organi di propaganda. A evidenziarlo è un rapporto del think tank Freedom House sulla libertà online, che mostra come la disinformazione pilotata sia in aumento, nel 2016 condizionate le elezioni in 16 Paesi. Il lavoro degli "opinion shapers", i nuovi professionisti del web che costruiscono fake news sui leader da spingere a condizionare gli eventi politici.

Oltre a Russia e Cina, figurano Stati come Turchia, Venezuela e Filippine, Messico e Sudan. Nel 2016 i Paesi interessati erano 23. I governi stanno "aumentando marcatamente gli sforzi per manipolare l'informazione sui social media, minando la democrazia", si legge nel rapporto, secondo cui la disinformazione ha avuto un ruolo importante nelle elezioni in almeno 18 Paesi nell'ultimo anno, tra cui gli Usa. In Europa occidentale, il rapporto segnala la presenza di fake news sulle elezioni nei 4 Paesi esaminati: Italia, Francia, Germania e Regno Unito. "I governi stanno ora utilizzando i social media per sopprimere il dissenso e far progredire un'agenda antidemocratica", ha detto Sanja Kelly, direttrice del progetto Freedom on the Net.

E' di fine settembre la notizia secondo cui Twitter aveva rivelato al Congresso statunitense di aver chiuso oltre 200 profili collegati agli stessi gruppi russi che hanno acquistato su Facebook pubblicità politiche pro-Donald Trump nel tentativo di influenzare le elezioni presidenziali del 2016. Twitter, incontrando in una seduta a porte chiuse prima i rappresentanti del Senate Intelligence Committee e poi quelli dell'House Intelligence Committee, ha anche individuato tre profili sulla sua piattaforma legati al sito di news governativo russo RT: avrebbero speso complessivamente 274.100 dollari in Twitter ads nel settembre del 2016, a ridosso delle elezioni presidenziali.

Nelle Filippine attraverso falsi commenti, troll e canali di propaganda vengono costruite informazioni per dare l'impressione di un forte sostegno popolare alla brutale campagna contro la droga varata dal presidente Rodrigo Duterte e costata la vita a migliaia di persone.

Lo stesso è avvenuto in Sudan, oppure in Messico dove si stima siano stati 75mila i "Peñabots" che creano contenuti in modo tale da sostenere il criticato governo di  Enrique Peña Nieto. In sostanza, appena nasceva un hashtag anti governativo o una sommossa in Rete, messaggi automatici e commentatori entravano in azione per smorzarne la portata e deviare l'attenzione. In alcune aree, come Tibet e Etiopia, il servizio di telefonia cellulare è stato interrotto più volte per motivi politici.

In Turchia si contano circa 6000 persone "mosse" sui social per contrastare gli oppositori di Erdogan. C'è poi l'uso della limitazione che alcuni governi hanno fatto delle dirette video su Facebook, Snapchat o altre piattaforme, durante cortei o manifestazioni antigovernative. In Bielorussia ad esempio sono state interrotte le connessioni cellulari per evitare dirette durante le proteste. Lo stesso vale per Bahrein, Azerbaigian, Ucraina, Russia e diversi altri stati. In altri Stati nel mirino dei manipolatori c'erano giornalisti o attivisti politici: in Myanmar un giornalista è stato ucciso dopo aver postato le sue critiche su Facebook e un in Giordania un disegnatore è stato trovato morto dopo aver diffuso un fumetto online satirico su alcune pratiche dell'Islam.

In generale, l'uso di commentatori online pagati e pro-governativi viene registrato dal rapporto come "ormai generalmente diffuso". Tra i precursori di questo fenomeno e per il terzo anno consecutivo in cima alla lista degli Stati che abusano delle libertà di internet c'è la Cina dove i dissidenti che hanno pubblicato articoli o informazioni che criticano il governo sono stati condannati anche a 11 anni di carcere.

Nel periodo considerato, tra giugno 2016 e il maggio scorso, la manipolazione delle notizie ha interessato diverse nazioni, anche quelle non chiamate alle urne. La manipolazione dei contenuti ha contribuito al settimo anno consecutivo di declino della libertà su internet, campo in cui la Cina è ultima in classifica preceduta da Siria ed Etiopia. Le nazioni più virtuose sono Estonia, Islanda e Canada.




lunedì 13 novembre 2017

Hariri, tornerò presto in Libano



Le dimissioni a sorpresa il 4 novembre del primo ministro libanese Saad Hariri sono andate storte a molti abitanti di Beirut. Si tratta infatti di uno scenario senza precedenti: Hariri ha annunciato le sue dimissioni da un paese straniero, l’Arabia Saudita, senza informare preventivamente i suoi collaboratori a Beirut.

"Mi sono dimesso nell'interesse del Libano perché ho visto che molti sviluppi nella regione stavano nuocendo al mio Paese. Tornerò molto presto per rassegnare le dimissioni seguendo il percorso costituzionale". Lo ha detto l'ex premier libanese Saad Hariri nella sua prima intervista dalle sue dimissioni annunciate dall'Arabia Saudita, la scorsa settimana. "Ho completa libertà in Arabia Saudita", ha precisato, come riportano i media internazionali.

"L'ingerenza dell'Iran è un peso per i libanesi", ha aggiunto Hariri. "Io non sono contro Hezbollah in quanto partito politico, sono contrario al fatto che Hezbollah giochi un ruolo esterno che metta in pericolo il Libano".

Poi ha aggiunto: "Sono minacciato. Il regime siriano non mi vuole. Ero contro Nusra, Isis e al Qaida, ci sono molti gruppi che non vogliono Hariri. Volevo creare una rete di salvaguardia ed essere certo che non fosse infiltrata".

Per la maggior parte dei libanesi non c’è dubbio sul fatto che sia stato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs) a costringere Hariri alle dimissioni, nello stesso momento in cui organizzava la sua “notte dei lunghi coltelli” a Riyadh arrestando per corruzione diversi membri della famiglia reale.

Alcuni ritengono che Hariri sia trattenuto come un “ostaggio” a Riyadh, anche se si è recato per breve tempo ad Abu Dhabi e ha incontrato alcuni diplomatici. L’assenza di notizie preoccupa il Libano. Mercoledì sera l’aereo del primo ministro è rientrato a Beirut, ma ci sono volute diverse ore per sapere che Hariri non era a bordo.

“Ho provato un profondo senso di umiliazione”, confida un esponente importante della società civile libanese, che fa il confronto con l’occupazione militare siriana del Libano fino al 2005, periodo durante il quale tutte le decisioni venivano prese a Damasco. “La situazione oggi è la stessa ma senza i soldati: un paese straniero si permette di cacciare il nostro primo ministro come si licenzia un dipendente”.

Questa reazione è rivelatrice del fatto che le dimissioni forzate e la durissima dichiarazione di Hariri contro le ingerenze iraniane non hanno provocato quello sperato sussulto di orgoglio contro l’Iran. Per ora invece al centro di tutte le critiche c’è l’Arabia Saudita, anche tra chi è di solito molto critico nei confronti dell’Iran e del suo alleato libanese, gli hezbollah.

A dimostrazione di questa rabbia, il ministro dell’interno Nohad Machnouk, proveniente dal Movimento del futuro del primo ministro dimissionario, ha reagito alle voci secondo le quali l’Arabia Saudita vorrebbe sostituire Hariri con il fratello maggiore Bahaa, uomo d’affari a Riyadh, dichiarando che i sunniti libanesi non sono “del bestiame che si può trasferire da una stalla a un’altra”.

I libanesi in assenza di informazioni, si lanciano in grandi ipotesi e temono una nuova guerra tra Israele e gli hezbollah dopo quella del 1982 e del 2006, allo scopo di eliminare l’arsenale militare dei miliziani sciiti ricostituito grazie all’aiuto dell’Iran. Gli israeliani sui loro giornali continuano a ripetere che se ci sarà un conflitto non saranno certo i sauditi a dettarne i tempi, ma i libanesi sono convinti della complicità fra Riyadh e Tel Aviv, con la benedizione statunitense

Bisogna dire che gli Hezbollah, che facevano parte della coalizione governativa diretta da Hariri, e che sono alleati del presidente libanese Michel Aoun, si comportano in Libano come se riconoscessero una sola autorità, la loro. La loro forza militare è più potente e più esperta – grazie all’impegno decisivo in Siria a fianco di Bashar al Assad – di quella dell’esercito regolare libanese, e i loro ministri fanno di testa loro andando a Damasco senza neanche avvisare il primo ministro.

Probabilmente i sauditi hanno considerato che l’accordo di un anno fa – al quale avevano dato il loro via libera permettendo l’elezione di un presidente dopo che per molto tempo questa poltrona era rimasta vuota e il ritorno di Hariri come primo ministro – non è stato all’altezza delle loro aspettative e che il capo del governo non ha saputo dimostrare abbastanza autorevolezza nei confronti degli alleati di Teheran in Libano. L’elemento scatenante della rabbia saudita sarebbe stata una dichiarazione di Ali Akbar Velayati, consigliere diplomatico della guida suprema iraniana Ali Khamenei, che ha definito la coalizione al potere in Libano un “successo” per l’Iran.

Questa ipotesi è la più probabile e i sauditi, che tengono sotto controllo il clan Hariri grazie ai loro numerosi affari in Arabia Saudita, hanno scelto di scatenare la crisi libanese contemporaneamente all’arresto dei principi “corrotti”, per far capire bene chi comanda nel mondo sunnita.




venerdì 3 novembre 2017

Striscia di Gaza: il passaggio dei poteri da Hamas all’Anp



Hamas ha consegnato i valichi di frontiera di Rafah con l'Egitto e di Erez e Kerem Shalom con Israele all'Autorità nazionale palestinese (Anp), come previsto dagli accordi di riconciliazione nazionale firmati al Cairo. Un nuovo passo verso la riconciliazione palestinese, siglata da un accordo lo scorso 12 ottobre, si compie oggi 1 novembre del 2017.

L'evento politico va oltre il suo stesso significato. Il premier dell'Anp Rami Hamdallah è entrato nella striscia di Gaza, dopo due anni di assenza, nel contesto delle intese di riconciliazione fra al-Fatah e Hamas. Si è compiuto un passo decisivo verso la riconciliazione palestinese, con il trasferimento del governo di Gaza dal comitato amministrativo di Hamas all’esecutivo dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hamas, che dal 2007 ha mantenuto il pieno controllo della Striscia di Gaza, ha consegnato all’Anp la gestione finanziaria dei valichi.

“Noi del dipartimento di frontiera siamo pronti per il passaggio di consegne’‘, ha dichiarato Adwan, portavoce dell’autorità di frontiera. ‘‘Non metteremo ostacoli per il raggiungimento dell’accordo, specialmente sui valichi della Striscia di Gaza’‘.

Lo scorso 12 ottobre al Cairo, dopo due giorni di negoziati, Al-Fatah e Hamas avevano raggiunto grazie alla mediazione egiziana un accordo di conciliazione. Una stretta di mano che conclude il percorso di riavvicinamento tra le due principali forze politiche palestinesi.

Da oltre 10 anni, dopo la breve guerra civile tra le due fazioni, la Striscia di Gaza era sotto il controllo del movimento legato ai Fratelli musulmani, considerato da Stati Uniti, Israele ed Unione Europea un gruppo terrorista.

A Rafah fra due settimane riprenderà il transito di persone e merci sotto la sorveglianza - come annunciato al Cairo - della guardia presidenziale di Abu Mazen e possibilmente del contingente europeo di osservatori Eubam.  Nel corso di una conferenza stampa al valico di Rafah è stato precisato che d'ora in poi quel terminal funzionerà secondo le procedure che erano in vigore fino al 2007, quando Hamas espugnò il potere nella Striscia di Gaza. All'interno del valico viene adesso rimessa in funzione la filiale della Palestine Bank, che era chiusa da tempo.

Il premier Hamdallah ha parlato di "unione" e degli "sforzi per ricostruire la Striscia". "Il governo inizia ad assumersi le sue responsabilità nell'amministrazione e nella gestione della Striscia", ha aggiunto che ha fatto appello "a tutti affinché prevalga l'interesse nazionale". Il premier ha anche ringraziato l'Egitto per il ruolo avuto nell'avvicinamento delle posizioni fra al-Fatah e Hamas dopo anni di dissensi. Quindi ha assicurato che i suoi ministri inizieranno subito a lavorare e ad assumersi le proprie responsabilità anche per quanto concerne il controllo dei valichi, il mantenimento della sicurezza ed altri aspetti della vita quotidiana.

Il tempo della verifica è scoccato. Per Hamas come per Fatah e per l'Autorità palestinese. Ieri, come segno concreto di apertura, Hamas ha scarcerato cinque militanti di al-Fatah arrestati in passato per aver "messo a repentaglio la sicurezza interna" a Gaza.

Ridare speranza alla gente della Striscia significa, in primo luogo, intervenire su una crisi che sta sfociando in una grandissima tragedia umanitaria. Alcuni dati la riassumono: il tasso di disoccupazione di Gaza è il più alto del mondo. A riferirlo è un rapporto della Banca mondiale, secondo cui l'economia nel territorio palestinese, strangolata dalla guerra dell'estate 2014 e dall'embargo israeliano, è sull'orlo del collasso. Un recente rapporto di Oxfam documenta come la popolazione di Gaza affronti oggi una crisi energetica peggiore di quella che si è verificata durante la guerra del 2014. Con la conseguenza che oggi circa 2 milioni di persone non hanno quasi nessun accesso a servizi essenziali, come acqua corrente e servizi igienici e moltissimi hanno a disposizione solo 2 ore di luce elettrica al giorno. Una situazione che sommata alla scarsità di carburante, alla crisi sanitaria e salariale rende impossibile la vita della popolazione di Gaza. E la gente bloccata nella Striscia adesso è seriamente minacciata dalla diffusione di malattie causate dalla quasi totale carenza di servizi igienici e sanitari.

Sul tavolo c'è poi una questione che potrebbe deflagare: lo scioglimento delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare di Hamas, e il loro parziale riassorbimento nelle fila degli apparati di sicurezza dell'Anp. Ma su questo non c'è accordo. Ad opporvisi è lo stesso Sinwar, il primo capo di Hamas che viene dai vertici delle Brigate al-Qassam. Un possibile compromesso è la super visione delle forze armate (milizie e apparati) presenti nella Striscia, affidata all'Egitto e al potente capo dell'intelligence del Cairo, il generale Khaled Fawzy, tra i più stretti collaboratori del presidente Abdel Fattah al-Sisi, colui che ha imposto l'accordo tra Hamas e Fatah, facendo così rientrare l'Egitto in Palestina. Come garante del nuovo corso.


mercoledì 1 novembre 2017

Crolla tunnel nella centrale nucleare, tragedia in Corea del Nord



Un tunnel del sito nucleare di Punggye-ri, in Corea del Nord, è crollato lo scorso 10 ottobre, causando la morte di circa 200 persone. Lo riporta l'agenzia sudcoreana Yonhap, secondo cui l'incidente sarebbe avvenuto durante i lavori di scavo di un'altra galleria facendo balzare i timori sulla fuga di pesante radioattività.

In base a un reportage della nipponica Tv Asahi, circa 100 persone sarebbero rimaste intrappolate in un primo momento, mentre altre cento lo sarebbero successivamente state per un secondo crollo durante le attività di soccorso. L'incidente si ritiene sia effetto della sesta detonazione del 3 settembre, la più forte tra i test nucleari di Pyongyang, che avrebbe indebolito sottosuolo e sovrastante monte Mantap , il sesto voluto da Kim, il primo da quando Donald Trump è presidente, è stato fatto qui. L'esplosione, misurata in circa 150 chilotoni e pari a 10 volte il quinto test, fu sufficiente a creare un terremoto di magnitudo 6,3.

Da allora, dopo anche diverse scosse artificiali pur se di minore entità, gli esperti hanno messo in guardia dai seri rischi di collasso in qualsiasi momento della struttura, fortemente provata e resa instabile dalle sei detonazioni. Nam Jae-cheol, capo della Korea Meteorological Administration, l'agenzia che sovrintende anche sui terremoti, ha detto ieri in un'audizione parlamentare a Seul che un'altra esplosione nucleare avrebbe potuto far crollare la montagna con il rilascio di materiale radioattivo.

Complotto per uccidere il nipote di Kim
Nelle stesse ore arriva la notizia di un altro complotto ai danni della famiglia del dittatore nordcoreano, già decimata dalle faide per il potere innescate verosimilmente dallo stesso leader Kim Jong Un. Stavolta si tratta di suo nipote. La polizia cinese ha arrestato a Pechino diversi nordcoreani sospettati di complotto finalizzato a uccidere Kim Han-sol, il figlio 22enne di Kim Jong-nam, il fratellastro maggiore del leader Kim Jong-un, assassinato a febbraio con l'agente nervino Vx all'aeroporto di Kuala Lumpur.

E' lo scenario tracciato dal JoongAng Ilbo, quotidiano di Seul, secondo cui tra i due e i sette agenti del Nord sarebbero stati fermati prima di poter dare seguito al piano. Alcuni di loro, in base a fonti anonime vicine al dossier, sarebbero sotto interrogatorio in speciali strutture alla periferia della capitale cinese, aggiunge la testata, senza fornire ulteriori dettagli.

Nelle ultime settimane esperti esteri e attivisti per i diritti umani avevano già lanciato l'allarme per il rischio di crolli nelle strutture in cui vengono effettuati i test. La costruzione di tunnel indicherebbe la volontà di spostare i test in un altro versante della montagna.

Solo pochi giorni fa, ricorda la Bbc, la Corea del Sud aveva rilanciato il pericolo di una perdita di materiali radioattivi e il crollo dell'intero monte Mantap (proprio a Punggye-ri) in caso di un nuovo test nucleare. I lanci di missili e testate degli scorsi mesi hanno provocato diverse frane e terremoti in tutta la penisola.

Il 10 novembre a Roma ci sarà un vertice sul disarmo nucleare voluto da papa Francesco. Il Vaticano ha invitato undici premi Nobel per la pace, i vertici dell'Onu e della Nato, e i principali attori coinvolti nella crisi della penisola coreana: Usa, Russia e Corea del sud invieranno i propri ambasciatori. I due giorni d'incontri saranno un'occasione per il pontefice per richiamare l'attenzione sul pericolo di una possibile guerra nucleare.

Anche il presidente statinitense nei prossimi giorni offrirà particolare attenzione al continente asiatico. Dopo le provocazioni degli ultimi mesi con Kim Jong un, Donald Trump farà visita a Giappone, Corea del sud, Cina, FiIlippine e Vietnam. Il viaggio servirà a rassicurare gli alleati a Tokyo e Seul sull'impegno stabile degli Usa nella regione per garantire la sicurezza dei Paesi amici. Ma anche a ottenere da Pechino uno sforzo maggiore nella risoluzione della crisi delle Coree: secondo Trump, la Cina non sta facendo abbastanza per dissuadere Pyongyang dallo sviluppo del nucleare. Il presidente Usa parteciperà poi a diversi incontri multilaterali per rafforzare i legami economici e la cooperazione commerciale nel sud est asiatico.