mercoledì 27 luglio 2016

Economie emergenti E7 vicino al sorpasso su paesi G7



C’è qualcosa di impensabile  che sconvolge l’economia occidentale. Addirittura fino a pochi anni fa, prima della crisi economica scatenata dalla bolla dei mutui "facili" scoppiata negli Stati Uniti. Proprio a causa della recessione che ha avuto il suo epicentro nella finanza anglosassone, avverrà prima del previsto il sorpasso delle economie dei paesi emergenti sui paesi occidentali, ancora per non molto tempo definibili come i più ricchi del mondo.

E’ quanto ha rivelato uno studio di PricewaterhouseCoopers, società di consulenza tra le più accreditate. Il documento dimostra come le economie dei cosiddetti E7 (Cina, India, Brasile, Russia, Indonesia, Turchia e Messico) supererà quella dei paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia) entro il 2036. Ma il dato sorprendente è che il medesimo studio di Pwc redatto soltanto precedentemente all'inizio della recessione fissava il sorpasso almeno un decennio più avanti, ovvero nel 2046. A guidare il successo ci sarà la Cina che supererà gli Stati Uniti come principale economia mondiale già nel 2023, con venti anni di anticipo rispetto alle prospettive precedenti.

In anticipo anche il sorpasso dell’India sul Giappone che avverrà entro il 2035. Secondo le previsioni, la Cina cresce in modo esponenziale rispetto alle vecchie economie e oggi gode di una solidità che la vede porto sicuro rispetto alle vecchie Economie che stanno perdendo colpi. Il Brasile sarà avanti a Germania e Regno Unito entro il 2045. E L’Italia? Per quella data sarà già stata superata dall’India (2030) e dalla Russia (2039) nonché dallo stesso Brasile (sempre 2045). E nel 2048 arriverà anche quello del Messico.

Investire su giovani, università e informatica: sono queste le mosse strategiche dei Paesi Emergenti pronti a superare le potenze dei paesi più sviluppati appartenenti al G7 ed a crescere senza freni. Le previsioni sui tempi del sorpasso prevedevano tempi molto lunghi ma, complice la crisi economica mondiale che ha messo in ginocchio le potenze, Cina, Brasile, India Russia, Turchia, Indonesia e Messico sono già pronti a superare i ricchi, Usa in prima fila.

La sfida contro il club dei potenti (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada e Giappone) riunito per la prima volta nel 1975 a Rambouillet, vicino Parigi, è stata lanciata dalle economie emergenti almeno dal 2006, quando all’interno del Stern Review Report di PricewaterhouseCoopers, venne coniato per la prima volta il termine E7. Da allora ad oggi molte cose sono cambiate e la corsa delle 7 più importanti economie emergenti si è fatta più serrata.

Sebbene manchino ancora diversi anni, il meccanismo è in moto ormai da molto tempo e si accompagna alla nascita di un mercato alternativo a quello delle economie sviluppate, dove gli investimenti privati e lo sforzo finanziario dei governi per colmare il gap infrastrutturale sono elevatissimi. Cambiano così i mercati di riferimento, e i tassi di crescita delle economie (molto più elevati tra i paesi emergenti) sono lì a dimostrarlo.

La corsa degli E7 sta lasciando sul campo dei mercati internazionali una serie di evidenze che, secondo PricewaterhouseCoopers, confermano al 2030 la data prevista per il sorpasso.

Lo studio di PWC si occupa anche di stabilire il primato mondiale in termini di PIL che si avrà nei prossimi anni e che stabilisce che dal 2050 la probabile prima economia mondiale sarà l’India e non la Cina, in quanto quest’ ultima tra qualche anno sarà penalizzata dall’elevata età media della popolazione. A sostenere la crescita dei Paesi cosiddetti Emergenti sarà, dunque, una maggiore apertura alla modernizzazione, all’innovazione e alla ricerca. Sono questi, infatti, i fattori che oggi più che mai dominano la società e la politica dei Paesi in forte crescita: le loro università si aprono e investono moltissimo nella ricerca, gli ingegneri civili brasiliani, per esempio, affrontano temi sempre più complessi e gli operatori di software indiani programmi sempre più avanzati.

In primo luogo – ribadiscono gli analisti della società – nel 2030 il Pil cinese supererà quello statunitense. Nonostante il leggero rallentamento degli ultimi trimestri, il prodotto interno lordo della Cina continua a crescere a ritmi elevati bruciando, anno dopo anno, le tappe che lo portano ad avvicinarsi a quello americano. Oltre a questo ci sono molti altri segnali della corsa dei Paesi emergenti: nel 2030 sette delle 12 più grandi economie del mondo apparterranno a quelli che sono oggi mercati emergenti (E7).

Guardando invece alle condizioni attuali, gli scambi commerciali interni ai Paesi E7 crescono ad un ritmo cinque volte maggiore rispetto a quelli interni al G7, e il numero di individui appartenenti alla classe media nella regione Asia Pacifico ha superato quello di Europa e Stati Uniti insieme. Dal 2021, questa classe media emersa nelle economie emergenti rappresenterà un mercato annuale, per la sua capacità di acquisto di beni e servizi, da 6 trilioni di dollari.

La crescita del Pil è un effetto dello sviluppo economico, ma è anche essa stessa un acceleratore che porta nuovo sviluppo e nuovi investimenti. Ne sono convinti i top manager di molte grandi aziende mondiali intervistati da PricewaterhouseCoopers proprio sul tema.

Dall’analisi della società emerge che oltre il 50% dei Ceo globali è convinto che il soprasso delle economie emergenti si accompagnerà ad un aumento del costo del lavoro nei mercati dove questo sorpasso si compie. Inoltre, tutti gli intervistati confermano che dal 2020, dieci anni prima del traguardo fissato al 2030, il 70% delle multinazionali avrà almeno un quartier generale in Asia.

Ma quello che più conta sono gli effetti che questo ribilanciamento del potere economico globale avrà sugli investimenti nelle infrastrutture. PricewaterhouseCoopers stima che entro il 2025 la spesa mondiale nelle infrastrutture arriverà a 9 trilioni di dollari all’anno, con una cifra approssimativa di 78 trilioni che sarà spesa entro il 2025. In quest’ambito il mercato dell’Asia Pacifico (dove sono attivi alcuni dei più importanti E7 come Cina, Indonesia e in parte India) vale il 60% della spesa totale, mentre l’Europa arriverà a contare meno del 10%.

Una tendenza destinata a consolidarsi nel tempo, almeno secondo quanto riporta anche la Banca Mondiale. L’ultimo report dell’istituto dedicato al tema “Infrastructure Investment Demands in Emerging Markets and Developing Economies” calcola che, nonostante questa concentrazione di spesa nelle economie emergenti, il gap nella spesa annuale per le infrastrutture valga ancora 452 miliardi di dollari.

Questo contribuisce a riscrivere la mappa dei grandi investimenti e delle grandi opere che inevitabilmente si verranno a concentrare nei Paesi capaci di esprimere meglio di altri una crescita economica solida e duratura.


martedì 26 luglio 2016

Convention democratica le parole di Michelle Obama


Si è aperta a Filadelfia  la convention democratica che attribuirà ufficialmente Hillary Clinton come candidata del partito per le prossime elezioni presidenziali americane dell'8 novembre. Michael Bloomberg ha annunciato che sosterrà l'ex segretario di Stato nella corsa alla Casa Bianca -
Hillary Clinton ''deve essere presidente''. Michelle Obama e Bernie Sanders cercano di unire il partito democratico dietro a Clinton.

Le parole di Michelle hanno riscosso un enorme successo al La FargoArena di Filadelfia con un discorso appassionato, caldo: «Sono qui questa notte perché in questa elezione c’è una sola persona di cui mi fido: la nostra amica Hillary Clinton. Non è solo una scelta tra democratici e repubblicani, questa elezione riguarda chi avrà il potere di incidere sulla vite dei nostri figli nei prossimi quattro o otto anni. Hillary sa che la presidenza significa lasciare di meglio ai nostri figli. So che tipo di presidente sarebbe ed è per questo che in questa elezione sono con lei. Ci sono stati tanti momenti in cui avrebbe potuto ritenere questo lavoro troppo duro ma lei, ed è ciò che ammiro di più, non sceglie mai la strada più facile. Hillary Clinton nella sua vita non si è mai arresa. È quello che voglio. Voglio qualcuno che ha dimostrato la forza della perseveranza». E ancora ''Credo che sia veramente qualificata per essere presidente degli Stati Uniti'' dice Michelle, accolta con un'ovazione dal pubblico. Con indosso un abito blu di Christian Siriano, la First Lady dipinge Hillary come una persona che ''non molla, anche se avrebbe potuto farlo'' in passato. ''Sono qui perché' so il tipo di presidente che Hillary sara'. Ed e' per questo che sto con lei'' mette in evidenza Michelle, dicendosi stupita che siano già passati otto anni da quando e' salita sul palco della convention democratica per spiegare agli americani perché suo marito aveva battuto Hillary e perché' avrebbero dovuto votarlo.
''In questa elezione, cosi' come nel 2008, dobbiamo bussare a ogni porta e conquistare ogni voto''. Michelle esce travolta dagli applausi.

Ad applaudirla da casa anche il presidente Barack Obama: ''un discorso incredibile da parte di una donna incredibile. Non potrei essere più orgoglioso, il nostro paese e' fortunato ad averla come First Lady''. Michele è seguita da Elizabeth Warren, la senatrice paladina anti-Wall Street che Sanders avrebbe voluto vice presidente di Hillary. Anche la senatrice, che all'inizio della campagna elettorale sembrava volersi candidare, si schiera con lei, senza se e senza ma. Un endorsement completo. Sanders.

Di Hillary Clinton ha detto inoltre: «È una donna che non si è mai arresa, ha dimostrato la sua forza nella perseveranza. Grazie a lei ora le mie figlie danno per scontato che una donna può diventare presidente»

Poi le note sulla famiglia: «Non posso credere che siano passati già otto anni. Non dimenticherò mai quella mattina d’inverno quando guardai le nostre ragazze, allora solo di 7 e 10 anni, salire su dei Suv neri con tanti uomini armati, con i loro volti schiacciati sui finestrini. Cosa abbiamo fatto, pensai. Abbiamo spiegato loro che quando qualcuno è crudele e si comporta come un bullo, noi non ci abbassiamo al suo livello. No, il nostro motto è che contro i colpi bassi noi voliamo alti». E ancora: «Mi sveglio ogni giorno in una casa che è stata costruita da schiavi e guardo le mie figlie, giovani ed intelligenti donne di colore, giocare con il loro cane nel giardino della Casa Bianca. Grazie a Hillary, le mie figlie e tutti i nostri ragazzi ora danno per scontato che una donna può diventare presidente degli Stati Uniti. Perciò non consentite a nessuno di dire che questo Paese non è grande e che dobbiamo in qualche modo renderlo di nuovo grande perché al momento è il più grande Paese della terra». Sono passati otto anni da quando Michelle disse di Hillary che «una donna che non sa badare alla sua famiglia non può badare alla Casa Bianca». Ora sono «buone amiche», e dall’alto dei suoi indici di popolarità stratosferici, Michelle prova a dare una mano all’ex rivale, appena superata dal tycoon nei sondaggi. L’effetto, almeno alla Convention, è significativo.

Sondaggio della Cnn: Trump stacca di 5 punti Hillary Clinton Nel giorno in cui si apre la convention democratica a Filadelfia, la Cnn annuncia i risultati di un sondaggio a livello nazionale in base al quale il candidato repubblicano ha un vantaggio di 5 punti (44% contro 39%) rispetto alla rivale democratica. La rete sottolinea però che si tratta ancora di un effetto rimbalzo della convention repubblicana di Cleveland chiusasi la settimana scorsa. Più significativi saranno i risultati al termine della kermesse dell'Asinello.

domenica 24 luglio 2016

Bambini come Pokemon Go: "Trovateci e venite a salvarci"


"Trovateci e venite a salvarci". Il gioco del momento, Pokemon Go, non conosce confini e la sua fama arriva anche in zone di guerra. Pokémon Go dal 2 luglio scorso ha invaso gli smartphone di tutto il mondo in poche settimane. E il tormentone del momento è arrivato fino in Siria. Su Twitter sono apparse alcune foto che mostrano i volti di bambini siriani che spuntano dietro l’immagine di un Pokémon, Pikachu. Il profilo da cui sono state pubblicate è quello dell’organo di comunicazione delle forze rivoluzionarie siriane. Una reale richiesta d’aiuto o semplicemente un modo per attirare l’attenzione sulle vittime di una guerra che dura ormai da sei anni.

"Staccate gli occhi dai vostri smartphone e accorgetevi di noi". Questo il significato di una nuova campagna che invita a riflettere sulla condizione dei bambini siriani, che ha colto spunto dalla mania del Pokémon Go per chiedere ai giocatori del mondo occidentale di fermarsi nella caccia alle creature digitale per dedicare la propria attenzione alle persone in carne e ossa intrappolate nelle zone di guerra.

L'organo di comunicazione delle forze rivoluzionarie siriane (The Revolutionary Forces of Syria Media Office) ha diffuso diverse immagini di bimbi che mostrano disegni di Pokemon con messaggi in arabo in cui chiedono di essere salvati dalla guerra. Gli attivisti siriani ricorrono alle note icone di Pokemon per  attirare l'attenzione del dramma dei bambini intrappolati in aree colpite dalla guerra.

“Diversi bambini sono stati fotografati mentre reggono immagini di popolari Pokémon, in vari villaggi siriani, con il messaggio: "Vieni a prendermi". Le fotografie sono state messe online dall'ufficio media della Forze rivoluzionarie siriane, che non ha voluto rivelare chi abbia organizzato la campagna. I luoghi indicati sono nei pressi delle città di Hama e Idlib, teatro per anni di pesanti combattimenti e raid aerei, oggi in mano agli oppositori del regime di Bashar al-Assad. La tecnologia a realtà aumentata di Pokémon Go proietta creature virtuali sui luoghi attorno al giocatore che guarda lo schermo del suo smartphone“. Intanto migliaia di bambini siriano sono intrappolati a Manbjji, nella provincia di Aleppo, città bastione dell'Isis attorniata dalle forze della coalizione guidata dai curdi che cercano di espugnarla, con la copertura dei bombardamenti Usa. L'allarme arriva dall'Unicef. "Nell'ultimo mese e mezzo e con l'intensificarsi della violenza sono morte circa 2.300 persone", ha spiegato una responsabile, Hana Singer, aggiungendo che "20 bambini sono morti negli ultimi sette giorni".“

Possiamo affermare senza enfasi che con Pokémon Go i confini sono caduti del tutto, ormai il gioco è nella realtà. Ed è la chiave di quest’ultima ossessione (follia?) collettiva – come ha spiegato il gamification designer Fabio Viola – è proprio la realtà aumentata, cioè l’aggiunta di elementi virtuali alla realtà. Il mondo si è improvvisamente riempito di queste creature e decine di milioni di cacciatori vagano sguardo fisso nel proprio smartphone con l’intento di catturarli.


giovedì 21 luglio 2016

Annuncio da Ankara, stop Convenzione Ue diritti uomo



Annuncio choc da Ankara: la Turchia sospenderà la convenzione europea sui diritti umani.E mentre Erdogan continua con epurazioni e caccia alle streghe – includendo nella black list, dalla magistratura al mondo della scuola, delle università e dell’informazione, di tutto – l’universo diplomatico internazionale risponde con il muovere alla volta del presidente turcorichiami all’ordine istituzionale e alla moderazione. E proprio mentre da Ankara continuano ad arrivare notizie di arresti e di duri procedimenti penali contro gli eversori, il vicepremier e portavoce del governo Akp ,Numan Kurtulmus, conferma lo stato di emergenza per 3 mesi – augurandosi di poterlo interrompere peò nei prossimi 40-45 giorni – e fa sapere che «la Turchia sospenderà la Convenzione europea sui diritti umani, come ha fatto al Francia».

Kurtulmus, che ha richiamato l'articolo 15 della Carta, che decreta appunto la possibilità di sospensione «per motivi di pubblica sicurezza o di minaccia alla nazione», richiamando il recente precedente della Francia. Parigi ha appena deciso di estendere di sei mesi lo stato di emergenza dopo l’attentato di Nizza.

Kurtulmus ha precisato che il governo turco a maggioranza Akp conta di «porre fine allo stato di emergenza il prima possibile, al massimo entro un mese e mezzo», anche se è previsto al momento per tre mesi. Fonti diplomatiche hanno però precisato  che il governo di Parigi «non ha mai sospeso la Convenzione», pur avendo «chiesto, in relazione allo stato di emergenza in Francia, alcune deroghe a certi diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Una nuova polemica tra Parigi e Ankara dopo quella scoppiata qualche anno fa sulla legge francese che punisce chi nega il genocidio degli armeni durante l’impero ottomano.

Lo stop vale per il periodo in cui resterà in vigore lo stato dʼemergenza, approvato dal Parlamento, che potrebbe essere revocato nel giro di 45 giorni.



mercoledì 20 luglio 2016

Europol: gli ultimi attacchi in Europa non sono stati organizzati dallo Stato islamico



L’agenzia europea per la lotta al crimine ha pubblicato un nuovo rapporto sul terrorismo in Europa. Secondo l’Europol l’attentato nella città francese e quello sul treno nei pressi della città tedesca sono stati commessi da dei “lupi solitari”, la cui affiliazione con l’organizzazione jihadista non è chiara, nonostante le rivendicazioni dello Stato islamico. Il pericolo per l’Unione europea però resta alto e questo tipo di attacchi sono “molto difficili da individuare e prevenire”, ha aggiunto l’agenzia.

Il 2o luglio la Francia ha prolungato per altri sei mesi lo stato d’emergenza dopo l’attentato di Nizza. "Non ci sono prove - scrive - che l'attentatore di Nizza si considerasse un membro Isis". E' stato detto che "si era radicalizzato in poco tempo e aveva consumato propaganda Isis prima dell'attacco", così come a Wurzburg i media hanno detto che nella stanza del terrorista c'era una bandiera del Califfato fatta a mano. Ma la loro "affiliazione al gruppo non è chiara". Come le rivendicazioni: l'agenzia A'maq ha detto di aver ricevuto informazioni da una fonte non identificata, "in contrasto con la chiara responsabilità" espressa per Parigi e Bruxelles. Una differenza "che indicherebbe come l'Isis voglia mantenere un livello di affidabilità se dovessero emergere informazioni che contraddicono la loro versione".

"Diversi jihadisti europei - ricorda l'Europol - occupano posizioni prominenti nello Stato Islamico e manterranno probabilmente contatti con le reti terroriste nei rispettivi Paesi di origine. Gli attacchi del 13 novembre a Parigi hanno inaugurato la tattica dell'Is di utilizzare armi di piccolo calibro con ordigni esplosivi improvvisati portatili per attacchi suicidi, progettati per causare perdite massicce. Il modo in cui questi attacchi sono stati preparati e attuati (organizzati da persone rientrate in patria) molto probabilmente dirette dalla leadership dell'Is e con l'utilizzo di reclute locali, ci portano alla valutazione "che episodi simili si possano ripetere". L'Europol spiega inoltre che "l'Is ha ripetutamente minacciato la Penisola Iberica e gli Stati membri della coalizione anti-Is nei loro video di propaganda, facendo riferimenti specifici a Belgio, Francia, Italia e Regno Unito".

I foreign fighters arrivati in Siria e in Iraq spesso si sposano e fanno figli, grazie anche al consistente afflusso di donne europee verso il territorio del Daesh. Bambini che vengono allevati e cresciuti con gli ideali del'islamismo radicale: lo Stato Islamico sta allevando "la prossima generazione di foreign fighters, che potrebbe costituire una minaccia nel futuro per la sicurezza degli Stati membri". E' un fenomeno che desta "particolare preoccupazione".


domenica 17 luglio 2016

Turchia- Gulen: il rapporto Usa ed Erdogan



Il colpo di stato naufragato in Turchia è diventato una crisi internazionale. Chi è Fethullah Gulen, l'uomo che sta provocando la maggiore contrapposizione tra Usa e Turchia e forse nella Nato dei ultimi 50 anni? Perché Erdogan, pur di riavere indietro questo anziano Imam in esilio negli Usa, chiude la base Nato di Incirlik e tiene sotto pressione Washington? Con il golpe fallito emerge il nodo.

Gulen è  il leader religioso che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato di essere dietro il colpo di stato di stanotte, vive dal 1999 in una fattoria di Saylorsburg nei boschi della Pennsylvania in cui barattoli di vetro racchiudono terriccio proveniente da diverse regioni della Turchia.
75 anni, dal 2008 residente legale negli Usa con tanto di green card, Gulen è stato un alleato di Erdogan fino al 2013 quando e' scoppiato uno scandalo di corruzione nel governo turco. Gulen finora sembrava aver avuto la peggio nel braccio di ferro con il presidente. Gulen, un ex imam, afferma di credere nella scienza, nel dialogo interreligioso e in una democrazia multipartitica.

Gulen, che ora vive negli Stati Uniti, contrattacca: "Il tentato colpo di Stato può essere stata una messa in scena di Erdogan". La Turchia ha già inviato una richiesta di estradizione.

Secondo Wikileaks, ha aperto canali di dialogo con il Vaticano e con organizzazioni ebraiche. Il sito web di Gulen non ha traccia finora di quanto sta succedendo in Turchia. Secondo i media Usa, Gulen vive presso la Golden Generation Worship and Retreat Center, un centro per anziani fondato da americani di origini turca. Passa ore a pregare e in meditazione e e a vedere medici per varie malattie tra cui il diabete e problemi di cuore.

Bisogna chiarire due aspetti. Il primo è che le mitiche Forze armate turche, custodi della laicità dello Stato, non sono più leggendarie. Sono assai diverse da quelle che ci hanno consegnato i libri di storia, anche quelli più recenti. Il secondo è che si è creata una frattura proprio all’interno del mondo militare, con i vertici supremi da una parte, e la bassa forza dall’altra. Quest’ultima, meno spigliata, era ed è affascinata dalle suggestioni libertarie del predicatore sunnita Fethullah Gulen, che dal 1999, cioè prima che Erdogan andasse al potere, fuggì negli Usa e chiese asilo politico. I due erano legati da un patto d’acciaio: il politico carismatico, atletico e seduttivo, appunto Erdogan; e il miliardario potente e influente, che in Turchia aveva messo radici dappertutto: nelle scuole e nelle università di sua proprietà, nelle fondazioni, nelle istituzioni, nella polizia, nella magistratura, nei servizi segreti, nei gradi medi dell’esercito. Un rapporto di complicità interessata, ma anche di forte condivisione.

Il predicatore, da Saylorsburg, in Pennsylvania, suggeriva la linea della moderazione, pronto ad offrire i suggerimenti più opportuni; il più giovane leader coniugava i suggerimenti con le responsabilità del potere. Sembrava un rapporto perfetto. I giornali di proprietà di Gulen sostenevano il governo islamico moderato dell’Akp (il partito di maggioranza); Erdogan sfruttava la  conoscenza del suo benefattore, che gli aveva aperto le porte dei circoli più esclusivi del Paese.

I primi dissapori si sono manifestati alcuni anni fa, sempre per ragioni di potere. Il futuro sultano non tollerava la crescente influenza dell'iman, che ormai non aveva freni. Apriva sedi dappertutto, compresa l’Italia, con alcuni centri assai importanti, e legami influenti anche con il mondo cattolico. Accettai, assieme ad alcuni colleghi e a un paio di professori, un invito a Istanbul dei guleniani Italiani. Interessanti ma invasivi. Eravamo ovviamente nella parte orientale della città, pranzo e cena senza vino, un paio di riunioni, odor di consorteria. Non mi piacque, mi tenni a distanza, anche se mi incuriosiva capire e indagare sul potere che il gruppo vantava. Li ho incontrati anche a Milano, alla festa nazionale turca, all’hotel Four Seasons: poi non li ho visti più.

Nel 2013, infatti, si è compiuta la definitiva rottura con il governo di Erdogan. Rottura dolorosa e astiosa. Il leader, sempre più malato di protagonismo, era convinto che Gulen tramasse contro di lui. In realtà il predicatore aveva cominciato a denunciare le truffe del regime, gli scandali finanziari, i legami con l’Isis, le armi ai terroristi in Siria. I giornali di Gulen furono praticamente depotenziati e distrutti. Diventato presidente della Repubblica, Erdogan preparò la sua vendetta. Chiese almeno due volte al presidente Barack Obama di estradare Gulen, chiamandolo «terrorista che mina alle radici la democrazia turca». Obama ha sempre risposto con diplomatica sorpresa e silenzioso sdegno. Mai e poi mai l’America restituirebbe un uomo che rischia persino la morte, sotto un fardello di colpe praticamente inesistenti.

Ora, che Gulen abbia molti seguaci nelle file delle Forze armate turche è indubbio. Ma l’uomo, che ha subito risposto sdegnosamente alle accuse di Erdogan per il presunto golpe di venerdì, non è certo uno sciocco. Non si improvvisa un colpo di Stato senza adeguati mezzi, senza commandos che vadano a cercare e a catturare il leader e i suoi principali collaboratori, senza forze speciali che occupino televisioni, radio e istituzioni diffondendo comunicati d’emergenza. I rivoltosi invece sembravano sbandati, come fossero consapevoli della battaglia persa in partenza. Sapendo molto bene che il sultano, destinato a vincere, non avrebbe perdonato (nella foto sopra, Reuters, un uomo frusta con una cintura un gruppo di militari golpisti su uno de posti sul Bosforo). Gli Stati Uniti, pronti a reagire, hanno detto subito che l’unico governo riconosciuto era quello eletto dal popolo. Quando il presidente turco ha ascoltato queste parole, nella notte, ha capito di aver vinto, anzi stravinto. Adesso, le frizioni con gli Usa, per ottenere l’estradizione di Gulen (che mai avverrà), fanno parte del gioco che chi mastica un po’ di politica internazionale dovrebbe conoscere.

Ankara contro Usa: "Chi con Gulen non è amico" -"Non riesco a immaginare un Paese che possa sostenere quest'uomo. Un Paese che lo sostenga non è amico della Turchia. Sarebbe persino un atto ostile nei nostri confronti". Così il premier turco, Binali Yildirim, riferendosi agli Usa. Non si è fatta attendere la risposta americana. Gli Usa non hanno ricevuto ancora una formale richiesta di estradizione per Gulen, che vive in una cittadina in Pennsylvania. "Ovviamente invitiamo il governo delle Turchia, come facciamo sempre, a presentarci qualsiasi prova che sia possibile verificare, che gli Stati Uniti accetteranno e valuteranno sino a giudicare in modo appropriato", ha detto il segretario di Stato Kerry.

Gulen: "Il mondo non crede alle accuse di Erdogan" - "Non penso che il mondo possa credere alle accuse del presidente Erdogan. Ora che la Turchia ha intrapreso il sentiero della democrazia non può tornare indietro", si difende Gulen. "Condanno nei termini più forti il tentativo di colpo di Stato militare in Turchia. Il governo dovrebbe essere conquistato attraverso un processo di elezioni libere e giuste, non con la forza".

"Condanno il tentato golpe, accuse offensive" - "Come uno che ha sofferto sotto diversi colpi di Stato militari nelle ultime cinque decadi, è particolarmente offensivo essere accusato di avere legami con un tentativo del genere. Respingo categoricamente queste accuse", aggiunge l'imam.


mercoledì 13 luglio 2016

Isole Faroe, alla mappa di Google ci pensano le pecore per 'Street View'


Nelle 18 splendide isole dell'arcipelago Faroe (Danimarca) vivono circa 50mila persone in compagnia di 80mila ovini. Sono terre piene di verdi vallate, ripide e alte scogliere, coste con un mare infinito e paesaggi mozzafiato così poco calpestati da potere essere ancora definiti incontaminati.  Agenzia del turismo lancia petizione per mappare il territorio. Per farsi conoscere, stanchi di aspettare l'arrivo del colosso Usa, i cittadini hanno deciso di fare da soli: gli ovini faranno foto e video 360°.

L'idea ha una madrina insolita, l'attrice Durita Dahl Andreassen: è stata lei a chiedere aiuto ai suoi concittadini che vivono nel nord dell'oceano Atlantico tra Scozia, Norvegia e Islanda, per portare avanti questo progetto. "Abbiamo fra i paesaggi più magici del pianeta ed è tempo che questa nazione nordica finora nascosta venga svelata al mondo", sostiene la creatrice di Sheep View 360.
Lo staff dell'ente del turismo ha montato una fotocamera sul dorso di una pecora per scattare immagini del paesaggio e mappare così dal livello stradale alcuni dei punti più suggestivi delle isole che compongono l'arcipelago.

L'iniziativa, spiega Durita Dahl Andreassen di Visit Faroe Islands, nasce come una petizione online - con tanto di hashtag #weWantGoogleStreetview e #Sheepview360 - per spingere il colosso di Mountain View a mappare le Faroe, così come Google ha fatto e sta facendo per i luoghi più inaccessibili del globo.

Così è nata l'idea di "Sheep View 360", con esplicito riferimento al servizio Street View di Google: sul dorso di una pecora è stata piazzata una fotocamera in grado di effettuare riprese e scatti a 360 gradi, alimentata con un pannello solare, e l'animale è stato lasciato libero di pascolare per le colline delle isole. Le foto, con annessa posizione Gps, vengono trasmesse al cellulare di Andreassen che le carica su Google Street View. "Ora però abbiamo bisogno di Google", conclude, perché le pecore non riescono ad arrivare dappertutto. Il team di Sheep View ha già realizzato le immagini panoramiche di cinque siti e ha prodotto il primo video a 360 gradi per esplorare i luoghi come se si fosse sul posto.

Interpellata dal Guardian, Google ha fatto sapere che "chiunque può creare la propria esperienza su Street View e far domanda per prendere in prestito l'attrezzatura necessaria".

Quella delle Faroe è un ulteriore evoluzione del ruolo degli ovini che, negli ultimi mesi, sono stati protagonisti in più "professioni". Proprio dove ha sede Google, in California, nella vicina Simi Valley, un pascolo di centinaia di capre è stato utilizzato dai vigili del fuoco per "brucare e prevenire incendi".

Theresa May è premier, Boris Johnson ministro degli Esteri



L'ex ministro degli esteri Philip Hammond nominato cancelliere dello scacchiere. L'ex sindaco di Londra e fautore della Brexit, Boris Johnson, sarà il ministro egli Esteri. Amber Rudd, attuale ministro per l'Energia, ha preso il posto della May all'Interno. A David Davis il compito più delicato, mettere in moto la Brexit. May, 60 anni a ottobre, ministro dell'Interno negli ultimi sei anni e neo leader del Partito Conservatore, e' stata "invitata dalla regina" a formare il nuovo governo britannico.  Diventa cosi' la nuova premier del regno, succedendo a David Cameron. E' la seconda donna nella storia del Paese ad assumere la guida dell'esecutivo, 26 anni dopo Margaret Thatcher, anche lei esponente Tory.

"È un momento importante per la nostra storia, dopo il referendum: ci aspettano grandi cambiamenti reali, ma il Regno Unito può essere all'altezza della situazione, come ha sempre fatto in passato: uscendo dall'Ue forgeremo un ruolo positivo per il nostro Paese nel mondo, forgeremo un Regno Unito che opera per tutti e non per pochi privilegiati.

Insieme per una Gran Bretagna migliore": è la promessa della May nel suo primo discorso da premier a Downing Street. May ha invocato più giustizia sociale, impegnandosi a lavorare "non solo per i pochi privilegiati, ma per tutti". Ha poi definito la Brexit "una sfida" e ha parlato di "un momento importante per il Paese dopo il referendum", evocando la necessità "d'un grande cambiamento", ma anche di "una visione positiva del nostro ruolo nel mondo".

Il nuovo governo lavorerà per mantenere unita la Gran Bretagna Il nuovo governo sarà al servizio di tutti i cittadini, lavorerà per mantenere il Paese unito, rafforzando i legami tra Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord e affronterà a testa alta la sfida della Brexit. Al suo arrivo a Downing Street la nuova premier britannica Theresa May ha tracciato un breve programma dell'esecutivo che andrà a formare nelle prossime ore. Le priorità del governo saranno rivolte "non ai potenti, ai ricchi e ai privilegiati", ma alla gente che lavora, ha detto May, dedicando alcuni passaggi del suo discorso alle famiglie "working class". La vera eredità di David Cameron, ha sottolineato la nuova premier nel rendere omaggio al suo predecessore, non è sull'economia, ricostruita dopo la grande crisi degli ultimi anni, ma "sulla giustizia sociale". Quindi, ha aggiunto, "seguirò i suoi passi". Nel nuovo governo un mix attento fra portabandiera di Leave e Remain per ricompattare il partito Il posto di cancelliere dello scacchiere (ministro del Tesoro) andrà all'ex ministro degli Esteri, Philip Hammond. 

Il ministro degli Esteri sarà l'ex sindaco di Londra e fautore della Brexit Boris Johnson. Amber Rudd, attuale ministro per l'Energia prenderà il posto della May all'Interno. Insomma un mix attento fra portabandiera di Leave e Remain per ricompattare il partito dopo le divisioni referendarie, ma soprattutto di un cambio generazionale all'indietro: via i 50enni del gruppo di Notting Hill di Cameron e Osborne; recupero di alcuni veterani, più vicini per età alla May, come David Davis o Liam Fox, altri due euroscettici di ferro. Il primo va al neonato dicastero per la Brexit, a cui spetterà la gestione dei negoziati con Bruxelles. Il secondo al Commercio con l'Estero, fondamentale sullo stesso fronte. Mentre alla Difesa resta il 'Remainer' Michael Fallon, garanzia di fedeltà alla Nato rispetto alle aperture di Johnson alla Russia di Vladimir Putin. Un nuovo ministro per negoziare l'uscita britannica dalla UE A David Davis il compito più delicato, mettere in moto la Brexit. Infatti la May aveva detto che "Brexit significa Brexit e vogliamo farne un successo", preannunciando però che non chiederà l'attivazione dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona prima di fine anno. Lei vuole colloqui informali con i leader europei prima del prossimo Consiglio Ue, il 20 ottobre.





mercoledì 6 luglio 2016

Invasione in Iraq, rapporto Chilcot: "Guerra non era necessaria"


Il 6 luglio è stato reso pubblico il rapporto Chilcot sull'intervento del Regno Unito durante la guerra in Iraq. L’invasione dell’Iraq è stato un errore, secondo l’inchiesta ufficiale del governo britannico, .

Il Regno Unito non esaurì tutte le possibili opzioni pacifiche prima di decidere di unirsi nel 2003 agli Stati Uniti nell'invasione dell'Iraq di Saddam Hussein. Queste le attese conclusioni di Sir John Chilcot, a capo della commissione di inchiesta che per 7 anni ha indagato sulle ragioni della guerra e che oggi presenta il suo Rapporto finale.

Per Chilcot, l'allora premier laburista Tony Blair giudicò le informazioni di intelligence sulla minaccia delle presunte armi di distruzione di massa irachene "con una certezza che non era giustificata". I piani per il dopoguerra, inoltre, furono "completamente inadeguati" alla situazione.

L’inchiesta ufficiale del governo britannico sull'intervento armato del 2003 è stata diretta da Sir John Chilcot, uno dei consiglieri privati della regina. Il Regno Unito, secondo il rapporto, è andato in guerra prima che si fossero esaurite tutte le opzioni pacifiche e la minaccia delle armi di distruzione di massa nelle mani del regime di Saddam Hussein, considerata la principale motivazione per l’entrata in guerra, è stata “presentata con una convinzione non giustificata”. L’ex premier britannico Tony Blair, che guidava il governo al tempo del conflitto, ha dichiarato che si assume “piena responsabilità” per la decisione La guerra in Iraq si poteva evitare, il rapporto Gb boccia ex primo ministro

Andare in guerra in Iraq è stata "la decisione più dolorosa che io abbia mai preso": così l'ex premier britannico Tony Blair dopo la pubblicazione del rapporto Chilcot. "Ma il mondo è un posto migliore senza Saddam Hussein", ha aggiunto.

L'ex primo ministro Tony Blair ha detto di aver preso la decisione di entrare in guerra contro l'Iraq nel 2003 "in buona fede" e in quello che riteneva "essere il miglior interesse del paese".

Al tempo dell’invasione dell’Iraq Blair, poi dimessosi nel 2007, sostenne che le informazioni di intelligence dimostrassero che Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa, che non furono mai trovate. In Iraq sono morti 179 militari inglesi e in molti hanno accusato Tony Blair di essere il diretto responsabile. In un’intervista a Cnn, l’ottobre scorso, Blair si scusò per il fatto che le informazioni a disposizione prima della guerra fossero sbagliate e per gli errori nella pianificazione, ma non per l’operazione destinata a rimuovere Saddam Hussein dal potere.

Ammise che la guerra ha avuto un ruolo nell’ascesa dello Stato islamico, sottolineando però come essa non sia stata l’unico fattore scatenante. Blair si assume la piena responsabilità per ogni errore commesso nella guerra in Iraq ''senza eccezioni o scuse''. E' quanto dirà secondo la Bbc l'ex premier britannico rispondendo al rapporto finale sulla Chilcot Inquiry. Blair resta comunque dell'idea secondo cui ''era meglio rimuovere Saddam Hussein'' e non crede che il conflitto sia stato una causa del terrorismo che vediamo oggi nel Medio Oriente e nel mondo.

E' una critica "devastante", come la definisce il Guardian, quella rivolta nei confronti di Blair dal Rapporto. Per John Chilcot, che per sette anni ha guidato la commissione d'inchiesta, la decisione britannica di invadere uno stato sovrano per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale prima che tutte "le opzioni pacifiche per il disarmo" venissero esplorate, fu della "massima gravità". E se l'azione militare non era all'epoca "l'ultima risorsa" possibile, Chilcot suggerisce che uno dei fattori decisivi nella decisione di unirsi agli Stati Uniti e scendere in guerra, fu proprio il convincimento di Blair.

Secondo il Rapporto, il celebre dossier presentato dal premier alla Camera dei Comuni nel settembre del 2002 non era sufficiente a supportare l'accusa che l'Iraq di Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa. L'allora governo laburista non riuscì inoltre a prevedere le disastrose conseguenze della guerra, ha detto Chilcot nell'illustrare le conclusioni contenute nei 12 volumi che compongono il Rapporto. Con almeno 150mila morti, molti dei quali civili e "oltre un milione di sfollati", ha ricordato, "il popolo iracheno soffrì enormemente".

Vediamo cosa c’è scritto in breve:

Secondo il documento redatto dalla commissione «le circostante in cui fu deciso che c’era la base legale per l’azione militare britannica furono tutt’altro che soddisfacenti» e «non c’è traccia (nei documenti analizzati, ndr) di nessuna significativa discussione dell’argomento legale» da parte delle autorità.

Il rapporto critica l’ex premier Tony Blair per la presentazione delle informazioni di intelligence ai cittadini, sostenendo che il parere espresso dalla Commissione congiunta di intelligence fu comunicato all'opinione pubblica con modifiche riconducibili alle convinzioni personali di Blair.

Per il rapporto, il Regno Unito scelse di prendere parte all'invasione dell’Iraq prima che tutte le opzioni pacifiche per il disarmo fossero state escluse.

Blair fu messo in guardia circa la minaccia che le attività di al-Qaeda a seguito dell’invasione aumentassero, secondo il rapporto.

Il rapporto critica l’assenza di una pianificazione post-conflitto da parte del governo inglese.


lunedì 4 luglio 2016

Juno si sta avvicinando al pianeta Giove



La manovra della sonda a una velocità di circa dieci volte superiore a quella dello Space Shuttle, circa 66 chilometri al secondo. Per poi rallentare bruscamente per entrare nell'orbita del gigante gassoso. Il team del Jet propulsion laboratory ha seguito le operazioni in differita, perché il segnale impiega 48 minuti a raggiungere la Terra. L'evento in diretta streaming dall'Agenzia spaziale americana.

Juno ha incontrato il gigante del Sistema Solare per strapparne di segreti. Giove è infatti un pianeta ancora misterioso, che con la sua mole ha condizionato la storia e la struttura del nostro sistema planetario e del quale si ignora ancora se abbia un nucleo roccioso. C'è molto da chiarire anche sull'origine complessa delle sue aurore, che sta sfoggiando in questi giorni per salutare Juno.

Lanciata il 5 agosto 2011, Juno (JUpiterNear-polarOrbiter) è stata realizzata dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasaha ed ha viaggiato per cinque anni, percorrendo quasi tre miliardi di chilometri e alle 5,35 del mattino di martedì 5 luglio entrerà' nell'orbita del pianeta più grande del Sistema Solare per studiarlo da vicino come nessuna missione spaziale ha mai fatto finora, grazie a un 'cuore' scientifico che parla italiano.

Il 5 luglio dalle 5.18 di mattina (ora italiana) la sonda della Nasa ha cominciato le manovre per entrare in orbita. Se come previsto sarà catturata dalla gravità del pianeta, Juno potrà studiarlo per i prossimi diciotto mesi. In caso contrario, sorvolerà il pianeta e si perderà nello spazio. Le operazioni sono rese difficili dalle condizioni estreme di Giove.

L'incontro con Giove promette di essere avvincente come un thriller. La sonda sarà infatti immersa nel gigantesco campo magnetico del pianeta, l'ambiente più ricco di radiazioni del Sistema Solare, bersagliata dall'equivalente di 100 milioni di radiografie. Altre radiazioni proverranno dalle particelle liberate dai vulcani della più interna delle lune di Giove, Io. Senza contare che lo strato di idrogeno nascosto sotto le nubi di Giove, in condizioni di pressione incredibili, potrebbe comportarsi come un conduttore elettrico.

Negli anni '70 le sonde Pioneer sono state le prime a passare vicino al pianeta gigante, catturando dettagli della superficie, come macchie, aurore e maree. Adesso si tratta di conoscere tutti questi aspetti molto più da vicino e, soprattutto, bisogna capire che cosa si nasconde sotto la superficie del pianeta gigante.

Scoprirlo è il compito dei nove strumenti della sonda, il cui cuore scientifico è  lo spettrometro italiano Jiram (JovianInfraRedAuroral Mapper): oltre a catturare le immagini delle aurore polari, studiera' gli strati superiori dell'atmosfera a caccia di metano, vapore acqueo, ammoniaca e fosfina. Finanziato dall'Agenzia Spaziale Italiana (Asi), è stato realizzato da Leonardo-Finmeccanica a Capi Bisenzio (Firenze) sotto la responsabilità scientifica dell'Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (Iaps-Inaf). Ottenere la prima mappa interna di Giove è l'obiettivo di KaT (Ka-Band Translator), progettato dall'Università Sapienza di Roma e realizzato dalla Thales Alenia Space Italia con il supporto dell'Asi. Italiano, infine, anche il sensore d'assetto Autonomous Star Tracker, realizzato da Leonardo-Finmeccanica: dopo averla guidata verso Giove, il sensore permetterà a Juno di mantenere la rotta nell'orbita del pianeta gigante.

A bordo di Juno non ci sono solo strumenti scientifici; ci sono la targa con il ritratto e la firma di Galileo Galilei e il testo che descrive la scoperta delle lune di Giove. Questo omaggio al grande fisico italiano e' accompagnato da un carico meno serioso, ma ugualmente importante: tre minuscole statuine che raffigurano Galilei e le antiche divinità' Giove e Giunone, realizzate dalla Lego in collaborazione con la Nasa nell'ambito di un programma teso a stimolare nei ragazzi l'interesse per i temi scientifici.

La partecipazione italiana alla missione si basa sull’esperienza ormai consolidata nel campo degli spettrometri, camere ottiche e radio scienza, in particolare l’Italia fornirà due strumenti: lo spettrometro ad immagine infrarosso JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper, PI Alberto Adriani INAF-IAPS, realizzato dalla Divisione Avionica di Leonardo-Finmeccanica) e lo strumento di radioscienza KaT (Ka-Band Translator, PI Luciano Iess dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, realizzato da Thales Alenia Space-I) che rappresenta la porzione nella banda Ka dell’esperimento di gravità. Ambedue questi strumenti sfruttano importanti sinergie con gli analoghi strumenti in sviluppo per la missione BepiColombo, ottimizzando i costi ed incrementando il ruolo sia scientifico che tecnologico italiano.