domenica 17 luglio 2016
Turchia- Gulen: il rapporto Usa ed Erdogan
Il colpo di stato naufragato in Turchia è diventato una crisi internazionale. Chi è Fethullah Gulen, l'uomo che sta provocando la maggiore contrapposizione tra Usa e Turchia e forse nella Nato dei ultimi 50 anni? Perché Erdogan, pur di riavere indietro questo anziano Imam in esilio negli Usa, chiude la base Nato di Incirlik e tiene sotto pressione Washington? Con il golpe fallito emerge il nodo.
Gulen è il leader religioso che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato di essere dietro il colpo di stato di stanotte, vive dal 1999 in una fattoria di Saylorsburg nei boschi della Pennsylvania in cui barattoli di vetro racchiudono terriccio proveniente da diverse regioni della Turchia.
75 anni, dal 2008 residente legale negli Usa con tanto di green card, Gulen è stato un alleato di Erdogan fino al 2013 quando e' scoppiato uno scandalo di corruzione nel governo turco. Gulen finora sembrava aver avuto la peggio nel braccio di ferro con il presidente. Gulen, un ex imam, afferma di credere nella scienza, nel dialogo interreligioso e in una democrazia multipartitica.
Gulen, che ora vive negli Stati Uniti, contrattacca: "Il tentato colpo di Stato può essere stata una messa in scena di Erdogan". La Turchia ha già inviato una richiesta di estradizione.
Secondo Wikileaks, ha aperto canali di dialogo con il Vaticano e con organizzazioni ebraiche. Il sito web di Gulen non ha traccia finora di quanto sta succedendo in Turchia. Secondo i media Usa, Gulen vive presso la Golden Generation Worship and Retreat Center, un centro per anziani fondato da americani di origini turca. Passa ore a pregare e in meditazione e e a vedere medici per varie malattie tra cui il diabete e problemi di cuore.
Bisogna chiarire due aspetti. Il primo è che le mitiche Forze armate turche, custodi della laicità dello Stato, non sono più leggendarie. Sono assai diverse da quelle che ci hanno consegnato i libri di storia, anche quelli più recenti. Il secondo è che si è creata una frattura proprio all’interno del mondo militare, con i vertici supremi da una parte, e la bassa forza dall’altra. Quest’ultima, meno spigliata, era ed è affascinata dalle suggestioni libertarie del predicatore sunnita Fethullah Gulen, che dal 1999, cioè prima che Erdogan andasse al potere, fuggì negli Usa e chiese asilo politico. I due erano legati da un patto d’acciaio: il politico carismatico, atletico e seduttivo, appunto Erdogan; e il miliardario potente e influente, che in Turchia aveva messo radici dappertutto: nelle scuole e nelle università di sua proprietà, nelle fondazioni, nelle istituzioni, nella polizia, nella magistratura, nei servizi segreti, nei gradi medi dell’esercito. Un rapporto di complicità interessata, ma anche di forte condivisione.
Il predicatore, da Saylorsburg, in Pennsylvania, suggeriva la linea della moderazione, pronto ad offrire i suggerimenti più opportuni; il più giovane leader coniugava i suggerimenti con le responsabilità del potere. Sembrava un rapporto perfetto. I giornali di proprietà di Gulen sostenevano il governo islamico moderato dell’Akp (il partito di maggioranza); Erdogan sfruttava la conoscenza del suo benefattore, che gli aveva aperto le porte dei circoli più esclusivi del Paese.
I primi dissapori si sono manifestati alcuni anni fa, sempre per ragioni di potere. Il futuro sultano non tollerava la crescente influenza dell'iman, che ormai non aveva freni. Apriva sedi dappertutto, compresa l’Italia, con alcuni centri assai importanti, e legami influenti anche con il mondo cattolico. Accettai, assieme ad alcuni colleghi e a un paio di professori, un invito a Istanbul dei guleniani Italiani. Interessanti ma invasivi. Eravamo ovviamente nella parte orientale della città, pranzo e cena senza vino, un paio di riunioni, odor di consorteria. Non mi piacque, mi tenni a distanza, anche se mi incuriosiva capire e indagare sul potere che il gruppo vantava. Li ho incontrati anche a Milano, alla festa nazionale turca, all’hotel Four Seasons: poi non li ho visti più.
Nel 2013, infatti, si è compiuta la definitiva rottura con il governo di Erdogan. Rottura dolorosa e astiosa. Il leader, sempre più malato di protagonismo, era convinto che Gulen tramasse contro di lui. In realtà il predicatore aveva cominciato a denunciare le truffe del regime, gli scandali finanziari, i legami con l’Isis, le armi ai terroristi in Siria. I giornali di Gulen furono praticamente depotenziati e distrutti. Diventato presidente della Repubblica, Erdogan preparò la sua vendetta. Chiese almeno due volte al presidente Barack Obama di estradare Gulen, chiamandolo «terrorista che mina alle radici la democrazia turca». Obama ha sempre risposto con diplomatica sorpresa e silenzioso sdegno. Mai e poi mai l’America restituirebbe un uomo che rischia persino la morte, sotto un fardello di colpe praticamente inesistenti.
Ora, che Gulen abbia molti seguaci nelle file delle Forze armate turche è indubbio. Ma l’uomo, che ha subito risposto sdegnosamente alle accuse di Erdogan per il presunto golpe di venerdì, non è certo uno sciocco. Non si improvvisa un colpo di Stato senza adeguati mezzi, senza commandos che vadano a cercare e a catturare il leader e i suoi principali collaboratori, senza forze speciali che occupino televisioni, radio e istituzioni diffondendo comunicati d’emergenza. I rivoltosi invece sembravano sbandati, come fossero consapevoli della battaglia persa in partenza. Sapendo molto bene che il sultano, destinato a vincere, non avrebbe perdonato (nella foto sopra, Reuters, un uomo frusta con una cintura un gruppo di militari golpisti su uno de posti sul Bosforo). Gli Stati Uniti, pronti a reagire, hanno detto subito che l’unico governo riconosciuto era quello eletto dal popolo. Quando il presidente turco ha ascoltato queste parole, nella notte, ha capito di aver vinto, anzi stravinto. Adesso, le frizioni con gli Usa, per ottenere l’estradizione di Gulen (che mai avverrà), fanno parte del gioco che chi mastica un po’ di politica internazionale dovrebbe conoscere.
Ankara contro Usa: "Chi con Gulen non è amico" -"Non riesco a immaginare un Paese che possa sostenere quest'uomo. Un Paese che lo sostenga non è amico della Turchia. Sarebbe persino un atto ostile nei nostri confronti". Così il premier turco, Binali Yildirim, riferendosi agli Usa. Non si è fatta attendere la risposta americana. Gli Usa non hanno ricevuto ancora una formale richiesta di estradizione per Gulen, che vive in una cittadina in Pennsylvania. "Ovviamente invitiamo il governo delle Turchia, come facciamo sempre, a presentarci qualsiasi prova che sia possibile verificare, che gli Stati Uniti accetteranno e valuteranno sino a giudicare in modo appropriato", ha detto il segretario di Stato Kerry.
Gulen: "Il mondo non crede alle accuse di Erdogan" - "Non penso che il mondo possa credere alle accuse del presidente Erdogan. Ora che la Turchia ha intrapreso il sentiero della democrazia non può tornare indietro", si difende Gulen. "Condanno nei termini più forti il tentativo di colpo di Stato militare in Turchia. Il governo dovrebbe essere conquistato attraverso un processo di elezioni libere e giuste, non con la forza".
"Condanno il tentato golpe, accuse offensive" - "Come uno che ha sofferto sotto diversi colpi di Stato militari nelle ultime cinque decadi, è particolarmente offensivo essere accusato di avere legami con un tentativo del genere. Respingo categoricamente queste accuse", aggiunge l'imam.
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