mercoledì 28 maggio 2014
Bagno di sangue a Donetsk
Precitata la situazione a Donetsk, cinta d’assedio dalle forze militari ucraine che hanno intimato ai ribelli separatisti di lasciare la città, o verranno «colpiti con precisione». Una minaccia che ieri si è trasformata in bagno di sangue. Almeno 100 gli uccisi nella battaglia per l’aeroporto internazionale della città, dilagata presto nei quartieri residenziali limitrofi. E arrivata a lambire la stazione centrale, a due passi dalla zona degli alberghi affollati di giornalisti stranieri e civili in cerca di rifugio.
Il premier ribelle Alexander Borodai, in conferenza stampa in un albergo della città ha detto che la presenza tra le fila dei separatisti di miliziani ceceni e osseti è per "proteggere i russi nella regione", e che Mosca non c'entra nulla: "Sono volontari", ha tagliato corto. Ma la tensione si tagliava a fette. Il premier è arrivato scortato da miliziani armati di tutto punto, mentre altri in borghese presidiavano la saletta della conferenza stampa. Finite le domande dei giornalisti si è alzato: le telecamere hanno catturato la fondina nera della pistola sulla cintola. Un cecchino era stato piazzato sul tetto a monitorare la situazione.
Un appello che in queste ore non sembra trovare interlocutori a Kiev, che ieri ha scatenato una escalation militare che l’est non aveva ancora mai visto, e decisa a proseguire l’azione «finché non ci saranno più terroristi nel Paese». «È questione di ore», ha incalzato il neoeletto presidente, Petro Poroshenko. Ieri nei cieli di Donetsk sono sfrecciati elicotteri e caccia militari, che hanno bombardato senza sosta le postazioni nemiche, fino a costringere i ribelli a ritirarsi nelle zone limitrofe e a trincerarsi in postazioni difensive improvvisate.
L’autoproclamata Repubblica popolare accusa le forze ucraine di crimini contro l’umanità: almeno 15 miliziani feriti, che venivano trasportati a bordo di due camion, «con insegne mediche», sono stati uccisi dal fuoco degli rpg. Spari anche contro un’ambulanza, denunciano ancora i ribelli che chiedono «l’intervento personale di Putin, in qualsiasi forma». Ma, lo ammettono, sperano che da Mosca decida di intervenire militarmente. Diametralmente opposta la posizione dei fedeli a Kiev, che accusano la Russia di favorire l’ingresso nel Paese di «terroristi e mercenari». Non sono mancati gli scontri a fuoco al confine, dove secondo la versione ucraina, convogli carichi di uomini armati hanno tentato di infiltrarsi per dare man forte ai “fratelli dell’est”. Blindati e militari armati di tutto punto hanno accerchiato il perimetro esterno della città, per impedire l’afflusso di volontari e miliziani pronti a difendere Donetsk a ogni costo. Ma molti, forse qualche centinaia, sono già arrivati nelle ultime 48 ore. Anche loro sono bene equipaggiati, fucili automatici, rpg a spalla, e zaini che sembrano carichi di esplosivo.
La tensione è alle stelle: ne hanno fatto le spese i quattro osservatori Osce fermati ieri sera, e ora nelle mani dei ribelli. Preoccupata attesa anche a Sloviansk, roccaforte della rivolta, dove al tramonto si teme l’inizio di nuovi bombardamenti che ieri sono costati la vita a 4 civili. Le foto dei cadaveri, a terra in un bagno di sangue, hanno fatto il giro del mondo. La fragile tregua registrata nella giornata di oggi ha consentito il recupero delle salme di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov, uccisi sabato alle porte della città. Quella di Andrea dovrebbe arrivare a Kiev nella notte, via Kharkov. E rompere la tragedia nella tragedia della famiglia, distrutta da tre giorni di lutto e dall’attesa di poter dare l’ultimo saluto a un giovane di 30 anni, che come tanti cronisti voleva raccontare l’ennesima guerra civile in un nuovo secolo dominato da stragi e guerra estesa, anche a colpi di gas Sarin come in Siria. Alcune ong russe fanno appello per l’apertura di corridoi umanitari per evacuare bambini, donne e anziani, già costretti a lasciare le proprie case nelle zone `calde´ della città. La speranza è appesa a un filo. E la comunità internazionale ha un’ultima occasione per far scoppiare la pace, ora che il conflitto nell’est dell’Ucraina gira l’ultima curva prima del bivio che porterà solo allo spargimento di altro sangue.
martedì 27 maggio 2014
Draghi: piano per dare credito alle Pmi. «Certi Paesi rendono licenziabili solo i giovani»
«Venerdì sarà diffuso un documento congiunto da Bce e Banca d'Inghilterra sui problemi che abbiamo identificato e la linea di azione che vorremmo scegliere per rivitalizzare il segmento degli Abs» così da incentivare il credito alle imprese, in particolare alle Pmi. Lo ha annunciato il presidente della Bce, Mario Draghi, spiegando che «le Pmi ci stanno molto a cuore perché contribuiscono per l'80% all'occupazione nell'area dell'euro». In particolare, il documento rivisita la normativa sugli Abs e propone una standardizzazione dei criteri.
Quanto alla disoccupazione giovanile, uno dei motivi per cui alcuni Paesi dell'Eurozona hanno un'elevata quota di senza lavoro è che «hanno introdotto grande flessibilità ma solo per i giovani, rendendoli i primi ad essere licenziati quando la crisi ha colpito» nel mondo del lavoro, ha sottolineato il presidente della Bce.
La risposta alle elezioni europee, con un aumento dei voti antieuropeisti, «non può essere solo più Europa, ma politiche economiche diverse a livello nazionale e a livello europeo», ha dichiarato Draghi, aggiungendo che la Bce «farà tutto il possibile» per accompagnare questi sforzi «entro il nostro mandato». «La gente cambia e la situazione cambia - ha aggiunto, sempre sulle elezioni - e dobbiamo riflettere di più su un progetto europeo che porti a più crescita, lavoro e benessere. Da questo punto di vista, dobbiamo migliorare».
«La prospettiva di un Parlamento Ue non più funzionante non si è realizzata», al contrario l'assemblea che emerge dal voto è quella di un'istituzione «in grado di giocare un ruolo costruttivo», ha poi chiarito Draghi.
Il numero uno della Bce ha riaffermato la sua fiducia nel «centrare il nostro obiettivo di un'inflazione annua del 2% con i nostri strumenti» anche «se siamo molto coscienti dei rischi connessi con un periodo molto prolungato di bassa inflazione».
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sabato 24 maggio 2014
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la verità 20 anni dopo
Dagli atti coperti dal segreto di stato e desecretati dal governo, consultati dall'Ansa, emerge la conferma che il movente dell'assassinio della giornalista Rai Ilaria Alpi e dell'operatore Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio nel marzo 1994, fu il traffico d'armi. Il movente della ragione della morte di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin - uccisi a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 - fa capolino fin da subito, meno di due mesi dopo l'esecuzione dei due giornalisti. A mettere l'ipotesi nero su bianco è il Sisde, il servizio segreto interno. Che in un'informativa riservata del maggio 1994 suggerisce anche i nomi di quattro possibili mandanti. Tutti somali. Non solo. Le fonti del Sisde puntano subito il dito contro la cooperativa italo-somala Somalfish, sui cui pescherecci sarebbero transitate le armi.
Meno di due mesi dopo l'uccisione in Somalia, un'informativa dei servizi segreti interni (Sisde) indicava nel traffico d'armi la pista da seguire. In particolare, il Sisde indica, sulla base di non meglio precisate "fonti fiduciarie", quattro somali come "probabili mandanti" dell'omicidio: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d'armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. Fatale, per i due reporter, sarebbe stato il viaggio al porto di Bossaso, dove sarebbero saliti a bordo della motonave "21 ottobre", vascello della Somalfish, e avrebbero documentato una partita d'armi marchiata CCCP.
La giornalista del Tg3 e l'operatore furono uccisi il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia. In un documento che risale agli ultimi mesi del 1996 l'indicazione, fatta da ambienti vicini all'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), del generale Aidid, un signore della guerra locale, come possibile mandante dell'omicidio. Tra gli incartamenti desecretati cè' anche la nota del Sisde, sempre del 1994 e la cui esistenza è già emersa nel corso dei processi, in cui si indicavano come "mandanti o mediatori tra mandanti ed esecutori del duplice omicidio", il faccendiere Giancarlo Marocchino ed Ennio Sommavilla, un altro connazionale ben introdotto in Somalia.
Ci si sofferma sul personaggio di Mugne, l'amministratore della Somalfish. Già uomo forte di Barre in Italia, dove studia e quindi prende casa, a Bologna, è di fatto il dominus che gestisce il traffico d'armi verso la Somalia attraverso i pescherecci della società. I servizi lo segnalano come parte attiva in un traffico di artiglieria leggera e kalashnikov verso il suo paese natale nel dicembre del 1994. Abbandonata la Somalia, Mugne si è poi trasferito in Yemen, dove avrebbe continuato (stando alle carte) ad esercitare la professione di trafficante, qui legato a doppio filo con Osama bin Laden. Ascoltato dai magistrati che hanno indagato sul caso, ha sempre negato ogni coinvolgimento.
Nel rapporto torna la figura di Marocchino, legato per via della moglie somala al presidente ad interim Ali Mahdi e primo ad essere intervenuto sul luogo dell'omicidio. Quel che se ne ricava è la figura di un avventuriero con molti interessi e in buoni rapporti con le diverse fazioni in guerra in Somalia e punto di riferimento per i contingenti militari dell'operazione Restore Hope dell'Onu. Tanto che nel 1993, recita il memorandum sulla base di informazioni del Sismi, "in un contesto di collaborazione internazionale, all'interno del compound di proprietà di Marocchino a Mogadiscio, sarebbe stato individuato un container carico di armi e munizioni".
Quella che avevano scritto i servizi segreti. Il 20 marzo del 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono uccisi a Mogadisico per il traffico d’armi tra l’Italia e la Somalia. Semplice e chiaro a leggere le carte desecretate. L’indiziato numero uno della ragione della morte della giornalista del Tg3 e del suo operatore, fa capolino fin da subito, meno di 2 mesi dopo l’esecuzione nelle polverose strade della capitale somala. A mettere l’ipotesi nero su bianco è il servizio segreto interno.
Che in un’informativa riservata del maggio ‘94 suggerisce anche i nomi di 4 possibili mandanti. Tutti somali. Non solo. Le fonti del Sisde puntano subito il dito contro la cooperativa italo-somala Somalfish, sui cui pescherecci sarebbero transitate le armi (a lungo si è ipotizzato e riferito di fusti di rifiuti tossici da interrare o scaricare in fondo al mare, ndr) arrivate al porto di Bosaso, nel nord dell’ex colonia italiana.
Il Sisde indica, sulla base di non meglio precisate “fonti fiduciarie”, 4 somali come “probabili mandanti” dell’omicidio: il colonnello Mohamed Sheikh Osman (trafficante d’armi del clan Murasade), Said Omar Mugne (amministratore della Somalfish e uomo di collegamento del dittatore Siad Barre in Italia), Mohamed Ali Abukar e Mohmaed Samatar. Fatale, per i due reporter, sarebbe stato il viaggio al porto di Bosaso, dove sarebbero saliti a bordo della motonave ‘21 ottobre’, vascello della Somalfish, e avrebbero documentato una partita d’armi marchiata ‘Cccp’, ovvero Unione sovietica. Tra gli incartamenti desecretati anche la nota del Sisde, sempre ‘94 e la cui esistenza è già emersa nel corso dei processi, in cui si indicavano come “mandanti o mediatori tra mandanti ed esecutori del duplice omicidio”, il faccendiere Giancarlo Marocchino (uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’esecuzione) ed Ennio Sommavilla, altro connazionale ben introdotto in Somalia. L’informativa, però, all’epoca viene girata al Sismi (e solo al Sismi), il servizio segreto esterno. Come si evince da un memorandum compilato dal Sisde nel 2002 per il Copaco, il Sismi di fatto stoppa i cugini smentendo la veridicità delle affermazioni. E qui il filo rosso s’interrompe.
Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Somalia, Sisde, Tg3
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mercoledì 21 maggio 2014
Firmato accordo gas fra Russia e Cina
Un memorandum per una fornitura trentennale di gas russo a Pechino è stato firmato a Shanghai, presenti Putin e il presidente cinese Xi Jinping: si tratta di 38 miliardi di metri cubi di gas l'anno. Lo riferisce l'amministratore delegato di Gazprom Alexiei Miller, citato da Itar-Tass. Il valore complessivo dell'intesa per la fornitura trentennale di gas russo alla Cina vale oltre 400 miliardi di dollari, ha detto Miller senza rivelare il prezzo del metano: "e' un segreto commerciale", ha detto. "Questo e' il piu' grande contratto di Gazprom. Nessuna compagnia ha mai firmato un contratto del genere", ha detto Miller, assicurando che "tutte le questioni principali sono state risolte". E' previsto anche un regime fiscale preferenziale per i giacimenti russi da cui verrà estratto il gas destinato a Pechino. Il contratto entra in vigore a partire dal 2018.
L'accordo - annunciato dall'agenzia Nuova Cina - è stato chiuso durante la visita in Cina del presidente russo Vladimir Putin dopo una lunga fase di stallo sul prezzo del gas naturale. Il contratto prevede una fornitura trentennale di metano, pari a 38 miliardi di metri cubi all'anno (la metà dei consumi italiani), garantito da un gasdotto lungo 2.200 chilometri dalla Siberia alla Cina orientale ancora da costruire. L'accordo vale 400 miliardi di dollari in trent'anni (56 in meno della cifra uscita nei giorni scorsi) ha confermato l'Ad di Gazprom, Alexei Miller. Partirà dal 2018 ed è stato firmato dai presidenti dei due gruppi, Zhou Jiping, a capo di China National Petroleum Corporation (CNPC), e Alexei Miller, Ceo di Gazprom.
Cambiano gli scenari geopolitici mondiali dell'energia. Il contratto è stato siglato dopo che fino a ieri sembrava destinato addirittura a saltare. Erano dieci anni che i russi di Gazprom tentavano di chiudere un accordo per vendere gas alla Cina. Il colosso pubblico russo del gas e la compagnia petrolifera pubblica cinese Cnpc hanno firmato a Shanghai un accordo storico che cambierà inevitabilmente gli scenari geopolitici dell'energia mondiale.
La firma dell'intesa, avvenuta alla presenza di Putin e Xi Jinping, rappresenta un'importante sviluppo per Mosca che dall'inizio della crisi ucraina sta cercando sbocchi alternativi per vendere il suo gas. Fino al 2013 l'Europa è stato il primo cliente di Mosca con 160 miliardi di metri cubi acquistati ma la Cina da solaèé già da quest'anno sarà un mercato più grande. Pechino prevede di aumentare del 20% le importazioni di gas, per ridurre il peso dell'inquinantissimo carbone per produrre energia elettrica, e arrivare a 186 miliardi di metri cubi.
Nonostante le trattative fossero in corso da un decennio la crisi con Kiev e l'Occidente ha spinto Putin ad accelerare e a concedere uno sconto sul prezzo richiesto, che nei giorni scorsi, secondo indiscrezioni, oscillava in un range tra i 350 e i 400 dollari per mille metri cubi. E proprio sulla cifra inferiore si è raggiunta l'intesa. In questo modo la pressione delle eventuali sanzioni economiche di Usa e Ue si depotenzia. Mosca, anche se tra 4 anni, avrà un grosso mercato alternativo all'Ue.
Le conseguenze per l'Ue . Salvo un'intesa dell'ultima ora tra Kiev e Mosca, l'Ue rischia dal 3 giugno di trovarsi senza gas dopo che Gazprom ha preteso il pagamento anticipato delle forniture per il mese di giugno (1,66 miliardi di dolati) e il saldo del pregresso pari a 3,5 miliardi. Kiev si rifiuta e pretende che la Russia torni a praticare lo stesso prezzo di 265 dollari per mille metri cubi quando al potere c'era (fino a febbraio) il filo-russo Viktor Yanukovich, contro i 485 (la cifra più alta chiesta dal colosso ernegetico russo) dollari dal primo aprile. Tecnicamente ora l'ultimo ostacolo tra Mosca e Pechino sarà l'intesa sulla costruzione della condotta che dalla frontiera cinese porterà alla rete di Pechino il gas russo. Da parte sua Mosca ha completato la «Siberian pipeline» che si ferma al confine. Il tratto rimanente si stima costerà tra i 22 e i 30 miliardi di dollari.
Il contratto comincerà a essere applicato «da domani», afferma Putin, parlando coi giornalisti a Shanghai, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa Interfax. «Il contratto è stato firmato oggi e il lavoro comincerà domani. In secondo luogo, questo rende possibile per noi iniziare il prossimo progetto con i nostri partner cinesi, iniziare a lavorare per la fornitura attraverso il cosiddetto tracciato occidentale», ha detto Putin. Le forniture proverranno dalle «risorse provenienti dalla Siberia occidentale». E questo, ha detto ancora il presidente russo «renderà possibile per noi realizzare i piani di sviluppo dell'industria russa del gas collegando le parti orientale e occidentale dell'estrazione con l'appropriata infrastruttura». Se necessario, ha chiarito Putin, «le forniture possono essere diversificate da occidente a oriente e da oriente a occidente».
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Ecco i 5 candidati per la guida della Commissione Ue
I cittadini europei voteranno per eleggere per un mandato di cinque anni 750 deputati, compreso il presidente che viene eletto dal Parlamento. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, prevede che l’Aula di Strasburgo elegga il presidente della Commissione europea, capo dell’esecutivo Ue, sulla base di una proposta fatta dal Consiglio europeo, presa “tenendo conto” dell’esito delle elezioni europee.
I principali candidati alla guida della Commissione Europea sono: Jean-Claude Juncker (ex primo ministro del Lussemburgo ed ex presidente dell’Eurogruppo, per i Popolari), Martin Schulz (attuale presidente del Parlamento Europeo, per i Socialisti), Guy Verhofstadt (ex primo ministro del Belgio e attuale leader del gruppo dei Liberali al PE, per i Liberaldemocratici), il francese José Bové e il tedesco Ska Keller (entrambi per i Verdi), Alexis Tsipras (leader del partito greco Syriza, per la Sinistra Europea).
Jean Claude Juncker (PPE)
Juncker sostiene che :“Voglio riconciliare l'Europa: le divisioni tra Nord e Sud, tra paesi vecchi e nuovi, non hanno senso. Voglio costruire ponti e rendere l'Europa più forte". "Non rappresento l'austerità ma la serietà". "Non c'è crescita senza risanamento delle finanze pubbliche". "Non possiamo continuare a spendere soldi che non abbiamo". "Voglio ridare fiducia a un continente in pezzi". Sono i punti fermi di Jean Claude Juncker ogni volta che parla del suo programma di candidato del Ppe a presidente della Commissione europea.
Lussemburghese, 60 anni il prossimo 9 dicembre, nato a Rédange-sur-Attert, avvocato dal 1980 ma senza mai esercitare la professione, deputato nel 1984, come premier è stato primatista di resistenza in sella: dal 1995 al 2013. Nel 2009 fu la Merkel a non volerlo alla presidenza del Consiglio europeo, affidata all'allora semisconosciuto belga Herman Van Rompuy, tanto "grigio" quanto Juncker - fumatore e bevitore mai pentito - sotto l'apparenza compassata coltiva la battuta ad effetto. Tra le tante, celebre quella con cui chiuse le otto stagioni da presidente dell' Eurogruppo, dopo le dimissioni in polemica con la cancelliera: "Tutto ha una fine. Solo le salsicce ne hanno due".
Al Congresso di Dublino del 7 marzo i popolari, con non pochi mal di pancia (183 gli astenuti e 2 le schede bianche su 812 aventi diritto al voto), lo hanno scelto come candidato (al posto del francese Michel Barnier) perché stavolta sostenuto proprio dalla Merkel.
Grande mediatore tra le tante anime della balena democristiana europea, a chi lo rimprovera di aver avallato le ricette di austerità contrappone che "ho lavorato giorno e notte per tenere la Grecia nell'eurozona e per combattere la speculazione". Le sue ricette per la crescita passano per un "salario minimo europeo", il rilancio dell'economia digitale e per "sostituire il debito con le idee". Sostenitore del Trattato di libero commercio con gli Usa ha pragmaticamente chiuso la sua fase di sponsor degli eurobond: buona idea, ma non fattibile vista l'opposizione tedesca. Ai greci qualche giorno fa ha detto: "So bene che molti hanno sofferto, ma i risultati degli sforzi stanno pagando".
Martin Schulz (PSE)
Schulz dal suo modo ruvido di socialista tedesco anti-Merkel mette in evidenza che” Non abbiamo bisogno di una democrazia che si adatta ai mercati come la signora Merkel vorrebbe, ma un mercato al servizio della democrazia". "Non ho nulla da rimproverare personalmente a Jean Claude Juncker, ma è stata la destra a ridurre le istituzioni europee in questo stato". "Se, vincerà il Ppe ci toccheranno altri cinque anni di austerità e ingiustizie sociali". Sono i principali cavalli di battaglia di Martin Schulz, il candidato dei socialisti alla presidenza della Commissione europea. E' lui ad aver lanciato l'idea di una forma di elezione diretta, con l'indicazione di un candidato unico per ogni partito. Angela Merkel non è convinta e pensa ancora di lanciare magari Cristine Lagarde quando, dalla prossima settimana, comincerà la trattativa tra i governi ed il Parlamento per scegliere il successore di Barroso. Lui esclude ribaltoni: "Voglio essere il primo presidente eletto" ed è "inimmaginabile che il Parlamento approvi un nome diverso da quello di chi si è candidato", dice sfidando la cancelliera con cui però la sua Spd è al governo a Berlino e con cui dovrà forzatamente convivere anche nell'inevitabile 'grosse Koalition' al Parlamento europeo.
Nato il 20 dicembre 1955 a Hehlrath, nel lander minerario della Saar vicino alla frontiera tra Germania, Olanda e Belgio, ultimo dei cinque figli di "un poliziotto e musicista" che veniva da una famiglia di minatori con solide tradizioni socialiste ("mio nonno non ha mai fatto il saluto nazista", ricorda spesso con orgoglio) e di una madre di famiglia borghese e attivista della Cdu democristiana, Schulz a 19 anni si è iscritto al partito socialdemocratico tedesco (Spd) "ispirato dai discorsi di Willy Brandt". Nel 1994 la prima elezione al Parlamento europeo. Negli anni successivi diventa capodelegazione Spd, poi primo vicepresidente dell'intero gruppo S&D e via sempre più su fino alla carica di presidente del Parlamento all'inizio del 2012. Nell'emiciclo di Strasburgo la svolta della popolarità continentale per lo scontro con Silvio Berlusconi che nel 2003 gli dà del "kapò".
La "ruvidità" che lui stesso si riconosce lo ha portato a leggendari scontri in aula e non solo. La polemica con Berlusconi non si è mai spenta. In campagna elettorale è scattata quella con Grillo. Schulz punta a rilanciare la crescita in Europa partendo dall'idea che "investimenti per il futuro e consolidamento dei bilanci non si escludono a vicenda". Per battere il "credit crunch" che strangola le Pmi propone quindi un Fondo che garantisca i finanziamenti con soldi del bilancio europeo e della Bei. Poi, stop al "dumping fiscale" tra stati, accelerazione dell'agenda digitale e guerra totale all'evasione fiscale.
Guy Verhofstadt (Alde)
Verhofstadt, il liberale campione del federalismo sostiene che “Basta col metodo Barroso delle "telefonate a Berlino e Parigi" prima di prendere iniziative europee. A Bruxelles deve tornare il "metodo Delors". A rispolverare il mito del socialista francese che da presidente della Commissione dettava la linea alle capitali e tra il 1985 ed il 1995 fece grande l'Unione europea, impostando la nascita del mercato unico e dell'euro, è Guy Verhofstadt, l'ex premier belga di lungo corso candidato dei liberal-democratici e campione dei federalisti europei. In anni di eurocritica dilagante, Verhofstadt punta deciso "agli Stati Uniti d'Europa". E' "più integrazione europea", non un ritorno indietro ai nazionalisti anti-euro ("uscirne sarebbe una catastrofe"), la sua migliore risposta possibile alla crisi.
Nato nel 1953 a Dendermonde, nella regione di Gand nelle Fiandre, figlio di un consulente giuridico del sindacato liberale e di una casalinga, fratello di Dirk, pensatore del liberismo sociale, Verhofstadt arriva alla politica giovanissimo. Notato dal presidente del Pvv, Willy De Clercq, a 29 anni Guy diventa il più giovane segretario nella storia del partito liberale fiammingo. Che trasforma profondamente, arrivando nel 1991 a cambiarne il nome in Vld ('Liberali e democratici fiamminghi - Partito dei cittadini'). Si guadagna il soprannome di "baby Thatcher", ma poi perde la prima battaglia elettorale con i cristiano-democratici. Nel '97 torna alla presidenza del partito e due anni dopo il suo Vld vince. Così Verhofstadt diventa il primo premier belga liberale dal 1938. Resta in sella fino al 2008. Già nel 2004 era candidato alla successione di Romano Prodi come presidente della Commissione, ma fu stoppato dai 'no' di Blair e Berlusconi.
In questa campagna il suo programma punta ad una Commissione che sia "vero governo" della Ue. Che imponga il rispetto delle regole sui conti pubblici e per la riduzione del debito che - cresciuto di circa il 40% tra 2008 e 2013 - considera "la vera causa della crisi". Sostenitore degli Eurobond e della mutualizzazione del debito che la Germania invece esclude, in alternativa si dice pronto a proporre il lancio di "Future Bond" per finanziare gli investimenti nelle reti e nelle infrastrutture europee. Poi, difesa assoluta della privacy europea, sviluppo dell'industria digitale ("serve un Google europeo"), lotta alla burocrazia di Bruxelles, meno "regolamenti inutili" più "politiche comuni" sulla difesa, sull'immigrazione legale (con definizione di quote "sul modello di Usa, Canada e Australia"), per la diversificazione dell'approvvigionamento energetico e per sviluppare la mobilità interna del lavoro. E polso fermo in politica estera, dove considera la crisi ucraina e la sfida di Putin un "banco di prova" per la Ue.
José Bové e Ska Keller (Verdi)
Sono i due candidati dei Verdi, secondo la volontà dei cittadini scaturita dalle primarie online. I due hanno infatti ottenuto un sostanziale pareggio. Bové è conosciutissimo tra i no-global e gli anti-Ogm, mentre la giovane Keller (33 anni), è la nuova stella del mondo ambientalista.
Keller, l‘ecologista tedesca indica la strada di investire in economia verde. "Per me Europa vuol dire anzitutto andare oltre i confini". Nata nel 1981 a Guben, alla frontiera con la Polonia, in quella che era ancora la Germania Est comunista, Ska (diminutivo di Fraziska) Keller è il volto giovane e televisivo della coppia di candidati che il partito europeo dei Verdi propone per la presidenza della Commissione.
L'altro è quello del francese José Bové, sessantenne leader dei 'no global' francesi e portavoce di Via Campesina. Ska, tedesca orientale come frau Merkel, ricorda ancora "quando era ancora molto difficile attraversare i confini". Ora che non solo la "cortina di ferro" ma anche le frontiere interne all'area Schengen sono cadute, dice che "questa è per me veramente l'Europa: vivere e lavorare insieme per un futuro migliore".
Entrata nel movimento giovanile dei Verdi tedeschi a venti anni, nel 2002 lavora ad un referendum nazionale contro le miniere di carbone del Brandeburgo. Tra il 2005 ed il 2007 è presidente della "Gruene Jugend" europea. Nel 2009 si laurea in scienze islamiche, turcologia e giudaistica e nello stesso anno entra nel Parlamento europeo. 'Pasionaria' della cultura verde, europeista convinta, sposata con l'attivista Markus Drake, arriva a proporre "sanzioni per i Paesi che non fanno nulla per combattere la disoccupazione". Quando parla della crisi sottolinea che "è mancata la cooperazione" tra i 28 perché "abbiamo creato un'area economica, ma all'interno di essa gli Stati membri sono ancora in competizione tra loro". E all'Europa prima imputa di "aver commesso molti errori nella costruzione dell'euro" che di fatto "hanno trasferito sulle spalle dei lavoratori la competizione tra paesi", poi la accusa di aver sbagliato ricetta nella cura della crisi.
"L'austerità, ormai è un fatto, si è dimostrata essere la risposta più sbagliata, la crisi è peggiorata ulteriormente e l'Europa si è impoverita". Da qui, la principale proposta del programma: "Dobbiamo fermare l'austerità, dobbiamo investire e condurre le nostre economie verso percorsi più sostenibili e verdi, anche perché i posti di lavoro che possiamo creare sono proprio nei settori delle energie alternative, dell'efficienza energetica, ma anche nell'istruzione e nella sanità, cioè i settori da cui dipende il benessere di tutta la società". Quindi "no" alle grandi infrastrutture su cui puntano popolari, socialisti e lib-dem: "Per superare la crisi i governi devono essere messi nelle condizioni di investire, ma di farlo saggiamente: non sprecare i loro soldi in nuove strade o automobili, ma in cose che migliorino la prospettiva del nostro futuro".
Alexis Tsipras (Sinistra)
Tsipras, l'ingegnere greco che ha l’intenzione di ridisegnare l’Unione europea e sostiene di “non essere un euroscettico, io sono europeista per i principi fondamentali dell'Europa. Sono gli euroscettici, i populisti e gli estremisti di destra che l'hanno distrutta". "L'Eurozona potrà anche essere un errore, ma va salvata anche perché le alternative sono peggiori". Il greco Alexis Tsipras, quarant'anni il prossimo 28 luglio, ingegnere, candidato della Sinistra Unitaria alla presidenza della Commissione, smentisce così chi lo inserisce nell'area euroscettica. Combatte contro la "vecchia Unione Europea", ma non punta a distruggerla. Semmai la riprogetta: "Dobbiamo restare nell'eurozona e nell'euro, ma la cosa più importante è cambiare direzione, cambiare le misure di austerità, misure barbariche che hanno distrutto il nostro sogno comune di un'Europa che sia un'Europa del popolo".
Nato ad Atene pochi giorni dopo la caduta della dittatura dei colonnelli, una vaga somiglianza con l'attore Antonio Banderas, in politica entra già al liceo, nel movimento dei giovani comunisti, e diventa uno dei leader della rivolta studentesca contro una legge di riforma scolastica. Membro del Consiglio Centrale dell'Unione Nazionale Studentesca di Grecia dal 1995 al 1997, a maggio 1999 esce dal partito comunista ellenico (Kke) e diventa segretario del movimento giovanile della sinistra radicale di Synaspismos fino al 2003. Nel 2004 entra nella Segreteria politica. Due anni dopo è eletto consigliere comunale di Atene con oltre il 10% dei voti. Sorridente, determinato, preparato, nel 2008 viene eletto presidente del partito, il più giovane nella storia della politica greca, da sempre dominata da poche famiglie, sempre le stesse. Alle politiche del 2009, usando il nome del gruppo parlamentare Syriza, ottiene il 4,60% ed entra in Parlamento. Tre anni dopo, con il Paese devastato dall'austerity, alla seconda tornata di politiche Syriza vola a sfiorare il 27%.
Per combattere la disoccupazione lui propone "un nuovo 'New Deal' ("come hanno fatto nel 1929 dall'altra parte dell'Atlantico") e la lotta alle delocalizzazioni a basso costo del lavoro. Nel programma anche la cancellazione del 'fiscal compact' ("da sostituire con un 'social compact'") e la mutualizzazione del debito da avviare con una "Conferenza Europea del Debito" che ne preveda una parziale cancellazione "come si è fatto in Germania nel 1953". Poi chiede un "reddito minimo garantito". E in tema di immigrazione vuole la revisione radicale delle politiche europee perché "il Mediterraneo è diventato un cimitero e questo è inaccettabile per la nostra cultura comune".
In Italia si vota domenica 25 maggio, dalle 7 alle 23, Per eleggere i 751 eurodeputati del Parlamento Europeo, l’Italia sarà rappresentato da 73 parlamentari.
J
domenica 18 maggio 2014
Elezioni India dopo 10 anni la destra torna al potere con Narendra Modi
Una lunga maratona elettorale, 551 milioni di votanti, vince il centrodestra di Narendra Modi e dalle urne esce sconfitto il partito del Congresso, lo storico partito di Sonia Gandhi e dal figlio Rahul. Una vittoria già ampiamente manifestata dagli exit polls. Pertanto le elezioni sono state vinte dal nazionalista indù Narendra Modi, leader del Bharatiya janata party (Bjp, Partito del popolo indiano).
Narendra Modi, 63 anni, ex commerciante di tè di origini umili, governatore dello stato del Gujarat dal 2001, gode di un’enorme popolarità tra gli indiani. Modi è nato a Vadnagar, nel Gujarat, nell’India occidentale, da una famiglia ghanchi, uno dei ranghi più bassi del sistema delle caste che ancora definisce la società in India. Suo padre aveva un negozio di tè.
Fin da ragazzo, Modi ha militato in Rashtriya swayamsevak sangh (Rss), un’organizzazione paramilitare di estrema destra. L’Rss è un movimento molto controverso: è stato dichiarato fuorilegge nel 1948, dopo l’omicidio di Mohandas Gandhi, ucciso da un fanatico indù. E poi di nuovo negli anni settanta. In quel periodo Modi lavorava per l’Rss in clandestinità.
L’Rss fu bandito per la terza volta nel 1992, dopo la distruzione di una moschea a Ayodhya, nel nord del paese, a opera di un gruppo di fondamentalisti indù. In quegli anni Modi passò al Bharatiya janata party (Bjp), un partito molto vicino all’Rss. Nel 2001 venne eletto governatore del suo stato: il Gujarat.
Modello Gujarat. Durante il governo di Modi, il Gujarat si è sviluppato molto da un punto di vista economico. Grazie a una politica di sgravi fiscali e di sostegno all’imprenditoria, l’economia dello stato è migliorata. Tuttavia lo stile dispotico di Modi e le sue idee nazionaliste ed estremiste hanno provocato più di una critica. Gli analisti temono che sotto il suo governo le minoranze possano essere minacciate e la violenza possa essere tollerata. In molti lo accusano di aver ridotto i mezzi d’informazione al silenzio durante il suo governo nel Gujarat.
Modi è anche stato accusato di non aver fermato la strage avvenuta a Godhra nel 2002, dove più di mille musulmani furono uccisi e centinaia costretti a fuggire a causa delle violenze scoppiate dopo che 59 pellegrini indù erano morti in un incendio su un treno.
Tuttavia la promessa di un miglioramento economico, dell’aumento infrastrutture e della mobilità, sembrano aver fatto presa su milioni di indiani, che vogliono che il “modello Gujarat” sia esportato in tutto il paese. Molti economisti, come il premio Nobel Amartya Sen, hanno denunciato la mancanza di redistribuzione della ricchezza che ha riguardato la crescita economica del Gujarat.
"L'India ha vinto, stanno per arrivare giorni belli"." la prima dichiarazione di Modi arriva via twitter. La coalizione del governo uscente, United Progressive Alliance (Upa) ha risentito del diffuso malcontento per il carovita e la corruzione, perdendo consensi soprattutto negli stati chiave dell'Uttar Pradesh, Bihar e Maharashtra che contano la maggioranza dei seggi. "Accettiamo la sconfitta", ha detto il portavoce Rajeev Shukla. "Modi ha promesso la luna e le stelle al popolo. E il popolo ha comprato un sogno".
L'India è stata impegnata in una lunga maratona elettorale, dal 7 aprile al 12 maggio, con una partecipazione record di 551 milioni di votanti pari al 66,38% dell'elettorato, in crescita rispetto ai 417 milioni di cinque anni fa.
giovedì 15 maggio 2014
New York Times: Jill Abramson è stata licenziata
Il 14 maggio la direttrice del Jill Abramson è stata licenziata. La Abramson, 60 anni, è stata la prima donna a dirigere il New York Times, il quotidiano più considerevole degli Stati Uniti. Aveva assunto la direzione a settembre del 2011 e dopo meno di tre anni è stata licenziata. Al suo posto è stato nominato Dean Baquet, uno dei suoi più stretti collaboratori.
Baquet è un giornalista afroamericano, ha vinto il Pulitzer, ha lavorato a lungo al New York Times e precedentemente è stato direttore del Los Angeles Times.
Dopo il licenziamento Jill Abramson ha scritto: “Ho amato dirigere il New York Times. Ho potuto lavorare con i migliori giornalisti del mondo”. Abramson non ha dato ulteriori dettagli sul suo licenziamento, per accordi presi con la direzione del giornale.
La notizia del suo licenziamento è stata del tutto inaspettata per la redazione, anche perché sotto la direzione di Abramson il giornale stava ottenendo risultati soprattutto sul digitale. Come racconta Vox spesso questi licenziamenti avvengono nei casi in cui gli affari vanno male, “ma il New York Times stava andando relativamente bene, in un contesto di crisi generalizzata della stampa”. Nel primo trimestre del 2014 i ricavi del giornale erano aumentati del 2,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il licenziamento di Abramson è stato annunciato alla redazione in una riunione il 14 maggio in maniera piuttosto sbrigativa da Arthur O. Sulzberger Jr., l’editore. Sulzberger ha detto che il licenziamento è stato causato da “una questione sulla gestione delle redazione”. Abramson non era presente alla riunione.
I giornalisti del Times non si aspettavano questo annuncio: “Di solito i direttori del Times lasciano l’incarico a 65 anni”. E Abramson è stata mandata via con cinque anni di anticipo. Quando è stata nominata direttrice, Abramson aveva definito l’incarico “l’onore della mia vita” e recentemente si era fatta tatuare una T gotica (che è il simbolo del New York Times) sulla schiena.
Secondo lo stesso New York Times, c’erano stati degli screzi tra Baquet e l’ex direttrice quando Abramson aveva deciso di assumere Janine Gibson, una giornalista del Guardian, per affiancare Baquet nel ruolo di caporedattore. Gibson sarebbe stata destinata a dirigere la divisione digitale del giornale. Gibson ha confermato di essere stata contattata dal Times per un’offerta ma di aver rifiutato.
Ma Baquet si sarebbe lamentato di non essere stato informato della scelta e di aver coinvolto l’editore nella disputa.
Disuguaglianza di genere. Secondo Ken Auletta del New Yorker, all’origine del licenziamento di Abramson ci sarebbe una questione di disuguaglianza di trattamento retribuivo. Abramson avrebbe scoperto qualche settimana fa di essere pagata meno del suo predecessore Bill Keller e di ricevere meno contributi pensionistici sia nella posizione di direttore che in quella di caporedattore, ricoperta sia da Abramson che da Keller.
Dopo l’annuncio del licenziamento di Abramson, tutti i più importanti giornalisti statunitensi hanno preso parte al dibattito sui social network sulla disparità di trattamento economico tra uomini e donne, nelle redazioni e in altre imprese.
mercoledì 14 maggio 2014
Frontex è boom di sbarchi
Nel 2014 gli sbarchi di migranti sono aumentati in maniera esponenziale. Lo afferma un rapporto Frontex, l'agenzia Ue per la gestione della cooperazione alle frontiere esterne degli Stati membri, sull'emergenza immigrazione. "Nei primi 4 mesi del 2014 - è scritto - c'è stato un aumento dell'823% di arrivi verso l'Italia rispetto allo stesso periodo del 2013". Da gennaio ad aprile sono stati registrati 25.650 arrivi in Sicilia e 660 in Puglia e Calabria.
Sono più di duecento i migranti salvati dalle navi militari italiane e dai mercantili dopo il naufragio, il 12 maggio, di un’imbarcazione al largo della Libia.
Le vittime potrebbero essere altrettante: 17 corpi sono già stata recuperati, ma sul barcone ci sarebbero stati quattrocento migranti. Le autorità marittime italiane sono state informate del naufragio dall’equipaggio di un rimorchiatore al servizio di alcune piattaforme petrolifere che si trovano a 90 chilometri dalle coste della Libia e a 180 da Lampedusa. Pochi giorni prima un altro naufragio era costato la vita a una quarantina di persone partite dalle coste libiche.
Dal 18 ottobre 2013 è attiva nel mar Mediterraneo meridionale l’operazione militare e umanitaria Mare nostrum, nata “per fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria in corso nello stretto di Sicilia, dovuto all’eccezionale afflusso di migranti”. All’operazione partecipano il personale e i mezzi navali e aerei della marina militare (920 militari, cinque navi e quattro aerei), dell’aeronautica militare, dei carabinieri, della guardia di finanza, della capitaneria di porto e della polizia di stato.
I militari, oltre a soccorrere i migranti, sono anche incaricati di arrestare i trafficanti di essere umani. Ma visto il numero dei naufragi, si moltiplicano le richieste di creare dei corridoi umanitari che impediscano nuove tragedie e facilitino l’accesso alla richiesta dello status di rifugiato e alla domanda di asilo.
Sono profondamente turbata dalla nuova tragedia che ha avuto luogo nelle acque internazionali tra la Libia e Lampedusa, provocando almeno una dozzina di morti. I miei pensieri vanno alle vittime e alle loro famiglie. Permettetemi di ringraziare le autorità italiane per i loro enormi sforzi nel mettere in atto l’operazione Mare nostrum, sostenuto anche dalla Commissione europea, che ha salvato e continua a salvare decine di migliaia di vite.
Purtroppo tutti gli sforzi in atto non hanno potuto evitare nuove morti. È chiara responsabilità di tutti gli stati membri dell’Unione europea mostrare adesso solidarietà concreta al fine di ridurre il rischio che tali tragedie si ripetano. Invito pertanto tutti gli stati membri a dare concreto ed efficace follow-up alle azioni individuate nel piano elaborato dalla Commissione europea, e in particolare a impegnarsi nel reinsediamento dei rifugiati direttamente dai campi che si trovano fuori dall’Unione e nell’apertura di nuovi canali che consentano di entrare legalmente. Portando queste persone in modo sicuro in Europa, potremmo impedire che cadano nelle mani dei trafficanti e dei contrabbandieri che mettono in pericolo la vita dei migranti che vogliono attraversare il Mediterraneo.
Se ogni stato membro accogliesse anche solo poche migliaia di persone, questo sarebbe fare una grande differenza per centinaia di migliaia di profughi che hanno bisogno di un riparo e potrebbe ridurre significativamente la pressione dei flussi migratori nel Mediterraneo. È tempo che gli stati membri mettano in pratica le loro parole, ed è per questo che chiedo una discussione formale in occasione del prossimo consiglio degli affari interni su come gli stati membri intendono contribuire concretamente per affrontare le sfide migratorie e di asilo nel Mediterraneo.
Il problema, ha detto Malmström in un’intervista, “non è che le persone entrano illegalmente in Europa, ma che entrare legalmente è troppo difficile”. La sua soluzione al problema è semplice: l’Unione europea dovrebbe rendere più facile la migrazione verso l’Europa. “Voglio aprire più vie d’ingresso legali. Soprattutto per i rifugiati reinsediati”, quelli cioè già accolti in un paese di primo asilo e che potrebbero essere trasferiti in un paese terzo che ha accettato di accoglierli. “Un sistema di visto umanitario a livello europeo sarebbe un nuovo modi che consentirebbe ai migranti di ottenere asilo politico nell’Unione”.
Vietnam: esplode la rabbia anti-cinese
Furiosi per l'intenzione di Pechino di piazzare una piattaforma petrolifera al largo delle isole contese di Paracel, manifestanti vietnamiti hanno saccheggiato uffici e appiccato il fuoco a una quindicina di fabbriche cinesi. L'esplosione di rabbia è assolutamente inusuale per il Paese, retto da un autoritario regime comunista.
Gli incidenti sono avvenuti in un comprensorio industriale nella provincia di Binh Duong, nel sud del Paese, in cui operano fabbriche tessili e di calzature cinesi, taiwanesi e sudcoreane. I manifestanti hanno preso di mira aziende manifatturiere di proprietà o gestite da cinesi.
Quasi 20mila persone si sono riversate nelle strade e alcune di loro hanno cominciato a saccheggiare e attaccare le fabbriche e le strutture di sicurezza; poi hanno appiccato il fuoco ad almeno 15 fabbriche, ha riferito il portale VNExpress, che è di proprietà statale. Molte aziende hanno chiuso gli impianti, dando agli operai una giornata di riposo; altre hanno appeso all'esterno la bandiera vietnamita, nel tentativo di scoraggiare i facinorosi. I video e le immagini postate su blog di dissidenti hanno documentato i disordini. Vietnam e Cina sono da anni contrapposta nella disputa territoriale riguardanti alcune isole nel Mar Cinese meridionale, le Paracel e le Spratly. La piattaforma inizialmente era situata nelle acque a sud di Hong Kong, ma poi è stata spostata nelle vicinanze delle Paracel (che i cinesi chiamano Xisha); un atto che Hanoi ha definito «illegale».
Immediato l'impatto sulle aziende. Li & Fung, gigante mondiale della distribuzione che serve un colosso del retail come Wal-Mart, ha comunicato che alcuni suoi fornitori vietnamiti hanno sospeso la produzione. Il gruppo Yue Yuen Industrial Holdings, che produce calzature sportive per Adidads e Nike ed è quotato alla Borsa di Hong Kong, ha anch'esso bloccato le attività. I maggiori danni sono stati subiti da stabilimenti di proprietà taiwanese, scambiati per cinesi dai manifestanti. A nulla è valso il tentativo degli imprenditori di Taipei di distinguersi, esponendo davanti alle fabbriche messaggi come: «Taiwan appoggia il Vietnam».
Pechino ha trasmesso ad Hanoi una protesta formale e ha manifestato «viva preoccupazione» per questi atti di violenza, esortando il Vietnam «a prendere ogni misura necessaria per mettere fine a questi atti criminali e punire i loro autori», ha detto Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. Le violenze di ieri sono considerate tra le peggiori nei rapporti tra Cina e Vietnam dai tempi della breve guerra di frontiera del 1979.
L'attacco alle fabbriche cinesi mette in pericolo un interscambio cresciuto a dismisura negli ultimi anni. Il commercio bilaterale nel 2013 ha toccato quota 50 miliardi di dollari (+22%), di cui 37 miliardi di export cinese e 13 di export vietnamita. La Cina è per il Vietnam il primo partner commerciale, con una quota del 28% sulle importazioni e del 10% sulle esportazioni. L'obiettivo dei due governi è di portare l'interscambio a 60 miliardi di dollari nel 2015. Ora però i conti sono da rifare. Il Vietnam è da anni una destinazione di primo piano delle multinazionali in cerca di basi produttive a basso costo: il settore principale è il tessile-abbigiliamento con un export di oltre 11 miliardi di dollari e 2 milioni di lavoratori (un quarto della forza lavoro impiegata nell'industria). Segue la produzione di calzature, i cui ricavi sono triplicati in dieci anni e ora valgono oltre 5 miliardi di dollari, in particolare nel settore delle calzature sportive. In forte ascesa anche l'elettronica di consumo e la componentistica per computer, che valgono circa 4 miliardi di dollari di export.
La piattaforma inizialmente era situata nelle acque a sud di Hong Kong, ma poi è stata spostata nelle vicinanze delle Paracel (che i cinesi chiamano Xisha); un atto che Hanoi ha definito "illegale". Il giorno successivo, l'amministrazione della Sicurezza Marittima della Cina ha proibito di navigare a meno di un miglio nautico dalla piattaforma, una distanza che due giorni dopo ha aumentato a 3 miglia. Negli ultimi giorni ci sono state una serie di schermaglie.
Vietnam e Cina sono da anni contrapposti nella disputa territoriale riguardanti alcune isole nel Mar Cinese meridionale, le Paracel e le Spratly. Quest'ultimo arcipelago, protetto da una barriera corallina ricca di riserve di gas e petrolio, sono rivendicate anche dalle Filippine, che proprio in questi giorni protestano per la decisione cinese di costruirvi una pista di atterraggio.
sabato 3 maggio 2014
Hanno arrestato Gerry Adam
Adams è stato fermato il 30 aprile per essere interrogato sull’omicidio di Jean McConville, avvenuto nel 1972. Il volto politico dell'Ira, 65 anni, si trova nella stazione di polizia della polizia ad Antrim. La vittima dell’agguato era una donna, giustiziata e sepolta in spiaggia. Gerry Adams, il presidente del partito irlandese Sinn Féin (braccio politico dell’Ira fino agli anni novanta).
Il politico nordirlandese è accusato di aver ordinato l’uccisione della donna, sospettata di essere un’informatrice della polizia britannica: lui respinge l’accusa, come ha sempre negato di aver avuto un ruolo nell’Ira.
Jean McConville, nata Murray, aveva 37 anni, era protestante e aveva sposato Arthur McConville, cattolico, con cui aveva avuto dieci figli. Dopo una serie di minacce, la famiglia si era trasferita in un quartiere repubblicano di Belfast, ma alla morte del marito Jean si era trovata priva di protezione. Il 1972 è stato un anno particolarmente violento nella lotta tra lealisti alla corona britannica (protestanti) e milizie repubblicane (cattolici). McConville fu sospettata dall’Ira di essere un’informatrice degli unionisti britannici. Fu catturata una prima volta dai repubblicani, interrogata e picchiata. Poco tempo dopo fu nuovamente sequestrata da un gruppo dell’Ira, caricata in un’auto e fatta sparire. I figli non l’hanno più vista. I bambini furono separati in diverse famiglie. Il più grande, Michael, che all’epoca aveva undici anni, fu minacciato di morte. Solo nel 1999 l’Ira ammise di aver torturato e ucciso Jean McConville, senza però dire dov’era sepolta. Nel 2003 furono casualmente scoperti alcuni suoi resti sulla spiaggia di Shelling Hill.
Negli anni, alcuni pentiti dell’Ira hanno ammesso l’omicidio e hanno puntato il dito su Gerry Adams come mandante. Proprio le recenti dichiarazioni di un ex militante hanno portato la polizia a bussare alla porta di Adams. Ma alcuni s’interrogano sulla tempistica dell’arresto.
Il 23 maggio, oltre alle elezioni europee, sull’isola si tengono anche le elezioni amministrative e secondo i sondaggi il Sinn Féin è in recupero dopo essere riuscito a dare un’immagine più moderata rispetto al passato. Il fantasma di Jean McConville e l’arresto di Gerry Adams sono sicuramente destinati a ricordare agli elettori da dove arriva la leadership del partito.
L’accusa alla signora McConville di essere in informatore era stata ritenuta infondata al termine di un’indagine della polizia nordirlandese. La donna era stata segregata in diverse case prima di venire uccisa e sepolta in segreto, pratica molto comune per l’Ira, che nel 1999 ha ammesso di aver ucciso e sepolto in località segrete nove persone scomparse.
Nello stesso anno venne istituita una Commissione indipendente per il ritrovamento delle spoglie delle vittime dopo un accordo tra i governi britannico ed irlandese. In quella lista figurano 16 persone scomparse, sette delle quali non sono state ancora trovate.
Membro dell’Ira dagli anni Sessanta, in carcere dal ’73 al ’77, Adams nel ’83 venne eletto a Westmister e poi alla presidenza del Sinn Fe’in e fu protagonista dei colloqui di pace tra cattolici repubblicani e protestanti unionisti che coinvolsero anche l’allora presidente americano Bill Clinton e portarono alla firma dell’accordo per l’Ulster del ’98. La Provisional Ira abbandonò la lotta armate nel 2005, spianando la via ad una soluzione pacifica.
Osservatori Osce liberi, sud-est dell'Ucraina in fiamme
Il sud-est dell'Ucraina è in fiamme: almeno una dozzina di morti accertati, numerosi feriti, due elicotteri abbattuti sono il bollettino provvisorio della giornata di guerra civile combattuta ieri a Sloviansk, roccaforte della rivolta separatista filorussa. Duri scontri anche a sud, a Odessa, dove la polizia non è riuscita ad evitare il peggio tra alcune centinaia di filorussi e 1500 manifestanti a favore dell'unità ucraina: 38 persone sono morte nell'incendio dell'edificio della Casa dei sindacati, appiccato dalle frange più radicali dei filo Kiev nell'edificio in cui si erano rifugiati i filorussi dopo gli scontri in città nei quali erano decedute quattro persone e che avevano scatenato una vera e propria 'caccia' ai filorussi. Il bilancio finale è di 42 morti e 125 feriti, tra cui 21 poliziotti. Le autorità cittadine hanno dichiarato tre giorni di lutto cittadino, da oggi ai 5 maggio.
In questa situazione, il Cremlino ha definito "assurdo" parlare di elezioni in Ucraina, sia i referendum separatisti indetti per l'11 marzo sia le presidenziali con cui Kiev vorrebbe legittimare il Maidan. "Dopo quello che è successo a Odessa, sullo sfondo dell'aperta spirale di conflitto nel sud-est del Paese, non capiamo di che elezioni stanno parlando Kiev, le capitali europee e Washington", ha sottolineato Dmitri Peskov, portavoce di Putin, aggiungendo che Mosca ha perso effettivamente la sua influenza sulle forze di autodifesa del sud-est ucraino e non può risolvere la situazione da sola. Mosca non sa ancora come rispondere alla crescente violenza in Ucraina, questo elemento è assolutamente nuovo per la Russia, ha concluso.
I prossimi dieci giorni, ha sottolineato il premier ucraino Arseni Iatseniuk, saranno i più difficili per il Paese. Intanto ieri c'è stata una fumata nera al vertice trilaterale di Varsavia tra Russia-Ucraina-Ue sulla sicurezza energetica: le parti si ritroveranno altre due volte, ma Mosca ha già dato un ultimatum sul gas a Kiev, minacciando che se entro fine maggio non sarà pagata la fattura di giugno, Gazprom "avrà il diritto di ridurre le sue forniture per l'Ucraina o di mantenerle a livello pagato prima del 31 maggio".
Intanto a Sloviansk gli osservatori militari dell'Osce sono stati liberati, ha reso noto Vladimir Lukin, inviato del Cremlino nel sud-est ucraino, citato dalla tv Russia Today. Poco prima Viaceslav Ponomariov, autoproclamato sindaco di Slaviansk, aveva annunciato la sua intenzione di rilasciare a breve gli osservatori tenuti in ostaggio: ''stanno seduti nel mio ufficio, sto parlando con loro per liberarli. Questo non ha a che fare con la situazione insicura nella città'', aveva dichiarato. Ponomariov aveva anche annunciato la morte, in nottata, di 10 civili del vicino villaggio di Andreievka che tentavano di bloccare un corteo di auto degli ultra nazionalisti di Pravi Sektor e il ferimento di altre 40 persone. Mancano per ora conferme indipendenti.
Intanto, il Cremlino ammette: Mosca ha perso effettivamente la sua influenza sulle forze di autodifesa del sud-est ucraino e non può risolvere la situazione da sola: lo ha detto Dmitri Peskov, portavoce di Putin.
Mentre l'offensiva a Est continua a Kramatorsk - dove, scrive il ministro dell'Interno ucraino Arsen Avakov su Facebook - «la battaglia è in corso», il Cremlino lancia un'accusa pesantissima contro le autorità di Kiev e l'Occidente: hanno - recita la nota di oggi - «la responsabilità di quanto accaduto ieri a Odessa» (città-porto sul Mar Nero dove si registrano 46 morti in un incendio appiccato durante una manifestazione fra pro governo Kiev e pro Mosca), e ne sono «di fatto complici», come «chi considera legittima la giunta di Kiev».
I morti di Odessa e l'offensiva militare peseranno negli sviluppi del prossimi giorni ma la confusione aumenta al di là degli schieramenti internazionali e orientamenti politici: il Wall Street Journal qualche giorno fa pubblicava un editoriale di apertura «Diamo una chance a Putin», oggi il quotidiano francese Le Monde scrive che si sta avverando in Ucraina il peggiore scenario e che Putin sta giocando la carta del caos.
venerdì 2 maggio 2014
Stati Uniti e Germania: uniti per l'Ucraina
Trentotto persone sono morte in un incendio dopo gli scontri a Odessa, riferiscono fonti ufficiali. Il ministero dell'interno ucraino ha precisato che "in margine agli scontri (tra filorussi enazionalisti), è scoppiato un incendio di origine dolosa" allaCasa dei sindacati. "Trentotto persone sono morte, 30 persoffocamento e otto perché sono saltate dalla finestra", ha aggiunto.
Gli stati occidentali «sono uniti contro le azioni illegali della Russia in Ucraina e determinati a coordinare le proprie azioni, comprese le sanzioni contro Mosca»: lo ha detto il presidente americano, Barack Obama, nel corso della conferenza stampa alla Casa Bianca con la cancelliera tedesca Angela Merkel. «Siamo pronti a nuovi passi se la Russia continua con la sua invasione» dell'Ucraina, ha chiarito Obama, mentre la cancelliera ha avvertito che «Se la situazione in Ucraina non si stabilizza nuove sanzioni contro la Russia saranno inevitabili».
Intanto il presidente ucraino ad interim, Oleksandr Turcinov, ha annunciato che le forze filorusse a Slaviansk hanno «subito perdite considerevoli, con molti morti e feriti», senza tuttavia precisarne il numero. L'autoproclamato sindaco di Sloviansk, Viaceslav Ponomariov, aveva riferito in precedenza di cinque morti tra i ranghi filorussi.
Slavinansk è anche la città in cui i negoziati per la liberazione dei sette osservatori dell'Osce, fra cui quattro cittadini tedeschi, tenuti in ostaggio a Slaviansk sono al momento in «una fase molto delicata«. È quanto ha dichiarato il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, nel corso di un incontro a Berna con il suo omologo svizzero Didier Burkhalter.
In quanto presidente dell'Osce Burkhalter ha ribadito che l'obiettivo dei negoziati é «il rilascio degli ostaggi senza condizioni« Nel corso del colloqui, Steinmeier ha inoltre ricordato alla comunità internazionale che la crisi in Ucraina «rappresenta una grande sfida per tutti«, soprattutto alla luce degli avvenimenti di questa mattina, «prova che la violenza non é ancora finita«.
Per Vladimir Putin - recita la nota diffusa dopo qualche ora dal Cremlino - il raid avviato nell'Est dell'Ucraina è un «atto criminale» che distrugge gli accordi di Ginevra. «Utilizzando l'aviazione per sparare su località di civili, il regime di Kiev ha lanciato un'operazione punitiva e sta distruggendo tutte le speranze per l'attuazione degli accordi di Ginevra».
Come atto di deterrenza verso Mosca, cinque navi della Nato sono arrivate in Lituania: lo ha reso noto Juozas Olekas, ministro della Difesa dell'ex Repubblica sovietica sul Mar Baltico. Le navi - quattro cacciatorpediniere e una nave appoggio di Norvegia, Olanda, Belgio ed Estonia, arrivate nel porto di Klaipeda - sono un evidente segnale con cui la Nato cerca di rassicurare la Lituania e le altre repubbliche baltiche, preoccupate dalla crescente tensione in Ucraina. «L'arrivo delle navi della Nato sono un ulteriore segnale di unità e solidarietà della Nato» ha detto Olekas. Lo stesso ministro ha parlato di «misura di deterrenza» contro la Russia.
A Slavyansk, oltre gli elicotteri dispiegati, otto blindati ucraini e decine di soldati hanno preso il controllo di una strada di accesso a sud, smantellando un posto di blocco dei filo-russi. Nella città di 160mila abitanti sono risuonate le campane delle chiese per avvertire la popolazione del pericolo imminente.
Fonti del ministero dell'Interno ucraino hanno fatto sapere che il governo a Kiev non commenterà quanto sta accadendo a Slavyansk «finché l'operazione non sarà terminata». L'offensiva è la prima risposta militare su ampia scala ai miliziani filo-russi che hanno preso il controllo di numerosi edifici pubblici di città del sud-est dell'ex repubblica sovietica, alimentando la più dura contrapposizione tra Mosca e Occidente dai tempi della Guerra Fredda.
Una conferma del clima teso era venuta dalla parata dei lavoratori sulla Piazza Rossa per il Primo maggio voluta dal presidente russo, Vladimir Putin, la prima dal disfacimento dell'Unione Sovietica, che si è trasformata in una manifestazione di sostegno al Cremlino per l'annessione dell'Ucraina e la protezione della minoranza russofona.
Intanto l'Europa stigmatizza l'atteggiamento russo nella crisi ucraina. Per il presidente della Commissione europea Jose Manuel Barroso la situazione in Ucraina «è la più grande minaccia per la sicurezza dell'Europa dalla caduta del muro di Berlino» e si tratta di una «minaccia diretta al diritto internazionale e alla pace internazionale». In un discorso alla Stanford University Barroso ha detto che il comportamento della Russia è «inaccettabile».
«I invece di accettare le scelte sovrane dell'Ucraina - accusa Barroso - la Russia ha deciso di interferire, di destabilizzare e occupare una parte della territorio con essa confinante, con un gesto che speravamo fosse sepolto nei libri di storia.
Non possiamo accettare né tollerare questo tipo di comportamento. Questo é il motivo per cui siamo stati rapidi nel reagire insieme ai nostri partner del G7 e nel rendere chiaro che queste azioni comportano un costo politico, diplomatico ed economico». Noi, dice ancora Barroso, siamo anche pronti «a sostenere l'Ucraina a diventare un Paese democratico, prospero e indipendente. Ma questo non è solo un problema per l'Europa, gli Stati Uniti o il gruppo del G7: dovrebbe riguardare il resto del mondo, in quanto si tratta di una minaccia diretta al diritto internazionale e alla pace internazionale».
tutto l'est dell'Ucraina è in fiamme: almeno una dozzina di morti accertati, numerosi feriti, due elicotteri abbattuti sono il bollettino provvisorio della giornata di guerra civile combattuta nel russofono sud-est ucraino, dove Kiev ha rilanciato la sua offensiva militare a Sloviansk, roccaforte della rivolta separatista filorussa. E nuovi scontri di piazza sono esplosi a Odessa, sul Mar Nero, tra secessionisti e filo Kiev: 38 persone sono morte in un incendio scoppiato a seguito dei tafferugli.
Il blitz dell'esercito ucraino rischia di essere il colpo di grazia agli accordi di Ginevra, secondo Mosca, che ha chiesto un intervento dell'Osce e una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell'Onu contro quella che considera una "operazione punitiva" e "criminale", rilanciando anche l'ultimatum sul gas a Kiev per la fine di maggio. Dagli Usa, intanto, Obama e Merkel ammoniscono che l'Occidente è pronto a far scattare contro la Russia la fase 3 delle sanzioni, quelle settoriali, in particolare se saranno ostacolate le prossime presidenziali del 25 maggio.
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