“Gli scontri in Libano fra i sostenitori di Bashar Assad e le forze ribelli evidenziano la necessità di un’azione internazionale»: l’allarme per il contagio delle violenze armate dalla Siria al Paese dei Cedri viene da Jeffrey Feldman, sottosegretario dell’Onu per gli Affari Politici, intervenendo ad una seduta del Consiglio di Sicurezza con una relazione sulle violenze in corso a Tripoli in Libano.
Esercito contro disertori, milizie filogovernative degli shabiha contro fondamentalisti islamici stranieri, sciiti contro sunniti: è uno scontro furioso e la guerra diventa febbrile, contagiosa. Infatti la vera battaglia adesso sta varcando i confini stessi della Siria.
La dinamica del febbre contagiosa, della guerra civile dalla Siria al Libano segue vari binari. Quello dei rapimenti: il 15 agosto una fazione sciita libanese, alleata di Damasco, ha sequestrato almeno venti sunniti siriani espatriati con un gesto di ritorsione contro l’azione dei ribelli che dentro i confini siriani avevano catturato una dozzina di “pellegrini sciiti libanesi” rivelatisi poi, in almeno cinque casi, miliziani dei pasdaran e di Hezbollah inviati da Teheran per sostenere la repressione del regime di Assad. Vi è un braccio di ferro in atto fra sciiti e sunniti nei due Paesi, così come resta aperta l’indagine senza precedenti della polizia di Beirut su un leader cristiano molto vicino a Damasco. La cui consistenza è legata al personaggio in questione ovvero Michel Samaha, ex ministro del Lavoro appartenente al partito falangista cristiano rivelatosi dall’indomani della fine della guerra civile nel 1991 uno dei più importanti alleati politici di Damasco nei governi libanesi.
Ufficialmente sono 37.240, probabilmente superano i cinquantamila, i profughi siriani in Libano e vengono riconosciuti come un pericoloso problema di sicurezza interna. Rispetto agli altri Stati che confinano con la Siria, solo il Paese dei cedri si è rifiutato di preparare campi e tendopoli, temendo non solo di mettere a repentaglio il proprio equilibrio confessionale, con nuove ondate di sunniti, ma anche un esodo di palestinesi siriani verso i già sovraffollati campi profughi dei loro compatrioti in Libano.
Secondo le stime dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi, sarebbero giunte più di tremila persone nelle ultime settimane. Si tratta per lo più di profughi scappati dopo i violenti bombardamenti nel campo palestinese di Yarmouk, nella periferia di Damasco.
Qualcuno dice che: «Erdogan ci aveva promesso “zero problemi con i vicini, ma oggi siamo ai ferri corti con tutti i paesi confinanti, Iraq, Iran, Armenia, Grecia, Cipro, e siamo sull'orlo della guerra con Damasco”. Sulla frontiera con la Siria, molti sono convinti che la guerra sia a un passo. La tensione cresce e così la rivolta contro la politica muscolare sulla crisi siriana del premier islamico sunnita Recep Tayyip Erdogan, che ha sposato la causa dei ribelli sunniti rompendo l'amicizia personale con l'alawita Bashar al Assad.
Ricordiamo, inoltre, che due turchi sono stati rapiti in Libano dai miliziani sciiti dell'Hezbollah, vicino al regime di Damasco, per ritorsione contro il sequestro in Siria di un loro compagno da parte dei ribelli. Ankara ha chiesto ai propri cittadini di non andare in Libano. Altri turchi, simpatizzanti di Al Qaida, sono stati uccisi dalle forze governative ad Aleppo. E sul lato turco della frontiera, dove gli alawiti sono maggioranza, continuano ad arrivare migliaia di profughi e disertori siriani sunniti.
Ankara sta moltiplicando le manovre militari sul confine e minaccia di intervenire in Siria per impedire che il nord curdo diventi un rifugio per i separatisti curdi del Pkk, che vogliono l'autonomia del Kurdistan turco. Ma i sondaggi mostrano che non solo gli alawiti della frontiera ora temono una guerra. Il 60% dei turchi non appoggia la linea dura di Erdogan sulla Siria e non vuole un coinvolgimento militare.
Per David Schenker, l’ex consigliere del Pentagono sul Medio Oriente oggi in forza al «Washington Institute» il Libano si trova al bivio fra una “guerra etnica” combattuta nelle strade e una “guerra fredda” fra le maggiori potenze arabe, con Teheran e Riad alla guida di opposte coalizioni ripetendo il duello strategico già in atto in Siria. È uno scenario confermato dalla decisione di Beirut di incriminare assieme a Samaha due alti militari siriani, con un inedito atto di aperta sfida al regime di Damasco.
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