domenica 27 ottobre 2013
David Frost, il conduttore tv che inchiodò Nixon
David Frost è stata una delle prime star del giornalismo televisivo. È morto per un infarto Sir David Frost, noto principalmente per le interviste all'ex presidente USA Richard Nixon riguardo allo scandalo Watergate. Frost, giornalista e scrittore di commedie, aveva 74 anni mentre era in crociera nel Mediterraneo sulla Queen Elizabeth. Nel '77 riuscì a mettere alle corde Nixon, che ammise davanti alle telecamere i suoi errori e il suo tradimento nei confronti del popolo statunitense sul Watergate.
«Sir David era un uomo straordinario, allo stesso tempo affascinante, arguto, pieno di talento, intelligenza e calore allo stesso tempo», ha detto il primo ministro britannico David Cameron ricordando il giornalista scomparso oggi all'età di 74 anni, considerato un innovatore nella tv britannica.
Frost si era fatto conoscere in tv con il programma satirico 'That was the week that was', a cui seguirono il 'Frost Report', in cui aveva tra gli autori cinque futuri membri del gruppo comico Monty Python, e un talk show, il 'David Frost Show', in cui ospitò personaggi del calibro di Richard Burton e dei Rolling Stones.
L’intervista che lo rese famoso ebbe una durata di 29 ore, che è stata raccontata nel film di Ron Howard, Frost/Nixon, il duello. Nell’intenzioni di Nixon e del suo entourage,l’intervista doveva servire per iniziare a ricostruire l’immagine pubblica dell’ex presidente e avviare a lucrosa carriera che sempre segue un ‘esperienza presidenziale.
Aveva incalzato e incalzato come nel suo stile. Poi quei minuti che restano nella storia della televisione: il tono della voce di Richard Nixon si fece più basso, le pause più lunghe, mentre il presidente Usa travolto dallo scandalo del Watergate per la prima volta ammetteva al mondo il rammarico e la sofferenza per quell'errore, per quell'abuso.
L'abilità di Frost lo portò invece ad ammettere il tradimento davanti a milioni di spettatori entrando per questo nella storia per la seconda volta. “Quando una cosa la fa il presidente non è illegale!”. E' una delle battute più clamorose dell'intervista che dal 1977.
Per la tv britannica fu un precursore: contribuì ad imporre come genere la satira politica sottile e pungente. Fresco di laurea a Cambridge fece il suo esordio sul piccolo schermo nei primi annì60, e da subito il suo stile risultò inconfondibile. Fino a diventare uno degli intervistatori più riconoscibili, sulle due sponde dell'Atlantico. Fu autore prolifico e contribuì al lancio di programmi innovativi, tra cui la formula della 'televisione del mattino che ha fatto scuola nel mondo.
Una presenza talmente incisiva nella società e cultura di quegli anni che il suo personalissimo saluto televisivo entrò nei dizionari e nel lessico comune: 'Salve, buonasera e benvenuti.
sabato 26 ottobre 2013
Evento storico donne saudite al volante
Gli hacker hanno attaccato il loro sito, i religiosi hanno lanciato un appello al re per fermare il loro movimento. Anche i funzionari del governo hanno fatto di tutto per impedire alle donne saudite di mettersi al volante, è quanto ha riportato il New York Times.
Un piccolo gruppo di donne ha violato ancora uno dei codici sociali dell’Arabia Saudita, che impedisce a qualsiasi persona di genere femminile di mettersi al volante di una macchina. L’ episodio è solo l’ultimo dei tentativi fatti da un gruppo di attiviste che vedono la guida di una macchina come un diritto fondamentale. L’Arabia Saudita, che è una monarchia ereditaria, è l’unico paese al mondo in cui vige questa legge. Il fatto che le attiviste non siano mai riuscite a creare un movimento di massa sottolinea il fatto che la tradizione della società saudita e i conservatori abbiano un peso enorme e che tutto ciò che viene visto come i modo diverso come atteggiamento occidentale sia considerato qualcosa che può sminuire il carattere islamico del regno.
Ma perché hanno deciso di non protestare pubblicamente? Sanno bene che in Arabia ogni manifestazione pubblica è vietata. La via della protesta non a carattere politico e individuale, quella dei video postati su Internet, è apparsa come la via percorribile.
La battaglia, dunque, va avanti. Le donne saudite non vogliono rinunciare. Non esiste una legge che impedisca loro di condurre un veicolo, ripetono. Ma sanno bene che per farlo è necessaria la patente, rilasciata dalle autorità locali. E solo agli uomini è consentito ottenerla.
Certo l'Arabia, non a caso definita banca mondiale del petrolio, è un paese ricco. Spesso le donne possono permettersi un autista. Ma per chi non può la vita senza patente è dura. Al di fuori della città sacra della Mecca, non esistono mezzi pubblici in tutto il Paese.
Non si tratta, poi, solo della patente. Nella culla dell'islam sunnita wahabita (una delle versioni più rigide), le discriminazioni nei confronti del sesso femminile sono ancora molto dure. Lo ha denunciato anche la Banca mondiale in un recente rapporto.
E' una vita fatta di divieti e separazioni. Ma le saudite sembrano averne abbastanza. Non vogliono più essere affidate a quel tutore legale che può trasformare la loro vita in una prigione dorata, quando va bene. E' il tutore, infatti, scelto quasi sempre tra i parenti più stretti, a decidere quando e con chi la donna deve sposarsi. Anche in età molto tenera. Sempre lui a dire l'ultima parola su ogni viaggio all'estero. E ancora lui a dare il consenso sugli studi, sul lavoro, anche sul permesso per una banale visita dal medico.
Le donne credono che il tempo sia dalla loro parte, facendo notare come vi sia un gran numero di sauditi che studiano e viaggiano all’estero e tornano con nuove prospettive di vita, e che l’ascesa dei social media tra i giovani porterà sicuramente alla trasformazione sociale.
Sarà silenziosa , lenta, ma probabilmente graduale, l'ascesa delle donne saudite va comunque avanti . A Jeddah hanno ottenuto due posti nel consiglio d'amministrazione della Camera di commercio, poi una vicepresidenza; poco dopo la carica di vice sindaco. Intanto nella capitale per la prima volta una donna diventava rettore di una università, qualcun'altra assumeva incarichi direttivi negli ospedali, anche nella Borsa. Fino all'affermazione che ha fatto più parlare, quando Nura al-Fayez, è stata designata vice ministro per l'educazione femminile.
Un mondo di persone tenuta in schiavitù
La coppa del mondo di calcio in Qatar del 2022 si giocherà grazie agli «schiavi». Lavori forzati, stipendi e documenti trattenuti, ma pure niente acqua nel deserto sono gli abusi scoperti da un'inchiesta del giornale britannico Guardian.
Circa 30 milioni di persone nel mondo vivono in una condizione di schiavitù, secondo un nuovo rapporto del Global slavery index 2013 che prende in considerazione 162 paesi.
La Mauritania ha la più alta percentuale di schiavi in rapporto alla popolazione. In condizioni di schiavitù vive il 4 per cento dei mauritani. Nel paese africano la schiavitù ha profonde radici culturali, infatti è una condizione che si eredita dai propri antenati.
Il rapporto è stato compilato dall’associazione australiana Walk free foundation e si basa su una definizione di schiavitù più ampia di quella adottata da altre istituzioni che tiene conto anche degli schiavi per debiti economici, delle persone vittime di tratta e dei matrimoni forzati. La stima delle persone che vivono in schiavitù denunciata dal rapporto, è più alta di quella proposta da altri organismi come l’International labour organisation. Secondo quest’ultima istituzione infatti gli schiavi nel mondo sarebbero 21 milioni, mentre per il Global slavery index sarebbero 29,8 milioni.
In termini assoluti i paesi con più persone che vivono in schiavitù sono India, Cina, Pakistan e Nigeria. Mentre in termini relativi cioè in proporzione alla popolazione i paesi peggiori sono Mauritania, Haiti, Pakistan, India e Nepal.
Ritorniamo in Qatar, per fabbricare le infrastrutture necessarie nell'emirato molti operai stranieri vengono sottoposti ad una moderna schiavitù. Solo dal 4 giugno all'8 agosto, 44 nepalesi, i più poveri e maltrattati, sono morti per la durezza del lavoro. Ufficialmente di infarto o in incidenti nonostante fossero tutti giovani e forti. Maya Kumari Sharma, l'ambasciatore del Nepal a Doha, si è spinto a definire l'emirato come «una prigione a cielo aperto» per i migranti in cerca di lavoro.
La lista di abusi è impressionante. Nel cantiere più vasto per la coppa del mondo ci sono prove, secondo il quotidiano britannico, di lavori forzati. Ad alcuni operai sono stati trattenuti mesi di paghe per evitare che scappino. In molti casi vengono confiscati i passaporti dei lavoratori stranieri e rifiutato il rilascio di un documento d'identità trasformandoli di fatto in clandestini. I disgraziati per non finire in galera o deportati accettano qualsiasi condizione. Anche la più inumana, come una stanza dove dormono in 12 senza aria condizionata con i 50 gradi dell'emirato.
Testimonianze parlano di lavori forzati nella calura del deserto senza acqua potabile da bere. La situazione è talmente drammatica, che una trentina di nepalesi ha trovato rifugio nelle loro ambasciata denunciando le brutali condizioni di lavoro. «Non stiamo parlando del rischio che le infrastrutture della coppa del mondo del 2022 vengano costruite grazie ai lavori forzati. Sta già accadendo» ha denunciato Aidan McQuade, direttore dell'associazione Internazionale contro la schiavitù fondata nel 1839.
Il Qatar, che ha mandato i suoi corpi speciali per abbattere il regime di Gheddafi in Libia e finanzia i ribelli siriani, investirà 100 miliardi di dollari per preparare l'emirato alla coppa del mondo di calcio. Il Paese piccolo ma ricchissimo, grazie a gas e petrolio, sta costruendo una nuova città, Lusail city, che ospiterà 200mila persone in vista del grande appuntamento del 2022. Per la prima volta un Paese del Medio Oriente ospiterà la coppa del mondo ed il giovane emiro, Tamim bin Hamad Al Thani, che fa finta di ammiccare all'Occidente, si gioca la faccia. A Lusail city, dove si sono verificati gran parte degli abusi venuti alla luce, verrà costruito lo stadio da 90mila persone che ospiterà la finale.
Il «Comitato supremo» che sovrintende ai grandi piani in vista della coppa del mondo garantisce che le regole di rispetto dei lavoratori impiegati sono ferree ed il governo sta svolgendo un'inchiesta sugli abusi. Il problema è che in Qatar vivono solo 300mila autoctoni, ma il Paese va avanti grazie ad una forza di lavoro straniera di 1 milione e 200mila persone. In gran parte reclutati in Asia, dal Nepal al Bangladesh, da approfittatori che li mandano a lavorare nell'Emirato in condizioni disumane trattenendo, in cambio, parte dello stipendio. Pochi osano parlare, come Rama Kumar Mahara, 27 anni, che denuncia l'obbligo di «lavorare per 12 ore al giorno senza cibo». Se qualcuno protesta viene picchiato e secondo la stampa tedesca la paga dei più derelitti è di 78 centesimi di euro all'ora.
Il sistema per schiavizzare gli operai si chiama kafala. I lavoratori sono legati al loro datore di lavoro, che deve concedere l'autorizzazione per farli tornare a casa.
Aung San Suu Kyi ritira premio Sakharov
Aung San Suu Kyi rimase prigioniera, prima in carcere, poi ai domiciliari, fino al 2010, quando le pressioni internazionali portarono il regime birmano a liberarla. Nel 1991 venne insignita anche del Premio Nobel per la Pace.
La leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi, ha finalmente potuto ritirare a Strasburgo il premio Sakharov per la libertà di pensiero dopo 23 anni dall'assegnazione. Il Parlamento europeo le assegnò l'onorificenza nel 1990, anno in cui venne arrestata all’indomani delle elezioni che aveva stravinto e con le quali sarebbe diventata Primo Ministro.
Accolta dagli applausi degli eurodeputati e dal presidente Martin Schulz, ha ricevuto il premio alla memoria del dissidente sovietico Andrej Dmitrievič Sacharov, dedicato a quanti hanno speso la loro vita per la difesa dei diritti umani e delle libertà. Come la giovane pakistana che ha sfidato i talebani, Malala Yousafzai, che l'ha ottenuto quest'anno.
Suu Kyi, 68 anni, è in questi giorni impegnata in Europa per convincere i dirigenti europei a fare pressione sul Governo militare, in particolare perché modifichi la Costituzione in senso più democratico. La Costituzione birmana, attribuisce il 25% dei seggi nelle assemblee ai militari attivi e rappresenta anche un grosso ostacolo all’obiettivo annunciato da Aung San Suu Kyi di diventare presidente dopo le elezioni del 2015. La Costituzione vieta in effetti ad un birmano sposato ad uno straniero o con figli stranieri di occupare la massima carica dello Stato e il marito Michael Aris, oggi scomparso, era di nazionalità britannica così come lo sono i loro due figli. Aung San Suu Kyi ha trascorso circa quindici anni ai domiciliari prima di essere liberata poco dopo la controverse elezioni del novembre 2010. Da allora si è rilanciata nell’agone politico impegnandosi a favore delle riforme intraprese dal nuovo governo succeduto alla giunta disciolta nel marzo 2011. Suu Kyi è stata eletta deputato alle elezioni suppletive del 2012.
“E’ importante che insegniamo ai giovani l’importanza della libertà di pensiero. La libertà di pensiero inizia con il diritto di porre delle domande. E questo diritto, il nostro popolo a Myanmar, non lo ha avuto per così tanto tempo, che alcuni dei nostri giovani, non sanno nemmeno come si fanno le domande”, ha spiegato Aung San Suu Kyi. "Abbiamo bisogno di istruzioni, di sanità, della libertà e del diritto di forgiare il nostro destino, di poter decidere cosa sia meglio per noi stessi", ha concluso.
domenica 13 ottobre 2013
Israele: 40 anni fa guerra Kippur e il crollo dei miti
Quarant'anni dopo, la guerra del Kippur è in Israele una cicatrice non rimarginata. Fra quanti vi presero parte, molti ammettono che essa torna ancora a visitarli negli incubi notturni. Tutti ricordano quel 6 ottobre 1973 quando le sinagoghe si erano riempite per il digiuno del Kippur: una solennita' che non doveva essere turbata in alcun modo. Ragion per cui quel giorno le stazioni radio tacevano, fatta eccezione per una piccola emittente pacifista che trasmetteva musica leggera da una navicella in acque internazionali e che per prima informo' di sviluppi allarmanti sul terreno. Erano le 2 del pomeriggio quando le sirene di allarme si misero ad ululare e le jeep militari sciamarono nelle strade delle citta' deserte per richiamare i riservisti, setacciando le sinagoghe e passando di palazzo in palazzo: il telefono in casa era ancora un lusso di pochi.
Ma nelle ore critiche seguenti, necessarie ai riservisti per correre al fronte, gli eserciti di Siria ed Egitto, con uno spettacolare attacco a tenaglia, avevano gia' registrato successi eclatanti nelle alture del Golan e sul canale di Suez. Col blitz speravano di recuperare l'orgoglio nazionale e almeno in parte le terre perdute nel 1967, nella guerra dei sei giorni. La linea Bar-Lev - una catena di decine di fortini israeliani a ridosso del canale - era alla merce' dell'artiglieria egiziana, mentre velivoli egiziani compivano centinaia di incursioni in un Sinai tornato ad essere terra di battaglia, sei anni dopo la occupazione israeliana.
Solo a guerra guerra finita la popolazione di Israele avrebbe compreso - dai racconti dei riservisti - la reale drammaticita' di quei momenti. Solo allora avrebbe saputo che i blindati siriani erano lanciati verso il lago di Tiberiade e che nei fortini di Bar-Lev i militari israeliani venivano uccisi come mosche, oppure catturati. Che sul Canale soldati diciottenni singhiozzavano nelle ultime comunicazioni radio, e che a distanza i superiori li ascoltavano impotenti. Dove erano, si domandavano inquieti gli israeliani, i Grandi della Patria? Dove era Golda Meir, la premier laburista di acciaio che affrontava senza peli sulla lingua i potenti della Terra, che ancora di recente aveva detto: ''La nostra situazione non e' mai stata cosi' buona''? Dove era il ministro della difesa Moshe Dayan, che pur con un occhio solo sembrava saper scrutare il futuro meglio di chiunque altro? Segui' un'orgia di sangue. Grazie anche ad un provvidenziale ponte aereo militare ordinato da Richard Nixon, Israele riusci' a ribaltare la situazione: prima sul Golan, poi nel Sinai dove lo spericolato ed indisciplinato gen. Ariel Sharon si mise in luce guidando unita' israeliane oltre Suez, addentrandosi nel continente africano.
Quando a fine ottobre Usa e Urss imposero ai rispettivi alleati il cessate il fuoco, l'esercito israeliano era quasi alle porte di Damasco e a 100 chilometri dal Cairo. Il bilancio dei militari uccisi, israeliani ed arabi, era di 23 mila: mille caduti al giorno Militarmente, Israele aveva superato l'esame: ma era quella una ''vittoria''? A posteriori si puo' affermare che, nella politica israeliana, la guerra del Kippur rappresento' uno spartiacque.
Fu allora che mossero i primi passi - con tesi politiche opposte - gli extraparlamentari di Peace Now e Gush Emunim, il movimento nazional-religioso dei coloni. Sulla scia di manifestazioni popolari, fischiata in un cimitero militare, Golda Meir getto' la spugna trascinando con se' nella polvere anche Dayan. Il loro mito si era spezzato. Tre anni dopo (1977) il nazionalista Menachem Begin (Likud) avrebbe sancito il declino storico dei laburisti conquistando a sorpresa il potere. Nel 1978 avrebbe firmato storici accordi di pace proprio col promotore della Guerra del Kippur, il presidente egiziano Anwar Sadat. Anche questi avrebbe sorpreso il mondo passando dalla sfera sovietica a quella americana. Evento epocale nella Storia di Israele, la guerra del Kippur e' quasi assente nella letteratura e nel cinema.
Quel conflitto, affermano i ricercatori, fece riaffiorare negli israeliani un senso di insicurezza atavica legato anche alla Shoah. Le conquiste del 1967 si erano rivelate fragili. A pesare sulla Nazione furono l'alto prezzo di sangue, i prigionieri, i dispersi. Da qui, secondo alcuni ricercatori, il trauma nazionale la cui sedimentazione e la cui metabolizzazione hanno necessitato decenni. Nel cinema l'unico film di rilievo e' 'Kippur' di Amos Gitai (2000). Nella letteratura quella guerra drammatica non trova ancora spazio adeguato. Ne parlarono con efficacia Amnon Dankner ('Berman, perche' me l'hai fatto?', 1982) e Haim Sabato ('Aggiustando i periscopi', 1999). Piu' di recente quella guerra ha avuto una drammatica presenza anche in un romanzo di David Grossman ('A un cerbiatto somiglia il mio amore'), dove uno dei personaggi sarebbe stato marchiato in maniera indelebile dalla prigionia in Egitto.
sabato 12 ottobre 2013
Malala ora è un simbolo una ragazza eroica
Malala è «una ragazza eroica» e il premio Sakharov è stato «deciso all'unanimità». Lo ha detto il presidente dell'europarlamento Martin Schulz annunciando la scelta di premiare la giovane pachistana ai giornalisti prima di comunicarla ufficialmente in plenaria. Il premio sarà consegnato durante la sessione plenaria del Parlamento europeo novembre.
E' passato un anno da quando, il 9 ottobre 2012, Malala Yousufzai è stata ferita dagli spari esplosi contro di lei dai talebani nella valle dello Swat, in Pakistan. Il mondo la guarda come un'eroina, una coraggiosa paladina dei diritti all'istruzione e delle bambine, mentre è uscita la sua autobiografia 'Io sono Malala'.
Ma in Pakistan, i militanti minacciano di ucciderla se tornerà nel Paese e la paura dei militanti ha il sopravvento e domina la vita. Malala, ora 16enne, vive a Birmingham nel Regno Unito, dove era stata trasferita per essere curata dalle ferite riportate nell'attacco. I suoi assalitori, invece, restano liberi.
Poco dopo l'agguato del 9 ottobre dell'anno scorso, gli scolari pakistani riempirono le strade di cartelli con la scritta 'Sono Malala'. Oggi le cose sono cambiate. Nell'anniversario odierno, la scuola che la giovane frequentava nella valle dello Swat non ricorderà l'assalto: studenti e insegnanti hanno paura. L'insegna dell'istituto è stata rimossa, mentre le bambine con le teste coperte dal velo continuano a frequentarlo.
Anche il grande poster che era stata affisso sul muro della hall è stato tolto. I bambini si nascondono alle telecamere. Il 9 ottobre del 2012, Malala uscì dallo stesso cancello, ridendo con le amiche mentre saliva sul retro del pick-up usato per trasportare le scolare. Lungo il tragitto, all'altezza di uno stretto ponte, un uomo mascherato e armato fermò il veicolo. Un altro salì sul retro, armato di una pistola. "Chi è Malala?", urlò. Nessuno rispose, ma tutti voltarono la testa verso di lei.
Lui sparò contro la ragazzina più volte. Un proiettile la colpì nella parte alta della testa, mentre altri due colpi ferirono non seriamente due amiche. Malala fu trasferita in un ospedale militare vicino a Islamabad, dove fu operata d'urgenza. Il padre Ziauddin, certo che la figlia non sarebbe sopravvissuta, mandò un messaggio al cognato chiedendogli di preparare una bara e un'auto con cui portare a casa il corpo. Malala, invece, si svegliò una settimana dopo in un letto d'ospedale a Birmingham, nel Regno Unito, dove era stata trasferita per essere curata.
Ma il sostengo e i riconoscimenti che ha ricevuto in Occidente hanno risvegliato sentimenti antioccidentali in Pakistan, dove migliaia di civili e almeno 4mila soldati sono morti per l'insorgenza islamica. Frustrati dalla rivendicazione secondo cui la parte 'ricca' del mondo dovrebbe fare di più, molti pakistani vedono infatti l'acclamazione di Malala come un dramma recitato per far crescere ancora di più le critiche al Paese. Nello scorso dicembre, un gruppo di studenti ha protestato contro la decisione del governo di rinominare una scuola della valle dello Swat con il nome College femminile Malala Yousufzai. L'istituto ha mantenuto la denominazione originale.
La battaglia di Malala per l'educazione delle bambine è iniziata quando aveva appena 11 anni, in un momento in cui i talebani agivano e si muovevano apertamente nella valle, facendo esplodere scuole e colpendo i soldati. "Erano tempi molto duri e Malala parlò in tv e sui giornali, fu minacciata, così come il padre", racconta Ahmed Shah, amico di famiglia ed educatore, a sua volta minacciato di morte per le sue attività a favore dell'istruzione delle bambine. Il governo pakistano, ha spiegato, è stato il primo a riconoscere il coraggio della ragazza, dandole il premio Nazionale per la pace nel 2011, un anno prima che le sparassero.
Anche Malala paga il prezzo della sua notorietà, dice. "L'altro giorno parlavo con il padre, che mi ha detto che Malala piange e continua a chiedere 'Quando potrò studiare? Vado in America, in Austria, in Spagna per tanti giorni e non ho tempo neanche per una lezione di geografia'", racconta l'amico di famiglia.
Secondo Shah il fatto che gli aggressori della ragazza siano ancora liberi non aiuta. Non saranno mai presi probabilmente, sottolinea, perché raramente la polizia indaga su un incidente se i talebani lo rivendicano. E se indaga, di solito la paura spinge i giudici a rilasciare gli imputati, spiega l'avvocato locale Aftab Alam. Ufficiali dell'esercito hanno identificato l'assalitore di Malala come Attaullah, fuggito in Afghanistan, mentre la polizia dice che il caso chiuso.
La sorella del sospettato, Rehana, nella sua casa di montagna nella valle dello Swat ha detto ad Associated Press: "Non sappiamo dove sia, se sia vivo o morto". Intanto, ancora la scorsa settimana i talebani hanno minacciato di uccidere Malala, se tornerà in Pakistan come lei ha detto di sognare. "Se la troveremo, allora tenteremo di ucciderla una volta per tutte. Ci sentiremo orgogliosi della sua morte", ha detto il portavoce dei talebani Shahidullah Shahid.
"Uccidetemi pure, ma prima di uccidermi ascoltatemi": lo ha detto, rivolta ai talebani pachistani che già tentarono di ucciderla sparandole alla testa, Malala Yousafzai, in un dibattito a Washington col presidente della Banca Mondiale, Yim Yong Kim.
«La Conferenza dei presidenti, l'organo del Parlamento europeo,ha deciso all'unanimità di onorare Malala Yousafzai, questa ragazza della Valle dello Swat in Pakistan, per il suo coraggio di andare a scuola, di incoraggiare le altre ragazze ad andare con lei a scuola in un ambiente ostile, mentre era minacciata di morte dai talebani - ha detto Martin Schulz - Dopo le minacce è stata attaccata. Fortunatamente è sopravvissuta ai colpi che quei criminali le hanno sparato. Così il Parlamento europeo ha deciso di onorare una ragazza che ha incoraggiato le altre con il suo esempio: andiamo a scuola, non facciamoci intimidire, pretendiamo i nostri diritti di ragazze, donne, ad essere rispettate».
Generale Giap morto a 102 anni
Eroe dell’indipendenza, combatté Usa e Francia. Sue le famose vittorie a Dien Bien Phu contro i francesi nel 1954 e del Tet nel 1968 contro gli Usa. Finita la guerra appoggiò la pacificazione con gli ex nemici.
Negli ultimi anni, era sempre vicino a scomparire dentro la sua divisa da cameriere stellare in una qualche Guerra planetaria (giacca bianca, cravatta nera, medaglie di tutti gli Ordini comunisti possibili appuntate sul petto) nessuno avrebbe detto che quell'omarino era proprio lui, il leggendario generale Giap: lo stesso che circa quaranta anni prima, in Vietnam, aveva inflitto agli Usa la più cocente, e insieme anche l'unica, sconfitta militare della loro storia.
Alto poco più del metro e cinquanta, una complessione fisica piccola, la bestia nera degli statunitensi sembrava fatto apposta per essere preso sottogamba dagli avversari. Così fecero, sbagliando, i giapponesi, i francesi, i cambogiani e da ultimo i marines del generale Westmoreland, cresciuti con tanto di vitamine e non solo. Furono sorci verdi per tutti. Mai che nessuno dei suoi nemici avesse capito per tempo che quell'omino - grande tattico, ma ancor più grande stratega militare- era spinto da un invisibile motorino straordinario.
Vo Nguyen Giap, morto alla veneranda età di 102 anni, era nato il 25 agosto 1911, l'anno del Cane, in una capanna illuminata da tre lumicini sempre accesi davanti all'altarino degli antenati in un piccolo villaggio dell'Annam. Entrato nel 1929 nel Partito comunista aveva un solo mito: Ho Chi Minh. Ma giusto perché era vietnamita. Fosse nato un po' più in là, sulla carta geografica, il suo mito sarebbe stato Mao Tse Tung.
«La lotta armata popolare è la scuola migliore», rispondeva a chi gli obiettava la sua scarsa preparazione bellica. Ma di notte,si dice che leggeva e rileggeva i resoconti delle campagne napoleoniche, i testi di von Clausewitz e gli insegnamenti dei condottieri vietnamiti che si erano opposti nel corso di duemila anni ad ogni tentativo di occupazione. Guerriglia, guerra di movimento, la vecchia tattica del mordi e fuggi. Il suo credo militare era riassunto in questi tre concetti.
Sbaragliati i francesi a Dien Bien Phu, il generale Giap si concentrò sugli americani, quando a Washington decisero che quella spina comunista ad Hanoi doveva essere cancellata. Contro la superpotenza, Giap giocò d'astuzia, inventando una ragnatela di cunicoli sotterranei e di «santuari» nella giungla attraverso cui passavano armi e rifornimenti ai vietcong. Come la «pista di Ho Chi Minh» in Laos e in Cambogia: una fitta serie di strade in terra battuta, di sentieri e di guadi percorsa da secoli dalle tribù nomadi e dai contrabbandieri di oppio.
Poco prima dell'offensiva del Tet, all'inizio del 1968, quella che segnò l'inizio della fine per l'avventura statunitense in Indocina, Giap diede un'intervista al quotidiano francese Le Monde. «Gli americani perderanno, e sa perché? - disse al giornalista che lo aveva raggiunto nella giungla -. Perderanno perché fanno la guerra con l'aritmetica. Interrogano i loro computer, fanno somme e sottrazioni e su quelle agiscono. Ma qui l'aritmetica non è valida: se lo fosse, ci avrebbero già sterminato». Si chiamava Giap. Vo Nguyen Giap.
Negli ultimi anni, nonostante la tarda età, Giap aveva espresso più volte la sua contrarierà allo sfruttamento delle miniere di bauxite nel centro del Paese, citando preoccupazioni ambientali e di sicurezza nazionale.
martedì 1 ottobre 2013
USA:"chiude" lo stato federale, è shutdown
E' una brutta giornata per gli USA, la fine del finanziamento dello Stato federale è scattata in seguito al blocco dei fondi. Circa 800mila lavoratori non riceveranno più lo stipendio,chiuderanno musei,sportelli ministeriali e persino i parchi.
Il Congresso Usa non ha trovato l'accordo sul bilancio e alla mezzanotte di ieri, le 6 di stamane in Italia, è scattato lo shutdown del governo, il blocco parziale delle attività. E' la prima volta che accade da 17 anni
E ora? Mentre tutte le tv ripetono incessantemente la notizia del mancato accordo in Congresso su una legge di bilancio temporanea che avrebbe dovuto consentire al governo di andare avanti economicamente, Repubblicani e Democratici si rimpallano le responsabilità dell'impasse. Che rischia di lasciare senza stipendio in pochi giorni almeno 800mila dipendenti di strutture legate ai fondi federali.
Inutili le ultime febbrili trattative, i conservatori hanno legato le sorti della finanziaria all'odiatissima Obamacare, la riforma sanitaria di Obama il cui ingresso in vigore a pieno regime è previsto ad ore. Il Gop ha continuato a chiedere di tagliare i fondi all'Obamacare, o di rinviare di un anno la sua piena efficiacia. La Camera, a maggioranza repubblicana, ha approvato un testo che evitava lo shutdown parziale, ma posticipava di un anno i cardini dell'Obamacare. Una proposta bocciata dal Senato, a maggioranza democratica. A questo punto i Repubblicani hanno provato a intavolare una nuova discussione, chiedendo negoziati in Senato per un compromesso. E il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha risposto con un secco no: "Quello chiude il governo. Vogliono che il governo chiuda".
Una battaglia politica così dura non poteva concludersi senza reciproche accuse. Lo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, ha risposto poco dopo: "Il popolo americano non vuole lo shutdown, così come non lo voglio io". E tuttavia, ha aggiunto, la legge di riforma sanitaria di Obama "avrà un impatto devastante: qualcosa deve essere fatto". Il punto è proprio questo: per i Repubblicani l'ingresso a regime dell'Obamacare, che non ha convinto molti americani, è l'occasione giusta per ridare corpo e speranze ad un partito a lungo in difficoltà. Il momento è propizio perché il presidente Obama è ai minimi di popolarità degli ultimi mesi e uno stop anche parziale alle attività federali causerà inevitabili ripercussioni sulla ripresa economica. D'altra parte, la scommessa dell'ala dura dei Repubblicani è rischiosa, perché l'opinione pubblica è ampiamente insoddisfatta dell'operato del Congresso (20% di gradimento, secondo l'ultimo sondaggio Cnn) e potrebbe imputare proprio al Gop le responsabilità di un eventuale protrarsi dell'impasse e dello stop all'erogazione di stipendi e servizi.
In un video della durata di tre minuti realizzato per i militari Usa, il presidente ha assicurato che premerà sul Congresso affinché permetta al governo di riaprire le attività chiuse prima possibile. Poiché lo shutdown è parziale Obama ha dichiarato che le truppe in Afghanistan resteranno in servizio, ricordando di avere firmato una legge che assicura ai militari che riceveranno le loro paghe in tempo. Tuttavia migliaia di dipendenti civili del dipartimento della Difesa andranno in congedo. "So che questa situazione ricade su voi dopo le difficoltà che avete gia dovuto affrontare nell'estate" con i tagli automatici alle spese militari, ha detto il presidente rivolgendosi ai dipendenti civili. "Voi e le vostre famiglie meritate di meglio rispetto ai malfunzionamenti che vediamo al Congresso", ha aggiunto il presidente.
Dietro le quinte, placate le voci dei 'falchi', Democratici e Repubblicani sanno di dover riaprire il negoziato. Obiettivo, un punto di incontro fra le esigenze dell'Amministrazione Obama e quelle del Gop, che ritirerà fuori il quaderno dei 'desiderata' più cari al proprio elettorato e alle lobby più vicine: via libera alla costruzione di una maxi Pipeline al Nord, altri tagli alla spesa federale, meno lacci e lacciuoli all'esplorazione del territorio per approvigionamento energetico; un rallentamento delle severe normative EPA sulla produzione di gas effetto serra; rubinetti chiusi per i finanziamenti al Consumer Financial Protection Bureau, l'ufficio federale a protezione dei consumatori. E magari una 'limatina' al Medicare obamiano.
Il tempo per arrivare a un compromesso, tuttavia, non è molto e paradossalmente lo stallo potrebbe nuocere ai Repubblicani precedente, perché 17 anni fa, l'ultimo shutdown parziale portò il Pil a perdere lo 0,7% in sei mesi. Essere addidati davanti a milioni di americani quali responsabili di una nuova contrazione dell'economia non è un rischio trascurabile, anche se dovesse consentire di riscaldare i cuori della base repubblicana più vicina ai Tea Party, e potrebbe portare in tempi rapidi a nuovi impegnativi test sulla coesione del gruppo parlamentare Gop alla Camera, un passaggio difficile per lo stesso speaker John Bohner.
Bashar al Assad: volontà eliminare armi chimiche'
Intervista eslusiva di RaiNews24
"Non si tratta della risoluzione Onu ma della nostra volontà di eliminare le armi chimiche".
E' quanto ha detto il presidente siriano Assad in un'intervista a Rai News 24. "Abbiamo aderito all'accordo internazionale contro le armi chimiche prima della risoluzione", ha aggiunto. "Siamo pronti all'eventualità di una Conferenza di pace Ginevra 2 ma non possiamo decidere chi guiderà la nostra delegazione fino a quando non conosceremo contesto e criteri sui quali si baserà la Conferenza". "Se i ribelli sono armati non sono opposizione ma terroristi e quindi non possiamo discutere con i teroristi e con al Qaeda".
"Non abbiamo riserve sull'accordo sulle armi chimiche. Il nostro compito è fornire dati e agevolare la procedura, ma i problemi sono di aspetto tecnico: come raggiungere quei luoghi in presenza di terroristi pronti a porre qualunque ostacolo e come sbarazzarsi di quei materiali". "Non abbiamo usato noi i gas ma i terroristi".
E' quanto ha detto il presidente siriano Assad in un'intervista a RaiNews24, aggiungendo:"E' inaccettabile il dispiegamento di una forza internazionale di interposizione perché non funzionerebbe, non ci sono due Paesi in lotta". "La Ue parla di aiuti ma poi impone l'embargo".
"Quando c'è una tempesta, non si abbandona la nave, la mia missione è di portarla in porto, non di abbandonarla" Lo ha detto il presidente siriano Assad nell'intervista a RaiNews24.
Assad ha parlato anche del futuro: "Se abbandonare il mio incarico migliorasse la situazione, lo farei, ma devo restare al mio posto". Quanto alle elezioni del 2014, "deciderò alla vigilia se ricandidarmi: se capirò che il popolo lo vorrà, lo farò". "Dopo questa crisi potremo costruire una Siria di gran lunga migliore a quella precedente, l'unica opzione rimasta è difendere il Paese e liberarci dei terroristi e della loro ideologia".
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