lunedì 29 settembre 2014

Volvo Ocean Race 2014 - 2015 la sfida dei mari



L’avventura inizierà il 4 ottobre dal porto spagnolo di Alicante e sarà la dodicesima edizione del più prestigioso e impegnativo giro del mondo in barca a vela, il quale si disputo per la prima volta nel 1973 con il nome di Whitbread Round the Worl Race.

La Volvo Ocean Race è la regata di alto mare più rinomata ed estrema del mondo. Chi partecipa alla Volvo Ocean Race affronta una sfida sovrumana – sia dal punto di vista psichico che fisico. Una battaglia che l’equipaggio deve affrontare ogni giorno. E che può vincere solo mettendoci forza, resistenza, coraggio e lavoro di squadra. Per non parlare dello stress emotivo che comporta la navigazione in mare aperto, a 1000 miglia dalla terraferma.

I migliori marinai del pianeta in 9 mesi (l’arrivo è previsto a fine giugno a Goteborg) solcheranno quattro oceani toccando 11 porti di altrettanti paesi in 5 continenti diversi e faranno tappa a i Città del Capo (Sud Africa), Abu Dhabi (EAU), Sanya (Cina), Auckland (Nuova Zelanda), Itajaí (Brasile), Newport, Rhode Island (USA), Lisbona (Portogallo), Lorient (Francia) con un pit stop di 24 ore a l’Aja (Olanda) prima di concludersi a Goteborg, sede della casa madre di Volvo.

Navigheranno per 38.739 miglia, l’equivalente di 71.745 chilometri: possiamo definirlo la scalata dell’’Everest degli oceani, un match race scafo contro scafo lungo oltre 250 giorni. Una competizione che nel mondo ha una valenza incredibile per chi compete con la barca a vela.

Saranno sette, contro i sei della scorsa edizione, gli equipaggi che parteciperanno alla Volvo Ocean Race 2014/2015 vediamo i partecipanti, la prima squadra danese a partecipare all'evento. Secondo le regole della regata, ogni team deve presentare due atleti under 30, e per coprire il ruolo dei giovani.

Team SCA

Le ragazze del team femminile: Sam Davies (Regno Unito), Corinna Halloran, Libby Greenhalgh, Abby Ehler, Sara Hastreiter, Sophie Ciszek, Annie Lush, Carolijn Brouwer la squadra ha confermato che l'americana Sally Barkow e la svizzera Justine Mettraux entrano a far parte dell'equipaggio femminile.

L'americana Sally Barkow (33 anni) nell'ultimo decennio ha fatto parte del circuito olimpico ed è stata una componente del team a stelle e strisce ai giochi olimpici di Pechino nel 2008.

La svizzera Justine Mettraux (27 anni) si unisce all'equipaggio fresca di un secondo posto nella Mini Transat, ovvero la migliore prestazione mai raggiunta da una velista donna nella transatlantica in solitario, nella classe delle barche di serie (la Mini Transat è una regata transatlantica in solitario che si corre su barche di soli 6,5 metri di lunghezza, con partenza dalla Francia atlantica e arrivo ai Caraibi).

Abu Dhabi Ocean Racing

Ian Walker e il suo equipaggio si stanno godendo alcuni degli ultimi momenti di calma prima dell'inizio del grande viaggio. Il team è formato dallo skipper britannico Ian Walker, Roberto Bermúdez (Spagna), e al resto dell'equipaggio formato da Justin Slattery (Irlanda), Phil Harmer (Australia), Simon Fisher (Inghilterra), Luke Parkinson (Australia), Andrew McLean (Nuova Zelanda) e Adil Khalid (Emirati Arabi Uniti).

Grande esperto della Volvo Ocean Race con ben sei partecipazioni, il quarantaquattrenne Bermudez, conosciuto nell'ambiente della vela come 'Chuny' è dunque l'ottavo componente del l'equipaggio Abu Dhabi Ocean Racing.

Dongfeng Race Team

Lo skipper transalpino di Dongfeng Race Team, Charles Caudrelier, ha reso noto il nome dei cinque velisti europei che andranno a rinforzare la sfida cinese alla dodicesima edizione del giro del mondo a vela in equipaggio.

E’ la prima volta che un numero così alto di atleti provenienti dalla nazione più popolosa del mondo entra a far parte di un team oceanico, da quattro a sei, Dongfeng ha aggiunto due ulteriori velisti cinesi al gruppo. Kong Chencheng (Kong) e Liu Xue (Black), infatti, sono tornati entrambi a far parte dell'equipaggio dopo essersi originalmente ritirati.

Lo skipper francese Charles Caudrelier pensa di inserirli nel gruppo a rotazione nel corso della regata. Sia Kong che Xue avevano dato forfait nelle fasi iniziali della selezione pensando il progetto fosse troppo duro, ma poi il richiamo della Volvo Ocean Race ha fatto cambiar loro idea e il team manager Bruno Dubois è stato felice di riaccogliere i due atleti di talento. Black ha spiegato così la sua decisione di tornare: “Un velista della Volvo Ocean Race deve essere un uomo di squadra, determinato e forte. Ed è questo che voglio diventare”

Team Brunel

Bouwe Bekking ha scelto il venticinquenne belga Louis Balcaen e il ventisettenne lituano Rokas Milevičius. Il team di bandiera olandese ha anche confermato il nome dell'Onboard reporter Stefan Coppers, la cui ambizione di partecipare al giro del mondo nacque molto tempo fa. “Nel 2006 la regata fece tappa a Rotterdam. In banchina incontrai l'addetto stampa di Team ABN AMRO, Yvo Janssen, gli dissi di chiamarmi in qualsiasi momento in caso avesse avuto bisogno di un Onboard reporter. E, quello che otto anni fa era solo un sogno, oggi è diventato realtà.

Team Alvimedica

L’equipaggio a guida nordamericana di Team Alvimedica includerà l’italiano Alberto Bolzan, lo statunitense Nick Dana, l’australiano Will Oxley oltre ai neozelandesi Ryan Houston e Dave Swete. Mentre un altro americano, Amory Ross, ricoprirà il ruolo di Onboard Reporter (OBR). I sei andranno ad aggiungersi allo skipper Charlie Enright e a Mark Towill nella squadra titolare del giro del mondo a vela. Matt Noble l'ultimo componente del team ingaggiato ,si è detto molto euforico in vista della prima tappa verso il Sudafrica. “Analizzando il percorso, le tue tappe che ho voglia di fare sono la prima, da Alicante a Città del Capo e quella da Auckland a Itajaí. Non sono tante le persone al mondo che possono dire di aver navigato attraverso tutto l'oceano Antartico.

Gli altri quattro velisti hanno invece già partecipato alla scorsa edizione della Volvo Ocean Race, incluso Nick Dana con il ruolo di Onboard reporter (allora si chiamava media crew member) a bordo di Abu Dhabi Ocean Racing. Amory Ross aveva lo stesso compito su Puma, mentre tre dei componenti dell’equipaggio, Enright, Dana e Ross, sono originari dello stato nordamericano del Rhode Island dove si trova la città di Newport, una delle capitali della vela mondiale, che sarà sede di tappa del giro del mondo nel maggio 2015.

Team España

Due matricole della Volvo Ocean Race e un veterano, ma di soli 32 anni, entrano a far parte del team spagnolo, guidato da Iker Martínez e Xabi Fernández: gli iberici Rafa Trujillo e Antonio “Ñeti” Cuervas-Mons e il francese Nicolas Lunven saranno a bordo con il ruolo, rispettivamente, di trimmer/timoniere, prodiere e navigatore.

Questa sarà la terza Volvo Ocean Race per lo spagnolo Antonio “Ñeti” Cuervas-Mons (32 anni), e la terza volta con un team spagnolo dopo le edizioni del 2008/2009 e 2011/2012. Il velista originario di Santander riconosce che questo rappresenterà “Un grande passo avanti nella mia carriera, specialmente perché finora ero stato imbarcato come under 30, fatto che mi ha aperto le porte della regata. Quando si hanno più di 30 anni, credo che sia più complesso essere scelti perché le opzioni di trovare buoni velisti sono più ampie.


Team Vestas Wind

Il sei volte campione del mondo Chris Nicholson, che con questa arriverà alla quinta partecipazione al giro del mondo in equipaggio, sarà lo skipper della barca i cui lavori di preparazione sono in fase avanzata per fare in modo che sia pronta per la partenza della regata dal porto spagnolo di Alicante, il prossimo ottobre.

Dell’equipaggio di otto persone faranno parte anche due velisti danesi, Peter Wibroe e Nicolai Sehested, che con i suoi 24 anni sarà uno degli atleti danesi più giovani nella storia a prendere parte alla regata.

Lo skipper australiano potrà dunque contare su velisti di grande esperienza, inclusi i neozelandesi Tony Rae e Rob Salthouse che hanno già corso la Volvo Ocean Race ben sette volte,  oltre alla coppia di veterani, altri due atleti conoscono bene il “campo di gioco”: il navigatore olandese Wouter Verbraak e il primo argentino confermato a questa edizione giro del mondo Maciel Cichetti, molto conosciuto anche in Italia dove risiede e per aver fatto parte di numerosi equipaggi italiani, sia in Coppa America che in altre classi.

Nell’albo d’oro spiccano nomi di grandi skipper come l’americano Paul Cayard e il brasiliano Torben Grael che, dopo aver dominato le regate olimpiche e quelle di match race, non hanno resistito al fascino della vela d’altura a latitudini estreme. Una disciplina che richiede sì talento, ma anche tanto coraggio e tanta resistenza. L’Italia non è impegnata in prima persona, su nessuna delle 7 barche pronte a salpare sventola la bandiera tricolore. Nella Penisola non sono previste nemmeno le “In port race” poiché la regina delle regate oceaniche dopo la partenza abbandona il tranquillo Mediterraneo.

Ogni equipaggio (8 persone più un onbord reporter che salgono a 11 se femminile) ha a bordo 8 vele identiche, di bolina la superfice di spinta massima è di 460 metri quadri che possono arrivare a 578 con il vento in poppa.

Le sette imbarcazioni, i nuovi monotipo Volvo Ocean 65 e gli equipaggi professionisti si daranno battaglia dal freddo intenso dell'Antartico al caldo soffocante delle calme equatoriali, cioè nelle condizioni più estreme nei luoghi più duri del pianeta.

E, tuttavia, come succede per i Giochi Olimpici, non esistono premi in denaro alla Volvo Ocean Race, ma gli equipaggi combattono per aggiudicarsi un trofeo che simboleggia la vittoria nella più dura competizione oceanica del mondo.

La tappa più lunga della regata sarà la quinta, da Auckland in Nuova Zelanda a Itajaí, in Brasile per un totale di 6.776 miglia (corrispondenti a 12,549 km), mentre la più corta sarà l'ottava da Lisbona in Portogallo a Lorient, sulla costa bretone francese di “sole” 647 miglia (1,.98 km).


Hong Kong rilasciato leader diciassettenne, nasce una nuova Tienanmen



La folla di manifestanti nelle strade di Hong Kong continua a crescere. Dal distretto finanziario la protesta ha raggiunto Kowloon e Causeway bay. La polizia usa gas lacrimogeni e spray urticante, e presto arriveranno anche i proiettili di gomma. Non è la fine del mondo, ma si tratta comunque della protesta più imponente organizzata in Cina da quando il movimento per la democrazia di piazza Tienanmen è stato soffocato nel sangue 25 anni fa.

Naturalmente Hong Kong è una realtà molto diversa dal resto della Cina, e la regione non è sottoposta alla stessa dittatura arbitraria che incombe sul resto del paese. Nonostante sia rimasta sotto il controllo del regime comunista di Pechino da quando il Regno Unito ha restituito i suoi territori al governo cinese nel 1997, l’accordo siglato da Londra garantiva che per 50 anni Hong Kong avrebbe mantenuto il suo sistema sociale, inclusi la libertà di espressione e lo stato di diritto.

L’accordo “uno stato, due sistemi” prevedeva inoltre che “la regione amministrativa speciale di Hong Kong” sarebbe diventata più democratica con il passare del tempo. Al momento della partenza dei britannici esisteva già un consiglio legislativo eletto, ma Pechino aveva promesso che entro il 2017  sarebbe stato eletto democraticamente. Attualmente la carica è assegnata da una “commissione elettorale”, formata da 1.200 persone e filocinese.

La verità è che le elezioni libere sono una concessione troppo democratica per il regime cinese, preoccupato che il resto della Cina possa avanzare simili rivendicazioni. Per questo motivo il governo ha deciso di non mantenere la sua promessa. Il mese scorso l’assemblea nazionale del popolo ha dichiarato che a contendersi la poltrona di leader politico potranno essere solo tre candidati, che avranno inoltre bisogno dell’approvazione di una commissione nominata da Pechino.

Li Fei, vicesegretario della commissione cinese che ha redatto la nuova regola, ha dichiarato che l’aumento delle candidature creerebbe una “società caotica” e ha sottolineato che Hong Kong dev’essere governata da una persona che “ama il paese e ama il partito”. Questo tipico approccio comunista ha lasciato ai democratici di Hong Kong solo due alternative: protestare o arrendersi. Oggi per le strade di Hong Kong ci sono migliaia di manifestanti, ma come evolverà la situazione?

La tempistica non è favorevole al movimento filodemocratico di Hong Kong, perché il nuovo leader supremo di Pechino, il presidente Xi Jinping, non può permettersi di fare concessioni.

Da quando è salito al potere due anni fa, Xi ha lanciato una massiccia campagna anticorruzione che gli ha procurato diversi nemici. Almeno trenta alti funzionari (insieme a centinaia di parenti e collaboratori) sono stati indagati o incarcerati. Se la purga si estenderà potrebbero essere arrestati migliaia di funzionari.

La campagna contro la corruzione è assolutamente necessaria, ma incontra una feroce opposizione da parte di quelli che temono di poterne pagare le conseguenze, come la famiglia e i collaboratori degli ex presidenti Hu Jintao e Jiang Zemin. La rabbia nei confronti del governo è alimentata anche dal fatto che la famiglia e i collaboratori del presidente Xi Jinping sono stati magicamente risparmiati dalla purga.

Molti esponenti di spicco della gerarchia comunista sarebbero felici di vedere Xi indebolito o almeno costretto a fermare la sua campagna anticorruzione. Se il presidente si arrendesse alle proteste di Hong Kong, offrirebbe un pretesto ai suoi nemici per schierarsi contro di lui a difesa del monopolio di potere del Partito comunista, e non solo dei loro interessi personali.

Anche un eccessivo uso della forza per sedare la protesta e un eventuale massacro provocherebbero un’ondata di critiche nei confronti di Xi, ma in questo caso gli attacchi arriverebbero solo dall’estero. Come abbiamo constatato ai tempi di piazza Tiananmen nel 1989, i quadri comunisti hanno la tendenza ad appoggiare l’uso della forza per difendere i loro poteri e privilegi.

Per quanto riguarda l’opinione pubblica cinese, gli eventi di Hong Kong sono descritti dai mezzi d’informazione statali come azioni antipatriottiche di persone manipolate dalle potenze straniere. Molti cinesi non credono a questa versione, ma allo stesso tempo non intendono ribellarsi per sostenere il popolo di Hong Kong, che considerano privilegiato e viziato.

Senza dubbio Xi Jinping preferirebbe vincere lo scontro con il movimento democratico di Hong Kong in modo pacifico, ma è pronto a usare tutta la violenza che sarà necessaria per reprimere la protesta. Un bagno di sangue danneggerebbe profondamente le relazioni tra la Cina e il resto del mondo, ma il presidente ha ben chiare le sue priorità.

Intanto il leader degli studenti di Hong Kong, Joshua Wong, 17 anni, è stato rilasciato dopo due giorni trascorsi in prigione. Lo ha annunciato lo stesso Wong in un messaggio su twitter. La magistratura dell'isola oggi ne aveva ordinato la liberazione. Wong era una delle 78 persone fermate nei giorni scorsi, secondo la polizia di Hong Kong.

Il governo cinese è "fermamente contrario ai movimenti illegali" lanciati dagli studenti e dai gruppi democratici di Hong Kong. Lo ha affermato un portavoce a Pechino in un comunicato nel quale si ribadisce anche il "pieno sostegno" di Pechino al governo del territorio. Intanto la polizia di Hong Kong è intervenuta con lanci di lacrimogeni e facendo uso di spray al pepe per disperdere i dimostranti che manifestano per un pieno regime democratico

In un altro tweet una studentessa afferma che Joshua Wong avrebbe detto di stare bene ma di aver perso in una colluttazione con gli agenti durante il suo arresto gli occhiali e le scarpe. Wong era una delle 78 persone fermate nei giorni scorsi, secondo la polizia di Hong Kong. Tra i fermati ci sono anche tre deputati al Legislative Council, il Parlamento di Hong Kong. Secondo gli ultimi tweet che alcuni dei manifestanti riescono a inviare nonostante il blocco di internet imposto dalla polizia nei quartieri centrali di Hong Kong, migliaia di persone sono ancora nelle strade.

Il governo cinese è "fermamente contrario ai movimenti illegali" lanciati dagli studenti e dai gruppi democratici di Hong Kong. Lo ha affermato oggi un portavoce a Pechino in un comunicato. Si ribadisce anche il "pieno sostegno" di Pechino al governo del territorio, che dal 1997 e' una Speciale Regione Amministrativa della Cina.

La polizia di Hong Kong sta cercando di bloccare Internet nella zona di Admiralty, dove sono concentrati i manifestanti pro-democrazia. Lo affermano gli stessi manifestanti su Twitter. Altri sostengono che le vetture della metropolitana hanno cominciato a non fermarsi all'omonima stazione. Admiralty è il quartiere di Hong Kong nel quale si trovano gli uffici del governo locale e la sede del Legislative Council, il Parlamento del territorio. Le foto diffuse indicano che migliaia di persone sono ancora nelle strade.

Pechino però ha voluto mettere dei forti paletti alla libertà con cui i cittadini di Hong Kong potranno eleggere il loro leader, promettendo sì un voto per persona, ma escludendo la possibilità di candidature indipendenti dalla volontà del governo centrale.

Le proteste di questi giorni dunque si incentrano proprio sulla questione della libertà di candidatura, e chiedono a Pechino di ritirare il progetto di riforma presentato al momento, e al governo locale di accettare il dialogo con studenti e manifestanti.

Invece, il Capo dell'Esecutivo di Hong Kong, CY Leung, non ha dato alcun segnale dalla settimana scorsa, quando ha rifiutato di prendere una lettera da parte di una delegazione studentesca, dicendo che la situazione era ''troppo caotica''. Mentre si avvicina la giornata nazionale, celebrata il primo ottobre con parate proprio dove si trova ora il concentramento dei manifestanti, l'intera città assiste con il fiato sospeso agli sviluppi della campagna di disobbedienza civile lanciata per ottenere elezioni libere e aperte.

In due quartieri commerciali di Hong Kong sono in corso scontri tra i manifestanti del movimento Occupy central e i cittadini contrari alla protesta. Questi ultimi stanno smantellando alcune delle barricate con cui da giorni i manifestanti hanno bloccato le strade dei quartieri centrali della città.

Secondo i corrispondenti stranieri non è ancora chiaro se si tratta di commercianti esasperati dall’interruzione delle loro attività o di persone assoldate dalle autorità cinesi per mettere fine alle proteste senza l’intervento della polizia.

I dimostranti contrari alle proteste sono sempre più numerosi e stanno circondando uno degli accampamenti dei manifestanti nel quartiere di Mongkok, dove la situazione sta diventando tesa.


sabato 20 settembre 2014

Gli abitanti del mondo potrebbero arrivare a 11 miliardi nel 2100



La popolazione mondiale crescerà in maniera esponenziale nel prossimo secolo. Un rapporto pubblicato il 18 settembre mostra che c’è una probabilità del 70 per cento che il numero di persone sul pianeta passi dagli attuali 7 miliardi a 11 miliardi nel 2100.

Il rapporto smentisce altri studi precedenti che sostenevano che il picco sarebbe stato raggiunto nel 2050, con circa 9 miliardi di persone, e che poi la popolazione avrebbe cominciato a diminuire.

“Le proiezioni precedenti sostenevano che il problema della sovrappopolazione stava per essere superato”, ha detto Adrian Raftery dell’Università di Washington, che ha guidato la squadra di ricercatori, al Guardian.

L’aumento della popolazione dovrebbe tornare a essere un tema importante del dibattito internazionale perché la sovrappopolazione può essere all’origine di molti problemi globali, sostengono i ricercatori. “La mancanza di assistenza sanitaria, la povertà, l’inquinamento e la criminalità sono tutti problemi legati alla forte crescita demografica”, ha dichiarato Raftery.

“Le politiche di controllo della popolazione sono state abbandonate negli ultimi anni. Se ne è parlato a malapena nelle discussioni sullo sviluppo sostenibile fatte dalle Nazioni Unite”, ha detto Simon Ross, dirigente di un think tank che si occupa della crescita demografica.

“Il significato del nuovo studio è quello di fornire maggiore chiarezza sulla questione. È molto probabile che la popolazione mondiale aumenterà del 40-75 per cento nei prossimi anni”, ha detto Ross.

L’Africa subsahariana è la regione con la più rapida crescita demografica del mondo, con una popolazione che passerà dal miliardo di oggi ai 3,5 o 5 miliardi nel 2100. Dall’inizio del 1980 i tassi di natalità sono diminuiti in molti paesi africani. Ma in paesi come la Nigeria, la nazione più popolosa del continente, il declino si è arrestato quando è stata raggiunta la media di sei figli per donna. Si prevede che la popolazione della Nigeria dovrebbe passare dai 200 milioni di oggi ai 900 milioni entro il 2100.

Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Science. Negli ultimi vent’anni vi era un sostanziale accordo sul fatto che la popolazione mondiale, che attualmente si aggira attorno ai 7 miliardi, avrebbe toccato i nove miliardi per poi livellarsi, se non scendere, ha spiegato uno degli autori, Adrian Raftery, professore di statistica e di sociologia all’Università di Washington. Noi abbiamo calcolato invece che vi e’ il 70% delle probabilita’ che la popolazione mondiale non si stabilizzerà in questo secolo, ha aggiunto.

Secondo il nuovo Rapporto UNICEF “Generazione 2030 Rapporto Africa” alti tassi di fertilità e un numero crescente di donne in età riproduttiva faranno si’ che, nel corso dei prossimi 35 anni, quasi due miliardi di bambini nasceranno in Africa; la popolazione del continente raddoppierà; la sua popolazione sotto i 18 anni aumenterà di due terzi per raggiungere quasi un miliardo di bambini.

Tra le più importanti novità che emergono dal rapporto: il massiccio spostamento della popolazione infantile mondiale verso l’Africa. Le proiezioni indicano che entro il 2050, circa il 40% di tutte le nascite, e circa il 40% di tutti i bambini, avverranno in Africa.

Secondo il rapporto dell’UNICEF, un aumento previsto senza precedenti delle dimensioni della popolazione infantile dell’Africa puo’ dare ai politici una opportunità – una volta-in-una-generazione – per realizzare una strategia di investimento sull’infanzia, che consenta al continente e al mondo di raccogliere i frutti della transizione demografica.

“Questo rapporto deve essere uno stimolo per il dialogo globale, regionale e nazionale sui bambini dell’Africa”, ha detto Leila Gharagozloo-Pakkala, Direttore Regionale dell’UNICEF per l’Africa orientale e meridionale. “Investendo ora sui bambini- nella loro salute, istruzione e protezione – l’Africa potrebbe rendersi conto dei benefici economici sperimentati in precedenza da altre regioni e paesi che hanno subito simili cambiamenti demografici”.

Mentre i tassi di sopravvivenza infantile sono migliorati in tutta l’Africa, il continente ha ancora circa la metà delle morti infantili a livello globale, e la percentuale potrebbe salire a circa il 70% entro il 2050. Il Rapporto rileva che tre bambini africani su 10 vivono in contesti fragili e di conflitto, e che quasi il 60% degli africani potrebbero vivere in città entro il 2050. Il Rapporto sottolinea la situazione della Nigeria, che ha già il maggior numero di nascite nel continente, e che entro il 2050 avrà quasi una nascita su 10 a livello globale.

Un programma basato sull’equità e politiche per l’infanzia aiuteranno a determinare se i bambini africani possono trasformare il continente e rompere il circolo vizioso della povertà e della disuguaglianza, ha detto Manuel Fontaine, Direttore regionale UNICEF per l’Africa occidentale e centrale. “Tuttavia – ha spiegato -, se gli investimenti sull’infanzia dell’Africa non rappresentano la priorità, il continente non sarà in grado di trarre pieno vantaggio dalla sua transizione demografica nei prossimi decenni. Senza politiche eque e inclusive, il ritmo di crescita della popolazione potrebbe potenzialmente minare i tentativi di sradicare la povertà e aumentare le disparità”.

mercoledì 17 settembre 2014

Scozia al voto: indipendenza si o indipendenza no?




«We are in England, not in Scotland». Nei pub inglesi, quando scocca la campanella che annuncia la chiusura, spesso fa eco questo brindisi. Segno che elementi di nazionalismo sono ancora forti nel Regno Unito. E ora arriva un test importante. È infatti scattato il conto alla rovescia per il futuro di Scozia, Inghilterra e Regno Unito.

Gli unionisti sono in vantaggio, ma il risultato del referendum sull’indipendenza scozzese resta molto aperto. Sono questi i dati portati dagli ultimi sondaggi a poche ore dal voto, previsto per il 18 settembre. Secondo diversi esperti la situazione è too close to call, cioè troppo incerta per azzardare un pronostico.

Nelle prime ore del mattino di venerdì 19 settembre si sapranno i risultati definitivi del referendum sull’indipendenza della Scozia. La consultazione popolare, concordata tra il governo regionale scozzese e l’esecutivo guidato da David Cameron, potrebbe portare alla storica disgregazione della Gran Bretagna. La Scozia è entrata nel Regno Unito nel 1707, e da allora la sua storia si è unita a quella dell’Inghilterra. Stesso sovrano, stesso Parlamento, stessa moneta e così via. Il sentimento di autonomia non si è mai sopito, tanto che l’allora premier Tony Blair decise di “addormentarlo” concedendo una piuttosto significativa devoluzione di poteri. La devolution di poco meno di vent’anni fa non ha però fermato la lotta per l’indipendentismo, ed ora, a pochi giorni dal voto dal referendum la Scozia potrebbe davvero smettere di fare riferimento a Downing Street.

I quotidiani Süddeutsche Zeitung, Bild Zeitung così come l’edizione tedesca del Wall Street Journal analizzano la progressiva affermazione di Yes Scotland. Secondo queste valutazioni emergono alcuni fattori decisivi. Il primo è la campagna elettorale, che sta spostando gli indecisi verso le ragioni del sì. I promotori dell’indipendenza hanno scelto toni moderati, basati sul desiderio di una maggiore autonomia decisionale e non sulla contrapposizione frontale con Londra. La campagna del no ha invece dipinto scenari catastrofici che non hanno convinto particolarmente, nonostante l’iniziale consenso maggioritario verso la permanenza del Regno Unito. La ripresa del sì nei sondaggi è favorita dalla grande popolarità di Alex Salmond, primo ministro della Scozia e leader dello Scottish National Party. Salmond ha proposto una tipologia di indipendentismo contemporaneo, distante dagli stereotipi del passato, e vicino all’orientamento socialdemocratico della maggior parte della popolazione. Il primo ministro è riuscito a convincere che le prestazioni sociali fornite dal Welfare britannico non cambieranno, e questo ha rassicurato una significativa fetta di elettorato. La Scozia è tradizionalmente dominata dai laburisti, e la presenza di un governo conservatore a Londra favorisce ulteriormente il distacco.

Già qualche giorno fa, per il fronte del «no», era scattato l’allarme. Un precedente sondaggio YouGov accreditava infatti i secessionisti di un 47% dei consensi, a soli tre punti dalla soglia magica della metà più uno. Ora l’ultimo sondaggio è chiaro: sarà battaglia all’ultimo voto. «Ho sempre pensato che potessimo vincere, i sondaggi sono molto incoraggianti», ha dichiarato Salmond, capo del governo di Edimburgo e portabandiera del vessillo scozzese con la croce di Sant’Andrea. Il leader indipendentista racconta entusiasta di «code per registrarsi nelle liste elettorali». Secondo le rilevazioni YouGov, nell’ultimo mese i secessionisti hanno guadagnato più di 10 punti, grazie pare agli elettori laburisti:quelli favorevoli all’indipendenza sono passati in poche settimane dal 18% a oltre il 30%.

«Il nostro atteggiamento non cambia, conta il voto nel referendum» ha continuato a ripetere in questi giorni il premier britannico David Cameron, assicurando di non essere intenzionato a dimettersi neanche in caso di sconfitta. Ma si sa che è preoccupato. Come preoccupata è la City londinese. La banca d’affari Goldman Sachs ha parlato di «conseguenze seriamente negative» per entrambe le economie, quella scozzese e quella britannica. E la sterlina scende giù: mercoledì ha registrato la seduta peggiore degli ultimi sette mesi.

Trema la sterlina, al quinto ribasso di fila. Cosa succede se la Scozia esce dal Regno Unito? Quale scenario per l'Eurozona?

«Le esportazioni di petrolio della Scozia sostengono la bilancia commerciale del Regno Unito. In caso di uscita della Scozia dal Regno Unito ci sarebbe quindi un impatto sfavorevole sulla bilancia commerciale del Paese. Si stima che il deficit commerciale sul Pil del nuovo Regno Unito (dopo l'uscita della Scozia) aumenterebbe del 2/3% - sostiene Maria Paola Toschi, market strategist di Jp Morgan asset management - . Per questo motivo l'uscita della Scozia dal Regno Unito avrebbe un impatto sulla sterlina negativo. Per questo il cancelliere Osborne sta accelerando i tempi per annunciare misure per garantire maggiore indipendenza alla Scozia in termini di tasse, sanità e mercato del lavoro. L'obiettivo è scoraggiare l'uscita della Scozia, che avrebbe implicazioni sfavorevoli per l'economia del Regno Unito. Tuttavia questo tentativo di riforma sembra un po' tardivo».

Per Matteo Paganini, chief analyst di Fxcm Italia «la sterlina sta scontando i sondaggi attuali con un'apertura in gap ribassista di 150 punti contro il dollaro americano (che ha trascinato tutte le sterline a ribasso) e potrebbe soffrire ulteriormente nei prossimi 10 giorni se i sondaggi dovessero mostrare degli ampliamenti della forbice tra separatisti ed unionisti. In caso di referendum a favore di una scissione potremmo assistere a nuove discese della sterlina nel breve termine, in un tipico movimento da "buy the rumor, sell the news" dove si va a scontare la possibile uscita della Scozia dal Regno Unito prima che avvenga e per poco tempo dopo la conferma del fatto. Dal momento in cui la BoE deciderà di rialzare i tassi di interesse è possibile che la sterlina torni a macinare terreno nei confronti del dollaro e delle altre major».

Ora i mercati prezzano l'incertezza, in caso di uscita della Scozia la sterlina potrebbe perdere il 10%. È il parere di Vincenzo Longo, strategist di Ig: «In questo momento, la sterlina sta prezzando uno scenario di piena incertezza sull'esito del referendum. Questo ci induce a pensare che, se nel corso dei prossimi giorni i "sì" dovessero guadagnare consensi probabilmente la sterlina continuerà a perdere inesorabilmente terreno. Una vittoria dei "sì" potrebbe penalizzare la sterlina e riportarla sui minimi del 2013, con un deprezzamento dai livelli attuali di circa l'8-10%. Sebbene quello scozzese sia stato da sempre il fronte più secessionista nei confronti di Londra, gli investitori potrebbero scontare che anche altre nazioni, come il Galles e l'Irlanda del Nord possano procedere alla separazione».

Di certo la volatilità fino al 18 settembre sarà alta. «La sterlina è destinata a rimanere sotto pressione nel breve termine, in vista del voto del 18 settembre voto. I periodi di crescente volatilità sono stati storicamente negativi per il valore della sterlina e la recente volatilità elevata nella valuta rischia di indurre ulteriore debolezza», afferma Martin Arnold, Senior research analyst di Etf Securities.

Dello stesso parere Regina Borromeo, portfolio manager di Brandywine (gruppo Legg Mason): «Il risk premium legato alla sterlina rispetto alle altre principali valute aumenterà. Mentre i dati economici hanno dimostrato una forte elasticità, le ripercussioni politiche e l'incertezza causeranno volatilità e preoccupazione».

«Se se vincesse il sì all'indipendenza potrebbe deprezzarsi ulteriormente. La Gran Bretagna perderebbe l'8% della popolazione e il 32% del territorio. La Scozia, con un'economia di 150 miliardi di sterline, contribuisce per il 10% all'intera economia britannica e, senza considerare l'industria petrolifera, l'8,2% di tasse - spiega Luciano Turba, consigliere Assiom Forex -. La moneta sarebbe più debole e le mancate entrate fiscali del petrolio inciderebbero in maniera negativa sul deficit dello Stato. Oltretutto la popolazione scozzese è meno sana e con aspettative di vita meno lunghe rispetto a quella inglese e ciò potrebbe far salire le spese per la sanità pubblica».

Per Aurelija Augulyte, Senior Fx strategist di Nordea «in caso di voto favorevole, ci aspettano mesi, se non anni di incertezze sulla spartizione del fardello fiscale, elezioni, uscita dall'Unione europea.. e l'incertezza è esattamente il rischio principale per la sterlina: alla luce della situazione attuale, ogni ulteriore aumento della volatilità nel forex aiuterà il rapporto euro/sterlina. Il governo scozzese ha dichiarato a fine giugno che la soluzione preferita per la valuta sarebbe la sterlina unica. Tuttavia il governo britannico ha escluso questa opzione. L'economia scozzese è strettamente legata a quella del Regno Unito e due terzi delle esportazioni va verso il Regno Unito. Crediamo quindi che la decisione più probabile in caso di indipendenza sia l'introduzione di una nuova moneta».

Le ipotesi sul piatto sono varie: dal mantenimento della sterlina (ma con negazione dei debiti) fino all'introduzione di una nuova valuta. «Ci sono quattro possibili opzioni: una sterlina unica con accordo formale o nessun accordo formale con il resto del Regno Unito, l'adesione all'euro o l'introduzione di una nuova moneta scozzese - afferma Augulyte -. Se avessimo una nuova valuta scozzese, il vaso di Pandora si scoperchierebbe: la possibilità di avere più valute anche nell'Eurozona aumenterebbe. Positivo per la volatilità, per le banche europee e per gli strategist del forex.

«È possibile che si continui ad utilizzare la sterlina in ottica di un mini sistema "moneta unica britannica" ma crediamo che questo comporti dei rischi enormi per il nuovo Paese - continua Paganini.

La lungimiranza degli scozzesi, se dovessero effettivamente decidere di staccarsi dalla Gran Bretagna probabilmente li porterà a decidere l'adozione di una valuta domestica dopo qualche anno, nel caso in cui i negoziati sulle proprietà dei pozzi petroliferi dovessero, come crediamo, assegnare oltre il 90% dei diritti alla stessa Scozia».

« Il partito nazionalista scozzese, lo Scottish National Party, ha fatto sapere che rifiuterà di farsi carico dei debiti della Gran Bretagna se non sarà consentito alla Scozia ancora l'utilizzo della sterlina in caso di vittoria dei "si" - indica Longo -. Quello della valuta rimane un tema di forte scontro che potrebbe richiedere un lungo periodo di mediazione tra le parti coinvolte».

Toschi sottolinea che «gli stessi indipendentisti propongono una valuta alternativa che sarebbe probabilmente più forte della sterlina inglese, proprio perché godrebbe della solidità della bilancia commerciale della Scozia, sostenuta dalle esportazioni di petrolio. Alcuni si spingono a pensare alla creazione di una speciale unione valutaria tra le due sterline, inglese e scozzese. Tuttavia è ancora difficile fare valutazioni su queste questioni tecniche».

«Questo costituisce il punto più controverso: la Scozia vorrebbe continuare ad usare la sterlina, ma la Gran Bretagna probabilmente userebbe questo come leva politica per una situazione che diverrebbe decisamente ingarbugliata - spiega Turba -. Per i nazionalisti, una Scozia sovrana potrebbe finalmente utilizzare i proventi derivanti dal petrolio per investire nello stato sociale. Il petrolio garantirà entrate fiscali pari a 57 miliardi di sterline entro il 2018 e sarà estraibile per altri 30-40 anni, assicurano gli indipendentisti. E il fracking nel Mare del Nord potrebbe aumentare la quantità di greggio recuperabile. D'altra parte però, se la Scozia continuasse ad utilizzare la sterlina si troverebbe con una moneta che dipende da decisioni prese a Londra».

C'è il rischio di una grande crisi economica per la Gran Bretagna o addirittura di una "nuova depressione" nel caso in cui la Scozia conquisti l'indipendenza nel referendum del 18 settembre. Lo riporta il Daily Telegraph, che cita le stime degli analisti di CrossBorder Capital e Deutsche Bank. La prima, banca d'investimenti di Londra, ha rilevato che ad agosto c'è stata una fuga di capitali dal Regno Unito pari a 16,8 miliardi di sterline, il dato peggiore dal collasso di Lehman Brothers.

venerdì 12 settembre 2014

CIA: i combattenti dello Stato islamico sono tra 20 e 31mila



Prima valutazione era di 10.000: reclutamento intenso da giugno. Lo Stato islamico conta tra i suoi ranghi in Siria e Iraq tra 20.000 e 31.500 combattenti: è questa la nuova stima fatta dalla Cia, la cui valutazione precedente era di circa un terzo di jihadisti membri dell’Isis.

La Cia stima che lo Stato islamico conta tra 20.000 e 31.500 combattenti in Iraq e Siria, basandosi su un nuovo studio dei rapporti di tutte le fonti dei servizi di intelligence tra maggio e agosto, ha dichiarato Ryan Trapani, uno dei portavoce dell’agenzia Usa. “Questo aumento si spiega in seguito ai maggiori successi del gruppo sul campo di battaglia da giugno del 2014 e la proclamazione di un califfato. Ma anche con maggiore attenzione da parte dell’intelligence”, ha aggiunto.

L’intelligence Usa attribuisce questo incremento a un reclutamento più energico dal mese di giugno scorso, dopo le vittorie ottenute sul terreno e la proclamazione del califfato nonché a un’attività più intensa nei combattimenti.

Un portavoce dei servizi segreti statunitensi ha dichiarato che la nuova stima è basata su una revisione degli studi fatti dall’intelligence da maggio ad agosto.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama il 10 settembre ha annunciato l’espansione dei raid aerei statunitensi in Iraq e Siria.

Intanto il segretario di stato statunitense John Kerry è in visita ufficiale in Turchia per cercare alleati nella guerra contro i jihadisti.

Secondo funzionari statunitensi, il generale in pensione John Allen avrà il compito di formare le milizie che combatteranno contro il gruppo terroristico.

L’11 settembre dieci paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita, hanno accettato di aiutare gli Stati Uniti contro lo Stato islamico sia in Iraq sia in Siria.

Il 10 settembre il presidente Obama ha delineato un piano per “degradare e distruggere” lo Stato islamico. Per la prima volta Obama ha autorizzato attacchi aerei contro il gruppo in Siria.

Vediamo le tappe e le date significative dell’avanzata delle milizie dell’Isis, ultra-radicali islamiche, che controllano vaste zone della Siria e dell’Iraq, dove sono accusate di commettere atroci violenze.

2013.
9 aprile: Il leader del principale gruppo legato ad Al Qaeda in Iraq, Abu Bakr al Baghdadi, annuncia l’unione di intenti tra il suo Stato Islamico dell’Iraq e del Fronte al Nusra (un gruppo che combatte il regime del presidente siriano Bashar al Assad, e forma lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil o Isis). Un giorno dopo, il Fronte al Nusra – ai piu’ sconosciuto prima della rivolta scoppiata in Siria nel marzo 2011 – giura fedelta’ al leader di Al Qaeda Ayman al Zawahiri, ma prende le distanze dalla notizia della fusione con lo Stato Islamico dell’Iraq.

19 dicembre: Amnesty International accusa l’Isis di sequestrare, torturare e uccidere detenuti in carceri segreti nelle aree sotto il suo controllo in Siria.

2014.
2-4 gennaio: L’Iraq perde il controllo di Fallujah e di parti di Ramadi nella provincia occidentale di al Anbar, conquistati dai guerriglieri dell’Isis e da componenti di tribù sunnite anti-governative.

3 gennaio: Tre gruppi di ribelli siriani uniscono le forze per uccidere e catturare decine di combattenti dell’Isis, che accusano di crimini ben peggiori di quelli dell’inviso presidente siriano. Circa 6mila vittime il bilancio dei mortali combattimenti tra Isis e ribelli, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh).

14 gennaio: L’Isis conquista la sua roccaforte, la città siriana di Raqa, dopo giorni di violenti combattimenti con ribelli rivali per la capitale della provincia settentrionale. E’ in seguito accusato di aver instaurato un regime del terrore nelle sue roccaforte come Raqa, dove impone la sua personale ed estremistica interpretazione dell’islam, con arresti, lapidazioni e decapitazioni.

3 febbraio: Al Qaeda disconosce l’Isis. Al Zawahiri aveva già ordinato al gruppo nel 2013 di sciogliersi e ritornare in Iraq, annunciando che il Fronte al Nusra rappresentava il ramo ufficiale in Siria di Al Qaeda.

9 giugno: In Iraq, inizia una devastante offensiva di centinaia di guerriglieri jihadisti, appoggiati da fedelissimi dell’ex dittatore Saddam Hussein, gruppi salafiti e alcune tribu’: si impadroniscono di vaste zone del territorio iracheno. Avanzano inoltre verso la regione autonoma del Kurdistan nel nord dell’Iraq, cacciando dalle proprie citta’ miglira di membri delle minoranze cristiane e yazidi di lingua curda.

29 giugno: L’Isis proclama un “califfato islamico che si estende da Aleppo, nel nord della Siria, alla provincia di Diyala, nordest di Baghdad. Si da’ una nuova denominazione, Stato Islamico (Is, anche se molti continueranno a chiamarlo Isis), dichiara “califfo” e “leader dei musulmani di tutto il mondo” il suo capo Baghdadi. La maggior parte dei movimenti islamisti in Siria respinge questa iniziativa.

8 agosto: I caccia statunitensi bombardano le posizioni jihadiste nel nord dell’Iraq, la prima operazione militare americana nel Paese dal ritiro delle truppe americane, nel 2011. Da allora Washington sferra raid aerei quotidiani e annuncia la fornitura di armi ai peshmerga curdi, come la Francia e l’Italia.

15 agosto: Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta all’unanimità una risoluzione mirata a indebolire le milizie jihadiste bloccando loro fondi e afflusso di combattenti stranieri.

19 agosto: L’Isis annuncia la decapitazione del giornalista americano James Foley, rapito nel 2012 nel nord della Siria, e minaccia di uccidere un suo connazionale in rappresaglia agli attacchi aerei americani in Iraq. Il giorno successivo, il presidente Barack Obama definisce l’Isis “un cancro” che “non puo’ trovare posto nel 21esimo secolo”.

2 settembre: L’Isis annuncia di aver decapitato un altro reporter americano, Steven Sotloff, in un video che come il precedente su Foley scatena lo sdegno e la condanna di tutto il mondo. Il gruppo minaccia anche questa volta di uccidere un ostaggio britannico, identificato come David Cawthorne Haines. La Casa Bianca giudica entrambi i video “autentici”. Washington comunica l’invio di altri 350 militari in Iraq.

3 settembre: Obama assicura che gli Stati Uniti non si faranno intimidire dall’Isis.

domenica 7 settembre 2014

Al Qaeda annuncia la sua espansione in India



Il leader di Al Qaeda Ayman al Zawahiri ha annunciato l’espansione di Al Qaeda in India.

Al Zawahiri ha chiesto ai musulmani indiani di unirsi “alla carovana della jihad”. In un video di 56 minuti, diffuso su internet, il leader di Al Qaeda ha dichiarato la sua fedeltà al mullah Omar, il leader dei taliban afghani e ha criticato lo Stato islamico. Il gruppo terroristico che ha la sua base in Siria e Iraq sta infatti minacciando l’influenza e la leadership di Al Qaeda.

Al Zawahiri guida Al Qaeda dalla morte di Osama bin Laden nel 2011 e ha ribadito che il gruppo è ancora fedele al messaggio di Bin Laden che faceva appello “all’unità transnazionale di tutti i musulmani contro il nemico, per liberare le terre occupate e creare un nuovo califfato”.

Il leader di Al Qaeda ha indicato il Pakistan, la Birmania, il Bangladesh, il Gujarat, il Kashmir e l’Assam come nuovi territori di influenza di Al Qaeda.

Al Qaeda si sente minacciata dallo Stato islamico che ha occupato alcune aree d’influenza storiche del gruppo terroristico come l’Iraq e sta drenando risorse economiche e armi.

Il riferimento al califfato, fatto da Al Zawahiri, è una risposta alla dichiarazione del leader dello Stato islamico Abu Bakr al Baghdadi che si è proclamato il capo di un nuovo califfato e ha chiesto la fedeltà di tutti i musulmani nel mondo. Abu Bakr al Baghdadi ha rotto con Al Qaeda nel 2013 quando ha rifiutato di ritirarsi dalla Siria.

In India vivono il 15 per cento dei musulmani di tutto il mondo, si tratta di 175 milioni di persone. Il nuovo leader di Al Qaeda nel subcontinente è Maulana Asim Umar. Umar ha chiesto ai musulmani indiani di concentrarsi sulla jihad in Kashmir, la regione dell’India contesa tra New Delhi e Islamabad.

Il nuovo premier Narendra Modi è un obiettivo per i jihadisti. Modi è accusato di aver incoraggiato e sostenuto le violenze contro i musulmani del Gujarat nel 2002 e in quell’occasione morirono circa mille musulmani.

Lo Stato Islamico sta ormai per soppiantare Al-Qaeda al vertice delle organizzazioni terroristiche della jihad internazionale, grazie alla sua potenza militare, alla radicalità delle sue posizioni e alla capacità di utilizzare i moderni mezzi di comunicazione. Secondo il parere di molti analisti, assumendo il controllo del territorio a cavallo della frontiera fra Siria e Iraq e proclamando la creazione di un califfato, l’IS ha riportato successi mai raggiunti dal movimento fondato da Osama Bin Laden.

La conquista della città di Mosul ha consentito ai membri dell’IS di mettere le mani su un tesoro di guerra da centinaia di milioni di dollari e su un arsenale degno di un esercito moderno. La vittoria, celebrata su tutti i social network, non e’ stata tuttavia salutata con favore dai leader di Al-Qaeda e la maggior parte dei movimenti jihadisti che avevano annunciato la loro adesione alla Rete di Bin Laden per il momento hanno rifiutato di unirsi al califfato proclamato dal leader dello Stato Islamico, Abu Bakr Al-Baghdadi. Ma i successi militari ottenuti dall’IS in Iraq e Siria potrebbero cambiare le carte in tavola.

“Lo Stato Islamico e’ già riuscito a imporre al mondo intero il suo nome, malgrado non sia uno stato ma una macchina da guerra e che la sua vocazione totalitaria minacci tutti i musulmani”, dice Jean-Pierre Filiu, professore di Sciences Po, l’istituto di studi politici di Parigi. “Questa ambizione senza frontiere da parte di uno Stato islamico e’ particolamente attraente per i nomadi della globalizzazione, individui dall’identità’ insicura che si rivolgono al califfato autoproclamato. Il capo dello Stato islamico festeggia le vittorie militari e sembra in grado di mettere in difficoltà il mondo intero, mentre Zawahiri, il successore di Bin Laden alla guida di Al-Qaeda, parla in video e non suscita più interesse al di la’ di una ristretta cerchia”.