mercoledì 27 novembre 2013

Nucleare Iran accordo tra le potenze del 5+1



"L'accordo raggiunto a Ginevra sarà un aiuto per salvaguardare la pace e la stabilità in Medioriente". E' il commento sull'intesa nucleare tra il gruppo 5+1 e l'Iran del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi. "Apprezziamo il raggiungimento di un accordo e la flessibilità e il pragmatismo di quanti lo hanno reso possibile", ha aggiunto il ministro.

In base ai termini dell'accordo di Ginevra, l'Iran si è impegnato a interrompere l'arricchimento dell'uranio sopra il 5%, a non aggiungere altre centrifughe e a neutralizzare le sue riserve di uranio arricchito a quasi il 20%, mentre le maggiori potenze non imporranno per i prossimi sei mesi sanzioni a Teheran. Lo rende noto la Casa Bianca.

''Questo accordo è un primo importante passo e apre il tempo e lo spazio per andare avanti con nuovi negoziati e raggiungere entro sei mesi un accordo generale''. Lo ha detto il presidente americano Barack Obama commentando a caldo lo storico accordo raggiunto a Ginevra tra il gruppo 5+1 e l'Iran. Il presidente americano Barack Obama ha chiesto ufficialmente, in diretta tv, al Congresso di non imporre nuove sanzioni contro Teheran, che ''potrebbero far saltare questa intesa di Ginevra, che e' un primo passo promettente''.

L'accordo di Ginevra e' "un primo passo che rende il mondo più sicuro. Ora c'e' ancora da lavorare". E' il primo commento su Twitter del segretario di Stato americano John Kerry all'accordo raggiunto a Ginevra.

L'accordo raggiunto a Ginevra con l'Iran rappresenta "un errore storico". "Il mondo e' oggi piu' pericoloso". Lo ha affermato, secondo Haaretz, il premier israeliano Benyamin Netanyahu, aprendo la seduta settimanale del consiglio dei ministri.

Il presidente russo Vladimir Putin ha definito l'accordo di Ginevra sul nucleare iraniano, "un'apertura", "un primo passo in un cammino lungo e difficile". Nel comunicato del Cremlino si aggiunge che i negoziati hanno consentito di avvicinarsi alla soluzione di uno dei problemi "più difficili della politica mondiale". Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov si è complimentato per l'accordo siglato a Ginevra sul nucleare in Iran."Non ci sono perdenti, tutto il mondo ci guadagna", ha dichiarato Lavrov.



Iulia Timoshenko compleanno in sciopero della fame



La leader dell'opposizione ucraina compie 53 anni all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata in stato di detenzione da maggio 2012.

Iulia Timoshenko compie oggi 53 anni e lo fa in sciopero della fame all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata in stato di detenzione dal maggio dell'anno scorso per curare un'ernia del disco. Alla leader dell'opposizione ucraina dal controverso passato di 'principessa del gas' è stato regalato un mazzo di rose bianche dalla figlia Ievghenia e dal suo avvocato, Serghei Vlasenko. Secondo un comunicato del partito 'Patria', di cui Timoshenko è leader, alcuni sostenitori dell'ex premier si sarebbero riuniti vicino all'ospedale per cantare alla loro beniamina una canzone di buon compleanno. Timoshenko ha annunciato uno sciopero della fame lunedì scorso in solidarietà con i manifestanti pro-Ue che sono scesi in piazza in questi giorni contro la decisione del governo di Kiev di sospendere la firma di un accordo di associazione e libero scambio con l'Ue.

La Timoshenko da due giorni non mangia e beve solo acqua, "ma è molto forte nello spirito, come sempre". Ad affermarlo è la figlia, Ievghenia, che stamattina le ha fatto visita all'ospedale di Kharkiv, dove è ricoverata da un anno e mezzo per un'ernia del disco. "E' in sciopero della fame - ha confermato la giovane, citata dall'agenzia Interfax - e da due giorni beve solo acqua. Pensa che gli eventi di piazza Maidan (centro della manifestazione pro-Ue, ndr) siano i più importanti e che lo sciopero della fame sia tutto ciò che può fare per esprimere la sua solidarietà con Maidan".

Tanti fiori e un’icona in dono a Yulia Tymoshenko nel giorno del suo compleanno, e con uno sciopero della fame in corso per chiedere che il suo Paese firmi l’Accordo di associazione con l’Ue. Per l’occasione, riferisce Interfax-Ukraina, all’ex eroina della Rivoluzione arancione è stato permesso di incontrare i suoi avvocati, tre legali, che le hanno consegnato un grande biglietto augurale firmato da un gruppo di sostenitori riunitisi davanti alla clinica di Kharkiv dove si trova Tymoshenko.

La figlia Eugenia ha confermato che l’ex premier continua lo sciopero della fame e “sta bevendo (solo) acqua da due giorni”. Rifiutare il cibo, ha spiegato, è per lei “il solo modo” per unirsi alle proteste di quanti sono scesi in piazza in questi giorni per chiedere che il presidente Viktor Yanukovich firmi l’accordo con l’Ue e si sganci definitivamente dall’orbita russa. Tymoshenko è ricoverata in un ospedale di Kharkiv per un’ernia mentre sconta una pena detentiva di sette anni per abuso di potere. La sua liberazione o il suo trasferimento per cure all’estero figurano tra le condizioni che l’Ue ha posto per la firma dell’Accordo, la cui firma sarebbe dovuta arrivare al vertice di Vilnius al via domani.

venerdì 22 novembre 2013

Jfk 50 anni dopo restano tanti misteri ma una certezza



Il 26 settembre 1960, va in scena il primo duello televisivo fra i candidati alla Casa Bianca. Il senatore democratico John F. Kennedy sfida il vicepresidente in carica Richard Nixon. John Fitzgerald Kennedy è stato il 35 Presidente degli Stati Uniti. Da questo dibattito sospinse Kennedy alla Casa Bianca, che travolse Nixon e trasformò le democrazie occidentali in teledemocrazie.

Kennedy si lancia in una arringa anti comunista e anti sovietica che porta gli echi di quel maccartismo ancora caldo sotto la cenere degli anni ' 50. Per due volte nei primi tre minuti nomina e attacca Nikita Kruscev, che eraa New Yorke pochi giorni dopo, in ottobre, avrebbe offerto lo show della scarpa pestata sui banchi dell' Onu, come l' avversario mortale, quello che stava progettando di "distruggerci".

Prima dell'attacco alle Torri Gemelle del settembre 2001, il fatto che segnava la storia degli Stati Uniti in epoca moderna, quello che veniva individuato un prima e un poi nella coscienza degli statunitensi, era stata l'uccisione di John Fitzgerald Kennedy.

Quel sangue versato a Dallas il 22 novembre del 1963 fece piangere un'intera Nazione e segnò la fine di un'epoca innocente e fiduciosa.

Chi ha ucciso Jfk il 22 novembre del 1963 a Dallas? Un assassino solitario o una squadra di tiratori esperti parte del complotto più inquietante del secolo scorso? La diatriba va avanti orami da 50 anni: poche ore dopo la morte del presidente statunitense le opposte teorie già animavano il dibattito dei contemporanei.

Impossibile affidarsi a una ricostruzione "ufficiale": nel 1964 la Warren Commission, costituita per indagare sul delitto, arrivò a concludere che Kennedy era stato ucciso da un "lone wolf", Lee Harvey Oswald, un ragazzo di 24 anni con un passato nei Marine e una diserzione in Urss, conclusasi con il rientro negli Stati Uniti nell'estate del 1962, accompagnato da una moglie e una figlia, Marina e June.

Ma nel 1976 venne costituito un altro comitato, House Selected Committee on Assassinations (Hsca), per fare luce non solo sul delitto di Jfk e sugli omicidi di Martin Luther King (aprile 1968) e del fratello del presidente, Robert F. Kennedy (giugno '68), ma anche sui tentativi firmati Cia per assassinare leader stranieri considerati nemici, come Patrice Lumumba in Congo e Fidel Castro a Cuba. Il comitato concluse che a Dealey Plaza quel 22 novembre del 1963 erano in azione almeno due tiratori. L'Hsca, nel suo rapporto del 1979, criticò aspramente Fbi, Cia e la stessa Warren Commission per la ''superficialità a tratti inquietante" con cui era stata condotta l'inchiesta.

Sappiamo dalle parole dello storico Michael Benschloss che la sera del 22 novembre Kennedy avrebbe pronunciato parole che suonerebbero attuali ancor oggi: «Il nostro dovere non è solo la conservazione del potere politico, ma la protezione della pace e della libertà. Non litighiamo fra di noi, ma uniamoci con rinnovata fiducia, decisi che questo nostro Paese che amiamo continui a guidare l'umanità verso nuove frontiere di pace e abbondanza».

Il rapporto finale del 1979 è stato tuttavia aspramente criticato dai sostenitori della teoria dell'assassino solitario, che ne hanno evidenziato lacune e contraddizioni. Anche dal fronte dei 'complottisti', che accusa la Warren Commission di essere parte integrante del complotto per uccidere Kennedy, sono partite sonore bordate: la Hsca ha infatti sposato la teoria dei due tiratori senza arrivare a conclusioni chiare, tanto che nel rapporto finale si legge che "la presenza di due killer non comporta necessariamente l'esistenza di un complotto per uccidere il presidente". Nel mondo dei ricercatori soprattutto americani prevale poi una terza teoria, fatta propria da Oliver Stone nel suo "Jfk" del 1991: a Dealey Plaza erano in azione tre squadre, i colpi sparati furono almeno sei.

Nel corso degli anni, la declassificazione dell'enorme documentazione sul caso, sono milioni le pagine top secret rese accessibili al pubblico, ha rivelato sempre maggiori dettagli, che però non hanno consentito di scrivere la parola fine. Da ultimo è emerso che le pallottole sparate a Dallas, del calibro 6.5 come il fucile italiano Carcano che si ritiene sia stato usato quel giorno, erano state prodotte in Usa nel 1954, per "conto della Cia" stimò l'Fbi. Spedite all'estero, secondo il ricercatore Donald B. Thomas per "un golpe progettato in Italia", vennero reintrodotte sul mercato americano dalla ditta di un certo William Sucher. La stessa azienda aveva reimportato in America il revolver Smith&Wesson trovato indosso a Oswald al momento dell'arresto. L'ennesima prova, affermano i 'complottisti', che l'ex Marine aveva legami con i servizi segreti americani e che, come dichiarò lo stesso Oswald, era un "patsy", un capro espiatorio. Una pedina, in mano a chi? Alla Cia, all'Fbi, all'intelligence sovietica, a Castro, o al complesso "militare-industriale" Usa che vedeva in Jfk un nemico? Il mistero resta fitto.

Alcuni libri  propongono nuove spiegazioni sullla figura del presidente. Larry Sabato, ad esempio, in "The Kennedy Half Century" spiega come sia stato l'assassinio a plasmare l'immagine di Kennedy nella memoria e nella coscienza del Paese. Robert Dallek torna a visitare la vita alla "Camelot's Court", nella Casa Bianca di John e Jackie. Clint Hill, l'agente della scorta presidenziale che balzò sul retro dell'auto subito dopo il primo sparo, ricostruisce in "Five Days in November" l'infausto viaggio in Texas e i giorni immediatamente seguenti, con un'immagine mai conosciuta prima: Jackie che chiama Hill nel mezzo della notte per farsi accompagnare a pregare sulla tomba del marito al cimitero di Arlington, con il silenzio e il buio che l'avvolgono come un manto di dolore.

mercoledì 20 novembre 2013

Ipotesi di una nuova mappa per gli stati arabi



Un articolo e una mappa pubblicati dal New York Times il 29 settembre 2013 prendevano in considerazione la possibilità che i conflitti e le rivolte in corso potessero provocare la frammentazione di alcuni stati arabi in unità più piccole.

L’articolo di Robin Wright, ex corrispondente a Beirut ed esperta di relazioni internazionali, ha scatenato accesi dibattiti negli Stati Uniti, mentre in Medio Oriente ha fatto nascere congetture su un nuovo piano dell’occidente, di Israele e di altri soggetti malintenzionati per dividere gli stati arabi in entità più piccole e più deboli.

Le rivolte nei paesi arabi hanno modificato gli interessi geostrategici della regione. Ma non sono riuscite a cancellare la lunga rivalità esistente tra l’Arabia Saudita e l’Iran.

Il punto di forza dei movimenti democratici in Medio Oriente è la loro estraneità agli attenzioni geostrategice regionali. Per la prima volta le rivendicazioni dei manifestanti arabi non riguardano una grande causa sovranazionale: panarabismo, panislamismo, socialismo, sostegno alla causa palestinese, anticolonialismo, antisionismo o antimperialismo. Si tratta di movimenti patriottici, non nazionalisti, radicati in un contesto nazionale, che prendono di mira i leader, ma senza accusarli di essere marionette al servizio delle potenze straniere.

Le grandi linee di frattura geostrategiche non si sono eclissate: sopravvivono nelle menti dei potenti ancora in carica che, quando non si accontentano di lottare per la sopravvivenza (come Muammar Gheddafi in Libia o Ali Abdallah Saleh nello Yemen), interpretano le rivolte alla luce delle conseguenze sulla stabilità della regione. È il caso dell’Arabia Saudita e di Israele, che s’interessa alle manifestazioni arabe quasi esclusivamente in quest’ottica. Per quanto riguarda invece l’occidente, da una parte sembra soddisfatto della democratizzazione in corso, ma in realtà è molto attento alla stabilità della regione, come dimostra la scelta di rimanere in silenzio riguardo alla repressione in Bahrein.

Ci troviamo di fronte a una divisione, sconosciuta nella storia recente: fino a pochi anni fa i movimenti rivoluzionari miravano a favorire una grande potenza o un’ideologia. Per molto tempo il punto di riferimento è stata l’Unione Sovietica, poi l’islamismo, ma anche l’occidente ai tempi delle manifestazioni che hanno fatto cadere il muro di Berlino. Oggi  sembrano coesistere due logiche.

Da una parte si vedevano dei siriani che si facevano uccidere pur di manifestare contro il regime di Bashar al Assad, dall’altra dei palestinesi residenti in Siria che, incoraggiati dal regime di Damasco, cercavano di oltrepassare il confine sulle alture del Golan andando incontro alla morte per mano dei soldati israeliani. L’impressione è che questi due gruppi di manifestanti provenissero da due Sirie diverse.

È necessario distinguere tra i paesi dove le poste in gioco geostrategiche sono limitate e quelli dove il rovesciamento del regime può apparire come il preludio a un cambiamento più ampio. Al primo gruppo appartengono paesi come la Tunisia, lo Yemen, la Libia e, paradossalmente, l’Egitto. I primi tre occupano un posto marginale nelle reti di alleanze e nei conflitti mediorientali. Molto probabilmente la Tunisia manterrà una linea filoccidentale e continuerà ad aver bisogno dell’Europa. Il regime di Gheddafi è isolato dal resto del mondo arabo e lo Yemen è importante solo per l’Arabia Saudita.

Il paradosso è l’Egitto, un attore fondamentale nel conflitto israelo-palestinese e il cuore delle tensioni che agitano il mondo arabo. Nonostante ciò, la caduta del regime di Mubarak avrà un impatto molto limitato dal punto di vista geostrategico. In passato l’opinione pubblica egiziana ha duramente criticato l’atteggiamento compiacente di Mubarak nei confronti di Israele e non ha mai appoggiato gli accordi, più o meno segreti, di cooperazione tra Il Cairo e Tel Aviv sulla repressione dei militanti di Hamas, la chiusura della Striscia di Gaza o la vendita di gas a Israele.

Il problema è sapere se di fronte a un’evoluzione simile i futuri governi israeliani, a differenza di quello attuale, saranno pronti a favorire il cambiamento politico. La grande linea di frattura che percorre il mondo arabo, in particolare a est del fiume Giordano, è l’opposizione tra un polo arabo e sunnita, guidato dall’Arabia Saudita, e l’Iran sciita. Da trent’anni Riyadh considera Teheran una minaccia e cerca, con più o meno successo, di sfruttare il nazionalismo arabo e il sunnismo militante per arginare l’ambizione iraniana di diventare la principale potenza regionale.

In questo contesto il movimento democratico in Bahrein (dove la maggioranza sciita della popolazione si è ribellata contro il regime sunnita) è una duplice minaccia per l’Arabia Saudita. È una minaccia interna perché mette in discussione la legittimità della monarchia bahreinita (e, di conseguenza, quella della monarchia dell’Arabia Saudita, dove vive un gruppo consistente di sciiti). Inoltre è una minaccia esterna perché, senza volerlo, mette in pericolo un equilibrio strategico considerato vitale: l’opposizione tra Arabia Saudita e Iran, basata su quella che Riyadh considera la divisione definitiva nel golfo Persico, cioè quella tra sunniti e sciiti. Questo timore è rafforzato dall’evoluzione religiosa degli alawiti siriani (una corrente sciita): considerati alla stregua di “eretici”, gli alawiti sono stati riconosciuti come musulmani solo dagli scii­ti, rafforzando agli occhi dei sauditi l’idea che le divisioni strategiche si basino essenzialmente sull’opposizione tra sunniti e scii­ti.

Ufficialmente l’Iran non sta sfruttando quest’opposizione perché significherebbe confinarsi in un ghetto. Sostenendo i palestinesi ed Hezbollah, Teheran ha cercato di superare questo conflitto religioso, presentandosi come il campione della causa araba. Negli anni ottanta l’Iran era uscito sconfitto dalla contrapposizione tra sciiti e sunniti. Durante la guerra tra Iran e Iraq, solo le minoranze sciite del mondo arabo avevano sostenuto l’Iran (e nemmeno tutte). Saddam Hussein invece aveva potuto contare su una vasta coalizione fondata sul nazionalismo arabo e sul panislamismo sunnita. Invadendo il Kuwait nel 1990, Saddam Hussein ha mandato in frantumi questa coa­lizione. Gli iraniani hanno imparato la lezione: per promuovere la loro causa non hanno puntato sulla rivoluzione islamica, ma sull’antiamericanismo militante, il sostegno ai palestinesi e il nuovo atteggiamento di garante degli equilibri del golfo Persico.

Nel luglio del 2006 la guerra in Libano – in cui Hezbollah, sostenuto dall’Iran, è riuscito a tenere testa all’esercito israeliano – ha segnato il culmine di questa politica e Hassan Nasrallah, il leader del partito islamista, è apparso come il nuovo campione della causa araba. Pochi mesi dopo la situazione è cambiata: la condanna a morte di Saddam Hussein è stata percepita come una rivincita degli sciiti, sostenuti dagli iraniani e allo stesso tempo dagli statunitensi. Gli sciiti arabi non possono essere ridotti a una “quinta colonna” iraniana. Iracheni e bahreiniti hanno compreso da tempo il rischio di essere strumentalizzati da Teheran: si sentono prima di tutto iracheni e bahreiniti, e lottano per il diritto a essere riconosciuti come cittadini a tutti gli effetti. Anche loro, però, come Hezbollah, hanno bisogno di essere tutelati dall’Iran perché vivono in un ambiente sunnita ostile.

È soprattutto l’Arabia Saudita ad alimentare la grande narrazione di una lotta tra persiani sciiti e arabi sunniti, sullo sfondo della quale tutti gli arabi sciiti sono visti principalmente come persiani di lingua araba, ma anche come eretici, secondo i canoni del wahabismo (il movimento religioso sunnita al potere in Arabia Saudita). Questo è uno dei pochi punti della politica estera saudita ad avere una giustificazione religiosa. Spiega, inoltre, l’ambivalenza di Riyadh verso i movimenti radicali sunniti, dai taliban afgani ai jihadisti di Fallujah. Da molto tempo ormai la causa palestinese è marginale nell’ottica dei sauditi. Il problema principale è la “minaccia iraniana”. Una questione che potrebbe assumere i contorni di una profezia che si autoavvera: negando agli sciiti del Bahrein il diritto alla piena cittadinanza, l’Arabia Saudita li relega al loro status di “quinta colonna” dell’Iran.

Resta da affrontare la questione della Siria. Il regime siriano è il principale alleato dell’Iran e tutto il mondo, dai sauditi agli israeliani, dovrebbe gioire della sua caduta. Tuttavia prevale la preoccupazione, perché la caduta di Assad spalancherebbe le porte sull’ignoto. Quale sarà la politica estera di Damasco quando sarà finita la dominazione del partito Baath? È difficile dare una risposta perché il presidente siriano è strettamente condizionato dalla politica interna. Negli ultimi quarant’anni il regime di Damasco ha sviluppato una strategia della tensione permanente con Israele con l’obiettivo di presentarsi come difensore del nazionalismo arabo contro gli israeliani. Allo stesso tempo ha tessuto le fila di una diplomazia basata sulla realpolitik, stando ben attento a non superare mai certi limiti e a tenere le fila di molte alleanze contemporaneamente.





sabato 16 novembre 2013

Pussy Riot: nessuna notizia di Nadia da settimane



Da oltre 15 giorni si sono perse le tracce di Nadezhda Tolokonnikova, una delle tre cantati del gruppo russo Pussy Ryot condannate per aver inscenato una protesta nella cattedrale del Salvatore di Mosca. Lo ha denunciato il marito Pyotr Verzilov, che non ha notizie da quando e' stata trasferita dal carcere in Mordovia dove la ragazza era in sciopero della fame. L'ultima volta il consorte ha avuto notizie il 21 ottobre quando i secondini l'hanno fatta salire su un treno. Il 24 ottobre un altro passeggero ha riferito che il convoglio era arrivato a destinazione a Chelyabinsk tra le montagne degli Urali.

La giovane era in sciopero della fame. L'ultima volta che l'uomo ha avuto informazioni su di lei è stato il 21 ottobre, quando i secondini l'hanno fatta salire su un treno per portarla via. Il 24 ottobre un altro passeggero ha riferito che il convoglio era arrivato a destinazione a Chelyabinsk tra le montagne degli Urali.

Ma la notizia della scomparsa è stata smentita quasi subito dai servizi carcerari russi. Il Servizio penitenziario federale ha fatto sapere che la donna è stata trasferita all'interno di un nuovo istituto di pena e che, come stabilito dal regolamento, i familiari saranno informati entro 10 giorni dal suo arrivo. Il marito della donna ha detto che sono state le autorità a decidere di spostarla.

Tolokonnikova, che sta scontando una condanna a due anni di carcere per la sua performance anti Putin nella chiesa di Cristo il Salvatore, era stata in sciopero della fame nella colonia penale in Mordovia e aveva denunciato abusi da parte del personale della prigione. Suo marito ha detto che dopo lo sciopero della fame la donna era ancora debole e ha accusato le autorità di volerla punire a causa delle sue proteste. Per la performance musicale del febbraio 2012 è stata condannata, sempre a due anni, anche un'altra componente del gruppo.



domenica 3 novembre 2013

Sole oscurato dalla Luna bisognerà attendere il 2026



E' l'ultima eclissi del 2013, ma è stata possibile osservarla solo in alcune zone degli Stati Uniti, dell'Africa e dell'Europa.

A causa della particolare posizione di Terra, Sole e Luna, l’evento sarà una inusuale eclissi ibrida, ossia sia totale che anulare a seconda delle zone da cui si osserverà. L’eclissi inizierà infatti come anulare nell’oceano Atlantico occidentale e diventa totale nell’Atlantico centrale. La fascia da cui sarà possibile osservarla nella sua totalità sarà un “corridoio” largo pochi chilometri che attraverserà diversi stati dell’Africa Centrale.

In Italia è stata visibile solo al Sud. Una rara eclissi solare ha attraversato oggi i cieli di Stati Uniti, Africa ed Europa. Si tratta di un’eclissi 'ibrida': alcune aree sono state testimoni di un blackout totale, altre solo parziale. L’evento è stato visibile in Italia a partire dal tardo pomeriggio ma soltanto al Sud.

L’osservatorio astronomico di Lisbona ha calcolato che la Luna ha oscurato il Sole per una superficie pari al 10 o al 23%. A Lagos, in Nigeria, alcune persone si sono raccolte sulla spiaggia per osservare l’evento.

Si tratta della quinta e ultima eclissi dell'anno, la prossima, ma questa volta sarà lunare, si verificherà nell'aprile 2014. Per un'eclissi solare totale invece bisognerà attendere il 2026.

Il fenomeno sarà invisibile da buona parte dell’Europa ad esclusione della penisola Iberica e una parte del Sud Italia, dove sarà peraltro molto marginale. A Roma il fenomeno non sarà visibile, a Napoli il disco lunare sfiorerà appena il Sole, oscurandone una frazione minuscola per pochi minuti, mentre in Sardegna e in Sicilia si potrà vedere circa il 5% del disco solare oscurato dalla Luna.