sabato 28 ottobre 2017

La Notte della Luna



Da Roma a New York fino a Città del Capo e a Tokyo, stanotte milioni di occhi saranno puntati al cielo per osservare il nostro satellite naturale. Si celebra infatti l'annuale festa dedicata all'osservazione della Luna, ovvero "La notte della Luna" o meglio ancora l'International Observe Moon Night 2017 (InOMN2017), iniziativa targata Nasa. Si tratta di un'iniziativa che coinvolge a livello internazionale, istituzioni, ricercatori e appassionati. Sul sito web dedicato all'evento sono già centinaia coloro che hanno aderito proponendo osservazioni ed eventi: nel sito web dell'evento sono centinaia, tra associazioni, osservatori e università, i soggetti che hanno aderito proponendo osservazioni ed eventi.

In Italia "La notte della Luna" è promossa dall'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e dall'Unione Astrofili Italiani (Uai). Per l'occasione l'Inaf apre al pubblico gli osservatori di Torino, Roma-Monteporzio e Catania. Sempre in Sicilia, si svolge l'evento organizzato congiuntamente dall'osservatorio di Catania dell'Inaf, dall'Istituto secondario superiore "Quintino Cataudella" di Scicli, dal Comune di Scicli e dal Centro ibleo di studi astronomici "Pleiades". Telescopi pronti anche ad Arpino (Frosinone), dove la Luna diventa un ologramma.

Le condizioni meteo dovrebbero essere abbastanza favorevoli all'osservazione, garantisce l'astrofisico Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope. "La Luna sarà già visibile al tramonto. Ma consiglio di lasciarla aspettare un momento per concentrarsi verso sud ovest e ammirare Saturno, che lascerà in breve la scena ad una Luna in grande stile. La Luna sarà al primo quarto, quindi nelle condizioni migliori per l'osservazione. In questa fase si vedono infatti molto bene i dettagli in quella regione del nostro satellite che è al confine tra il giorno e la notte, il cosiddetto Terminatore. Questo perché - precisa Masi - il Sole illumina lateralmente la Luna e i suoi raggi arrivano radenti sulla sua superficie, mettendo in evidenza i rilievi, come monti e crateri, quando le ombre che si allungano".

Anche in Italia verrà celebrata. A promuovere l'iniziativa l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) che aprirà al pubblico gli osservatori di Torino, Roma-Monteporzio e Catania. Sempre in Sicilia, si svolge l'evento organizzato congiuntamente dall'osservatorio di Catania dell'Inaf, dall'Istituto secondario superiore "Quintino Cataudella" di Scicli, dal Comune di Scicli e dal Centro ibleo di studi astronomici "Pleiades". Telescopi pronti anche ad Arpino (Frosinone), dove la Luna diventa un ologramma.

Anche l'Unione Astrofili Italiani (Uai) invita tutte le associazioni astrofili italiane ad aderire all'iniziativa organizzando presso le proprie sedi serate di osservazione. Aderisce all'iniziativa anche l'Accademia delle Stelle con un evento a Roma dove astrofili e astrofisici propongono una 'visita guidata' alla Luna.

In occasione della Notte della Luna, sempre il 28 ottobre si festeggia anche la riapertura delle porte del planetario di Torino, dove adulti e bambini potranno visitare il Museo dello Spazio interattivo e assistere allo spettacolo del planetario Cielo d’Autunno. Dopo la proiezione il pubblico sarà condotto alla cupola dell’Osservatorio per osservare direttamente il cielo, smog permettendo, attraverso un telescopio. In caso di brutto tempo l’osservazione diretta del cielo sarà sostituita da una visita storica alla cupola dell’Osservatorio. Si segnala che l’accesso alla cupola dell’Osservatorio presenta barriere architettoniche, e che è necessario prenotarsi o contattare l’ufficio Informazioni del Planetario.

Da sempre oggetto di pensieri, osservazioni e studio, fin dall’antichità la Luna – il cui nome deriva dal latino lūna, da un più antico *louksna, a sua volta dalla radice indoeuropea leuk- dal significato di “luce” o “luce riflessa – è oggetto di interesse: poetico, filosofico e scientifico. Sarà perché è il solo satellite del nostro pianeta, sarà perché è ad appena 384mila km da noi, sarà perché il tempo impiegato dalla luce a percorrere la distanza Terra-Luna è poco più d’un secondo, e abbiamo un legame particolare con la Luna.



giovedì 19 ottobre 2017

Catalogna: cosa prevede l’art. 155 della Costituzione spagnola



Il governo spagnolo ha annunciato di voler sospendere l’autonomia della Catalogna ricorrendo all’articolo 155 della Costituzione spagnola, una mossa mai intrapresa da quando è in vigore il testo.

Dopo la vittoria del fronte indipendentista al referendum del primo ottobre, dichiarato illegale dalla Corte costituzionale spagnola, il 10 ottobre, il presidente catalano Carles Puigdemont, in un discorso di fronte al parlamento regionale, ha di fatto dato il via all’iter per l’indipendenza della regione autonoma dalla Spagna.

A quel punto il premier spagnolo Mariano Rajoy ha fornito due ultimatum al governo catalano, chiamato a chiarire se avesse proclamato o meno l’indipendenza. Allo scadere dell’ultimo termine, Puigdemont ha detto che il parlamento catalano avrebbe dichiarato l’indipendenza se Madrid avesse “continuato con la repressione”.

L’ufficio del primo ministro spagnolo ha convocato un Consiglio dei ministri straordinario per avviare il procedimento di attivazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola.

Il governo spagnolo potrebbe chiedere al parlamento di poter applicare l'articolo 155 che prevede il commissariamento della Catalogna, con il passaggio a Madrid delle competenze della Generalitat. Questo lo scenario più probabile prospettato dalla stampa spagnola come mossa del governo di Mariano Rajoy.

L’Articolo 155 della Costituzione, insieme al titolo VIII sull’organizzazione del territorio dello Stato, costituisce il modo con cui lo Stato Spagnolo difende ciò che è espresso nell’articolo 153 della Costituzione che parla del ruolo delle Comunità Autonome Spagnole. Questo articolo dice che se un governo regionale non rispetta i suoi obblighi o "agisce in modo da minacciare seriamente l'interesse dell'intera Spagna", allora Madrid "può intraprendere le necessarie misure per obbligarla in modo coatto ad adeguarsi o a proteggere tale generale interesse". In sostanza, l'articolo 155 stabilisce che lo Stato, in questo caso il governo di Madrid, può assumere "il controllo di istituzioni politiche e amministrative della regione ribelle". L’articolo è molto generico e non è mai stato applicato, dunque non esistono giurisprudenza e precedenti. Sulla portata delle “misure” che il governo può applicare c’è molto dibattito in corso. Subito dopo la risposta di Puigdemont, Mariano Rajoy si è incontrato con il leader del Partito socialista, Pedro Sánchez, per discutere su come applicare il 155.

Secondo i costituzionalisti le misure possibili vanno dalla "sospensione del governo regionale al sottomettere i Mossos d'Esquadra (la polizia catalana) agli ordini del ministero dell'Interno centrale", sino alla "chiusura del parlamento regionale e la convocazione di elezioni regionali anticipate.

Il premier Rajoy non può tuttavia invocare in modo unilaterale l'articolo 155. Prima dovrebbe informare lo stesso Puigdemont delle sue intenzioni, concedendogli una fase di riflessione per un'eventuale marcia indietro sull'indipendenza. Poi dovrebbe rivolgersi al Senato, la camera alta del parlamento spagnolo, dove il suo Partito Popolare ha la maggioranza assoluta. La proposta del premier deve inoltre essere appoggiata da una commissione che, valutate le precise misure a livello legale, può inviarla al Senato per il voto. Una procedura che, secondo fonti parlamentari, potrebbe richiedere una settimana di tempo o anche 10 giorni.

Il rischio maggiore è che le iniziative adottate da Madrid aumentino la rabbia dei catalani, già inferociti per l'arresto dei due leader indipendentisti Jordi Sánchez and Jordi Cuixart. A inasprire ancora di più il clima c'è l'irruzione della Guardia Civil nel commissariato di Lleida, sede dei Mossos d'Esquadra, che sta avvenendo in queste ore. La polizia spagnola vuole sequestrare le registrazioni delle comunicazioni avvenute nel giorno del referendum.

Dall'altra parte, Puigdemont è messo sotto pressione dalle frange più massimaliste del movimento di indipendenza. Fino a poche ore fa, una delle opzioni sul tavolo per Puigdemont era indire nuove elezioni in Catalogna, sciogliere il Parlamento e chiedere un nuovo mandato popolare. Il governo di Madrid aveva fatto sapere che nuove elezioni, rimettendo tutto in gioco, avrebbero potuto bloccare l’applicazione del 155, ma è difficile ora che questa possibilità sia ancora a disposizione.

La legge fondamentale spagnola disegna un modello di stato decentrato, in cui le regioni sono convertite in comunità autonome, con un proprio governo, un parlamento, tribunali regionali e uno statuto che ne garantisce le competenze.

L’articolo 2 della Costituzione riconosce infatti, oltre al principio di “indissolubile unità della Nazione spagnola”, anche il “diritto alla autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono”. Grazie a questo, Madrid riconobbe prima l’autonomia delle nazionalità storiche come la Catalogna, i Paesi Baschi, la Galizia e l’Andalusia e poi, in diverse fasi successive, permise a tutte le altre regioni di costituirsi come comunità autonome.

La costituzione spagnola però non concede a questi enti locali la possibilità di dichiararsi indipendenti, anzi, all’articolo 155, concede il potere all’autorità centrale di riprendere il controllo della comunità nel caso quest’ultima “non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna”.

lunedì 16 ottobre 2017

Unesco: Usa e Israele lasciano l'organizzazione motivo «Pregiudizi su Israele»



Sembra che l'Unesco non possa più fare proprio tutto quello che gli pare, assegnare la tomba a Hebron dei patriarchi ebrei Abramo, Isacco e Giacobbe al patrimonio islamico come ha fatto quest'anno in luglio, o dichiarare che Gerusalemme, compreso il muro del Pianto, è tutta quanta araba e appartiene all'islam anch'essa.

Gli Stati Uniti e Israele lasciano l'Unesco. La decisione degli Stati Uniti sarà effettiva dalla fine del 2018 e gli Usa resteranno osservatori. La scelta - riferisce il dipartimento di Stato - "non è stata presa con leggerezza e riflette le preoccupazioni americane per i crescenti arretrati" da versare "all'Unesco, la necessità di riforme fondamentali dell'organizzazione e la prosecuzione del pregiudizio anti Israele all'Unesco".

Intanto il premier Benyamin Netanyhau - che è anche ministro degli affari esteri - ha dato istruzioni di "preparare l' uscita di Israele dall'Unesco in parallelo con gli Usa". Lo riferisce l'ufficio del primo ministro. La decisione Usa di ritirarsi dall'Unesco - rende noto il Dipartimento di Stato statunitense - entrerà in vigore il 31 dicembre 2018. Gli Usa intendono diventare poi un osservatore permanente della missione per "contribuire alle visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall' organizzazione inclusa la tutela del patrimonio dell’umanità, la difesa della libertà di stampa e la promozione della collaborazione scientifica e dell'educazione. "La mia personale raccomandazione al premier Benyamin Netanyahu è quella di restare incollati agli Usa e lasciare immediatamente l'Unesco". Lo ha detto, citato da Ynet, l'ambasciatore israeliano nell'organismo, Carmel Shama-Hacohen. "Negli anni recenti l'Unesco - ha proseguito - si è trasformato in una bizzarra organizzazione che ha perso le sue orme professionali a favore di interessi politici di certi paesi".

"Mi rammarico profondamente per la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dall'Unesco, di cui ho ricevuto notifica ufficiale con una lettera del segretario di stato americano, Rex Tillerson", si legge in un comunicato della direttrice generale dell'Organizzazione con sede a Parigi, Irina Bokova.

E' dal 2011, quando la Palestina divenne membro dell' organizzazione dell'Onu, che gli Stati Uniti hanno smesso di finanziarla pur mantenendo un ufficio nel quartier generale di Parigi. Intanto a Parigi si sta votando in questi giorni per eleggere il nuovo direttore generale. Per ora sono rimasti in lizza due soli candidati che sono pari a livello di preferenze: l'ex ministro della cultura francese Audrey Azoulay e il suo omologo del Qatar Hamad Bin Abdulaziz Al-Kawari su cui Israele ha già espresso le proprie preoccupazioni.

La decisione degli Usa di ritirarsi dall'Unesco è "una triste notizia": lo ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitri Peskov. Il ritiro Usa dall'Unesco "a causa delle relazioni con Israele è una decisione "da apprezzare". Lo ha detto via twitter, in una prima reazione da parte israeliana, l'ex ministro degli esteri, e negoziatore capo, Tizpi Livni. "E' un messaggio al mondo - ha proseguito - che c’è un prezzo alla politicizzazione, alla storia unilaterale e distorta".

L'Unesco è la prima organizzazione Onu ad aver ammesso la Palestina come Stato membro, nell'ottobre 2011, suscitando l'ira e lo stop dei finanziamenti da parte di Usa e Israele. Per l'organismo internazionale, il ritiro di Washington è stato un duro colpo finanziario, tanto che durante la gestione di Irina Bokova si è reso necessario un drastico taglio degli effettivi. Da soli gli Usa rappresentavano il 20% del bilancio dell'Unesco. Senza contare la ritorsione del Giappone, il secondo finanziatore più importante, che ha rifiutato di pagare la sua quota 2016 in seguito all'iscrizione, nel 2015, nel registro della memoria mondiale, del Massacro di Nankin, perpetrato dall'esercito imperiale giapponese nel 1937.


venerdì 13 ottobre 2017

Cresce la tensione fra Corea del Nord e USA



Donald Trump mostra i muscoli a Pyongyang col Pentagono che invia una squadriglia di caccia bombardieri in volo nei cieli adiacenti alla Corea del Nord. Secondo il dipartimento alla difesa statunitense si vuole mostrare che il presidente americano dispone di molte opzioni militari per neutralizzare qualunque minaccia.

Due bombardieri strategici americani B-1B Lancers, decollati dalla base del Pacifico dell'Isola di Guam, hanno sorvolato la Penisola coreana in una dimostrazione di forza diretta a Pyongyang mentre aerei militari giapponesi e sudcoreani erano impegnati, in corrispondenza del Mar del Giappone, in una esercitazione notturna.

Nel frattempo, il sottomarino nucleare americano di classe Los Angeles "USS Tucson" è arrivato nel porto sudcoreano Jinhae sabato scorso, ha reso noto il comando del Pacifico Usa. Una fonte militare sudcoreana ha poi anticipato l'arrivo di un secondo sottomarino nucleare americano, il sottomarino di classe Ohio "USS Michigan" al porto di Busan, questo fine settimana.

Gli osservatori internazionali sono sul chi va là per la minaccia nucleare posta da Pyongyang, ma gli Stati Uniti sono stati già colpiti da un'azione ostile alla propria rete energetica. Lo rivela NBC in esclusiva.

Mentre il mondo intero teme la progressione della tensione tra USA e Corea del Nord e l’orologio dell’Apocalisse è sempre più vicino alla mezzanotte, Pyongyang sta già colpendo negli Stati Uniti in modo diverso, ovvero mirando alla sua rete elettrica, cercando di infiltrarsi nei sistemi delle compagnie del settore statunitensi con l’obiettivo di creare il caos. E’ quanto ha riportato NBC News, entrata in possesso in esclusiva di un report della compagnia di sicurezza informatica FireEye.

FireEye ha documentato cyber-attacchi contro le forze armate della Corea del Sud, contro le sue centrali elettriche e persino contro l’aviazione di Seul – tutti provenienti dalla Corea del Nord. Pyongyang ha già attaccato Sony tre anni fa come rappresaglia per il film “L’intervista”, pellicola di Hollywood in cui viene preso in giro Kim Jong-Un.

Ora gli esperti avvertono che i nordcoreani stanno sviluppando le stesse tecniche per attaccare grandi settori dell’economia statunitense. “Una delle cose che ci preoccupa molto è la loro capacità di colpire qui nel cuore degli Stati Uniti, soprattutto nel settore finanziario”, ha dichiarato Dmitri Alperovitch, co-fondatore di CrowdStrike, un’azienda di cybersecurity.

I funzionari dell’intelligence hanno riferito a NBC News che Corea del Nord ha messo in atto uno spregiudicato crimine informatico nei confronti della Banca Centrale del Bangladesh, destinando a Kim Jong-Un fondi per 81 milioni di dollari (circa 68 milioni di euro). Il regime ha arruolato 6.000 cyber-soldati in Cina, Corea del Sud e altri paesi vicini, secondo un disertore nordcoreano che ha parlato all’emittente.

“I nord coreani vogliono avere la capacità di bloccare la nostra rete elettrica, i nostri sistemi di pubblica utilità, quello bancario, il controllo del traffico aereo”, ha dichiarato Frank Figliuzzi, ex assistente dell’FBI al controspionaggio.

Al momento esponenti del mondo industriale statunitense riferiscono che la Corea del Nord non è riuscita a fare breccia nella rete energetica. Alta è però l’allerta per via della crescente minaccia posta da Pyongyang.

La portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders: “Non abbiamo dichiarato guerra alla Corea del Nord e francamente è assurdo anche solo insinuarlo. Non è pensabile che un Paese abbatta il caccia di un altro Paese quando sorvola acque internazionali. Il nostro scopo è sempre lo stesso. Puntiamo ad una pacifica e piena denuclearizzazione della penisola coreana” ha detto in conferenza stampa.

Parole arrivate dopo che il regime di Pyongyang aveva interpretato come dichiarazione di guerra il sorvolo dei bombardieri Usa sulla penisola.

Il Ministro degli Esteri coreano Ri Yong Ho: “Visto che gli Stati Uniti ci hanno dichiarato guerra avremo tutto il diritto di prendere le contromisure necessarie, incluso il diritto di abbattere i bombarideri strategici statunitensi anche nel momento in cui non si trovassero all’interno del nostro spazio aereo”.



mercoledì 4 ottobre 2017

Rohingya tra il Myanmar e Bangladesh



La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha rotto il silenzio sulla questione dei Rohingya, la minoranza musulmana pesantemente discriminata nel Paese, e oggetto - secondo le Nazioni Unite - di un «chiaro caso di pulizia etnica». Dallo scorso mese oltre 400mila Rohingya, infatti, sono fuggiti in Bangladesh a seguito di violenze compiute dall’esercito di Rangoon, nel più totale silenzio delle istituzioni birmane. La leader birmana, dal canto suo , ha detto che «più della metà» dei villaggi abitati dalla minoranza musulmana dei Rohingya in Myanmar, non sono stati fatti oggetto di violenze, invitando i diplomatici riuniti a Naypyitaw a visitarli. San Suu Kyi ha dichiarato di non temere il giudizio internazionale sulla gestione della crisi ma nemmeno di «attribuire colpe o evadere le proprie responsabilità. Condanniamo tutte le violazioni dei diritti umani e la violenza contro la legge», ha detto in un discorso trasmesso dalle tv nazionali.

L'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani Zeid Raad al-Hussein, ha denunciato come "pulizia etnica da manuale". La prima versione di Aung San Suu kyi: "E' solo disinformazione" Aung San Suu Kyi, in una telefonata con il Presidente turco Erdogan nei giorni scorsi aveva denunciato la "disinformazione" sulla crisi dei Rohingya. La 'Lady', come è conosciuta dai birmani, aveva parlato di "pesante iceberg di disinformazione", che deforma il racconto di quel che sta accadendo. "Questo tipo di false informazioni è solo la parte più visibile di un enorme iceberg di disinformazione", ha detto la San Suu Kyi.

La voce più alta che si è levata contro la leader birmana è quella di un altro Nobel per la Pace. L'attivista pakistana e musulmana, Malala Yousafzai aveva infatti  aspramente criticato la leader birmana per ignorare la 'pulizia etnica' in atto contro la minoranza musulmana nei Rohingya. "Ogni volta che leggo le notizie il mio cuore si spezza per le sofferenze del musulmani Rohingya in Myanmar", ha denunciato Malala, sopravvissuta miracolosamente ad un tentativo di assassinio da parte dei talebani locali in Pakistan quando a soli 15 anni nel 2012 lottava per dell'educazione femminile. "Nel corso degli ultimi anni ho ripetutamente condannato questa trattamento tragico e vergognoso. Sto ancora aspettando che la mia collega premio Nobel Aung San Suu Kyi faccia lo stesso", ha denunciato Malala, che conquistò il Nobel per la pace nel 2014. Suu Kyi, Nobel per la Pace nel 1991, che ha passato oltre 20 anni isolata nella sua casa dalla giunta militare, è ormai dal 2016 ministro degli Esteri e Consigliere di Stato (carica creata apposta per lei) che la pone di fatto, sempre con il placet dei generali, alla guida dello Stato. Ma Suu Kyi, buddista, non vuole inimicarsi il sostegno della maggioranza della popolazione birmana che odia i mussulmani.

«Abbiamo avuto un incontro produttivo sulla terribile situazione in Birmania, ma non vediamo ancora miglioramenti sul terreno e continuiamo ad avere segnalazioni di violenze e sofferenze», ha detto a tal proposito l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, dopo un incontro organizzato dalla Gran Bretagna a margine dell'Assemblea Generale a cui hanno partecipato anche funzionari del governo di Rangoon.

L’esodo dei Rohingya dal Myanmar al Bangladesh ha attirato l’attenzione della comunità internazionale dalle Nazioni Unite a Papa Francesco, ma chi sono i Rohingya?

La comunità Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana che vive nello stato nord-occidentale di Rakhine, in Myanmar, custodisce gelosamente il suo nome e lo considera parte integrante della sua identità di minoranza perseguitata. I problemi dei Rohingya iniziano proprio dal loro nome che viene utilizzato da loro stessi e dalla comunità internazionale – Nazioni Unite comprese – ma non dal Myanmar che li definisce immigrati clandestini dal Bangladesh, ossia bengalesi. Ufficialmente, i Rohingya non vengono elencati tra le 135 “razze nazionali” elencate nella legge sulla cittadinanza del Myanmar, in vigore dal 1982. Si tratta di una legge che risale al periodo della dittatura militare del generale Ne Win, ma che non è mai stata aggiornata dai governi che lo hanno succeduto.

Il vero problema sociale dei Rohingya è quello di non essere considerati cittadini del Myanmar e di non godere dei diritti che la cittadinanza comporta. Nel paese esistono tre tipologie di cittadinanza: piena, associata e naturalizzata. Hanno diritto alla cittadinanza piena coloro le cui famiglie hanno vissuto nel paese da prima del 1823, sono cittadini associati coloro che hanno ottenuto la cittadinanza con la legge in materia del 1948. I naturalizzati sono coloro che vivevano nel paese da prima del 4 gennaio 1948, ma che hanno fatto domanda di cittadinanza dopo il 1982. Molti Rohingya non rientrano in nessuna delle tre categorie poiché non riescono a produrre le prove documentali necessarie per fare domanda di cittadinanza.

La campagna militare dell’esercito del Myanmar nello stato di Rakhine è iniziata nell’ottobre 2016, in seguito a una serie di attentati alle stazioni di polizia di confine perpetrati dall’ARSA, un’organizzazione terroristica islamista formata da militanti di etnia Rohingya. Per il popolo birmano quanto è accaduto nello stato di Rakhine rappresenta una lotta contro i terroristi estremisti islamici che si sono infiltrati in Myanmar e tentano di spaccare la società birmana per creare uno stato indipendente – a maggioranza islamica – a Rakhine.

Le tensioni tra i musulmani Rohingya e la maggioranza buddista del Myanmar risalgono al maggio 2012, quando una donna buddista è stata violentata e uccisa dai musulmani Rohingya, secondo le accuse. L’ incidente è stato seguito dall’uccisione di 10 musulmani Rohingya da parte di un gruppo di buddisti.

In questi giorni un gruppo di lavoro per pianificare il rimpatrio dei Rohingya. È l’accordo a cui sono giunti le autorità di Myanmar e Bangladesh.

Non è la prima volta che il Myanmar trova un accordo sul rimpatrio dei rifugiati con i Paesi confinanti. Ma il problema di base, che rimane irrisolto, è lo status dei Rohingya: privi di cittadinanza, vengono classificati e trattati alla stregua di immigrati clandestini.