Il grande reporter polacco, deceduto il 23 gennaio del 2007, aveva viaggiato a partire dagli anni ’50 in tutto il mondo, armato del suo taccuino e della sua macchina fotografica e credendo, al pari di Tiziano Terzani, nella possibilità e necessità di comprensione tra popoli e culture diverse.
Per anni Ryszard Kapuscinski non ha rilasciato interviste televisive. Non voleva essere riconosciuto, voleva potersi confondere tra la gente che doveva raccontare. Mescolarsi a loro, comprenderli fino in fondo ascoltandoli e dando voce alle persone più umili e nascoste. Nell’ultima fase della sua vita ha scelto invece di concedere qualche intervista, dopo aver vagliato attentamente al contesto in cui si sarebbe inserita, perché il contesto dell’informazione era quello che lo interessava, più del dettaglio, più del flusso continuo di notizie.
Nel 1956 Ryszard Kapuściński rimane bloccato in India per la crisi nel canale di Suez. Doveva tornare in Polonia sulla gloriosa Batory, transatlantico polacco scampato innumerevoli volte all'affondamento durante la seconda guerra mondiale, costruito a Monfalcone in pieno fascismo e pagato con una fornitura di carbone. Quello in India era il suo primo grande viaggio da inviato. Per il ritorno, dovrà ripiegare su un volo via Afghanistan e Mosca. Siamo nel periodo del Disgelo – titolo di un romanzo di Erenburg -, della fine dello stalinismo... Accanto a Kapuściński c'è un passeggero che piange atterrando a Varsavia. Reduce dai gulag, non avrebbe mai pensato di rivedere casa. Kapuściński lo racconta nel suo ultimo libro, In viaggio con Erodoto, una sorta di bilancio esistenziale, prima della morte, avvenuta nel 2007. Dove ritorna sui primi passi da reporter nei continenti in ebollizione post-coloniale. L'India e soprattutto l'Africa. La folgorazione, la passione intellettuale a cui dedicherà tutta la vita e il proprio mestiere.
E' diventato il più famoso reporter di guerra del mondo, l’instancabile viaggiatore che per oltre quarant’anni ha percorso i continenti per raccontare i conflitti più remoti e dimenticati. Ma è stato soprattutto il testimone del suo tempo, il cronista che ha dato voce agli ultimi della scala sociale e ai disperati della Terra, che ha fatto conoscere i popoli più lontani dell’Africa e dell’Asia, che ha descritto le ex repubbliche sovietiche in un memorabile libro, (Imperium) scritto l’anno seguente la caduta del Muro di Berlino.
E' stato senza dubbio il padre fondatore del moderno reportage. Sono stati infatti i suoi libri pubblicati a partire dagli anni ’60 il primo vero fenomeno editoriale del giornalismo polacco. Un successo reso possibile non solo dal brillante stile dell’autore e dall'attualità dei temi trattati, ma anche dal fatto che all’epoca il massimo dell’esotismo per il polacco medio era una vacanza in Ungheria. Per molti, quindi, le opere di Kapuściński su Africa, Asia e America Latina rappresentavano anche un’evasione dal grigiore della vita quotidiana.
All'infuori di Kapuściński, oggi gli autori polacchi di reportage tradotti in italiano si contano purtroppo sulle dita di una mano. Il libro forse più noto ai lettori italiani è Gottland di Mariusz Szczygieł pubblicato nel 2009 da Nottetempo e capace di riscuotere un insperato successo editoriale. Il libro offre una sorprendente galleria di personaggi e situazioni appartenenti a una nazione che non esiste più, la Cecoslovacchia, in un enciclopedico e coinvolgente affresco privo di cadute di ritmo e di stile. Nel 2012 il medesimo editore ha pubblicato un altro libro di Szczygieł: Fatti il tuo paradiso.
Come è possibile che il più grande reporter del ventesimo secolo sia stato un polacco? E per di più un comunista? Non eravamo abituati a considerare maestri del giornalismo gli americani, liberi di pensiero, fiaschetta di whisky nella sahariana, sinceri, secchi, romantici, al posto giusto nel momento giusto? Quel John Reed al seguito di Lenin e Trotsky; quell’Edgar Snow che si fece tutta la lunga marcia di Mao Tse Tung mandando dispacci quasi giornalieri al Chicago Tribune; quell’Ernest Hemingway che narrava la Madrid repubblicana assediata dal fascismo, facendo venir voglia ai suoi lettori di imbarcarsi per dare una mano. Quelli erano Titani, Eroi, Protagonisti, Star. E davvero, Kapuscinski non è stato niente di tutto ciò. Però forse, se si dovesse votare per il miglior reporter del ventesimo secolo – nel segreto dell’urna – la mia scheda andrebbe al vecchio Ryszard (che poi vuol dire semplicemente Riccardo).
Kapuscinski era un tipo davvero modesto, sempre vestito con un giubbotto di fattura polacca, pantaloni di velluto e grosse scarpe comode; conferenziere non esaltante, l’antitesi del narciso, un alieno dallo star system pur essendo amato da milioni di lettori. Morì nel 2007, per i postumi di un tumore al pancreas, a settantacinque anni. Tra i suoi progetti rimasti tali, una storia dei movimenti di guerriglia in America Latina nell’ultimo trentennio del Novecento, e soprattutto il suo rovello, una storia della sua piccola Pinsk, dove era nato, e dove da bambino aveva visto la “scena primaria” della guerra. L’occasione per capire, alla fine della vita, che cosa sono gli uomini e chi erano stati i suoi genitori.
La prima, resa immediatamente nota dal governo polacco, all’epoca di estrema destra, capeggiato dai due grotteschi gemelli Kaczynski: Kapuscinski era stato per tutta la vita una spia comunista. La seconda: nei suoi reportages, più che raccontare, “inventava”.
In qualche maniera le due accuse avevano un fondo di verità. Effettivamente il giornalista inviò informazioni richieste dal suo governo e dal Kgb sia dall’Africa che dall’America Latina. C’è da dire che il suo incarico non sarebbe mai stato affidato a un oppositore politico (Kapuscinski rimase iscritto al partito comunista polacco fino al 1984, anche se dal 1980 simpatizzò per Solidarnosc) e che i documenti usciti dagli archivi di Varsavia non lo mostrano certo un spia zelante: rapporti banali sulla situazione politica, la gran notizia che il redattore di Selezione Reader’s Digest in Venezuela era in realtà un agente Cia; un’antipatica delazione contro una collega; cose così. Era però in grado di mantenere un segreto (e uno grosso), come l’impegno militare dei cubani in Angola, che lo vide direttamente coinvolto, ma che ai suoi lettori non rivelò mai.
Il secondo argomento è affascinante e spigoloso, perché coinvolge l’essenza stessa del giornalismo. Kapuscinski lasciò intendere di aver conosciuto di persona Che Guevara e Lumumba (e non era vero). È stato accusato di aver costruito il ritratto di Hailé Selassié su testimonianze anonime e quindi manipolabili; di aver ingigantito le personalità dei guerriglieri latinoamericani, e nel contempo di aver cancellato le responsabilità della Cia nella repressione nell’edizione americana dei suoi libri; di aver pubblicato la sua inchiesta sui gulag molto tempo dopo di quanto avrebbe dovuto farlo e di aver taciuto per troppo tempo sulle reali condizioni della sua Polonia, sotto il giogo dell’oppressione comunista. Il suo biografo (e allievo) registra tutte le accuse e le colloca nel tempo e nello spazio. Alla fine, lo assolve: il contributo che ha dato alla conoscenza del mondo, e alla sua umanità, è superiore ai cedimenti personali in cui può essere incorso.
Kapuściński si considerava un pò il patriarca dei corrispondenti di tutto il mondo. Molti suoi famosi colleghi erano ormai scomparsi. A volte diceva di sentirsi un sopravvissuto di un mestiere che è profondamente cambiato nella pratica e anche nell’etica professionale. Ma riconosceva con sicurezza coloro che gli erano simili e soffriva molto quando qualcuno di loro (come la Politovskaja) veniva colpito. I sempre più numerosi attacchi, nel mondo, alla libertà di stampa e ai giornalisti, lo preoccupavano. Si dava da fare per portare la sua testimonianza e suoi consigli ovunque ci fossero dei giovani che volevano intraprendere questo difficile mestiere.
Gli piaceva molto discutere di politica. Di qualunque nazione si parlasse, dimostrava una vastità di letture e un aggiornamento sorprendenti. Di ogni paese africano, ad esempio, era in grado di indicare capi di stato e ministri come se stesse parlando dei giocatori della squadra di calcio della propria città. Da giovane aveva creduto sinceramente nella spinta rivoluzionaria dei movimenti anticolonialisti. Forse, nel Terzo mondo, aveva intravisto una sorta di risarcimento ideale alle delusioni della Polonia dopo le speranze dell’ottobre 1956. Capivo questo meccanismo, perché funzionò anche per mio padre (comunista e docente di Storia contemporanea all’Università di Genova) che vide, negli stessi anni, nei movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia, una speranza che le proprie utopie politiche avessero un senso meno squallido e oppressivo della realtà del cosiddetto “socialismo reale”.