sabato 27 febbraio 2016
Bail-in: di cosa si sta è parlando
Per i correntisti italiani, il 2016 è iniziato con un dato di fatto: in caso di fallimento della propria banca, chi ha un conto corrente con una somma superiore ai 100.000 euro, rischierà di accollarsi le perdite, quindi l’eventuale crisi di una banca viene risolta con il nuovo meccanismo detto “bail-in”- letteralmente "cauzione interna" - è il cuore della normativa sul risparmio entrata in vigore nei Paesi aderenti all'Unione europea. : il salvataggio dell’istituto di credito, cioè, non avverrà più con soldi pubblici dello Stato e/o delle banche centrali (come è stato sino a oggi), bensì attraverso la riduzione del valore delle azioni e di alcuni crediti (come quelli dei correntisti che abbiano depositato più di 100mila euro) o la loro conversione in azioni, per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in misura sufficiente a risolvere la crisi e a mantenere la fiducia del mercato.
Ma come funziona il bail in?
Di fatto, in caso di crac di un istituto di credito, a gettare il salvagente al posto dello Stato saranno, nell’ordine:
1) Gli azionisti
2) I possessori di titoli subordinati
3) I detentori di obbligazioni e altre passività ammissibili
4) Appunto, i correntisti (sia persone fisiche che Pmi) che abbiano depositi per un valore superiore ai 100.000 euro.
Saranno tutelati i correntisti con depositi per un importo inferiore ai 100.000 euro e i detentori di bond garantiti, dunque assicurati, come nel caso dei covered bond.
I correntisti saranno chiamati a partecipare alle perdite, solo se gli interventi che colpiranno le prime due categorie – azionisti e obbligazionisti non garantiti – non saranno sufficienti. In quel caso si interverrà sulla parte che eccede i 100.000 euro, dal momento che il Fondo di tutela dei depositi interbancari garantisce somme fino a tale soglia.
La vicenda del decreto salva banche ha messo in evidenza una pericolosa lacuna in termini di trasparenza. Diversi risparmiatori hanno infatti sottoscritto obbligazioni subordinate ritenendo che fossero sicure come titoli di stato; il che significa che il sospetto che diversi istituti di credito non spieghino la reale natura del rischio al potenziale cliente è in diversi casi diventato realtà.
Chiediamoci ancora una volta: il sistema bancario italiano è a rischio sistemico sì o no? E, in ogni caso, ha la forza per resistere ai cambiamenti determinati dalle nuove regole del bail-in europeo (il meccanismo di copertura delle perdite di una banca in caso di insolvenza) o questa volta, come temono i più allarmisti, rischiamo di finire nelle braccia della Troika?
Il sistema bancario italiano è solido. Ci sono molti compartimenti stagni prima di arrivare all’insolvenza su larga scala, con bail-in e (potenzialmente) accesso ai fondi europei (e alla Troika), soprattutto se c’è un rischio di contagio ad altre banche italiane ed europee (come nel caso di un grande fallimento bancario). Tra questi compartimenti stagni, ci sono: ulteriore capitale privato e strumenti ibridi della banca, la liquidità ordinaria e straordinaria (Emergency Liquidity Assistance o ELA) dell’Eurosistema (BCE), il Quantitative easing, che sostiene il valore degli asset, e addirittura controlli sui prelievi e movimenti di capitale, nei casi di emergenza (come in Grecia e Cipro).
Inoltre, va chiarito che il bail-in già si applica dall’agosto 2013, con la nuova raccomandazione sugli aiuti di stato, nel caso d’intervento statale diretto o del fondo di risoluzione (o del fondo interbancario di garanzia dei depositi), le nuove regole europee aggiungono due elementi chiave alla procedura già in vigore:
estendono il bail-in anche alle obbligazioni senior emesse dalla banca e agli altri debiti (con esclusioni definite nell’articolo 44 della Direttiva UE). Ci sono molte complicazioni legali sulla vastità della copertura, ma il bail-in iniziale non potrà superare l’8% del valore dell’attivo. Un successivo bail-in avrà luogo solo dopo l’intervento del fondo di risoluzione (per un 5% addizionale);
si crea una procedura certa nella gestione delle crisi bancarie, che riduce il rischio di massicce fughe di capitale o finanche di corsa agli sportelli (bank run). Per maggiori dettagli su rischi e benefici del bail-in, si veda il mio post del 28 dicembre.
Tuttavia, ci sono molte cose che non conosciamo e che creano incertezza e potenziale rischio sistemico. L’incertezza che la mancanza d’informazioni crea può essere fonte di fughe di capitali, anche se il sistema bancario è solido.
Le norme europee prevedono come ‘pavimento minimo’ per le banche che equivale a dire che una banca può effettuare investimenti (finanziamenti, prestiti, mutui, investimenti su titoli ecc) ponderati per il rischio superiori a 12,5 volte il capitale proprio. Più questo indicatore è elevato, maggiore dovrebbe essere la solidità dell’istituto, ovvero la capacità di affrontare eventuali scenari negativi. In generale un livello sotto il 9% non è considerato sufficiente, e sotto l’8% è assolutamente a rischio.
“Il nuovo impianto sui salvataggi delle banche in vigore in tutta Europa prevede in ultima istanza l’attivazione del bail in, vale a dire il contributo ‘interno’ al ripianamento delle perdite di titolari di azioni, obbligazioni e conti correnti con saldo superiore a 100.000 euro. La novità più insidiosa è proprio quella relativa alle eventuali perdite per i possessori di bond; gli azionisti comprano capitale a rischio per definizione, mentre per quanto riguarda i depositanti, il loro contributo è previsto solo in ipotesi più estreme. Diverso il ragionamento per i bond, che verrebbero chiamati a dare un contributo, in particolare con la conversione in azioni”.
Ancora:
“Le obbligazioni bancarie sono uno strumento fondamentale per la raccolta di denaro da parte degli istituti e quindi per l’attività di prestiti sia alle famiglie sia alle imprese. Tuttavia, il nuovo assetto regolatorio sulle risoluzioni delle crisi creditizie potrebbe disincentivare l’acquisto di questi strumenti da parte della clientela bancaria, facendo venir meno un importante strumento di raccolta. Tutto ciò con conseguenze pericolose sul versante dei finanziamenti”.
martedì 23 febbraio 2016
Treno da 1.000 chilometri orari debutterà nel 2020 a Dubai
Hyperloop, il treno del futuro capace di raggiungere mille chilometri orari voluto da Elon Musk, potrebbe debuttare a Dubai, in occasione dell'Expo 2020. E' infatti attesa per il 24 febbraio la firma dell'accordo tra la Hyperloop Transportation Technologies (Htt), la startup creata dall'italiano Bipop Gabriele Gresta e dal tedesco Dirk Ahlborn, con sede a Los Angeles, e il governo di degli Emirati Arabi. L'intesa prevede la realizzazione dello studio attuativo per la costruzione del primo Hyperloop a grandezza naturale.
Milano - Roma in 35 minuti ad una velocità di oltre 1000 chilometri orari. Sarebbe questa una delle prestazioni del treno del futuro
L'ideatore Elon Musk ha indetto un concorso mondiale nel quale è stato scelto anche il sistema di sospensioni realizzato da sette studenti della Scuola Superiore Sant'Anna e dell'Università di Pisa.
A Dubai si punta invece a realizzare la prima tratta effettiva di questo supertreno per collegare il nuovo aeroporto della città con quello della capitale Abu Dhabi alla velocità di 1.223 chilometri orari: un percorso di 145 chilometri che il Hyperloop coprirà in poco più di 9 minuti e mezzo, scorrendo all'interno di un cilindro dove l'aria, a bassissima pressione, riduce al minimo la resistenza al movimento.
L'aria rimanente di fronte alla capsula viene convogliata verso la parte posteriore del tubo utilizzando un compressore, che consente di raggiungere velocità incredibili e con pochissimo consumo di energia elettrica. Grazie ai pannelli solari posti lungo tutta la parte superiore dei tubi e grazie a un sofisticato sistema di recupero energetico, Hyperloop è in grado di produrre più elettricità di quanto ne consumi.
Quello di Dubai sarà quindi un servizio effettivo, mentre il modello sul quale in estate si prevede di condurre i primi test sarà in scala 1:2; i test sono previsti negli Stati Uniti, all'interno di un cilindro lungo circa un chilometro e mezzo.
L'idea del treno del futuro era stata lanciata nel 2013 da Elon Musk, fondatore delle aziende Tesla e Space X, ma il progetto parla anche italiano.
Gresta è infatti tra i fondatori dell'incubatore aziendale Digital Magics, che detiene una partecipazione di Jumpstarter, la società che controlla al 100% la Htt, incaricata di realizzare il treno supersonico. Dei 520 dipendenti della startup Hyperloop, 52 sono italiani. "Era il giugno del 2015 - ricorda Alberto Fioravanti, fondatore e presidente esecutivo della Digital Magics - quando raccontavamo per la prima volta in Italia questo progetto futuribile". La firma imminente dell'accordo, prosegue, "ci conferma che la visione, la proiezione in avanti a volte può spaventare, ma è indispensabile per migliorare la vita di tutti".
Emanuele Raffaele, Luca Cesaretti, Lorenzo Andrea Parrotta, Tommaso Sartor, Giorgio Valsecchi, Sandro Okutuga e Giulio De Simone – tra i 24 e i 26 anni – hanno sviluppato un progetto che a fine mese concorrerà allo SpaceX Hyperloop Pod Design Weekend organizzato presso la Texas A&M University (Austin).
In caso di vittoria riceveranno un premio in denaro e la possibilità di contribuire alla realizzazione di questo rivoluzionario mezzo di trasporto, immaginato nel 2013 daElon Musk - il patron delle auto elettriche Tesla. Il primo prototipo di Hyperloop sar・testato in scala 1:2 la prossima estate su un tracciato di circa 1 miglio.
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giovedì 18 febbraio 2016
118 anni fa nasceva il fondatore dalla casa di Maranello
Il 18 febbraio di 118 anni fa nasceva Enzo Ferrari, un uomo che ha vissuto e realizzato un sogno, che nella sua adolescenza, era limitato nel voler avere un’automobile tutta sua.
L’automobile in questione è diventata una casa di costruzione, la più famosa del mondo e vero e proprio orgoglio italiano; in sede sportiva è la più vincente con i suoi 15 titoli di piloti e i 16 di costruttori, oltre essere prima anche con più gran premi vinti. Una passione fortissima quella di Enzo Ferrari per la sua auto, la quale ha contagiato milioni e milioni di persone, il cui significato di Ferrari va ben oltre l’estetica e potenza del veicolo. Tale amore nacque nel modenese fin da piccolo, quando lavorava all’officina del padre, per poi svilupparsi in una buona carriera da pilota, la quale gli permetterà di usufruire del famosissimo “Cavallino Rampante”, ceduto dalla madre del celebre aviatore Francesco Baracca, che secondo la signora gli avrebbe portato fortuna.
I social media celebrano il fondatore nel giorno della sua nascita con foto, frasi celebri, registrazioni audio e video, i suoi luoghi preferiti. La Ferrari si serve del proprio profilo 'social', da Twitter a Facebook, da Linkedin a Youtube, per celebrare il suo fondatore, Enzo Ferrari. E la 'grande rivale' McLaren gli rende omaggio.
Sui social network dell'azienda e della scuderia modenese compare la scritta '18/02/1988 è nata una leggenda', accompagnata da un video in titolato 'Enzo Ferrari-The Idea', in cui il padre fondatore racconta la genesi della sua creatura. In un filmato è lo stesso Drake a raccontare: "Ricordo, nel 1912 vidi una fotografia su 'La Stampa illustrata', che si pubblicava allora a Torino, di Raffaele Di Palma: mi sembra, avesse vinto in quell'epoca la 500 miglia di Indianapolis. Mi dissi: questo è un italiano, perché un giorno non potrei anche io essere un pilota di automobili? E tutti gli atti sono stati una conseguenza di questo sogno dell'adolescenza".
Nel 118/o anniversario della nascita del 'Drake', sui social network della Ferrari compare la scritta '18/02/1988 è nata una leggenda', accompagnata da un video in titolato 'Enzo Ferrari-The Idea', in cui il padre fondatore racconta la genesi della sua creatura: "Ricordo, nel 1912 - racconta lo stesso 'Drake' nelle immagini - vidi una fotografia su 'La Stampa illustrata', che si pubblicava allora a Torino, di Raffaele Di Palma: mi sembra, avesse vinto in quell'epoca la 500 miglia di Indianapolis. Mi dissi: questo è un italiano, perché un giorno non potrei anche io essere un pilota di automobili? E tutti gli atti sono stati una conseguenza di questo sogno dell'adolescenza.
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martedì 9 febbraio 2016
Foibe: giornata della memoria, storia dimenticata per anni
Il 10 febbraio, e solo dal 2004, il pensiero del Paese va alle migliaia di connazionali massacrati e gettati ancora vivi nelle foibe dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito tra il '43 e il '47. Si trattò di una pulizia politica ed etnica che riguardò non solo i nazisti e i fascisti, ma anche uomini di chiesa, comunisti. Il massacro più vasto a guerra finita, nel maggio del 1945, per costringere gli italiani a fuggire dalle province istriane, dalmate e della Venezia Giulia. Secondo le fonti più accreditate le vittime furono almeno 5000, ma diversi storici parlano di oltre diecimila. Centinaia di migliaia gli esuli.
I morti in questo genocidio, per molto tempo dimenticato sono le vittime delle Foibe, vittime della pulizia politica ed etnica compiuta dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1945, una pulizia etnica mascherata come azione di guerra o vendetta e furono massacrati, spesso gettati ancora vivi nelle foibe, le cavità carsiche tipiche del territorio istriano.
Una storia che è stata dimenticata per anni dalla memoria collettiva, ma mai cancellata dalle menti di chi ha perso qualcuno e qualcosa di molto importante, ovvero tutto. Negli anni Novanta la politica interrompe quel silenzio e inizia a interessarsi di quella tragedia. Solo nel 2004 arrivò una legge, una norma che istituì il Giorno del ricordo per le vittime delle Foibe e dell’esodo.
“Nelle foibe morì una piccola parte di italiani. La maggioranza fu uccisa nei campi di concentramento in Jugoslavia”. A fare chiarezza in occasione del Giorno del Ricordo, istituito nel 2004 per commemorare, il 10 febbraio, le vittime italiane delle foibe titine, è stato Guido Franzinetti, docente di Storia dei territori europei all'università del Piemonte Orientale di Vercelli. Giusto ricordare le foibe, per lo studioso, ma il gran numero delle vittime italiane fu da tutt'altra parte. “Il che non consola nessuno”, ha aggiunto.
Ovviamente, si tratta di una data simbolica che fa riferimento al 1947, quando entrò in vigore il trattato di pace con cui le province di Pola, Fiume, Zara, parte delle zone di Gorizia e di Trieste, passarono alla Jugoslavia. All'indomani dell'armistizio si scatenò l'offensiva dei partigiani comunisti contro i nazisti e fascisti. Il massacro più vasto avvenne a guerra finita, nel maggio del 1945, per costringere gli italiani a fuggire dalle province istriane, dalmate e della Venezia Giulia.
La prima grande ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: iniziò un periodo di sbandamento, l’esercito italiano si dissolse e in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturarono, massacrarono, affamarono e poi gettarono nelle foibe circa un migliaio di persone. Li consideravano 'nemici del popolo’. Il massacro si ripeté nella primavera del 1945, quando le truppe di Tito occuparono Trieste, Gorizia e l'Istria. Le vittime erano gli italiani: non solo fascisti, ma anche personaggi che potevano rappresentare una classe dirigente dell’antifascismo perché punti di riferimento dell’opinione pubblica non allineata al nuovo potere. Tito si accanì anche contro i partigiani, con i membri del Comitato di liberazione nazionale, contro tutti coloro che volevano difendere la comunità italiana.
Sarebbero stati d’impiccio al suo grande progetto politico di annessione di quei territori. A cadere dentro le foibe ci furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini, ha raccontato a Mixer nel 1991 Graziano Udovisi, rappresentante della milizia italiana a Trieste e sopravvissuto a una foiba. Zara fu la prima città ad essere abbandonata dopo i bombardamenti angloamericani del '44. Poi toccò a Fiume, alla fine della guerra rimasta al di là di una linea tracciata su una carta geografica: la linea Morgan. Il 9 giugno 1945 Tito e il generale inglese Alexander divisero questa travagliata zona di confine in due parti: la provincia di Trieste e una parte di quella goriziana chiamata "Zona A" passarono sotto il controllo angloamericano; la "Zona B", di fatto tutta l'Istria, passò sotto il governo jugoslavo. Si trattò di un accordo temporaneo.
La decisione definitiva fu presa dalle nazioni vincitrici della guerra alla conferenza di pace di Parigi del 1947: l'Istria e la Venezia Giulia fino a Gorizia andarono alla Jugoslavia. Trieste e cinque piccoli comuni, la nuova Zona A, e una piccola parte dell'Istria settentrionale, la Zona B, costituirono un territorio libero sotto la sovranità internazionale. Il trattato di pace trasformò la decisione di singoli in un vero esodo di massa. Pola, Parenzo, Rovigno, Montoro, Albona e decine di piccoli centri della costa istriana furono abbandonati. Il 5 ottobre 1954 arrivò la definizione dei confini con il memorandum di Londra che sancì che l'Italia doveva assumere la diretta amministrazione di Trieste e della sua provincia, mentre la Jugoslavia quella della zona B. Il risultato fu lo svuotamento anche dell'Istria settentrionale. Restarono 5mila italiani, una minoranza etnica. Centinaia di migliaia di persone (il numero è incerto: c’è chi parla di 350mila, chi di 270mila) si trasformarono in esuli.
“Foibe”: una sola parola per indicare una serie di crimini diversi che sis volsero nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945, il vuoto di potere, post guerra, lasciò spazio a feroci ondate di violenza che colpirono a vario titolo italiani e non. I comunisti di Tito misero in atto arresti, esecuzioni, deportazioni nei campi di concentramento balcanici, portando alla morte brutale di migliaia di civili e all’esodo di altrettante persone, persino a guerra finita.
lunedì 8 febbraio 2016
Angela Merkel e la strana alleanza con la Turchia: "Inorridita dai raid russi “
La Cancelliera tedesca Angela Merkel si è detta "inorridita" dalle sofferenze provocate fra i civili in Siria dai raid russi. Decine di migliaia di persone stanno lasciano in questi giorni la città di Aleppo, solo per rimanere bloccate al confine turco che Ankara ha deciso di chiudere.
Pur di tenere lontani i profughi siriani che qualche mese fa aveva accolto a braccia aperte per poi pentirsi, il cancelliere tedesco Angela Merkel, in Turchia, si dice «inorridita» dai raid russi, che certamente vanno con la mano pesantissima ad Aleppo, ma perché non afferma la stessa cosa della barbarie del Califfato e dei jihadisti?
Dopo un incontro con il premier Ahmed Davutoglu si è detta d'accordo nel coinvolgere la Nato per fermare la massa dei profughi. La Merkel sta forse decidendo di dare via libera alla Turchia per creare una «zona cuscinetto» che neppure gli Stati Uniti finora hanno concesso?
Oltre ai miliardi dell'Unione europea, questo deve essere evidentemente il prezzo concordato con Ankara per fermare i rifugiati. Ma il cancelliere tedesco è informato sulla situazione dei curdi siriani che si oppongono al Califfato e che i turchi vorrebbero far fuori a ogni costo? È molto probabile che lo sia ma lei e forse anche noi abbiamo bisogno dei turchi non di difendere dei princìpi e di coloro che li sostengono combattendo i jihadisti.
La Turchia ha chiuso la frontiera ai profughi proprio per avere l'occasione di penetrare dentro la Siria e spezzare le linee di difesa dei curdi siriani che sono il loro obiettivo principale in quanto ritenuti alleati del Pkk. Ad Ankara dei rifugiati non importa nulla: il presidente Erdogan pensava di usarli come massa di manovra contro il regime di Damasco ed per estendere la sua influenza in Siria ma la resistenza di Assad e l'intervento della Russia hanno fatto saltare i suoi piani. Adesso la Germania va in soccorso di un governo islamico che ha aperto l'autostrada della Jihad e contribuito al caos siriano.
Di fronte alla possibilità che Assad con l'appoggio di Mosca, di Teheran e degli Hezbollah possa restare in sella e vincere la guerra, l'Occidente trova un comodo e interessato alleato nella Turchia per impedire un'affermazione della Russia e dell'unico fronte che combatte l'Isis sul campo. Americani, sauditi e turchi non hanno mai avuto l'intenzione di eliminare il Califfato ma solo di tenerlo sotto controllo intanto che svolgeva il suo compito di abbattere il regime di Assad e di contenere l'influenza regionale dell'Iran. Allora milioni di profughi in Iraq, Siria, Giordania, Libano, Turchia, sembrava che fossero un prezzo equo pur di far fuori il raìs siriano. L'impressione però è che l'Occidente e la signora Merkel si siano svegliati tardi e di affidino a un raìs, quello turco, che non è la soluzione ma una parte del problema.
"Negli ultimi giorni siamo stati non solo costernati ma anche inorriditi da ciò che è stato provocato, in termini di sofferenze umane, a decine di migliaia di persone, dai bombardamenti prima di tutto dei russi", ha dichiarato Merkel, dopo aver incontrato il premier turco Ahmet Davutoglu.
"Le immagini drammatiche che ci arrivano dal confine fra Siria e Turchia dimostrano una cosa: chi pensa di poter imporre una soluzione militare al conflitto in Siria sbaglia", ha aggiunto il ministro degli esteri Frank Walter Steinmeier, in una intervista a der Spiegel online.
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lunedì 1 febbraio 2016
Elezioni USA: Iowa, scattano le primarie
Tra i democratici testa a testa Clinton e Sanders. I sondaggi repubblicani danno Trump in vantaggio per i repubblicani.
Insieme alle primarie oggi al via il caucus: un sistema adottato da alcuni Stati dove si riunisce l'assemblea chiusa degli attivisti di partito, che scelgono i delegati alla Convention. Nel caso dell'Iowa gli attivisti eleggeranno i delegati delle contee, che a loro volta eleggeranno quelli dello Stato e dei distretti che infine nomineranno quelli che andranno alla Convention del partito. Quella dei democratici si svolgerà il 25 luglio a Philadelphia, dove parteciperanno i 4.051 delegati, quella dei repubblicani dal 18 al 21 luglio a Cleveland, nella quale si riuniranno i 2.346 delegati. Trattandosi di elettori molto motivati e politicizzati, questo sistema tende generalmente a favorire i candidati più radicali (differentemente dal sistema delle primarie aperte, che attrae voti più trasversali e indipendenti).
Ciascuno dei maggiori partiti organizzerà separatamente il caucus (che a differenza delle elezioni primarie sono eventi privati organizzati dai partiti con l'aiuto dei loro volontari), presentando regole differenti tra repubblicani e democratici. Per esempio, nel Grand Old Party si terrà un voto segreto, differentemente da quanto avrà luogo nel partito dell'asino. I repubblicani mettono in palio 30 delegati. I democratici 52. Il sistema di attribuzione in questo Stato è identico per entrambi i partiti ed è quello proporzionale.
Il caucus dell'Iowa è appuntamento fondamentale per le primarie. Innanzitutto per la copertura mediatica: il candidato vincente acquisisce notorietà. Si pensi a due casi: Barack Obama nel 2008 e Rick Santorum nel 2012 che erano dati come nomi di poco conto, invece riuscirono a imporsi vincendo proprio i caucus dell'Iowa. I finanziatori, inoltre, spesso decidono di foraggiare i candidati che vincono i caucus. In considerazione di quest'ultimo fatto, spesso chi ottiene scarse performance in Iowa, viene abbandonato dai finanziatori e costretto ad arrendersi: si veda il caso di Rick Perry e Michele Bachmann nel 2012.
Al via le primarie per le presidenziali statunitensi. Stasera nell’Iowa si svolge il primo caucus, l’assemblea degli attivisti per decidere i candidati che parteciperanno alle convention del partito democratico e di quello repubblicano. Secondo i sondaggi il repubblicano Donald Trump ha un leggero vantaggio su Ted Cruz, mentre la democratica Hillary Cliton ha un piccolo margine nei confronti di Bernie Sanders.
La Stepping Homes è una libreria piena di crocifissi e di scaffali contrassegnati da cartellini in caratteri vintage: «Bibles», «Devotional», «Christian Living», «Christian Fiction». È un venerdì sera, fa freddo, non c’è quasi nessuno in giro a Grinnell, 9.200 abitanti, una cittadina a nord-est di Des Moines, la capitale dall’Iowa. Anche il negozio è vuoto. Alla cassa Michaela, una ragazza di 18 anni, chiacchiera volentieri. Suo padre è il reverendo Brandon Bradley, pastore della Grinnell Christian Church.
«Lui voterà per i repubblicani, non so se per Ted Cruz o Marco Rubio — dice Michaela —. Io sono indecisa, mi attirano i democratici... Hillary Clinton o Bernie Sanders? Forse Sanders».
Nell’America metropolitana, a New York soprattutto, molti pensano che il Mid-West sia ancora popolato da bigotti integralisti, con i mutandoni di lana fino alle caviglie, pronti ad appoggiare in blocco la destra più conservatrice della Nazione. È davvero così? Vale la pena cercare qualche segnale diretto nella profondità dell’«evangelical America». Per esempio a Grinnell, Comune nato nel 1854 e che prende il nome del fondatore, un religioso Congregazionalista del Vermont. Circa 9.200 abitanti e un’impressionante densità di chiese: 15 di confessione protestante, una cattolica e un’altra decina di piccole comunità cristiane spirituali.
Più croci che supermercati, per non parlare dei bar. Nell’altra libreria cittadina, «Pioneer Bookshop», Kate Fischer, 37 anni, sposata, quattro figli, la mette così: «Le cose stanno cambiando anche qui. C’è una frattura generazionale che comincia proprio con le persone della mia età. A Grinnell è arrivata la cultura della finanza, c’è un college di valore nazionale. Penso che soprattutto per chi ha meno di quarant’anni le scelte non siano più così rigide. Io sono credente, faccio parte della Christian missionary alliance, ma potrei votare per un candidato democratico: guardo il programma, la persona».
Segnali, appunto, che non devono far perdere di vista il quadro generale. I candidati repubblicani, Trump e Cruz, si contendono una larga parte dei voti degli evangelici, poi viene Marco Rubio. Tutti i pretendenti conservatori hanno speso molti soldi per spot pubblicitari dal forte odore di incenso, trasmessi in modo ossessivo da radio e televisioni locali.
Il neurochirurgo Ben Carson arriva a proclamarsi «il più credente di tutti». Ma attenzione: l’Iowa questa volta potrebbe riservare qualche sorpresa. Sulla carta, per esempio, il «socialista» Sanders dovrebbe essere tagliato fuori. Invece le sue posizioni «inclusive», la sua insistenza sui bisogni dei più poveri, «gli ultimi», hanno destato una certa attenzione nelle comunità religiose. La prova? Non c’è. Ci sono, però, molti indizi interessanti.
È il momento di rientrare a Des Moines. Tappa nella più grande chiesa presbiteriana dello Stato: la Westminster Presbyterian Church, costruita nel 1858. Fa da guida Laura Sherlock, una giovane donna sulla trentina, sposata, due figli. È la direttrice delle Comunicazioni della comunità. Per prima cosa disegna la mappa religiosa del territorio: «Direi che il 50 per cento della popolazione di Des Moines (207 mila abitanti, ndr) è cristiana, distribuita tra le diverse ramificazioni dei protestanti. La quota dei cattolici è modesta. Il 25 per cento circa frequenta attivamente le oltre 100 chiese di Des Moines».
Più o meno queste proporzioni, aggiunge Laura Sherlock, valgono per l’Iowa, 3 milioni di persone. «La Westminster conta su 1.200 membri. Alla celebrazione della domenica vengono circa 400 fedeli. Ma quello che conta è che noi siamo una comunità aperta. Ecco vede questo arcobaleno sul nostro volantino? Significa che le porte sono aperte anche per le coppie di omosessuali». Dispiega il foglietto, legge: «Tutti sono benvenuti, senza distinzione di età, razza, sesso; sposati o divorziati; qualunque sia la condizione fisica, l’identità sessuale, l’orientamento sessuale, l’etnia, le condizioni economiche...». La giovane signora Sherlock ora tira le fila, con un sorriso: «Come vede non siamo così ottusi. Anzi direi che siamo su posizioni socio-politiche piuttosto avanzate. Crediamo e pratichiamo molto l’assistenza sociale. Sembra di sentir parlare Sanders? Beh, qui molti lo stimano. Poi certo, altri sceglieranno i repubblicani. Anche noi siamo pur sempre americani, no?».
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