lunedì 26 novembre 2018

Alta tensione sul Mar Nero tra Mosca-Kiev



L’Ucraina accusa Mosca di aver sparato sulle navi ucraine nello stretto di Kerch, ferendo almeno due persone, e sequestrando tre navi. Si tratterebbe di due piccole imbarcazioni da guerra e di un rimorchiatore che stavano attraversando lo stretto, dirette verso il porto di Mariupol. La versione di Mosca, invece, è diametralmente opposta: le navi ucraine avrebbero attraversato le acque territoriali russe senza alcuna autorizzazione. I servizi segreti russi, inoltre, hanno accusato Kiev di voler provocare un “conflitto nella regione“.

In poco tempo, la tensione è salita alle stelle. Il presidente ucraino, Petro Poroshenko, ha convocato una riunione d’emergenza con i vertici militari mentre Mosca ha bloccato lo stretto di Kerch, che rappresenta l’unico collegamento marittimo tra il Mar Nero e il Mare d’Azov. Gli attori che in questi anni hanno seguito il conflitto ucraino hanno fatto subito sentire la loro voce. L’Alto rappresentante della politica estera Ue, Federica Mogherini, ha chiesto subito di ripristinare la libertà di circolazione nello stretto e di allentare la tensione. Tensione che, però, non ha fatto altro che aumentare.

Resta alta la tensione tra Russia e Ucraina dopo l'incidente sullo stretto di Kerch, fra Mar Nero e Mar d'Azov. Decine di estremisti di destra stanno bruciando pneumatici davanti al consolato russo di Leopoli, in Ucraina occidentale, per protestare contro il sequestro di tre battelli militari ucraini a largo della Crimea da parte delle forze marittime russe. La dimostrazione è organizzata dai nazionalisti del Corpo Nazionale. La Russia chiede agli alleati occidentali di Kiev di "intervenire" e "dare una calmata" alla autorità ucraine, "coloro che vogliono mettere a segno punti politici prima delle elezioni presidenziali in Ucraina". Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, citato dalle agenzie russe.

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha espresso oggi al presidente ucraino, Petro Poroshenko, "pieno sostegno" alla difesa dell'integrità e della sovranità territoriale del Paese, anche per quanto riguarda "il diritto di navigazione nelle sue acque territoriali". Sostegno a Kiev anche dall'Ue. Gli sviluppi nel mar d'Azov sono inaccettabili e ci aspettiamo che la Russia lasci andare subito le navi e l'equipaggio". Lo afferma una portavoce della Commissione europea condannando "l'aggressione verso l'Ucraina" che ha generato una "pericolosa escalation". Stiamo prendendo la questione con "grande serietà", assicura la portavoce, "e per noi è una priorità in questo momento. I contatti dell'Alto rappresentante Ue Federica Mogherini sono in corso e non si escludono anche altre iniziative.

Il Consiglio nazionale ucraino di sicurezza e difesa si è riunito d'urgenza in piena notte a Kiev, con il presidente Petro Poroshenko, per chiedere al Parlamento di dichiarare la legge marziale. Le forze armate russe hanno confermato l'incidente di ieri, in cui sono stati sparati colpi di cannone, sono stati feriti alcuni marinai ucraini e anche il sequestro di tre navi ucraine da parte della Russia: si tratta di due unità militari cannoniere e un rimorchiatore.

Poroshenko, ha precisato che la legge marziale non significa "una dichiarazione di guerra". "L'Ucraina non ha in programma di fare la guerra a nessuno", ha assicurato il presidente, definendo l'incidente di ieri "non provocato e folle". Il ministero della difesa ha però reso noto di aver diramato l'ordine di mettere le forze armate in stato di allerta operativa.

Russia e Ucraina da ieri si stanno scambiando accuse di aver provocato la crisi, nella quale sono stati sparati dei colpi, che hanno provocato il ferimento di alcuni marinai ucraini, è stato speronato un rimorchiatore ucraino che stava trainando due unità militari della Marina di Kiev attraverso lo stretto di Kerch, che divide il Mar Nero dal Mare di Azov, e la penisola di Crimea a est dal territorio continentale della Federazione russa. Una violazione delle acque territoriali russe, secondo Mosca; un'aggressione non provocata secondo Kiev, che afferma di aver avvertito preventivamente la Russia del passaggio. Si tratta di una delle escalation più gravi fra i due Paesi vicini dopo l'annessione della Crimea alla Russia nel 2014.

L’asse franco-tedesco continua a voler prendere il sopravvento sulla politica estera dell’Unione europea. E Francia e Germania adesso vorrebbero rappresentare l’Europa nella crisi fra Russia e Ucraina sul Mar d’Azov. Come ha dichiarato il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, in visita a Madrid, Berlino e Parigi potrebbero avere un ruolo da mediatori nella crisi fra Kiev e Mosca.

E l’occasione potrebbe essere durante un vertice che si terrà nella capitale tedesca la prossima settimana. “La riunione, programma da diverso tempo per lunedì a Berlino, con la Russia e l’Ucraina, potrebbe essere l’occasione. Francia e Germania si adoperano insieme, e se necessario come mediatori, per prevenire che lo scontro porti a una grave crisi”.

Una notizia importante che dimostra, ancora una volta, come Francia e Germania abbiano iniziato una progressiva opera di unione delle proprie forze per prendere in mano la rappresentanze dell’Europa. Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno già confermato più volte che è l’asse fra i loro Paesi a dover essere il pilastro su cui fondare la nuova Unione europea.

Il conflitto ucraino dura ormai dal 2014 e ha provocato oltre 9mila morti. Un conflitto silenzioso, che si combatte soprattutto attorno le province indipendentiste di Donetsk e Lugansk. Nonostante i molti cessate il fuoco che hanno costellato i quattro anni di conflitto, le due parti hanno continuato a minacciarsi a vicenda.

Solamente pochi mesi fa, inoltre, è stato ucciso il leader separatista Alexander Zakharchenko. Un’azione che, secondo le autorità del Donbass, sarebbe stata condotta dai servizi segreti ucraini. E ieri il sequestro delle navi.




domenica 25 novembre 2018

Sì alla Brexit, May: "Riprendiamo il controllo dei confini e delle risorse



Con l'intesa raggiunta con l'Ue, "la Gran Bretagna riprenderà il controllo dei confini e delle proprie risorse che saranno spese in base alle proprie priorità": lo ha dichiarato la premier britannica Theresa May al termine del vertice del Consiglio europeo che ha dato il via all'intesa sulla Brexit. "Sono tutte cose che vanno nell'interesse nazionale", ha aggiunto la premier che nelle scorse ore ha fatto appello ai cittadini britannici affinché il divorzio dall'Unione sia "un momento di riconciliazione". "Garantiti i diritti dei cittadini Ue che vivono nel Regno Unito" "Abbiamo una partnership economica con l'Unione europea più di altri paesi. E' un bene per gli affari ed è un nostro interesse internazionale. Ebbene- rassicura la premier- se siete tra i 3 milioni di cittadini dell'Unione che sono nel Regno Unito saranno garantiti i vostri diritti e per il milione di cittadini britannici che vivono nell'Ue sarà lo stesso. Questo accordo vale per tutti e sarà reso più sicuro dalla clausola di cooperazione di sicurezza". Stabilizzare lo status dei cittadini europei che vivono, lavorano e studiano nel Regno Unito, con garanzie reciproche, che si applicheranno simmetricamente anche i cittadini britannici residenti nell'Ue era uno dei cinque obiettivi principali del negoziato di Londra con Bruxelles.

I 27 leader Ue hanno adottato il testo di conclusioni del vertice sulla Brexit, in cui si invitano "Commissione, Parlamento europeo e Consiglio, a fare i passi necessari per garantire che l'accordo possa entrare in vigore il 30 marzo 2019, in modo da assicurare un recesso ordinato" del Regno Unito.

Se qualcuno pensasse al Parlamento britannico "di rigettare questo accordo" sulla Brexit, pensando di poter ottenere un'intesa migliore, resterebbe deluso un attimo dopo la bocciatura, perché questo è l'unico accordo possibile", ed "è la migliore intesa possibile", ha detto il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, al termine del vertice, sottolineando che "oggi è un giorno triste".

"Di fronte a noi c'è un difficile processo di ratifica" dell'accordo di recesso del Regno Unito e "nuovi negoziati" ha detto il presidente del Consiglio europeo, Tusk al termine del vertice sulla Brexit -. Ma col Regno Unito "resteremo amici fino alla fine dei giorni, e anche un giorno di più".

"Ora è giunto il momento che ognuno si assuma le sue responsabilità", in quanto "questo accordo" di divorzio "è il passo necessario per costruire la fiducia tra l'Ue e la Gran Bretagna per costruire i prossimi passi". Così il capo negoziatore Ue Michel Barnier all'arrivo al vertice straordinario sulla Brexit. "Resteremo partner, alleati e amici" con Londra, ha concluso, ricordando di aver "sempre negoziato con e non contro la Gran Bretagna". Barnier ha quindi ringraziato i team di negoziatori, i 27 e l'Europarlamento.

"Questo è un Consiglio europeo storico ma che scatena sentimenti misti" in quanto "la Gran Bretagna se ne va dall'Ue dopo 25 anni ma noi rispettiamo la decisione del popolo britannico". Così la cancelliera tedesca Angela Merkel al termine del vertice Ue straordinario sulla Brexit, sottolineando che "la cooperazione tra i 27, la Commissione Ue e il Parlamento europeo è stata eccellente" e che l'accordo di divorzio "è nel nostro interesse". "Ho una sensazione di sollievo per aver ottenuto quanto è stato ottenuto", ha concluso.

 Il Consiglio europeo, si legge nelle conclusioni del vertice "sostiene l'accordo sull'uscita del Regno Unito dall'Unione europea e invita la Commissione, il Parlamento e il Consiglio a intraprendere i passi necessari per assicurare che l'accordo possa entrare in vigore il 30 marzo 2019, in modo da garantire un'uscita ordinata" della Gran Bretagna dall'Unione europea. I 27 leader hanno approvato inoltre la dichiarazione politica che delinea il quadro per le future relazioni fra Londra e Bruxelles. Il Consiglio "ribadisce la determinazione dell'Unione di avere una partnership più stretta possibile con il Regno Unito" in linea con la dichiarazione politica. L'approccio della Ue continuerà a essere definito dalle posizioni e dai principi definiti nelle linee guida concordati dal Consiglio europeo.

L'accordo affronta, tra le altre cose, alcuni aspetti fondamentali come il periodo di transizione, i diritti dei cittadini europei che risiedono in Gran Bretagna dopo il 2019 e quelli dei cittadini britannici in Europa, gli impegni finanziari di Londra con l'Ue e le relazioni fra l'Irlanda del Nord e l'Irlanda. Ecco di seguito i punti chiave dell'intesa:

In base a quanto prevede l'intesa, il Regno Unito lascerà l'Ue il 29 marzo 2019, ma fino al 31 dicembre 2020 sarà mantenuta la situazione attuale, per quanto riguarda l'unione doganale, il mercato unico e le politiche europee. Durante il periodo di transizione il Regno Unito dovrà attenersi alle norme dell'Ue, ma non farà più parte delle sue istituzioni. Il progetto di accordo stabilisce inoltre che la transizione potrà essere estesa una solo una volta e per un periodo limitato, tramite un accordo congiunto. In questo caso la decisione deve essere presa prima del 10 luglio 2020.

La bozza di accordo stabilisce anche gli impegni finanziari che il Regno Unito dovrà assumere per uscire dall'Ue. Anche se la cifra non figura nel testo dell'accordo, per divorziare con Bruxelles il Regno Unito dovrebbe versare nelle casse europee almeno 39 miliardi di sterline (circa 45 miliardi di euro). Quest'anno, ricorda la Bbc, il contributo del Regno Unito al bilancio dell'Ue è previsto in 10,8 miliardi di sterline.

Questo punto resta sostanzialmente invariato rispetto alla bozza iniziale dell'accordo. I cittadini britannici che vivono nel continente e i cittadini dell'Ue che vivono nel Regno Unito manterranno i loro diritti anche dopo la Brexit. I cittadini che prenderanno la residenza in un altro paese dell'Ue durante il periodo di transizione (compreso il Regno Unito) potranno restare in quel Paese anche dopo la transizione.

Fin dall'inizio del negoziato, sia Londra che Bruxelles hanno concordato sulla necessità di mantenere aperto il confine irlandese e impedire che il ripristino delle barriere fisiche tra Repubblica d'Irlanda e Irlanda del Nord compromettesse l'accordo di pace del 1998. Per questo si è deciso di ricorrere a un 'backstop', una clausola di salvaguardia. Il backstop dovrebbe garantire il mantenimento del confine aperto anche dopo il periodo di transizione post Brexit. In questo periodo si negozierà il futuro trattato commerciale tra Regno Unito e Ue che, secondo gli auspici, dovrebbe risolvere anche in modo definitivo la questione irlandese. Di fatto, non c'è nessuna garanzia che si possa giungere a un accordo e per questo è stata prevista la clausola di garanzia.

Il backstop concordato tra Londra e Bruxelles prevede che l'Irlanda del Nord resti allineata ad alcune regole Ue in tema di prodotti alimentari e standard sulle merci. In questo modo, non saranno necessari controlli doganali e di frontiera tra Repubblica d'Irlanda (che rimarrà territorio Ue) e Nord Irlanda. I controlli saranno però necessari per le merci destinate all'Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito, di fatto istituendo un confine nel Mare d'Irlanda. In questo scenario, è stato concordato di creare un territorio doganale unico tra Regno Unito e Ue, e l'Irlanda del Nord resterebbe in questo medesimo territorio doganale. Finché il backstop è operativo, il Regno Unito sarà soggetto a "condizioni di parità", per garantire che non possa ottenere un vantaggio competitivo pur rimanendo nello stesso territorio doganale.



venerdì 23 novembre 2018

Usa e la richiesta ai Paesi alleati di boicottare Huawei



Da un articolo del Wall Street Journal, dove si spiega come il governo USA abbia avviato una «straordinaria campagna di sensibilizzazione» per avvertire le nazioni a loro più vicine dei pericoli legati al colosso cinese. C’è la Germania, c’è il Giappone, c’è anche l’Italia. Uno dei suoi mercati più importanti, il nostro. Nonostante i suoi dispositivi siano vietati da tempo negli Stati Uniti, ora l’America vorrebbe che anche i Paesi più vicini a loro seguissero l’esempio e intervenissero sulle infrastrutture per le telecomunicazioni installate dalla stessa Huawei nei loro confini.

Gli Stati Uniti stringono un inedito «cordone sanitario» attorno al colosso tecnologico cinese Huawei, coinvolgendo nell’offensiva i più stretti alleati tra i quali l’Italia. L’amministrazione Trump, aprendo un nuovo capitolo della sfida per la supremazia nell’hi-tech con Pechino e preoccupata dai rischi di sicurezza nazionale, ha iniziato una campagna di forti pressioni sui Paesi alleati perché isolino il gruppo asiatico e i suoi prodotti nelle telecomunicazioni. Questi prodotti, visti i legami dell’azienda con Pechino, sono accusati di creare rischi di cybersecurity, sia sul fronte militare che economico e finanziario.

Lo sforzo statunitense ha visto funzionari dell’amministrazione organizzare una intensa serie di incontri e briefing informali con esponenti governativi e dirigenti del settore delle Tlc su scala globale per far avanzare la loro causa: tra i paesi coinvolti, ha rivelato il Wall Street Journal, oltre all’Italia ci sono la Germania e il Giappone. La ragione è che in simili nazioni le tecnologie targate Huawei sono considerate diffuse e si trovano allo stesso tempo importanti basi militari statunitensi che, stando a Washington, potrebbero essere a rischio di spionaggio e sabotaggio.

Il Pentagono ha un proprio sicuro sistema di comunicazione e ricorre a satelliti per la gestione delle informazioni più segrete. La maggior parte del normale e comunque delicato traffico nelle basi e istituzioni militari all’estero passa tuttavia spesso attraverso normali network commerciali. La Casa Bianca è talmente preoccupata da aver anche sfoderato un’arma economico-finanziaria per convincere alcuni alleati a schierarsi al suo fianco senza remore. Starebbe prendendo in considerazione speciali aiuti per lo sviluppo nel settore telecomunicazioni a nazioni che rifiutino di far entrare nei loro confini le attrezzature della società cinese.

Particolare urgenza deriva oggi dal fatto che società wireless e fornitori di servizi Internet si apprestino ad acquistare e adottare rapidamente tecnologie di nuova generazione e superveloci per i nuovi sistemi mobili 5G, capaci di gestire dall’Internet delle cose alle auto self-driving. L’avvento di questa realtà potrebbe mettere in pericolo e rendere vulnerabili, oltre alle forze armate, impianti industriali e infrastrutture vitali. Le paure in materia di cibersicurezza e telecomunicazioni, a fronte della minaccia cinese, erano iniziate già prima dell’arrivo di Trump. Ma la sua amministrazione ha adottato toni generalmente molto più duri a tutto campo con la potenza asiatica, anche sul fronte economico. Atteggiamenti protezionistici ha inoltre preso anche contro alleati, potenzialmente indebolendo un «cordone» anti-cinese.

 Il nuovo assedio diplomatico-industriale che vede al centro Huawei avviene mentre l’amministrazione Trump è già impegnata in un duro confronto commerciale con Pechino che potrebbe non ammorbidirsi neppure in occasione del G20 in Argentina a fine mese. Gli Stati Uniti hanno imposto dazi su centinaia di miliardi di dollari di import cinese e Pechino ha riposto decidendo rappresaglie, con ulteriori escalation ancora possibili.

Il giornale cita persone a conoscenza della situazione: dei funzionari federali avrebbero informato le controparti governative e i dirigenti delle società di telecomunicazione dei rischi sulla cybersicurezza a cui potrebbero andare incontro se continuano ad aprire le porte a Huawei. Non solo: la proposta comprenderebbe anche un’ipotesi di aiuti finanziari per finanziare le telecomunicazioni come «premio» a chi decide di boicottare il colosso cinese. Perché questo invito? Il governo sarebbe preoccupato che dalle apparecchiature, i cinesi possano violare le basi militari americani che sono state costruite sui territori alleati. Le cui comunicazioni viaggiano per la maggior parte attraverso reti commerciali.

E’ arrivata velocemrnte la risposta dai cinesi, che si dicono «sorpresi dai comportamenti del governo Usa descritti nell’articolo», che vanno «oltre la sua giurisdizione, tale attività non dovrebbe essere incoraggiata». Huawei è utilizzato in oltre 170 Paesi del mondo: «Serviamo 46 dei primi 50 operatori mondiali, aziende di Fortune 500 e centinaia di milioni di consumatori. Ci scelgono perché si fidano pienamente». «Huawei è sorpresa dai comportamenti del governo Usa: se il comportamento di un governo si estende oltre la sua giurisdizione, tale attività non dovrebbe essere incoraggiata». È questa la reazione di un portavoce di Huawei. «Prodotti e soluzioni Huawei sono ampiamente usati in oltre 170 Paesi in tutto il mondo, servono 46 dei primi 50 operatori mondiali, aziende di Fortune 500 e centinaia di milioni di consumatori. Ci scelgono perché si fidano pienamente», ha concluso.



sabato 17 novembre 2018

Cos’è successo al San Juan, trovato a 600 km al largo di Commodoro Rivadavia



E' stato individuato in Atlantico meridionale il relitto del sottomarino argentino A.R.A. San Juan inabissatosi il 15 novembre 2017 con 44 membri dell'equipaggio. La Marina Militare Argentina ha indicando un quadrante al largo della Patagonia distante 600 km dal porto di Commodoro Rivadavia. Il rilevamento di una massa d'acciaio lunga 60 metri a 800 metri di profondità è opera di una unità statunitense della compagnia Ocean Infinity che aveva mandato a perlustrare un sottomarino robot.

I responsabili delle ricerche hanno fatto partire subito la nave norvegese 'Seabed Constructor' che sarà incaricata del recupero del sottomarino.

In viaggio fra Ushuaia e Mar del Plata il comandante del San Juan avvertì di un guasto causato da una via d'acqua che aveva innescato un incendio nel compartimento batterie. Il San Juan non arrivò mai al porto dove era atteso il 19 novembre. In successione prese poi il via un'operazione di ricerca che ha coinvolto navi provenienti da Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il sottomarino è stato individuato a 800 metri di profondità al largo della penisola di Valdes, in Patagonia. La Marina ha riferito che il ritrovamento è stato possibile grazie ad un sommergibile telecomandato dalla nave americana Ocean Infinity, recentemente noleggiata per cercare il sottomarino. La scoperta è stata annunciata due giorni dopo una commemorazione delle vittime organizzata dai familiari il 15 novembre, giorno della scomparsa.

E' passato un anno dalla tragedia del San Juan. Dodici mesi di incessanti ricerche finite oggi con il ritrovamento nell'Atlantico del relitto. Il sottomarino militare argentino era scomparso il 15 novembre scorso con 44 persone a bordo mentre stava tornando da una missione di routine a Ushuaia. Non è ancora stata fatta chiarezza sulle cause della tragedia. Secondo quanto ricostruito il sottomarino avrebbe imbarcato acqua dallo snorkel, il tubo che garantisce l'afflusso d'aria per la ricarica delle batterie e l'aerazione dei locali. A quel punto si sarebbe sviluppato un corto circuito e poi un principio di incendio.

Il San Juan, un TR-1700 di fabbricazione tedesca, è stato segnalato per l'ultima volta a oltre 400 chilometri al largo delle coste della Patagonia. Nell'ultima comunicazione con la base navale di Mar del Plata, avvenuta la mattina del 15 novembre, l'equipaggio aveva segnalato l'ingresso di acqua nella nave, quindi un cortocircuito e un principio di incendio. Tre ore dopo quest'ultimo contatto, le agenzie internazionali avevano rilevato un rumore compatibile con un'esplosione
Dopo la scomparsa del sottomarino era scattata una corsa contro il tempo per tentare di salvare l'equipaggio. Le speranze si erano spente due settimane dopo quando il ministro della difesa argentino Oscar Aguad aveva ammesso che non c'era più alcuna possibilità di trovare vivi i membri del San Juan. "Secondo la Marina, le condizioni estreme in cui è avvenuta la scomparsa e il lasso di tempo trascorso - aveva spiegato - sono ormai incompatibili con l'esistenza in vita".

Tra i 44 del San Juan c'era chi stava per sposarsi e chi tra poco sarebbe diventato padre. Il comandante del sottomarino Pedro Martín Fernández, 45 anni, in Marina da 20 anni, aveva viaggiato per il mondo in missioni e esercitazioni. A bordo c'era anche una donna: Eliana Maria Krawczyk, 35 anni. Soprannominata dal padre "la Regina del mare", era la prima donna ufficiale di sottomarino del Sudamerica. Si era unita alla Marina dopo una doppia tragedia familiare: suo fratello morto in un incidente d'auto e sua madre deceduta per un infarto.

Negli ultimi 80 anni sono stati diversi gli incidenti che hanno coinvolto un mezzo sottomarino, provocando moltissimi morti. Il bilancio più grave mai registrato si è avuto nel 1963, quando persero la vita 129 persone. Ecco i precedenti: 1 giugno 1938 - Il sommergibile HMS Thetis del Regno Unito affonda a Liverpool Bay: 99 morti. 10 aprile 1963 - Lo Uss Thresher finisce a picco dopo aver perso potenza nei test al largo di Cape Cod: 129 morti. 8 marzo 1968 - Il sommergibile sovietico K-129 affonda per cause sconosciute al largo di Oahu (nelle Hawaii): 98 morti. 22 maggio 1968 - L'americano Uss Scorpion affonda al largo delle Azzorre per l'esplosione di un siluro: 99 morti. 12 aprile 1970 - Il K-8 affonda nel Golfo di Biscaglia dopo due incendi a bordo: 52 morti. 7 aprile 1989  Il mezzo russo K-278 affonda al largo della Norvegia dopo un'esplosione provocata da un cortocircuito: 42 morti. 12 agosto 2000 - Il K-141 Kursk va giù nel mare di Barents dopo un'esplosione: 118 morti. 16 aprile 2003 - Nel sottomarino cinese Great Wall, a causa di un difetto dei motori diesel, viene consumato tutto l'ossigeno: 70 morti. 8 aprile 2008 - Nel russo K-152 Nerpa il sistema di spegnimento degli incendi rilascia gas velenoso in modo accidentale: 20 morti. 14 agosto 2013 - Il sottomarino indiano di costruzione russa INS Sindhurakshak esplode nel porto di Mumbai: 18 morti.

domenica 11 novembre 2018

100 anni fa l'armistizio, cerimonia a Parigi



"Il patriottismo è l'esatto contrario del nazionalismo e dell'egoismo".Mentre il presidente francese, Emmanuel Macron, pronunciava queste parole in occasione del centenario dell'Armistizio, Donald Trump non riusciva a trattenere le smorfie.

"L'11 novembre, esattamente 100 anni fa a Parigi, come ovunque in Francia, fu armistizio. Era la fine di quattro lunghi e terribili anni. Per quattro anni, l'Europa rischiò di suicidarsi. La lezione della Grande Guerra non può essere quella del rancore di un popolo contro gli altri", ha detto Macron nel suo discorso. Intanto Trump se la rideva.

Leader del mondo a Parigi per commemorare la fine della prima guerra mondiale. All'Arco di Trionfo 72 capi di Stato e di governo hanno ascoltato il discorso del presidente francese Macron. Poco prima un blitz delle Femen aveva bloccato il convoglio del presidente Trump.     "Tutti noi, leader politici, dobbiamo, in questo 11 novembre 2018, riaffermare davanti ai nostri popoli la nostra reale e immensa responsabilità: quella di trasmettere ai nostri figli il mondo che le generazioni precedenti hanno sognato", ha affermato dal presidente francese, Emmanuel Macron, durante il discorso tenuto sotto l'arco di Trionfo a Parigi. Rivolto ai 72 capi di Stato e di governo presenti, il leader dell'Eliseo, ha chiesto di "porre la pace al posto più alto di tutti". "Insieme - ha aggiunto Macron - scongiuriamo le minacce che sono il riscaldamento climatico, la povertà, la fame, le malattie, tutte le disuguaglianze e l'ignoranza". "La Francia saluta con rispetto e gravità i morti delle altre nazione che un tempo ha combattuto", ha dichiarato in conclusione, il capo dello Stato francese.

Donald Trump, è arrivato con la moglie Melania, e ha camminato lentamente passando a stringere le mani di Macron e degli altri in prima fila. Poi ha parlato affabilmente con Angela Merkel, accanto alla quale segue la cerimonia.  Per ultimo Vladimir Putin, a passo veloce, che ha stretto la mano a Trump facendogli il segno di "ok" con il pollice alzato. In prima fila fra i leader, Sergio Mattarella. Continua il botta e risposta fra Macron e Trump, dopo il tweet della discordia di venerdì sera, lanciato dal presidente americano all'arrivo a Parigi. In un'intervista alla CNN, che sarà diffusa nel pomeriggio, Macron critica Trump per l'uso dei social network: "Preferisco avere una discussione diretta piuttosto che fare diplomazia con i tweet", ha detto Macron.    Nonostante questa critica, il capo dell'Eliseo ha ribadito la volontà di lavorare insieme a Trump per creare un esercito europeo: "Abbiamo parlato molto - ha detto - lui è favorevole a una miglior condivisione dei costi in seno alla Nato. Sono d'accordo con lui su questo, abbiamo tutti bisogno di più Europa".  Il presidente americano, Donald Trump, ha anche ringraziato in un tweet il collega francese, Emmanuel Macron. "Bella cerimonia oggi a Parigi per commemorare la fine della Prima Guerra Mondiale. Il presidente russo Vladimir Putin ha auspicato che Mosca e Washington ripristinino il dialogo su vasta scala a tutti livelli. "Sia loro che noi siamo determinati a ripristinare il dialogo, ma ancora più importate è condurlo non solo ad alto livello ma a livello di esperti - ha detto Putin in un'intervista a Russia Today da Parigi -  spero che questo processo di colloqui su vasta scala venga ripristinato". "Siamo in ogni caso pronti al dialogo - ha aggiunto - non siamo noi a ritirarci dal trattato sulla riduzione dei missili nucleari a medio e corto raggio, sono gli americani ad avere in programma di farlo".  E di "buon colloquio" con il presidente Usa ha parlato Putin rispondendo alla domanda se avesse avuto modo di parlare con Trump in occasione del pranzo organizzato all'Eliseo in onore dei capi di Stato e di governo. E' sulla minaccia del nazionalismo che si è concentrata la cancelliera Angela Merkel in apertura del Forum della Pace: il "progetto europeo di pace" nato dopo il 1945 è minacciato dall'ascesa del nazionalismo e del populismo. "Vediamo chiaramente che la cooperazione internazionale, un equilibrio pacifico fra gli interessi degli uni e degli altri e anche il progetto europeo di pace - ha detto la cancelliera -sono di nuovo rimessi in discussione". "La pace che abbiamo oggi - ha continuato la Merkel - che a volte ci sembra troppo facile,questa pace è lungi dall'essere scontata e dobbiamo batterci per essa". La cancelliera se l'è presa con "un nazionalismo con i paraocchi" e si dice preoccupata "che si ricominci ad agire come se si potesse puramente e semplicemente ignorare le nostre relazioni e i nostri impegni reciproci". 

Lo stesso Macron, aprendo il Forum sulla pace, ha detto che "nazionalismo, razzismo, antisemitismo ed estremismo rimettono in causa l'orizzonte che il nostro popolo attende", quello della pace. Prima di passare la parola alla Merkel, e poi al segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, l'inquilino dell'Eliseo ha detto che "dipende da noi" che il mondo conservi una pace durevole oppure "il mondo cadrà in un nuovo disordine". Macron ha sottolineato che il forum ha "vocazione annuale di riunire tutte e tutti per promuovere azioni concrete, per far avanzare ogni anno di più il lavoro della pace". Il mondo, per il presidente francese, è "indebolito da crisi destabilizzanti per la società", legate anche a migrazioni, ambiente, terrorismo, proliferazione nucleare, cybercriminalità. Assente Donald Trump: mentre il Forum si apriva, lui saliva sul podio al cimitero militare americano di Suresnes. Anche il Presidente Sergio Mattarella è a Parigi per le celebrazioni del centenario dell'armistizio del 1918 e l'apertura del Forum sulla Pace. Il capo dello Stato italiano è andato all'Eliseo da dove, si è poi recato all'Arco di Trionfo per la commemorazione ufficiale, insieme agli altri capi di Stato e di governo di tutto il mondo. Tutte le campane di Parigi e dei luoghi simbolo della prima guerra mondiale in Francia hanno suonato alle 11, la stessa ora in cui - 100 anni fa - c'è stata la fine delle ostilità a conclusione della guerra 15-18.  Piccolo incidente al passaggio dell'auto di Donald Trump sugli Champs-Elysees, diretta all'Arco di Trionfo: una dimostrante del gruppo Femen ha scavalcatole barriere con un cartello sul quale era scritto "falsi pacificatori" ed è stata subito bloccata dai gendarmi. Contemporaneamente, si sono uditi alcuni fischi dal pubblico dietro le transenne in direzione della Cadillac One del presidente americano.

sabato 3 novembre 2018

Khamenei: Usa in declino, sempre sconfitti nel confronto con l'Iran



L'amministrazione Trump ha annunciato il ripristino di tutte le sanzioni adottate dagli Usa nei confronti dell'Iran e revocate in base all'accordo sul nucleare firmato nel 2015 sotto la presidenza di Barack Obama.

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, hanno annunciato le sanzioni che colpiranno in particolare operatori portuali, spedizioni marittime, cantieristica navale, energia e finanze.

Il pacchetto comprende anche l'esenzione per 8 paesi che potranno continuare ad importare petrolio dall'Iran per un periodo massimo di 6 mesi. La situazione verrà rivalutata alla scadenza del provvedimento.

L'Unione europea, la Germania, la Francia e il Regno Unito esprimono "profondo rammarico" la decisione degli Usa. La dichiarazione congiunta è stata firmata dalla responsabile della diplomazia della Ue, Federica Mogherini, e dai ministri degli Esteri e delle Finanze tedeschi, francesi e britannici. Nella dichiarazione congiunta si ribadisce l'impegno a preservare e mantenere "efficaci canali finanziari" con Teheran e lavorare per la "continuazione" delle esportazioni di gas e di petrolio iraniani. "Su queste e su altre materie il nostro lavoro continua, compreso con Russia e Cina,", quali parti dell'accordo nucleare, e con i Paesi terzi interessati.

Il presidente Usa Donald Trump "ha screditato" il prestigio degli Stati uniti, riattivando le sanzioni contro l'Iran che erano state revocate con un accordo internazionale raggiunto sotto la presidenza di Barack Obama. L'ha affermato la guida suprema iraniana Ali Khamenei.

La Casa bianca ieri ha annunciato la riattivazione del "più duro regime di sanzioni mai imposto" su Teheran. Ma ha concesso a otto paesi una deroga. "Questo nuovo presidente Usa...ha screditato quello che rimaneva del prestigio dell'America e quello della liberaldemocrazia", si legge sul Twitter in persiano di Khamenei, in una citazione di un discorso tenuto a Teheran. "Anche l'hard power americano, cioè la sua potenza economica e militare, è in declino", ha continuato l'ayatollah.

Gli Stati Uniti sono in "declino" e Donald Trump "ha messo tutto all'asta, ha buttato via quello che restava della credibilità dell'America e della democrazia liberale". E' quanto ha affermato la Guida suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, citato dall'iraniana Press Tv. "La potenza degli Stati Uniti è in declino. Oggi gli Stati Uniti sono molto più deboli di quanto non fossero 40 anni fa. Era così durante la presidenza Obama, ma è più evidente con l'attuale presidente degli Stati Uniti. Ogni sua decisione viene contrastata dal mondo, non solo dai popoli ma anche dai governi", ha insistito Khamenei.

"Non sono riusciti a paralizzare l'economia iraniana" "L'obiettivo dell'America con le sanzioni è paralizzare e soffocare l'economia iraniana, ma il risultato è che si è rafforzata nel Paese la spinta verso l'autosufficienza", ha affermato la Guida suprema dell'Iran. "In passato la Nazione iraniana era abituata a importare qualsiasi cosa, mentre ora è propensa a cercare di produrre tutto".

"Usa sempre sconfitti nel confronto con l'Iran" Gli Stati Uniti sono sempre usciti "sconfitti" dal "confronto" con l'Iran, ha detto inoltre l'ayatollah, all'indomani dell'annuncio dell'Amministrazione Trump sul ripristino di tutte le sanzioni contro la Repubblica Islamica che erano state revocate con l'accordo sul nucleare firmato nel 2015. "Per 40 anni è andata avanti la sfida tra l'America e l'Iran", ha detto Khamenei che - citato dall'iraniana Press Tv - ha parlato di "varie mosse da parte del nemico, dalla guerra militare ed economica alla guerra mediatica". "L'obiettivo degli Stati Uniti era riconquistare il dominio che avevano all'epoca della tirannia, ma non ci sono riusciti", ha incalzato Khamenei riferendosi al periodo precedente la Rivoluzione islamica. La Guida Suprema, riportano i media ufficiali di Teheran, ha incontrato "migliaia di studenti" alla vigilia dell'anniversario della 'crisi degli ostaggi', che fece seguito alla presa dell'ambasciata Usa il 4 novembre 1979, sulla scia degli eventi della rivoluzione.