giovedì 31 maggio 2018
Gli Usa annunciano: i dazi su acciaio e alluminio in vigore per Europa, Canada e Messico
La decisione di imporre i dazi, presa il 23 marzo, era stata sospesa a maggio. La proroga sarebbe scaduta stanotte e non sarà rinnovata. Guai a reagire però, avverte il ministro al commercio Usa, Wilbur Ross, a Parigi in occasione del forum dell’Ocse. A nulla sono serviti i colloqui con le controparti europee, dal commissario Cecilia Malmström al francese Bruno Le Maire.
Secondo Ross, i dazi imposti dagli Stati Uniti non sarebbero però il primo colpo di una guerra commerciale: «Noi non vogliamo una guerra commerciale. Sta all’Europa decidere se vuole varare ritorsioni. La domanda è: cosa farà Trump? Avete visto la sua risposta quando la Cina ha deciso di reagire (ai dazi Usa sulle sue esportazioni, ndr). Se ci sarà un’escalation sarà perché la Ue avrà deciso di reagire».
I dazi doganali verrano applicati sulle importazioni di acciaio ed alluminio importati dall'Unione europea, dal Messico e dal Canada. Gli Stati Uniti hanno quindi deciso di non prorogare l'esenzione temporanea concessa all'Unione europea fino a mezzanotte di giovedì e di applicare imposte del 25% sull'acciaio e del 10% sull'alluminio.
I prodotti di acciaio e alluminio importati negli Usa "sono cosi' tanti ed entrano in tali circostanze che minacciano di indebolire la sicurezza nazionale": cosi' Donald Trump, nel provvedimento in cui annuncia l'entrata in vigore dei dazi verso Europa, Messico e Canada, giustifica la decisione presa.
"Questo è protezionismo puro e semplice", quindi "gli Usa non ci lasciano nessun'altra scelta che l'imposizione" di contromisure. Così il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker dopo i dazi Usa su acciaio e alluminio all'Ue. Nei mesi scorsi - continua Juncker - ci siamo impegnati con continuità con gli Usa a tutti i livelli possibili, per affrontare congiuntamente il problema dell'eccesso di capacità produttiva nel settore siderurgico. Eccesso di capacità che resta il cuore del problema: l'Ue non ne è la fonte, ma, al contrario, ne è danneggiata".
"E' per questo - prosegue - che siamo determinati a lavorare per trovare soluzioni strutturali, insieme ai nostri partner. Abbiamo anche, coerentemente, indicato la nostra apertura a discutere dei modi di migliorare le relazioni commerciali bilaterali con gli Usa, ma abbiamo anche chiarito che l'Ue non negozierà sotto minaccia". E, "prendendo di mira coloro che non sono responsabili della sovracapacità, gli Usa fanno il gioco di coloro che hanno creato il problema".
"Abbiamo fatto tutto il possibile per evitare questo esito" ma "gli Usa hanno voluto usare la minaccia delle restrizioni commerciali come leva per ottenere concessioni dall'Ue, questo non è il modo in cui noi facciamo affari, e certamente non tra partner, amici e alleati di lunga data". Così la commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem dopo l'imposizione dei dazi Usa all'acciaio e all'alluminio europei. "E' un brutto giorno per il commercio mondiale", ha aggiunto.
Tajani, risponderemo con tutti i mezzi disponibili. "Sono molto deluso dalla decisione del presidente Trump di imporre dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio. Noi siamo al fianco dei nostri lavoratori e della nostra industria europei e risponderemo con tutti gli strumenti disponibili per difendere i nostri interessi. Le tariffe commerciali unilaterali sono sempre un gioco a somma negativa". Lo scrive su Twitter il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, commentando la decisione Usa sui dazi.
Il governo messicano ha annunciato oggi che applicherà misure equivalenti contro gli Stati Uniti, dopo che l'amministrazione Trump ha deciso l'imposizione di dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio dal paese. Il ministero dell'Economia ha detto che si adotteranno tasse all'importazione dagli Usa di una serie di prodotti, che vanno dall'acciaio alla carne suina, passando per prodotti agricoli come l'uva o i mirtilli.Ue, pronti a ogni scenario, difenderemo interessi.
"Siamo pronti a far fronte a qualsiasi tipo di scenario e a difendere gli interessi Ue e il diritto commerciale internazionale". Così il portavoce della Commissione europea Margaritis Schinas, alla vigilia della fine delle esenzioni dai dazi Usa su acciaio e alluminio. "La Commissione si è impegnata in un dialogo di alto livello politico con gli Usa" e ci sono stati ancora ieri e oggi bilaterali a Parigi, ha ricordato il portavoce, "non speculiamo sulla decisione finale degli Usa, che spetta a loro prendere".
La Cina ha criticato il piano Usa relativo ai controlli sugli investimenti come violazione delle regole del commercio mondiale, riservandosi il diritto di reagire qualora diventino effettivamente operative. E' una proposta contraria "alle regole e allo spirito di base" dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha affermato nella conferenza stampa settimanale il portavoce del ministero del Commercio Gao Feng, secondo cui "la parte cinese valuterà con attenzione le mosse Usa riservandosi il diritto di adottare misure relative". Il nuovo fronte di scontro tra Washington e Pechino è maturato nell'imminenza della missione del segretario al Commercio americano Wilbur Ross, in Cina dal 2 al 4 giugno per un nuovo round negoziale sul corposo dossier del commercio.
La commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem e il ministro dell'economia giapponese Hiroshige Seko condividono "la loro seria preoccupazione su dazi aggiuntivi o quote su acciaio e alluminio" da parte degli Usa. E' quanto si legge in una nota congiunta emessa a margine della ministeriale Ocse a Parigi, alla vigilia della scadenza dell'esenzione concessa a fine marzo. Questi, sottolineano Ue e Giappone, "non sono giustificati sulla base dell'argomento della sicurezza nazionale" usato da Washington.
Se gli Usa impongono dazi anche sulle auto e pezzi di ricambio, questo "causerebbe gravi turbolenze sul mercato globale e potrebbe portare alla fine del sistema commerciale multilaterale basato sulle regole del Wto". Così in una nota congiunta a margine della ministeriale Ocse a Parigi la commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem e il ministro dell'economia del Giappone Hiroshige Seko. I dazi sulle auto, infatti, "avrebbero un impatto restrittivo maggiore che colpirebbe una parte molto sostanziale del commercio globale".
"Gli Stati Uniti continueranno a combattere gli abusi di tipo commerciale": cosi' il segretario al commercio Usa Wilbur Ross replica alla minaccia della Ue di rispondere con durezza ai dazi imposti da Donald Trump sull'import di acciaio e alluminio. "La eventuale rappresaglia non avra' un impatto significativo sull'economia Usa", ha aggiunto.
In Europa, la più danneggiata da una decisione del genere sarebbe l’industria automobilistica tedesca. Secondo il settimanale Wirtschaftswoche, l’obiettivo di Trump sarebbe appunto quello di chiudere il mercato dell’auto ai costruttori tedeschi, che controllano il 90% del segmento premium, con marchi come Rolls-Royce, Bmw, Mercedes-Benz, Bentley, Bugatti, Porsche e Audi. Secondo il settimanale, Trump avrebbe rivelato le sue intenzioni al presidente francese Emmanuel Macron, nel corso del suo viaggio a Washington in aprile.
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domenica 27 maggio 2018
Rivoluzione silenziosa: svolta Irlanda, sì all'aborto
Il timbro a "una rivoluzione silenziosa" - nelle parole del premier liberale Leo Varadkar - che mette fine all'eccezione irlandese. Non è stata solo una vittoria quella suggellatai sull'isola verde dai sì al referendum sull'aborto libero. E' stata una valanga, annunciata dagli exit poll e marcata dai dati ufficiali con il 66,4% di voti favorevoli contro il 33,6%. Valanga di 'Sì' in Irlanda al referendum per la liberalizzazione dell'aborto. Secondo un exit poll dell'Irish Times, il 68% degli elettori ha votato a favore della cancellazione dell'ottavo emendamento della Costituzione in base al quale sia la madre che il feto hanno "pari diritto alla vita".
Un altro rilevamento dell'emittente nazionale Rte segnala una percentuale ancora più alta di favorevoli, con il 69,4%. I risultati ufficiali arriveranno nel pomeriggio, ma il primo ministro Leo Varadkar, favorevole al 'Sì', ha già twittato: "Sembra che abbiamo fatto la storia".
"Oggi abbiamo assistito al culmine di una rivoluzione tranquilla che è avvenuta in Irlanda - ha poi dichiarato microfoni dell'emittente pubblica Rte - E' stato un grande esercizio di democrazia, il popolo si è espresso e ha detto che vuole una moderna Costituzione per una moderna nazione. Abbiamo fiducia nelle donne, rispettiamo le loro decisioni legittime in relazione alla loro salute".
Anche gli antiabortisti hanno riconosciuto la sconfitta. "I bambini non ancora nati non hanno più il riconoscimento del diritto alla vita da parte dello Stato" ha detto John McGuirk, portavoce del gruppo 'Save the 8th'. "Presto verrà approvata una legge che permetterà di uccidere i bambini nel nostro Paese" ha aggiunto, preannunciando l'impegno a battersi contro la futura legislazione.
Il voto ha profondamente diviso l'Irlanda cattolica, dove l'interruzione di gravidanza è possibile solo nei casi in cui la vita della madre è in pericolo, ma non in caso di stupro e incesto. Secondo i fautori del 'Sì', l'ottavo emendamento ostacolava le interruzioni di gravidanza anche quando vi erano gravi rischi per la madre.
La partita si chiude con un risultato che non lascia spazio a discussioni, almeno per ora. Una sonante abrogazione dell'articolo 8 della Costituzione: ossia del principio di equiparazione fra diritto alla vita del nascituro e della madre che finora aveva di fatto vietato le interruzioni di gravidanza, salvo rare eccezioni, costringendo le donne che intendevano abortire comunque (e potevano farlo) a viaggiare all'estero. Il primo ministro (in lingua gaelica taoiseach) Varadkar, promotore di una consultazione preparata da lungo tempo da varie organizzazioni femministe e sostenuta ora da quasi tutto l'establishment politico di Dublino, esulta. Si è trattato del compimento di una "rivoluzione silenziosa" iniziata 10 se non 20 anni fa, afferma oggi, aggiungendo di puntare ora - rafforzato - all'approvazione di una legge sull'aborto libero entro fine anno. Il testo è già pronto. Non prevede ostacoli o requisiti di sorta per mettere fine a una gravidanza nei primi tre mesi e lascia spazio anche ad aborti tardivi purché motivati.
Sul livello di permissività delle nuove norme, il fronte pro-life è pronto a riprendere la battaglia. Ma gli animi sono a terra e la delusione è palpabile. Gli accenni a un'ipotetica 'rimonta', evocata sulla base di qualche sondaggio giusto un po' più cauto dai media per 'vendere' la storia e dagli attivisti pro-choice per evitare l'unico vero rischio (sventato), quello d'una bassa affluenza, si son rivelati inconsistenti. I numeri consolidano anzi quelli già certificati dal referendum sul matrimonio gay del 2015, con un rapporto di due terzi a un terzo fra quella parte di Paese ormai secolarizzata, in scia al resto d'Europa, e la trincea della tradizione. Tanto che al portavoce della campagna 'Save The 8th', John McGuirk, non è rimasto che riconoscere la disfatta prim'ancora del conteggio completo.
sabato 12 maggio 2018
Per l'egemonia nel medio oriente è scontro Iran-Israele
Sale la tensione in Medio Oriente fra Israele e Iran dopo la decisione degli Stati Uniti di uscire dall’accordo sul nucleare con Teheran. Si teme lo scoppio di un conflitto dalle proporzioni immani, che avrebbe come scenario di guerra la già martoriata Siria, dove Israele punta a rovesciare il regime nemico di Bashar Al Assad protetto invece dall’Iran. Nelle ultime ore si sono viste reciproche provocazioni.
Molti analisti attribuiscono la tensione crescente tra Israele e Iran al ritiro degli Stai Uniti dall'accordo sul nucleare annunciato da Trump giorni fa. I germi dello scontro dietro al recente 'attacco dì in Siria, esistevano già. A sostenerlo nella sua interessante tesi, Lina Khatib sulle pagine del Guardian, in cui spiega che la decisione degli Stati Uniti sul Jcpoa, già critici dell'intesa, è arrivata in un momento in cui il contrasto era già in corso.
Fino a che mancherà un progetto concreto d'intervento in Siria da parte degli Usa e degli alleati occidentali, continua Khatib, Israele e Iran non smetteranno di sfidarsi. Il controllo della terra di Assad per l'Iran è cruciale per mantenere l'egemonia nel Levante ovvero il corridoio sciita che collega l'Iran al mediterraneo passando per Iraq, Siria e Libano dove è sempre più forte il dominio di Hezbollah, la milizia-partito dopo il recente successo alle legislative.
Le immagini diffuse dall'esercito israeliano mostrano i siti militari controllati dall'Iran in Siria, per chiarire "di non tollerare la minaccia armata di Teheran vicino ai propri confini". Le basi corrispondono ad un'area a nord di Damasco tra Palmira e Deir el Zor a circa 700 chilometri da Gerusalemme.
Il pretesto di Israele per la risposta armata, ovvero un attacco da parte di Teheran con 20 missili nelle alture del Golan, è un ennesimo di una lunga serie. Simbolico il pezzo di drone iraniano, abbattuto dalle forze israeliane, sollevato da Netanyahu durante la conferenza sulla sicurezza a Monaco lo scorso febbraio.
E poi ancora l'attacco alla base aerea T4 in Siria nella provincia di Homs, il 9 aprile condotto dall'esercito israeliano, secondo Russia, Iran e Siria in cui sono morti 7 iraniani. Alla fine dello stesso mese, il raid contro la Brigata 47, le truppe pro-assad, 26 i morti quasi tutti iraniani. per l'Osservatorio dei diritti umani è molto probabile che si sia trattato di nuovo dell'intervento delle forze israeliane.
In Medio Oriente a guidare il gioco non sono gli Stati Uniti ma Israele. Sono stati gli israeliani a scatenare la tensione e Trump, per ovvie ragioni di tenuta interna, non può che seguirli. In pratica Israele ha aperto le ostilità sapendo perfettamente che Trump non potrà non intervenire al fianco di Tel Aviv in una guerra contro l’Iran dalle proporzioni che potrebbero essere enormi. Israele del resto ha già attaccato le postazioni iraniane in Siria, e sarà proprio il territorio siriano il terreno dello scontro. Per altro Israele ha motivato gli attacchi a scopo preventivo per scongiurare di essere a sua volta attaccato dall’Iran. Ma non esistono prove che Teheran voglia attaccare. Piuttosto è Israele a voler cacciare gli iraniani dalla Siria, qui di prove ce ne sono tante.
Siamo ancora nel campo delle ipotesi. Ma le affermazioni di un alto funzionario del Cremlino riguardo la Russia e la Siria vanno comunque prese in considerazione per comprendere le mosse del Cremlino nei confronti dell’escalation fra Iran e Israele.
Come scrive Reuters, secondo il quotidiano Izvestia, che cita Vladimir Kozhin assistente di Vladimir Putin, la Russia non è in trattative con il governo siriano per la fornitura di missili terra-aria S-300 e non pensa che siano necessari. Una notizia che, arrivata dopo la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu a Mosca e l’incontro con il presidente russo, assume un particolare significato.
Il mese scorso, la Russia, dopo gli attacchi alla Siria, aveva detto di essere pronta a fornire immediatamente il nuovo sistema al governo siriano. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, in un incontro successivo ai raid occidentali e israeliani, aveva sostenuto che Mosca non aveva più alcuna reticenza a fornire alla Siria questo supporto fondamentale per la protezione del suo spazio aereo. E quelle frasi furono duramente condannate dal governo israeliano, che considera da sempre la consegna di questo sistema come un pericolo per la sua libertà di manovra nei cieli siriani.
I commenti di Kozhin, che devono chiaramente essere confermati poi dalla realtà dei fatti, suggeriscono che le pressioni di Israele sulla Russia stanno avendo dei buoni risultati. “Per ora, non stiamo parlando di consegne di nuovi sistemi” ha detto Kozhin al quotidiano russo. Ma c’è una postilla a queste dichiarazioni che va presa in considerazione. Il consigliere di Putin ha infatti ricordato che l’esercito siriano ha già “tutto il necessario”.
Israele ha compiuto ogni genere di sforzo per persuadere Mosca a non vendere gli S-300 in Siria. Questo sistema, di fatto, ostacolerebbe (o renderebbe quasi impossibile) all’aviazione israeliana il colpire le postazioni iraniane, siriane o di Hezbollah. L’ombrello sulla Siria non riuscirebbe a garantire l’incolumità dei piloti israeliani. Ma soprattutto metterebbe la parola “fine” alla superiorità aerea di Israele sulla regione.
L’attacco di giovedì mattina, in cui Israele ha dichiarato di aver distrutto quasi tutta l’infrastruttura militare iraniana in Siria, con il sistema S-300 russo sarebbe stato praticamente impossibile. Il sistema missilistico, originariamente sviluppato dall’esercito sovietico, abbatte aerei militari e missili balistici a corto e medio raggio. E questo complicherebbe notevolmente i piani di Israele.
Attualmente, come riporta l’agenzia Reuters, “la Siria fa affidamento su una miscela di sistemi antiaerei meno avanzati di fabbricazione russa per difendere il proprio spazio aereo”. Ma sono comunque sistemi che stanno dando dei risultati discreti, visto che i recenti attacchi contro molte postazioni siriane hanno ricevuto una pronta risposta da parte della contraerea di Damasco.
La decisione del Cremlino, se confermata, potrebbe essere fondamentale per capire le prossime mosse di Putin in Siria. Probabilmente, il vertice di Mosca fra lui e Netanyahu è stato dirimente. I raid israeliani hanno dato una svolta alla guerra e la Russia ora deve riuscire nel difficile intento di mediare fra i desiderata di Israele e dell’Iran. Che seguono due linee diametralmente opposte.
La Russia ha un solo obiettivo: proteggere la Siria, Bashar al Assad e la sua presenza in territorio siriano. Non vuole entrare nella questione fra Teheran e Tel Aviv. E, se non consegnerà gli S-300 a Damasco, probabilmente ha preteso delle garanzie. Ora bisognerà capire fino a che punto le garanzie israeliane siano convincenti e, soprattutto, fino a che punto gli iraniani siano concordi con Mosca.
lunedì 7 maggio 2018
Voto in Libano, bassa l'affluenza, cresce Hezbollah
Dopo 9 anni il Libano è tornato al voto per le elezioni parlamentari. Una lunga attesa che non ha portato a una grande partecipazione: meno di un libanese su due è andato alle urne. Premiando gli sciiti di Hezbollah, bestia nera di Israele
L'unico dato certo per ora è la affluenza, molto basa sotto il 50 per cento. Ancora meno delle ultime elezioni politiche quando si era fermata al 54 per cento. Un segno che i libanesi si sono disaffezionati a un classe politica poco capace di dare loro delle risposte concrete e immediate. E in questo periodo di emergenze ve ne sono davvero molte e gravi: a cominciare dalla guerra civile siriana, con un conflitto tra Israele e Iran che incombe sulla Siria, all'anemica economia, tenuta in piedi, quasi per miracolo, dalle strategie dell’illuminato governatore della Banca centrale del Libano, Riad Salameh.
Era nell'aria , lo si vedeva anche nei seggi a Beirut, che Hezbollah, il partito sciita, fosse più compatto e organizzato delle altre coalizioni. Ma la sua affermazione potrebbe andare oltre le attese. La coalizione che li vede insieme all’altro partito sciita, Amal, e al Movimento patriottico libero guidato dal presidente della Repubblica, il cristiano Michel Aoun (questa in verità un'alleanza tutta da verificare), oltre ad alcuni candidati “indipendenti”, avrebbe ottenuto la maggioranza in Parlamento: 67 su 128 seggi. Sarebbe una grande novità.
La nuova e complessa legge elettorale, che ha introdotto un sistema proporzionale, avrebbe invece sfavorito la coalizione del sunnita Saad Hariri , il ricco businessman che fino allo scorso settembre era apertamente sostenuto dall'Arabia Saudita prima che la monarchia saudita lo richiamasse a Riad chiedendogli di rompere il Governo di unità con Hezbollah. Saad, figlio del più volte primo ministro Rafik, assassinato il 14 febbraio del 2005 sul lungomare di Beirut, avrebbe perso diversi seggi a favore degli altri partiti sunniti rivali.Alla fine comunque sarà probabilmente ancora lui il primo ministro del Libano. E il prossimo Governo dovrà necessariamente essere un Esecutivo di unità nazionale. Perché, al fine di spartire in modo equo i poteri tra le diverse confessioni religiose, la legge prevede che il premier deve esser comunque un sunnita, il presidente della Repubblica un cristiano e il capo del parlamento uno sciita. E che i 128 seggi del Parlamento debbano essere divisi a metà tra musulmani e cristiani.
Quanto alla compagine cristiana, le “Forze libanesi” guidate da Samir Geagea - la formazione politica più avversa alla Siria, all'Iran e naturalmente agli Hezbollah -, avrebbero più che raddoppiato i seggi arrivando a 15. Da segnalare il piccolo passo compiuto dalle candidate donne indipendenti, appoggiate dalle organizzazioni civili. Nonostante lo spazio mediatico molto più ristretto rispetto a personaggi più blasonati, sono riuscite a entrare in Parlamento. Una famosa giornalista armena è già sicura della vittoria, un'altra giornalista dovrebbe vincere nella sua lista. Il numero delle donne salirà così a 7-8. Ancora molto poche, ma il doppio rispetto al 2009.
Se questi primi risultati dovessero essere confermati sarebbe un boccone amaro per Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, che considerano Hezbollah un’organizzazione terroristica.
martedì 1 maggio 2018
Benyamin Netanyahu: l'Iran ha mentito. Vuole 5 bombe atomiche come Hiroshima'
L'Iran non è stato corretto con l'Agenzia internazionale dell'energia atomica (Aiea). L'Iran ha mentito sfacciatamente sul fatto di non aver un programma per sviluppare armi atomiche. L'Iran punta a dotarsi di almeno cinque ordigni nucleari analoghi a quelli utilizzati su Hiroshima», e ha dichiarato inoltre che Israele è entrato in possesso dei "dossier nucleari segreti iraniani", che svelano che, malgrado l'accordo con le potenze occidentali del 2015, ha continuato con lo stesso programma nucleare, puntando a possedere almeno 5 ordigni come quello sganciato su Hiroshima. Si tratta - ha dichiarato Netanyahu nel suo messaggio alla nazione, "di uno dei maggiori successi di intelligence che Israele abbia mai conseguito''.
Scopo del Progetto Amad, elaborato negli anni 1999-2003, era di produrre armi atomiche, ha affermato Netanyahu e studiava anche il sistema per montarli su missili balistici, ed includeva anche la produzione di testate e di centrifughe. Quel progetto non è mai stato abbandonato, ha concluso del premier parlando ancora una volta di menzogne e spigando che è stato solo sostituito il nome ma sono rimasti il capo-progetto ed il personale.
Le accuse del premier israeliano Netanyahu sono durissime. Dopo aver incontrato il nuovo Segretario di Stato americano Mike Pompeo - scelto da Trump anche per le sue posizioni oltranziste nei confronti di Teheran – Netanyahu ha annunciato in tv le sue «prove nuove e conclusive» – 55mila pagine di documenti sottratti dalla sua Intelligence da un luogo «altamente segreto» (di cui tuttavia non si conosce la data) - contro la malafede dello storico nemico di Israele. E lo ha fatto citando il nome del programma segreto - Progetto Amad – con cui Teheran sarebbe in grado di sviluppare un ordigno nucleare.
''L'accordo sul nucleare è basato su menzogne'', ha affermato ancora. ''L'Iran ha mentito quando ha affermato di non aver avuto un programma per la produzione di ordigni nucleari. Anche dopo l'accordo - ha aggiunto - l'Iran ha continuato a proteggere e ad estendere le proprie conoscenze sulle armi atomiche, per uso futuro. L'Iran ha mentito ancora - ha affermato - nel 2015 alla Agenzia internazionale per l'energia atomica''.
"Quello che è successo oggi e che è accaduto di recente mostra che ho avuto ragione al 100%". Lo ha detto il presidente degli stati Uniti Donald Trump rispondendo a domande circa l'accordo del nucleare iraniano dopo l'intervento del premier Israeliano Benjamin Netanyahu. Trump ha definito una "situazione non accettabile" quella relativa al programma iraniano. "L'avrete visto, io l'ho visto in parte", ha aggiunto riferendosi all'intervento di Netanyahu. Sull'imminente scadenza di una sua decisione sull'accordo iraniano, Trump ha ripetuto: "Vedremo cosa succede. Non vi dico cosa farò ma in molti credono di saperlo".
Le parole di Netanyahu arrivano in vista del 12 maggio prossimo, data entro cui gli Stati Uniti dovranno decidere se continuare a lasciare congelate le sanzioni contro Teheran che furono rimosse dal gennaio 2016, quando entrò in vigore l'accordo sul nucleare. Trump ha minacciato di ritirare gli Usa dalla storica intesa e di tornare a imporre sanzioni severe. I partner Ue hanno difeso l'intesa e l'Agenzia internazionale per l'energia atomica ha ripetutamente detto che Teheran sta rispettando gli accordi presi. Nonostante i tentativi per salvare l'accordo presentati dal presidente francese Emmanuel Macron in visita la settimana scorsa negli Stati Uniti, Trump non ha voluto sentire ragioni. Per scongiurare l'uscita degli Usa dal Jcpoa ha imposto ai partner europei le sue condizioni: la rimozione delle limitazioni temporali e geografiche alle ispezioni di qualsiasi sito nucleare (ma anche militare) iraniano, l'introduzione di nuove sanzioni sul programma missilistico iraniano, inglobandolo peraltro nel dossier nucleare, e l'estensione della durata delle limitazioni al programma nucleare previste dall'intesa. Senza contare un'ulteriore, e quanto mai difficile, richiesta: che l'accordo includesse in qualche modo la limitazione all'espansione iraniana in Medio Oriente, soprattutto in Siria. Il compromesso cercato da Macron, anche un nuovo round di sanzioni europee contro il programma balistico iraniano non ha fatto presa.
Intanto La reazione di Teheran al discorso di Netanyahu non si è fatta attendere. Su twitter il ministro degli Esteri Javad Zarif ha definito il premier israeliano "il ragazzo che grida al lupo al lupo". Sono "pseudo-rivelazioni". Così l'Iran liquida le accuse del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, secondo cui il regime degli ayatollah non ha mai deposto il suo programma nucleare per fabbricare l'atomica, lo stesso ministro che fu tra l'altro il capo negoziatore iraniano all'epoca della firma dell'accordo con le sei potenze mondiali, nel 2015 - parla di "tempistica coordinata" e "presunte rivelazioni di intelligence da parte del ragazzo che grida al lupo al lupo, pochi giorni prima del 12 maggio". "Trump sta approfittando di un rimaneggiamento di vecchie accuse già trattate dall'Aiea per affossare l'accordo".
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