mercoledì 26 aprile 2017

Macron e Le Pen: i programmi politici dei due sfidanti




Dopo il primo turno, svoltosi domenica 23 aprile, i francesi torneranno alle urne per le presidenziali domenica 7 maggio. I seggi aprono alle 8 e chiudono alle 19 in provincia e alle 20 a Parigi e in altre grandi città. Gli elettori sono 45,67 milioni, tra i quali 1,3 milioni di francesi all’estero. I candidati sono due: Emmanuel Macron (En Marche!, centrista) e Marine Le Pen (Front National, estrema destra)

Sfida tra il candidato indipendente centrista, Emmanuel Macron, e la leader del Front National, Marine Le Pen. Questo il primo verdetto delle elezioni presidenziali in Francia. Ecco i profili dei candidati e i rispettivi programmi.

EMMANUEL MACRON
Europeista convinto, sostiene non di meno la necessità di «rifondare l’Europa». Se dovesse essere eletto all’Eliseo, porterebbe a Bruxelles la proposta di avviare già dalla fine del 2017 un ampio dibattito sulle priorità dell’Unione. Ogni Stato sceglierà le modalità. Al termine di questa consultazione (che deve coinvolgere i cittadini), i governi stileranno una road map per far ripartire il progetto di costruzione europea.

Da ex ministro dell’Economia, ha studiato proposte articolate dal lavoro, alle imprese, al fisco. Conosce la macchina e l’ha già scossa con le sue idee liberiste. Un tema centrale della sua proposta riguarda il digitale: estendere la rete alle «zone bianche» arrivando a collegare con la fibra ottica l’intero territorio entro il 2022; sperimentare; lanciare una strategia nazionale per l’intelligenza artificiale; proteggere i dati personali; rafforzare l’azione contro i «siti pirata».

L'Immigrazione non è il settore in cui intende apportare sostanziali modifiche, potrebbe lasciare in vigore il sistema delle «quote» all’ingresso degli immigrati regolari, accelerare le pratiche per il riconoscimento dello status di rifugiato e anche i rimpatri in caso di diniego. La principale innovazione sarebbe l’introduzione di un visto per i «talenti», per attirare in Francia imprenditori, ricercatori e artisti stranieri.

Sul tema terrorismo, la prima preoccupazione di Macron presidente sarà quella di migliorare la circolazione delle informazioni tra gli uffici, polizia, magistratura, intelligence. E creare un centro permanente di coordinamento delle azioni antiterroristiche che faccia capo direttamente all’Eliseo

Per la cultura, promette di non tagliare i fondi agli investimenti pubblici in cultura (e in Francia non sono bassi). Propone anche sul modello dell’Italia un «pass cultura» di 500 euro per i diciottenni.

L'outsider, la maggior sorpresa di questa campagna elettorale ha 39 anni ed è un classico rappresentante dell'élite repubblicana. Laureato dell'Ena (la prestigiosa scuola pubblica di amministrazione), è stato per i primi anni ispettore delle finanze (periodo durante il quale ha fatto il co-relatore della commissione Attali sulla liberalizzazione dell'economia) ed è poi passato al settore privato, nel 2008, come banchiere d'affari presso Rothschild. Nel 2012 è diventato segretario generale aggiunto dell'Eliseo, come consigliere economico di Hollande. E nel 2014 ministro dell'Economia in occasione della svolta riformista con il Governo Valls. Dopo aver fondato, un anno fa, il movimento “En Marche!”, a fine agosto dell'anno scorso si è dimesso per poi candidarsi alle presidenziali come indipendente. Riformista, europeista convinto, non ha mai partecipato a un'elezione e la sua collocazione è al centro dello schieramento politico (“Né di destra né di sinistra”, come lui stesso dichiara).

I principali punti del programma
Piano d'investimenti da 50 miliardi (incentrato sulla formazione e l'aumento delle competenze, la transizione energetica e la modernizzazione dello Stato)

Calo della pressione fiscale sulle imprese, dal 33,3% al 25%

Creazione di un fondo da 10 miliardi destinato a finanziare l'innovazione nell'industria

Trasformazione del Cice (il credito d'imposta da 20 miliardi per le aziende) in esonero contributivo sulle retribuzioni più basse

Riduzione di 60 miliardi della spesa pubblica, per farla scendere dall'attuale 57% del Pil al 52%

Taglio di 120mila dipendenti pubblici

Prelievo unico del 30% sui redditi da capitale

Dieci miliardi di alleggerimento fiscale sulla casa

Varo di un “Buy european act” perché le commesse pubbliche siano riservate a imprese che hanno in Europa almeno la metà della loro attività

Realizzare un'Europa della difesa con un fondo specifico

Creare un mercato unico europeo dell'energia e dell'economia digitale

Trasferire a livello di azienda le decisioni sulla durata dell'orario di lavoro (mantenendo quella legale a 35 ore)

Sospendere l'indennità di disoccupazione a chi rifiuta più di due offerte di lavoro

Aumentare il budget della difesa dall'1,7% al 2%

Aprire gli uffici pubblici la sera e il sabato

Creare un servizio militare obbligatorio universale di un mese

Varare una riforma delle pensioni che preveda una sola cassa e regole uguali per tutti, con l'abolizione dei regimi speciali

Realizzare una legge di moralizzazione della vita pubblica che preveda per i parlamentari il divieto di retribuire dei familiari e di avere attività di consulenza

MARINE LE PEN
Convinta anti-europeista, una volta all’Eliseo negozierà con Bruxelles, promette, per riconquistare l’indipendenza della Francia e cambiare i trattati. Il risultato sarà poi sottoposto a un referendum sul modello della Brexit: vorranno i francesi continuare a far parte dell’Unione? La controrivoluzione di Marine prevede anche il ritorno al franco contro l’euro.

Centrali nel suo programma le politiche per il lavoro, dedicate all’ampia percentuale di disoccupati che l’hanno votata. Al tempo stesso però sono molte le misure di defiscalizzazione per le imprese. Sul commercio estero, la sua linea è di «protezionismo intelligente», che sostenga le imprese francesi (non è chiarissimo come)

L'immigrazione, è il suo cavallo di battaglia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, è su questi temi che ha lanciato le proposte più forti, a partire dalla moratoria dell’immigrazione anche legale. Le Pen è anche per l’abolizione dello ius soli (cittadinanza a chi nasce in Francia) e per una stretta ai ricongiungimenti familiari.


Sul tema terrorismo, linea durissima con interventi a tappeto: chiudere tutte le moschee recensite come «estremiste» dal ministero dell’Interno; togliere la cittadinanza a chiunque sia legato a una rete jihadista o sia registrato «S», sospetto; quindi espellere tutti gli stranieri contingui al fondamentalismo islamico. Anche Le Pen istituirebbe un’agenzia unica antiterrorismo, affidata al primo ministro

La cultura, non è un tema lepenista, ai suoi elettori interessa poco. Marine si limita a promettere che sosterrà le piccole associazioni culturali, sportive, umanitarie, educative «che animano la vita dei nostri territori». Aumenterà anche del 25% il budget per la protezione del patrimonio

Figlia del fondatore del Front National, Jean-Marie, ha 48 anni e prima di entrare in politica ha brevemente esercitato la professione di avvocato (tra il 1992 e il 1998). Diventata presidente del partito di estrema destra nel 2011, ha optato per un'azione più incentrata sui temi sociali (non a caso ha scelto come collegio elettorale l'ex zona mineraria del Nord-Pas-de-Calais, ad alta disoccupazione) pur senza rinunciare ai tradizionali cavalli di battaglia della sicurezza e della lotta all'immigrazione. È riuscita a svecchiare il partito, a renderlo politicamente presentabile. Dopo essere arrivata terza al primo turno delle presidenziali del 2012 (con il 18%, il miglior risultato di sempre), ha guidato il partito ai successi elettorali delle legislative dello stesso anno (il Front National è entrato in Parlamento con due deputati), delle comunali (1.550 consiglieri) e delle europee (25%, primo partito francese) del 2014, delle provinciali (25%) e delle regionali (28%) del 2015. I sondaggi le assegnano da mesi un livello stabile di consensi - intorno al 22% - al primo turno, più o meno alla pari con Macron, ma prevedono una sua netta sconfitta al ballottaggio, chiunque sia l'avversario.

I principali punti del programma:

Negoziare con l'Unione europea il recupero della piena sovranità monetaria (con l'abbandono dell'euro), territoriale (con la sospensione dell'accordo di Schengen), legislativa ed economica

In caso di insuccesso, entro sei mesi referendum per l'uscita dalla Ue

Superamento dell'indipendenza della banca centrale

Adozione del proporzionale in tutte le elezioni (con premio di maggioranza alla Camera)

Abolizione delle Regioni

Portare dall'1,7% al 3% del Pil il budget della Difesa

Assunzione di 15mila poliziotti

Creazione di 40mila posti in più nelle carceri

Tetto a quota 10mila per l'ingresso di nuovi immigrati

Abolizione dello “ius soli”

Stop al ricongiungimento familiare per gli immigrati

Nuova tassa sull'assunzione di lavoratori stranieri

Tassa addizionale del 3% su ogni prodotto importato

Pensione piena a 60 anni (con 40 anni di anzianità contributiva)

Abolizione della riforma del lavoro

Obbligo della divisa a scuola

Uscita dal comando integrato della Nato

Cinquantamila militari supplementari

Servizio militare universale di tre mesi

Rifiuto di tutti i trattati di libero scambio.

lunedì 24 aprile 2017

Mar Mediterraneo: ONG sotto attacco



Nel fine settimana del 15 e 16 aprile sono state soccorse al largo della Libia 8.300 persone in 55 diverse operazioni condotte dalle navi delle organizzazioni non governative e dalle navi militari, i soccorsi sono stati coordinati dalla centrale operativa della guardia costiera di Roma. L’aumento degli arrivi è in parte da attribuire al miglioramento delle condizioni del mare, tuttavia ha riacceso le polemiche che negli ultimi mesi hanno coinvolto le organizzazioni umanitarie che si occupano di soccorrere i migranti nel Mediterraneo. Il leader della Lega nord Matteo Salvini ha minacciato di “denunciare il governo italiano” per aver soccorso migliaia di persone al largo della Libia. Anche il leader dei cinquestelle Beppe Grillo sul suo blog ha parlato “del ruolo oscuro delle ong”.

Comunque il numero dei migranti disposto a rischiare la vita per attraversare il Mediterraneo cresce di anno in anno, ma cala il numero di chiamate di soccorso arrivate alle forze dell'ordine italiane dai telefoni satellitari a bordo delle carrette del mare.

Eppure, fin dai tempi di Mare Nostrum, i trafficanti avevano capito che il mezzo più semplice per recapitare a destinazione il proprio carico di uomini era metterli in mare su una barca scadente e poi chiedere aiuto alle autorità navali italiane. Il rapporto 2017 dell'agenzia europea Frontex fornisce una spiegazione della nuova tendenza: sempre più spesso i trafficanti fanno soccorrere i gommoni dalle navi delle organizzazioni umanitarie che si sono aggiunte a quelle militari nella missione di salvare i migranti. Le operazioni in mare in cui sono coinvolte le navi umanitarie sono cresciute dal 5 al 40 per cento. E nei mesi tra luglio e novembre 2016 gli interventi delle organizzazione sono stati più numerosi delle chiamate di soccorso dei telefoni satellitari al Centro di coordinamento del soccorso marittimo. La conclusione di Frontex è durissima: «Così, anche non intenzionalmente, si aiutano i criminali a raggiungere i loro obiettivi a costi minimi, rafforzando il loro modello di business». Ancora più duro era un precedente documento riservato, svelato dal «Financial Times» il 15 dicembre del 2016, secondo cui il personale delle navi delle Ong istruisce i migranti a non cooperare con la polizia, e venivano denunciati i legami tra i trafficanti di esseri umani e le imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie. Le ipotesi del Financial Times sono state rafforzate da alcune dichiarazioni del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che qualche settimana dopo in un’intervista a Die Welt ha accusato le ong di essere un fattore di attrazione (pull factor) per i migranti in fuga dalla Libia.

Se a questo si aggiunge che le missioni navali, dopo le pesanti critiche a «Mare Nostrum», hanno adottato una linea più ferma nei confronti dei trafficanti, con centinaia di arresti e imbarcazioni confiscate, si capisce come mai i trafficanti preferiscano rivolgersi ai volontari delle Ong.

Le accuse più diffuse contro le organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi (Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat) sono quattro: le navi delle ong si spingono troppo vicino alle coste libiche e rappresentano un fattore di attrazione per i migranti, le missioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo hanno determinato un aumento delle morti e dei naufragi, le ong si finanziano in maniera opaca e potrebbero essere in collegamento con i trafficanti, le ong portano i migranti in Italia perché vogliono alimentare il business dell’accoglienza.

I sospetti di Frontex sono stati accolti dalla procura di Catania, città in cui ha sede l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, che a sua volta ha aperto un’indagine conoscitiva – senza indagati né capi di accusa – sull’origine dei finanziamenti che permettono alle ong di sostenere le loro attività di ricerca e soccorso in mare. L’indagine è stata ripresa da diversi mezzi d’informazione italiani che ne hanno amplificato la portata. Mentre alcuni senatori della Lega nord e di Forza Italia hanno chiesto alla commissione difesa del senato di aprire un’indagine conoscitiva sull’operato delle organizzazioni umanitarie nel Mediterraneo centrale.

Qualcosa è cambiato nell’opinione pubblica europea: in pochi mesi si è passati da un’atmosfera di favore a un clima di sospetto.

Le navi delle ong sono un fattore di attrazione per i migranti?
Il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, in un’intervista a Die Welt il 27 febbraio del 2017 ha accusato le navi delle ong di spingersi troppo vicino alle coste libiche: “Dobbiamo evitare di sostenere il business dei trafficanti andando a prendere i migranti davanti alle coste libiche”. La presenza delle navi umanitarie a 12 miglia dalle coste, sostiene Frontex in un rapporto, ha indotto i trafficanti a usare mezzi di trasporto più economici e più pericolosi come i gommoni di plastica, invece dei pescherecci usati in passato per la traversata. Le operazioni in prossimità della costa “inducono i trafficanti a una pianificazione e agiscono da pull factor, aggravando le difficoltà legate al controllo delle frontiere e al salvataggio in mare”.

Marco Bertotto di Medici senza frontiere spiega che la “retorica del fattore di attrazione” non è una cosa nuova. “È la stessa che ha portato alla chiusura della missione di ricerca e soccorso Mare nostrum, serve per giustificare in generale un abbassamento degli standard di accoglienza”. Tuttavia, secondo Bertotto, non si basa su evidenze scientifiche: “I numeri non forniscono nessuna prova del fatto che esistano delle connessioni tra la presenza dei mezzi di soccorso e il numero delle partenze dalla Libia”, spiega Msf.

“Per esempio, nei mesi successivi all’interruzione di Mare nostrum c’è stato un aumento delle partenze, eppure non c’erano mezzi pronti al soccorso”, dice Bertotto. “Sono diversi i fattori che determinano i picchi di arrivi e questo ci porta a dire che a prevalere è comunque il fattore di spinta (push factor) rispetto al fattore di attrazione (pull factor). Sono le ragioni per cui fuggono che spingono queste persone a mettersi in mare non certo la possibilità – che non è certezza – di essere salvati”.

Alle dichiarazioni di Msf fa eco il comunicato del Moas, un’altra ong che opera in mare dal 2014. “Il lancio delle operazioni del Moas all’inizio del periodo estivo coincide con il miglioramento delle condizioni climatiche e, di conseguenza, con il numero di attraversamenti che da queste dipendono. È necessario partire da questo presupposto per comprendere l’aumento del numero di operazioni di soccorso condotte da Moas e dalle altre ong a partire da giugno, come riportato nel rapporto Frontex, e per comprendere che questo dato non costituisce in nessun modo una prova del cosiddetto pull factor”.

L’unico vero pull factor è la presenza dell’Europa a poche miglia dalla costa africana.

In un lungo articolo dedicato all’argomento la ricercatrice e giornalista Daniela Padoan dell’Associazione diritti e frontiere (Adif) ribadisce: “L’accusa di fungere da pull factor era già stata mossa a Mare nostrum, il 4 settembre 2014, dall’allora direttore esecutivo di Frontex Gil Arias-Fernandéz durante una presentazione davanti a una commissione del parlamento europeo”. Il viceministro degli esteri italiano Mario Giro ha replicato a questo tipo di accuse contro le ong dicendo: “Chi spiega tutto con presunti pull factor dovrebbe fare un’analisi più seria: l’unico vero pull factor che esiste è la presenza dell’Europa a poche miglia marine dalla costa africana. Frontex vuole forse spostare l’Europa? In un periodo storico in cui l’Europa rischia di perdere la sua anima tra muri e sovranismo, le parole di Leggeri sviano solo il problema: si pensi piuttosto al fatto che tutti i salvati vengono lasciati all’Italia e che nessun altro paese s’impegna, per ora”.

Le ong fanno un servizio di taxi per i trafficanti?
Il procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro nella sua relazione davanti alla commissione parlamentare di controllo per l’attuazione di Schengen il 22 marzo, ha sollevato dei dubbi sull’origine dei finanziamenti di cui beneficiano le ong che sono impegnate nei soccorsi e ha accusato le organizzazioni di non collaborare con l’attività investigativa della procura per l’individuazione degli scafisti durante gli sbarchi. “A partire dal settembre-ottobre del 2016 abbiamo registrato un improvviso proliferare di unità navali delle ong che fanno il lavoro che prima gli organizzatori [del traffico di migranti] svolgevano: accompagnare fino al nostro territorio i barconi dei migranti. Abbiamo registrato la presenza, nei momenti di maggior picco, di tredici assetti navali. Ci siamo voluti interrogare sulle evoluzioni del fenomeno e perché ci sia stato un proliferare così intenso di queste unità navali e come si potessero affrontare costi così elevati senza disporre di un ritorno in termini di profitto economico”, ha detto Zuccaro.

Le ong si difendono dicendo che i loro bilanci sono trasparenti e i finanziatori sono donatori privati. Nicola Stalla, portavoce della nave Aquarius di Sos Méditerranée, afferma: “Le attività di Sos Méditerranée sono finanziate al 99 per cento da donatori privati e una piccola parte dei contributi arriva dal comune di Parigi”. Stalla aggiunge che “nell’ultimo anno i donatori sono stati 13.800” e definisce infondate le accuse di collaborare con i trafficanti. “Il costo dell’Aquarius, la nostra nave, è sostenuto da Sos Méditerranée e dal suo partner a bordo, Medici senza frontiere”. Una risposta simile danno anche gli altri portavoce delle ong. All’accusa di ricevere finanziamenti opachi, si aggiunge quella di portare i migranti in Italia per favorire “il business dell’accoglienza”.


giovedì 13 aprile 2017

Usa: la bomba MOAB contro l'ISIS



Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno sganciato una bomba sull'Afghanistan orientale, nella zona di Nangarhar, con l'obiettivo di colpire l'Isis. Si tratterebbe di una cosiddetta bomba MOAB (la sigla significa 'Massive ordnance air blast', ma è stata ribattezzata mother of all bombs -madre di tutte le bombe), che pesa quasi 10 tonnellate e ha la forza di distruggere tutto nel raggio di centinaia di metri, un ordigno GBU-43, la bomba non nucleare più potente del suo arsenale. L’ha confermato il Pentagono. L’obiettivo del bombardamento era un sistema di tunnel usati dal gruppo Stato islamico. La GBU-43, conosciuta anche come “madre di tutte le bombe”, era stata testata nel 2003 ma finora non era mai stata usata in combattimento dagli Stati Uniti. . Sarebbe la prima volta che viene utilizzata in combattimento.

L'ordigno, sviluppato per la guerra in Iraq del 2003, mai utilizzato prima. Sean Spicer: "Gli Usa lottano contro i terroristi dell'Isis e per sconfiggerli occorre negare loro spazi operativi, cosa che abbiamo fatto".

Il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha confermato in apertura del briefing quotidiano che gli Stati Uniti hanno colpito l'Afghanistan sganciando una bomba mirata a colpire "tunnel e grotte usate dai miliziani dell'Isis". Spicer ha quindi sottolineato che nell'azione "sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali", rimandando poi al Pentagono per ulteriori dettagli.

"Un'altra missione di successo, sono molto orgoglioso dei nostri militari". Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto a domande dei giornalisti sulla 'superbomb' sganciata dagli Usa in Afghanistan, sottolineando che i militari hanno la sua "totale autorizzazione", cioè carta bianca.

Il Comando centrale americano ha fatto sapere in una nota che l'azione rientra nelle ''misure in corso per sconfiggere l'Is in Afghanistan nel 2017'', sedicesimo anno della guerra condotta da Washington nel Paese. ''Il raid è stato organizzato in modo da ridurre al minimo il rischio per le forze afghane e americane e per massimizzare l'eliminazione dei combattenti dell'Is e le loro strutture'', prosegue il testo, sottolineando che ''sono state prese precauzioni per evitare vittime civili''.  

 La Moab, sviluppata nella Guerra in Iraq del 2003 ma mai utilizzata, è lunga 9,17 metri ed ha un diametro di 1,02 metri. Guidata da un sistema Gps sull'obiettivo, pesa 8,5 tonnellate di esplosivo H-6 ad altissimo potenziale la sua deflagrazione equivale all'esplosione di 11 tonnellate di tritolo. La detonazione avviane poco prima che tocchi il suolo (non è un ordigno penetratore, usato per distruggere bunker in profondità) ed ha un effetto distruttivo totale per qualsiasi cosa si trovi sulla superficie per diverse centinaia di metri di diametro dal punto di impatto. Essendo l'ordigno non nucleare più potente ha prevalentemente un effetto psicologico, teso ad intimorire il nemico. Il suo peso è tale che non può essere sganciato da un normale bombardiere ma sono stati adattati dei C-130 Hercules, ribattezzati MC 130 Combat Talon.

Dal peso di quasi dieci tonnellate, la bomba ha la potenza di distruggere qualunque cosa nel raggio di centinaia di metri. L'esercito americano sta valutando i danni nella provincia afghana di Nangarhar, che confina con il Pakistan.

Il Comando centrale americano ha fatto sapere in una nota che l'azione rientra nelle ''misure in corso per sconfiggere l'Is in Afghanistan nel 2017'', sedicesimo anno della guerra condotta da Washington nel Paese.

''Il raid è stato organizzato in modo da ridurre al minimo il rischio per le forze afghane e americane e per massimizzare l'eliminazione dei combattenti dell'Is e le loro strutture'', prosegue il testo, sottolineando che ''sono state prese precauzioni per evitare vittime civili''.

Il presidente americano Donald Trump ha rivendicato come un "successo" il lancio di una bomba Moab contro tunnel dello Stato Islamico in Afghanistan e ha criticato il suo predecessore Barack Obama. "Sono molto, molto orgoglioso. Veramente un altro lavoro di successo. Siamo molto orgogliosi dei nostri militari. E' stato un altro evento di successo", ha detto Trump rispondendo alle domande sulla super bomba, secondo quanto riferisce il sito The Hill. "Se guardate a quanto è successo nelle ultime otto settimane e lo paragonate con quanto successo negli ultimi otto anni, vedrete che c'è una tremenda differenza", ha aggiunto, con un evidente riferimento ai due mandati di Obama. Interrogato in proposito, il presidente americano ha detto di aver autorizzato l'uso della bomba.

"Abbiamo preso di mira un sistema di tunnel e grotte che i combattenti dell'Isis utilizzano per muoversi liberamente, in modo da poter colpire più facilmente i militari e i consiglieri americani e le forze afghane nell'area". E' quanto ha detto il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer in merito all'uso di una bomba Moab contro tunnel dello Stato Islamico in Afghanistan. Spicer, citato dai media americani, ha sottolineato che sono state prese le precauzioni necessarie per evitare vittime civili e "danni collaterali".

Le testimonianze - Il raid aereo americano in Afghanistan con una bomba Moab avrebbe provocato la morte di molti militanti dello Stato Islamico, fra cui il fratello di un importante leader del gruppo terrorista. Lo riferisce un funzionario locale citato dalla Bbc. Fonti locali aggiungono che l'esplosione è stata così potente da essere stata udita anche in due distretti vicini al luogo del raid. L'obiettivo si trovava nel distretto di Achin della provincia di Nangarhar, in un'area montagnosa e scarsamente popolata. "L'esplosione è stata come un forte terremoto", ha raccontato un soldato afghano al quotidiano britannico Guardian. Secondo un altro testimone locale, l'area colpita era stata completamente occupata dai militanti dello Stato Islamico e non vi erano più civili. Esmatullah Shinwari, deputato afghano della provincia di Nangarhar, ha però detto al Guardian di aver saputo da fonti locali che sarebbe stati uccisi un insegnante e suo figlio.


lunedì 10 aprile 2017

Gibilterra e la brexit che succederà



Il primo ministro del Regno Unito Theresa May ha firmato la lettera con la richiesta formale di lasciare l’UE. Tra le altre cose il documento contiene anche alcune indicazioni per risolvere la delicata questione di Gibilterra, che appartiene al Regno Unito e su cui la Spagna cerca praticamente da sempre di ottenere maggiore influenza.

Gibilterra è una piccola città nel sud della Spagna, che il Regno Unito occupò all’inizio del Settecento trasformandola rapidamente in una fortezza e in una base navale con cui per secoli i britannici hanno controllato l’accesso all'intero Mar Mediterraneo. Al referendum su Brexit, a Gibilterra, su 33 mila abitanti 19.322 hanno votato per il “Remain”, e soltanto 823 per il “Leave”: in nessun distretto del Regno Unito c’è stato un risultato così netto a favore della permanenza nell’UE. La ragione è che i gibilterrini rischiano di rimetterci più degli altri cittadini britannici, lasciando l’Unione.

Una delle principali industrie della città è quella del gioco d’azzardo, che, soprattutto negli ultimi anni, ha sfruttato le permissive leggi locali per stabilire in città le sedi di numerosi casinò online e siti di scommesse. Gibilterra gode anche di un regime doganale speciale, che ha trasformato il suo piccolo porto in un’importante stazione di interscambio, dove le navi dirette nel Mediterraneo possono fermarsi e cambiare gli equipaggi pagando meno tasse di quelle che pagherebbe normalmente nei paesi dell’Unione europea. Sono attività che in buona parte funzionano proprio perché Gibilterra gode di un regime speciale all’interno dell’UE, e che quindi potrebbero proseguire anche in caso di Brexit.

 La Spagna ha ragione, Londra sta perdendo la testa ancora prima di essersi seduta al tavolo delle trattative. Lord Howard, ex membro del governo conservatore di Margaret Thatcher e di John Major ed ex leader del partito Conservatore, ne ha dato una dimostrazione plastica evocando una guerra in Europa per difendere Gibilterra dalle mire spagnole. Negli ultimi settant’anni di pace non ricordiamo fughe in avanti – per usare un eufemismo – tanto ridicole.

Michael Howard non è una mezza figura della politica britannica, è personalità controversa, è ora ai margini della scena, ma con quegli accenni bellicosi in odore di un’intramontabile volontà imperiale finisce per toccare corde profonde della sensibilità britannica. La Brexit ha mille facce, ma una è, certamente, la nostalgia di una supremazia antica che si vorrebbe idealmente ristabilire. E quindi Gibilterra come le Falklands, Theresa May come Margaret Thatcher e magari, avanzando con l’iperbole, Donald Trump come Ronald Reagan che fu grande alleato della Lady di Ferro nel conflitto contro l’Argentina.

Downing Street ha ribadito che «Gibilterra sarà tenuta presente costantemente» nelle trattative, il ministro degli Esteri Boris Johnson ha riaffermato con i toni enfatici di sempre il legame inscindibile fra Londra e la Rocca, l’ex ministro degli Esteri laburista Jack Straw ha avuto, invece, l’onesta di liquidare come «assurdo» il clangore di ferri evocato da Howard.

E a questo punto vanno chiariti i nodi della disputa, perché nessuno ha mai detto che con la Brexit Gibilterra va consegnata alla Spagna. Molto semplicemente Madrid avrà diritto a far valere la sua volontà in intese commerciali che riguardando Gibilterra toccano direttamente gli interessi spagnoli. Veto ? Nessuno veto, dice la Spagna, riportando i termini della querelle entro una logica considerazione: la Ue difenderà i propri interessi e quindi quelli dei suoi Stati membri, ovvero quelli di Madrid.

Il Consiglio europeo aveva precisato che gli accordi futuri con il Regno Unito possono tenere conto dei territori britannici d’oltremare fatto salvo lo specifico accordo spagnolo. Il riferimento alla Rocca è chiaro, ma in larga misura inevitabile e prevedibile. Un po’ meno la piega che Madrid ha impresso alla sua politica nei confronti della Scozia. «Non ci sarà veto spagnolo – ha detto il ministro degli Esteri Alfonso Dastis - all’adesione di Edimburgo all'Unione europea se sarà questo l’esito di un processo legale e costituzionale» di secessione dal Regno Unito.

Il no spagnolo cade e Madrid non è più la coperta di Linus di Londra, confortante pensiero di una divaricazione della corona che non poteva avvenire per i timori iberici di stabilire un precedente. Ovvero che dopo la Scozia potesse essere la Catalogna o il Paese Basco a rivendicare analogo diritto.

Sale la tensione con il maturare della Brexit e cresce il rischio che le emozioni finiscano per crescere, prendendo il sopravvento sulla freddezza negoziale. Per avere “successo” – ovvero per limitare al massimo i danni – la trattativa anglo-europea va tenuta sui binari di una gelida transazione d’affari. Non c’era modo peggiore di cominciare, alzando la posta su Gibilterra.

Ma uscire dall’Unione presenterebbe a Gibilterra altri problemi, uno in particolare: Gibilterra ha solo un confine terrestre, che è lungo poche centinaia di metri e la separa dalla Spagna. Ogni giorno il confine è attraversato da circa diecimila cittadini spagnoli che arrivano dalla vicina città di La Linea per lavorare, spesso come domestici o camerieri. Dal confine passano dunque migliaia di lavoratori, fondamentali per l’economia della città, oltre a merci e cittadini inglesi che hanno proprietà nel sud della Spagna. Se in seguito all’uscita del Regno Unito dall’UE questo confine – oggi aperto e facile da attraversare – dovesse diventare un “hard border”, cioè un vero confine con controlli, lunghe code e difficoltà di accesso, l’intera economia di Gibilterra ne risentirebbe. Il primo ministro Fabian Picardo ha detto di volere un accordo speciale con l’UE per mantenere la libera circolazione di persone tra Gibilterra e la Spagna e l’accesso al mercato unico europeo, ma non ci sono certezze che questo sarà possibile. Da un lato i gibilterrini vogliono continuare a fare parte del Regno Unito, dall’altro però sono consapevoli che la loro economia dipende dalla Spagna.


sabato 8 aprile 2017

Turchia: il referendum costituzionale voluto da Erdoğan



Si avvicina il 16 aprile, data in cui i cittadini turchi saranno chiamati al voto referendario sulla proposta di riforma costituzionale voluta dal governo targato AKP. Gli emendamenti all'attuale costituzione elaborata dopo il golpe del 1980 e ritenuta ormai superata da larga parte delle forze politiche in Turchia, sono stati approvati dal parlamento di Ankara lo scorso gennaio, dopo una serie di votazioni in cui il partito di governo è riuscito ad ottenere i numeri necessari grazie al sostegno di parte degli ultra-nazionalisti del MHP.

Una vittoria del “sì” trasformerebbe la Turchia in una Repubblica presidenziale, con i poteri fortemente accentrati nelle mani del presidente della Repubblica – carica attualmente ricoperta da Recep Tayyip Erdoğan. Numerosi esponenti di politica, mondo accademico e società civile hanno lanciato l'allarme sulla deriva autoritaria di cui è preda la Turchia e la possibile creazione di un'autocrazia plebiscitaria, sostenuta unicamente dal voto popolare, ma priva di un sistema funzionante di pesi e contrappesi istituzionali e gravata di forti limitazioni nella libertà di stampa e di espressione.

Sono circa tre milioni i cittadini turchi residenti all’estero che hanno diritto di voto nel referendum del 16 aprile sull'introduzione del presidenzialismo in Turchia. Si vota in 57 paesi, fino a domani 9 aprile. In caso di approvazione la riforma costituzionale assegna più poteri al presidente Erdogan che in questo modo, diventerebbe anche capo dell’esecutivo. Tra i poteri che otterrebbe, quello di nominare i ministri, sciogliere il parlamento e dichiarare lo stato d’emergenza.

La riforma costituzionale è stata ampiamente contestata soprattutto all'estero. In Germania dove vive il maggior numero di cittadini turchi, il governo di Berlino ha di recente impedito l’organizzazione di comizi da parte dei politici di Ankara, a favore della riforma.

Il referendum istituzionale voluto da Erdogan - Qualora la riforma fosse approvata, assegnerebbe più poteri al Presidente. Tra i punti principali degli interventi istituzionali, infatti, è previsto che quest'ultimo diventi il capo dell'Esecutivo oltre a mantenere il ruolo di Capo di Stato, eliminando in pratica la funzione del Primo ministro, le cui attribuzioni passerebbero al Presidente stesso che potrebbe anche dichiarare autonomamente lo stato d'emergenza o far dimettere i ministri del governo e, per essere inquisito dal Parlamento, avrebbe bisogno di una votazione a lui contraria con un maggior numero di parlamentari rispetto agli attuali. Molto criticato all'estero e preceduto da diverse polemiche, il referendum è stato bollato dal tabloid tedesco Bild col titolo "Ataturk avrebbe votato no": al momento l'esito è incerto e il voto dei turchi all'estero - pari a circa il 5% del totale degli aventi diritto - potrebbe risultare davvero decisivo.

L'attenzione si concentra soprattutto su sei paesi europei, Austria, Belgio, Francia, Svizzera, Danimarca e Germania, dove risiedono complessivamente oltre 2,9 milioni di cittadini turchi aventi diritto al voto. Rappresentano oltre il 5% degli aventi diritto totali, fondamentali per una sfida elettorale che si prospetta un vero testa a testa.

La società turca si avvicina alle urne in un clima di esasperata polarizzazione: la campagna elettorale è condotta più attraverso l'attacco all'avversario che non con una discussione pubblica sui contenuti della riforma. I sostenitori del “no” sono stati sin da subito equiparati a terroristi, anche da parte di alti ufficiali governativi. I sostenitori del “sì” sono invece tacciati di sacrificare la democrazia turca in favore di una vera e propria dittatura.

A complicare lo scenario, lo stato di emergenza in vigore dall'agosto 2016, che rende difficile l'organizzazione di manifestazioni e dibattiti pubblici, in piazza come nei media, ormai da tempo sotto il torchio di una dura repressione che fa della Turchia il paese al mondo con più giornalisti in carcere.

Lo schieramento del “no” appare compatto nei due maggiori partiti d'opposizione, quello repubblicano CHP e quello della sinistra HDP, movimento al centro di un'ondata di operazioni repressive condotte dalle autorità giudiziarie, che accusano l'HDP di collusione con il PKK. Le operazioni contro il partito hanno condotto in carcere centinaia di esponenti locali e 12 parlamentari, inclusi i due co-leader Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ.

La base elettorale di questi due partiti, che hanno raccolto rispettivamente il 25 e 13% alle elezioni politiche del novembre 2015, non sarebbe comunque sufficiente a garantire la vittoria del “no”. È piuttosto all'interno degli schieramenti della destra turca che si combatte la vera battaglia per l'esito referendario.