sabato 8 aprile 2017

Turchia: il referendum costituzionale voluto da Erdoğan



Si avvicina il 16 aprile, data in cui i cittadini turchi saranno chiamati al voto referendario sulla proposta di riforma costituzionale voluta dal governo targato AKP. Gli emendamenti all'attuale costituzione elaborata dopo il golpe del 1980 e ritenuta ormai superata da larga parte delle forze politiche in Turchia, sono stati approvati dal parlamento di Ankara lo scorso gennaio, dopo una serie di votazioni in cui il partito di governo è riuscito ad ottenere i numeri necessari grazie al sostegno di parte degli ultra-nazionalisti del MHP.

Una vittoria del “sì” trasformerebbe la Turchia in una Repubblica presidenziale, con i poteri fortemente accentrati nelle mani del presidente della Repubblica – carica attualmente ricoperta da Recep Tayyip Erdoğan. Numerosi esponenti di politica, mondo accademico e società civile hanno lanciato l'allarme sulla deriva autoritaria di cui è preda la Turchia e la possibile creazione di un'autocrazia plebiscitaria, sostenuta unicamente dal voto popolare, ma priva di un sistema funzionante di pesi e contrappesi istituzionali e gravata di forti limitazioni nella libertà di stampa e di espressione.

Sono circa tre milioni i cittadini turchi residenti all’estero che hanno diritto di voto nel referendum del 16 aprile sull'introduzione del presidenzialismo in Turchia. Si vota in 57 paesi, fino a domani 9 aprile. In caso di approvazione la riforma costituzionale assegna più poteri al presidente Erdogan che in questo modo, diventerebbe anche capo dell’esecutivo. Tra i poteri che otterrebbe, quello di nominare i ministri, sciogliere il parlamento e dichiarare lo stato d’emergenza.

La riforma costituzionale è stata ampiamente contestata soprattutto all'estero. In Germania dove vive il maggior numero di cittadini turchi, il governo di Berlino ha di recente impedito l’organizzazione di comizi da parte dei politici di Ankara, a favore della riforma.

Il referendum istituzionale voluto da Erdogan - Qualora la riforma fosse approvata, assegnerebbe più poteri al Presidente. Tra i punti principali degli interventi istituzionali, infatti, è previsto che quest'ultimo diventi il capo dell'Esecutivo oltre a mantenere il ruolo di Capo di Stato, eliminando in pratica la funzione del Primo ministro, le cui attribuzioni passerebbero al Presidente stesso che potrebbe anche dichiarare autonomamente lo stato d'emergenza o far dimettere i ministri del governo e, per essere inquisito dal Parlamento, avrebbe bisogno di una votazione a lui contraria con un maggior numero di parlamentari rispetto agli attuali. Molto criticato all'estero e preceduto da diverse polemiche, il referendum è stato bollato dal tabloid tedesco Bild col titolo "Ataturk avrebbe votato no": al momento l'esito è incerto e il voto dei turchi all'estero - pari a circa il 5% del totale degli aventi diritto - potrebbe risultare davvero decisivo.

L'attenzione si concentra soprattutto su sei paesi europei, Austria, Belgio, Francia, Svizzera, Danimarca e Germania, dove risiedono complessivamente oltre 2,9 milioni di cittadini turchi aventi diritto al voto. Rappresentano oltre il 5% degli aventi diritto totali, fondamentali per una sfida elettorale che si prospetta un vero testa a testa.

La società turca si avvicina alle urne in un clima di esasperata polarizzazione: la campagna elettorale è condotta più attraverso l'attacco all'avversario che non con una discussione pubblica sui contenuti della riforma. I sostenitori del “no” sono stati sin da subito equiparati a terroristi, anche da parte di alti ufficiali governativi. I sostenitori del “sì” sono invece tacciati di sacrificare la democrazia turca in favore di una vera e propria dittatura.

A complicare lo scenario, lo stato di emergenza in vigore dall'agosto 2016, che rende difficile l'organizzazione di manifestazioni e dibattiti pubblici, in piazza come nei media, ormai da tempo sotto il torchio di una dura repressione che fa della Turchia il paese al mondo con più giornalisti in carcere.

Lo schieramento del “no” appare compatto nei due maggiori partiti d'opposizione, quello repubblicano CHP e quello della sinistra HDP, movimento al centro di un'ondata di operazioni repressive condotte dalle autorità giudiziarie, che accusano l'HDP di collusione con il PKK. Le operazioni contro il partito hanno condotto in carcere centinaia di esponenti locali e 12 parlamentari, inclusi i due co-leader Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ.

La base elettorale di questi due partiti, che hanno raccolto rispettivamente il 25 e 13% alle elezioni politiche del novembre 2015, non sarebbe comunque sufficiente a garantire la vittoria del “no”. È piuttosto all'interno degli schieramenti della destra turca che si combatte la vera battaglia per l'esito referendario.



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