lunedì 10 aprile 2017

Gibilterra e la brexit che succederà



Il primo ministro del Regno Unito Theresa May ha firmato la lettera con la richiesta formale di lasciare l’UE. Tra le altre cose il documento contiene anche alcune indicazioni per risolvere la delicata questione di Gibilterra, che appartiene al Regno Unito e su cui la Spagna cerca praticamente da sempre di ottenere maggiore influenza.

Gibilterra è una piccola città nel sud della Spagna, che il Regno Unito occupò all’inizio del Settecento trasformandola rapidamente in una fortezza e in una base navale con cui per secoli i britannici hanno controllato l’accesso all'intero Mar Mediterraneo. Al referendum su Brexit, a Gibilterra, su 33 mila abitanti 19.322 hanno votato per il “Remain”, e soltanto 823 per il “Leave”: in nessun distretto del Regno Unito c’è stato un risultato così netto a favore della permanenza nell’UE. La ragione è che i gibilterrini rischiano di rimetterci più degli altri cittadini britannici, lasciando l’Unione.

Una delle principali industrie della città è quella del gioco d’azzardo, che, soprattutto negli ultimi anni, ha sfruttato le permissive leggi locali per stabilire in città le sedi di numerosi casinò online e siti di scommesse. Gibilterra gode anche di un regime doganale speciale, che ha trasformato il suo piccolo porto in un’importante stazione di interscambio, dove le navi dirette nel Mediterraneo possono fermarsi e cambiare gli equipaggi pagando meno tasse di quelle che pagherebbe normalmente nei paesi dell’Unione europea. Sono attività che in buona parte funzionano proprio perché Gibilterra gode di un regime speciale all’interno dell’UE, e che quindi potrebbero proseguire anche in caso di Brexit.

 La Spagna ha ragione, Londra sta perdendo la testa ancora prima di essersi seduta al tavolo delle trattative. Lord Howard, ex membro del governo conservatore di Margaret Thatcher e di John Major ed ex leader del partito Conservatore, ne ha dato una dimostrazione plastica evocando una guerra in Europa per difendere Gibilterra dalle mire spagnole. Negli ultimi settant’anni di pace non ricordiamo fughe in avanti – per usare un eufemismo – tanto ridicole.

Michael Howard non è una mezza figura della politica britannica, è personalità controversa, è ora ai margini della scena, ma con quegli accenni bellicosi in odore di un’intramontabile volontà imperiale finisce per toccare corde profonde della sensibilità britannica. La Brexit ha mille facce, ma una è, certamente, la nostalgia di una supremazia antica che si vorrebbe idealmente ristabilire. E quindi Gibilterra come le Falklands, Theresa May come Margaret Thatcher e magari, avanzando con l’iperbole, Donald Trump come Ronald Reagan che fu grande alleato della Lady di Ferro nel conflitto contro l’Argentina.

Downing Street ha ribadito che «Gibilterra sarà tenuta presente costantemente» nelle trattative, il ministro degli Esteri Boris Johnson ha riaffermato con i toni enfatici di sempre il legame inscindibile fra Londra e la Rocca, l’ex ministro degli Esteri laburista Jack Straw ha avuto, invece, l’onesta di liquidare come «assurdo» il clangore di ferri evocato da Howard.

E a questo punto vanno chiariti i nodi della disputa, perché nessuno ha mai detto che con la Brexit Gibilterra va consegnata alla Spagna. Molto semplicemente Madrid avrà diritto a far valere la sua volontà in intese commerciali che riguardando Gibilterra toccano direttamente gli interessi spagnoli. Veto ? Nessuno veto, dice la Spagna, riportando i termini della querelle entro una logica considerazione: la Ue difenderà i propri interessi e quindi quelli dei suoi Stati membri, ovvero quelli di Madrid.

Il Consiglio europeo aveva precisato che gli accordi futuri con il Regno Unito possono tenere conto dei territori britannici d’oltremare fatto salvo lo specifico accordo spagnolo. Il riferimento alla Rocca è chiaro, ma in larga misura inevitabile e prevedibile. Un po’ meno la piega che Madrid ha impresso alla sua politica nei confronti della Scozia. «Non ci sarà veto spagnolo – ha detto il ministro degli Esteri Alfonso Dastis - all’adesione di Edimburgo all'Unione europea se sarà questo l’esito di un processo legale e costituzionale» di secessione dal Regno Unito.

Il no spagnolo cade e Madrid non è più la coperta di Linus di Londra, confortante pensiero di una divaricazione della corona che non poteva avvenire per i timori iberici di stabilire un precedente. Ovvero che dopo la Scozia potesse essere la Catalogna o il Paese Basco a rivendicare analogo diritto.

Sale la tensione con il maturare della Brexit e cresce il rischio che le emozioni finiscano per crescere, prendendo il sopravvento sulla freddezza negoziale. Per avere “successo” – ovvero per limitare al massimo i danni – la trattativa anglo-europea va tenuta sui binari di una gelida transazione d’affari. Non c’era modo peggiore di cominciare, alzando la posta su Gibilterra.

Ma uscire dall’Unione presenterebbe a Gibilterra altri problemi, uno in particolare: Gibilterra ha solo un confine terrestre, che è lungo poche centinaia di metri e la separa dalla Spagna. Ogni giorno il confine è attraversato da circa diecimila cittadini spagnoli che arrivano dalla vicina città di La Linea per lavorare, spesso come domestici o camerieri. Dal confine passano dunque migliaia di lavoratori, fondamentali per l’economia della città, oltre a merci e cittadini inglesi che hanno proprietà nel sud della Spagna. Se in seguito all’uscita del Regno Unito dall’UE questo confine – oggi aperto e facile da attraversare – dovesse diventare un “hard border”, cioè un vero confine con controlli, lunghe code e difficoltà di accesso, l’intera economia di Gibilterra ne risentirebbe. Il primo ministro Fabian Picardo ha detto di volere un accordo speciale con l’UE per mantenere la libera circolazione di persone tra Gibilterra e la Spagna e l’accesso al mercato unico europeo, ma non ci sono certezze che questo sarà possibile. Da un lato i gibilterrini vogliono continuare a fare parte del Regno Unito, dall’altro però sono consapevoli che la loro economia dipende dalla Spagna.


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