giovedì 25 gennaio 2018

I fondi sovrani degli sceicchi



Che cosa sono i fondi sovrani? Strumenti gestiti dai Governi dei Paesi grandi esportatori di petrolio per investire soldi pubblici all’estero, ma con il potere straordinario di staccare assegni a dodici zeri, grandi come il debito pubblico italiano. Così grandi che fanno paura, perché in grado di controllare fette non trascurabili di economie estere (anche europee o statunitensi, banche incluse) ma senza avere quei requisiti di trasparenza che garantiscono stabilità al sistema finanziario.

Un fondo sovrano è un fondo di investimento istituito o posseduto da un governo, un’autorità monetaria nazionale, ovvero un’agenzia pubblica. Essi si inseriscono nel più ampio insieme dei sovereign investment vehicles, nel quale generalmente vengono fatti rientrare soggetti molto diversi tra loro (banche centrali, imprese possedute dallo Stato, ecc.), ma accomunati da una matrice pubblicistica o dalle fonti di finanziamento utilizzate. A partire dal 2007, l’aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime ha consentito ai paesi ricchi di tali beni di accrescere notevolmente le risorse destinate ai fondi sovrani e ciò ha reso i fondi stessi più propensi a diversificare i propri portafogli ed ad investire in strumenti azionari. Allo stesso tempo, la svalutazione del dollaro ha indotto i fondi sovrani a ridurre l’esposizione verso i titoli di stato degli Stati Uniti.

Gli EAU impiegano massicce risorse nei loro dieci fondi sovrani. Si stima che il loro valore complessivo si aggiri intorno ai 900 miliardi di dollari, pari a quasi quattro volte il PIL dello Stato emiratino. La proprietá e spesso anche la gestione di tutti i fondi è collegata direttamente alla famiglia regnante e le risorse loro destinate provengono in modo esclusivo dai surplus originati dall’esportazione del greggio. I fondi operano col fine principale di diversificare il sistema economico del paese e quasi tutti gli investimenti esteri, salvo alcune eccezioni, sono caratterizzati da bassi rischi finanziari. Riguardo gli investimenti interni, essi sono effettuati in tutti i settori dell’economia ed in particolare nei settori considerati volano della crescita economica e generatori di posti di lavoro, quali ad esempio l’industria delle telecomunicazioni ed aeroportuale.

La Abu Dhabi Investment Authority (ADIA) è un fondo sovrano istituito allo scopo di effettuare investimenti per conto del Governo dell’emirato di Abu Dhabi. Benchè ADIA non ha abbia reso noto il valore dei suoi assets, si stima che questi possano aggirarsi tra i 300 e gli 875 miliardi di US$ (fonte The Economist). Il Sovereign Wealth Fund Institute fa una stima di 627 miliardi di US$. Nel 1967 l’emiro di Abu Dhabi istituí il Financial Investment Board che operava di concerto col ministero della finanza ed era responsabile per la gestione degli incassi in eccesso provenienti dalle esportazioni del greggio. Nel 1976, lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, fondatore degli EAU e governatore di Abu Dhabi, decise di fondare la Abu Dhabi Investment Authority e di tenerla separarata dal governo conferendole una amministrazione propria. L’intento era quello di investire i surplus del governo di Abu Dhabi in vari assets a basso rischio. A quel tempo era molto innovativo per un governo investire riserve in assets di lungo periodo. Perfino ad oggi, investimenti di breve periodo ed in oro restano la strategia principale per la maggior parte degli Stati.

L’ADIA gestisce una vasta quantitá di capitali ed è il secondo fondo sovrano piú grande al mondo. Proprio a causa delle sue dimensioni, il fondo ha talvolta influenzato gli andamenti della finanza globale. Nel 2008 ha co-presieduto l’International Working Group di 26 fondi sovrani che ha prodotto un documento, noto come i principi di Santiago, dal titolo “Principi e pratiche dei fondi sovrani generalmente condivisi”. Tali principi furono enunciati al fine di dimostrare agli Stati ed al mercato finanziario internazionale che i fondi sovrani dispongono di robusti frameworks interni, sane pratiche di governance e che i loro investimenti sono decisi solo su basi economiche e finanziarie.

L’International Petroleum Investment Company (IPIC) è una societá di investimento istituita dal governo degli EAU con un decreto federale del 1984. Il suo mandato è quello di fare investimenti a livello globale nel settore energetico ed in quelli connessi. Il governo detiene il 100% della proprietá e nomina i membri del consiglio di amministrazione. IPIC è un investitore strategico di lungo periodo ed al momento è impegnato con 15 investimenti in 10 Stati su 5 diversi continenti. Gli investimenti di portfolio includono:

La completa proprietá di NOVA Chemicals, una societá americana produttrice di prodotti chimici e plastici. La maggioranza di Borealis (primo produttore mondiale di polyolefin), Aabar Investments (societá pubblica di investimenti), e Ferrostaal, un progetto di sviluppo e gestione di petrolio, gas e industrie energetiche.

Notevoli partecipazioni in Compañia Española de Petróleos, S.A (Cepsa), holding spagnola di prodotti petroliferi e petrolchimici. Cosmo Oil Company, societá di raffinazione giapponese, e OMV, holding di societá per l’approvvigionamento di petrolio e gas presente in tutta l’europa centrale ed orientale e basata in Austria.

Inoltre, IPIC sta al momento portando avanti i seguenti progetti strategici:
Il multimiliardario progetto ChemaWEyaat project che coinvolge una serie di joint ventures che ospiteranno un complesso chimico con accesso ai giacimenti di gas e petrolio liquido di Abu Dhabi. Il Habshan–Fujairah oil pipeline, che connette i giacimenti terrestri di Abu Dhabi con un terminal di esportazione locato in Fujairah nell’oceano indiano. La continua espansione del progetto Borogue mira a portare tecnologia d’avanguardia e il piú alto livello di competenza per migliorare e sviluppare le industrie idrocarbure e petrolchimiche di Abu Dhabi.

Il Consiglio di Amministrazione dell’IPIC è presieduto dallo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan e tutti isuoi membri sono nominati per decreto federale, incluso il suo amministratore delegato Khadem al-Qubaisi.

La Mubadala Development Company PJSC (Mubadala) è istitutita nel 2002 come (Public Joint Stock Company) ed è interamente posseduta dal governo di Abu Dhabi. Il suo fine è quello di promuovere la diversificazione dell’economia dell’emirato. Si concentra sull’amministrazione di investimenti a lungo termine ad intensa quantitá di capitale che portano forti proventi finanziari e benefici sociali tangibili per l’emirato. Al momento, Mubadala detiene nove business units che operano in differenti settori strategici ritenuti importanti per l’economia dell’emirato.

Settore aeroportuale
Mubadala mira a trasformare Abu Dhabi in un hub aerospaziale globale attraverso un progetto supportato da una serie di grandi investimenti. L’approccio intergrato al settore coinvolge anche il settore produttivo tramite la previsione di una societá di servizi di manutenzione: la Maintenance Repair Overhaul (MRO), hanno una potenza di fuoco impressionante: 2800 miliardi di dollari, cifra superiore al Pil di Italia e Svizzera messe assieme. Questa montagna di denaro, secondo il Sovereign Wealth Fund Institute, è gestita da soli quattro Paesi attraverso i rispettivi fondi sovrani: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Kuwait. Se poi ci allarghiamo ad altre nazioni come Cina o Norvegia, ecco che nel complesso i “sovereign wealth funds” toccano i 7mila miliardi di dollari, il doppio del Pil tedesco.

Negli ultimi anni, poi, le artiglierie economiche dei Paesi esportatori di petrolio stanno affinando la mira su obiettivi più squisitamente politici. In particolare alle latitudini del Golfo Persico, dove gli sceicchi si sentono sempre più abbandonati dal protettore di un tempo, gli Stati Uniti, il “globocop” (poliziotto mondiale) che da quando è diventato a sua volta esportatore di greggio grazie allo shale oil è diventato più distratto su quel che accade in zona Opec. Dall’accordo sul nucleare in Iran al ritiro militare dall’Iraq fino al relativo disinteresse per la Siria: l’amministrazione Obama, in particolare, ha rappresentato un duro colpo per i Paesi del Golfo.
Così gli sceicchi hanno imbracciato il bazooka dei propri fondi sovrani per fare politica, oltre che business. Quando per esempio nel 2015 il Qatar ha annunciato investimenti negli Stati Uniti per 35 miliardi di dollari affermando di non voler fare politica ma solo affari, ha detto una mezza verità: lo shopping del fondo sovrano in terra americana rappresenta uno strumento per riavvicinare i due Paesi, voluto fortemente dal giovane emiro Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani (classe 1980), in carica dal 2013.

Russia e Asia emergono nettamente come grandi beneficiari dell’attivismo degli sceicchi e dei loro petrodollari. Iniziamo da Mosca, dove le monarchie del Golfo hanno versato almeno 20 miliardi di dollari in ordine sparso, tra investimenti agricoli, infrastrutturali (con focus su aeroporti come il “Pulkovo” di San Pietroburgo, città di Putin) e nel colosso petrolifero Rosneft controllato dallo Stato. Gli aiuti a Mosca permetteranno agli sceicchi di difendere meglio i loro interessi in Iran, Siria, Yemen e Libia, contribuendo a suon di miliardi a “orientare” la politica estera russa, attiva nell’area anche dal punto di vista militare.

Indonesia, Malesia e Thailandia sono invece i maggiori beneficiari asiatici sia dei petrodollari sauditi, con Riyad sempre preoccupata di mantenere un ruolo da leader dell’Islam sunnita, sia del fondo sovrano emiratino, con Abu Dhabi attenta a contrastare il radicalismo islamico. Anche nell’Asia musulmana gli investimenti sono assai generosi: superano complessivamente la trentina di miliardi di dollari distribuiti tra i vari Paesi e settori (dalle telecomunicazioni al turismo, dalla finanza all’immobiliare, senza ovviamente dimenticare petrolio ed energia).


mercoledì 17 gennaio 2018

Le criptovalute del mondo




Dopo un 2017 di grandissima vivacità, è giunto il momento di fare un po’ di ordine nel settore delle criptovalute, e riassumere quali sono le valute digitali più importanti del mondo in termini di capitalizzazione.

Non è Bitcoin la criptovaluta con il maggior rialzo, anzi è una moneta quasi del tutto sconosciuta al di fuori del circuito degli esperti: Nem è passata da 0,003 dollari a inizio 2017 a 1,45. Criptovaluta relativamente giovane, nata nel 2015 come strumento di pagamento e per transazioni di smart asset sulla base di una blockchain originale centrata su proof of importance, indirizzi a firma multipla e messaggi criptati: il software è in fase di valutazione da parte di società finanziarie giapponesi.

Già ampiamente utilizzato da circuiti bancari tradizionali per transazioni multicurrencies e pagamenti transfrontalieri, Ripple è balzato nell'ultimo scorcio del 2017 (fino a salire al secondo posto tra tutte le criptovalute per capitalizzazione di mercato dietro a Bitcoin) sull'onda dell'annuncio di un consorzio di banche asiatiche, in particolare giapponesi, per la sperimentazione della criptovalute per un nuovo sistema di carte di pagamento. A differenza di Bitcoin, ha una blockchain centralizzata, in mano a soggetti privati.

Nata nel 2014 dal protocollo di Ripple, Stellar Lumens si va affermando nella prospettiva di un sistema rapido ed efficiente (con transazioni concluse in 2-5 secondi) basato su una blockchain pubblica e distribuita. Anch'essa viene utilizzata per pagamenti crossborder, foreign exchange e rimesse.

Probabilmente la criptovaluta più promettente, Ethereum si basa su una piattaforma aperta ad “applicazioni decentrate” con utilizzi diversificati, basandosi si una blockchain costruita appositamente per gli “smart contract”, vale a dire per permettere a due parti di chiudere automaticamente un contratto al verificarsi di determinate condizioni, senza bisogno di una terza parte.

Offre transazioni istantanee e private e gestisce un modello autosostenuto e autofinanziato che consente al network Dash (contrazione di digital cash, inizialmente XCoin poi Darkcoin) di remunerare singoli e aziende per lavori che aggiungano valore alla rete. Da questo modello è nata la prima organizzazione autonoma decentrata (Dao). La sua performance finanziaria è parziale, e quindi ancora più rimarchevole, essendo nata a metà di settembre 2017 da un'idea di Justin Sun, che negli ultimi giorni ha lanciato ipotesi imminenti di partnership per la criptovaluta “made in China”: tra le voci più insistenti per il sistema di pagamento specializzato nell'ecommerce c'è quella di un accordo con il colosso cinese Alibaba.

Bitcoin Cash è una diramazione del Bitcoin che era stato annunciato come la “vera” visione di Bitcoin: il 1 agosto 2017, tutti coloro che detenevano Bitcoin ricevettero una quantità uguale di Bitcoin Cash quale frutto della “scissione” così determinata. Sostenuto principalmente dall'investitore Roger Ver, da Jihan Wu e da Craig Wright, BCH è nato con lo scopo di risolvere i problemi di scalabilità di Bitcoin con blocchi di 2 MB, il doppio di quelli di Bitcoin.

Se Bitcoin è l'”oro digitale”, Litecoin è noto come l'”argento digitale”, spesso utilizzato come laboratorio per sperimentare innovazioni da utilizzare per Bitcoin: in particolare si basa su un algoritmo semplificato per i miners, che richiede minor capacità di calcolo. Permettendo a Litecoin di guadagnare in efficienza.

Cardano è in sostanza l'evoluzione di Ethereum, una piattaforma basata su blockchain per smart contract creata da Charles Hoskinson, il cofondatore di Ethereum. Con l'obiettivo di dare vita a una piattaforma aperta, che risponda al meglio alle esigenze degli utenti, privati e aziende, anche integrandosi con sistemi concorrenti.

IOTA è un sistema unico nel suo genere, e a differenza di quasi tutte le altre criptovalute, non opera su una vera e propria blockchain. Piuttosto, il suo “libro mastro” opera attraverso una rete chiamata Tangle, con l’obiettivo di agire come comunicatore tra varie entità in un ambiente Internet of Things (IoT). In futuro, l'idea è che IOTA potrà diventare il metodo con cui i dispositivi intelligenti interagiranno tra loro.

Tutti parlano di Bitcoin, ma alla fine la “regina” delle criptovalute ha messo a segno un balzo del 1.400 per cento, tra alti e bassi da brivido, che impallidisce davanti alle performance viste finora. Bitcoin nasce come sistema di pagamento distribuito e senza autorità centrali, rappresentando la prima applicazione della blockchain: in realtà non si è affermato come strumento di pagamento. Piuttosto come riserva di valore, come oro per l'era digitale. Per ora da questo punto di vista ha mantenuto le promesse.



martedì 16 gennaio 2018

Venezuela: confermata la morte di Óscar Pérez



Il ministro degli Interni venezuelano, Nestor Reverol, ha confermato che Oscar Perez - l'ex poliziotto che si era alzato in armi contro il governo di Nicolas Maduro - è morto ieri insieme ad altre otto persone, durante un'operazione della polizia a El Junquito, nella periferia ovest di Caracas.

Prima dell'annuncio della morte di Pérez, il ministero dell'Interno aveva riferito dell'uccisione di "membri di una cellula terroristica che ha opposto resistenza", mentre cinque componenti sono stati arrestati. Dopo l'irruzione all'alba delle forze di sicurezza nel quartiere di El Junquito, l'attore ha diffuso un video annunciando un negoziato con le autorità e assicurando di non cercare lo scontro. Più tardi, però, in un secondo video l'ex agente appare con la faccia sporca di sangue: "ci stanno uccidendo", mentre in sottofondo si udivano rumori simili a esplosioni. 

Gli ultimi proclami di Pérez  "Prendiamone coscienza. Il momento è ora, non domani. Il momento di svegliarsi è ora. Rimaniamo fermi nelle strade", dichiarò a più riprese Pérez nelle fasi successive all'assalto alla Corte Suprema. L'accusa di colpo di stato dal governo venezuelano terminò con la richiesta all'Interpol di emettere un mandato d'arresto internazionale. Secondo le autorità locali, Perez il 28 giugno sarebbe stato alla guida dell'elicottero da cui furono lanciate le granate contro gli edifici che ospitano il Ministero dell'Interno e il Tribunale Supremo. Una accusa che trovò conferme, almeno sull'azione, da quanto dichiarò l'attore puntando il dito contro la telecamera: "Abbiamo danneggiato soltanto gli edifici. Non ci sono stati danni collaterali perché era quello che avevamo programmato, perché non siamo assassini come lei, signor Maduro".  Circa un anno fa, molti leader dell'opposizione dichiararono di 'sentire puzza di bruciato': alcuni di loro ipotizzarono che Pérez fosse stato ingaggiato dallo stesso governo per giustificare la repressione delle manifestazioni che andavano avanti da tre mesi. Ma ora che il giustiziere è morto, quei dubbi sulla natura di una azione sovversiva pilotata decadono.

Perez stesso aveva pubblicato su Instagram un video dei momenti finali della sua vita, assediato. "Ci stanno sparando con granate, lanciagranate, cecchini, ci sono dei civili qui dentro, abbiamo detto che ci saremmo consegnati, ma non vogliono permetterci di farlo. Vogliono ucciderci", le sue ultime parole, con il volto ferito.

Secondo il ministro, le informazioni fornite dai leader dell'opposizione che hanno partecipato ai negoziati con il governo del presidente Nicolás Maduro hanno permesso di localizzare Pérez, che si trovava in una casa popolare. Era entrato in clandestinità dal giugno scorso quando attaccò da un elicottero rubato alla polizia forense, con delle granate, due edifici del governo a Caracas: la Corte Suprema di Giustizia e il Ministero dell'Interno.

I parenti dell'ex poliziotto ribelle avevano chiesto al governo venezuelano la prova che questi fosse ancora in vita dopo la massiccia operazione lanciata per catturarlo.

mercoledì 10 gennaio 2018

Nel 2018 la Grecia torna sui mercati internazionali


Quello che si è appena aperto sarà l'anno della svolta per la Grecia. Lo ha dichiarato, durante la prima riunione dell'anno del suo governo, il primo ministro greco Alexis Tsipras, alle prese ormai da anni con l'applicazione di un piano di risanamento del debito costato lacrime e sangue alla popolazione. Ad agosto 2018, infatti, si concluderà il cosiddetto bailout, cioè il programma di aiuti approvato dall'Unione europea (la cui ultima tranche è stata di 86 miliardi di euro) quindi il Paese sarà in grado di finanziarsi da solo sui mercati ed emanciparsi dalla morsa dei creditori stranieri.

Per la prima volta, ha aggiunto Tsipras, la valutazione della terza tranche del piano di risanamento da parte dell'eurogruppo si concludera il prossimo 22 gennaio "senza un solo euro di misure fiscali a carico dei cittadini".

"Questa maniera di procedere - ha aggiunto Tsipras - può garantire il percorso di crescita del nostro Paese, poiché non si può avere una crescita fattibile e giusta, senza allo stesso tempo uno sforzo per ridurre le disuguaglianze".

Disuguaglianze e sacrifici a cui, nonostante le buone notizie, il popolo greco e ancora costretto specie dopo i nuovi tagli previsti dall-ultima finanziaria. aiuterebbe un piano di ristrutturazione complessiva del debito di Atene, ipotesi indigesta per i creditori.

Un miliardo di euro destinato alle famiglie più povere. È la proposta del premier greco Alexis Tsipras, che ha annunciato di voler ridistribuire il surplus di bilancio tra i concittadini che hanno sofferto di più durante la crisi economica del 2009. Il governo di Atene lo ha definito  “dividendo sociale” e potrebbe arrivare nelle tasche dei greci più in difficoltà già a Natale.

L’accumulo di questo “tesoretto” è stato possibile grazie a una situazione finanziaria più rosea del previsto. La Grecia, infatti, prevede per il 2017 di tornare a un livello di crescita del 2% e di generare un avanzo primario, cioè la differenza tra entrate e uscite dello Stato esclusi gli interessi da pagare sul debito, pari al 2,2% del Pil. Si supererebbe quindi per la prima volta l’obiettivo imposto da Banca centrale europea, Ue e Fondo monetario internazionale e fissato all1,75%.

La Grecia è entrata nel suo settimo anno di riforme economiche richieste dai creditori internazionali. Il programma di aiuti attualmente in corso – il terzo, approvato nell’agosto del 2015 – terminerà nell’agosto del 2018. Subito dopo, o nel 2019, al termine naturale della scadenza, ci saranno nuove elezioni. Alexis Tsipras e la coalizione di sinistra che lo sostiene, guidata da Syriza, avevano creato grandi aspettative di cambiamento per la Grecia, ma finora, per evitare il rischio di default e sotto la pressione dei creditori, hanno approvato diverse misure contrarie alle intenzioni annunciate: aumento delle imposte, riduzione della spesa, revisione del sistema pensionistico, riduzione dei salari pubblici tra il 10 e il 40 per cento, privatizzazione di alcuni settori.

Nella pratica, la chiusura della procedura per deficit eccessivo non ha cambiato molto. La Grecia deve rispettare le misure concordate con i creditori internazionali nell’ambito degli aiuti finanziari e deve soprattutto fare i conti con una situazione economica e sociale piuttosto fragile. Dal 2010 ad oggi ha perso un terzo del suo PIL e mezzo milione di persone sono emigrate all’estero. Nello stesso periodo, il 20 per cento più povero della popolazione ha perso il 42 per cento del suo potere d’acquisto. Lo stato ha un debito di 320 miliardi di euro, pari al 180 per cento del PIL, il secondo rapporto più alto del mondo, e il tasso di disoccupazione – sebbene sia diminuito e sia attualmente al 21 per cento – è tra i più alti d’Europa. Gli stipendi medi sono diminuiti e la riduzione dei redditi dei lavoratori e delle lavoratrici ha portato all’impoverimento delle famiglie. Sono aumentati i problemi abitativi e i bisogni legati allo stato di salute, che riguardano quasi una persona su quattro. Il FMI ha poi rivisto al ribasso le stime sull’avanzo primario per il 2018 (fissandolo al 2,2 per cento del PIL, inferiore al 3,5 per cento previsto dalle istituzioni europee e dal governo di Atene): è quindi possibile che il FMI chieda al governo greco di intraprendere nuove misure per completare la terza revisione del programma di salvataggio economico.

In questa situazione ci sono però dei settori dell’economia greca che sono rimasti stabili o che sono migliorati, come quello della produzione di alcolici: i produttori hanno infatti aumentato le loro esportazioni del 64 per cento negli ultimi cinque anni e sette bottiglie prodotte su dieci sono attualmente esportate. Anche l’industria chimica non è stata particolarmente colpita dalla crisi, così come l’industria dei trasporti. Una ripresa nel settore agricolo ha poi contribuito a elevare la qualità di alcuni prodotti, come l’olio d’oliva. Infine c’è il turismo: ogni anno milioni di persone vanno in Grecia, raddoppiando la popolazione del paese. Un ambito invece in forte ritardo è quello della giustizia: affrontare le cause in modo efficace è positivo per un’economia sana e i giudici greci impiegano in media più di quattro anni (1.580 giorni) per arrivare a una risoluzione delle controversie commerciali.


martedì 2 gennaio 2018

Visegrad, il cuore pulsante dell’Europa



La decisione senza precedenti della Commissione europea di sanzionare la Polonia per il mancato rispetto dello stato di diritto aumenterà il solco già ampio tra i Paesi occidentali fondatori dell’Ue e il gruppo orientale di Visegrad: l’alleanza composta da Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia che osteggia le politiche migratorie proposte dalla Commissione Juncker.

Complici di queste atteggiamenti sono le riforme economiche che hanno consentito a molti paesi di ritrovare una stabilità duratura, grazie al costo del lavoro basso che ha permesso per anni alle aziende dell’UE di esternalizzare la produzione e, conseguentemente, produrre vantaggi diretti sull’economia e sul benessere sociale dei paesi dell’est che rappresentano circa 65 milioni di europei, insieme hanno un peso di popolazione pari a quello della Francia all’interno dell’ Unione europea, e hanno ingranato la giusta marcia e la loro crescita non cessa di stupire.

Infatti, secondo le stime della Commissione europea, la Polonia vedrà il proprio PIL crescere almeno del 3,8% nel 2018, così come la Slovacchia, mentre per l’Ungheria la crescita minima attesa è del 3,6% e per la Repubblica Ceca è di almeno il 3%. Uno sviluppo che non sorprende più di tanto se si considerano tutte azioni politiche e gli incentivi allo sviluppo economico varate dai governi nazionali in questi anni, che hanno consentito anche un aumento notevole del potere di acquisto delle famiglie, e conseguentemente una ripresa e un’accelerazione dei consumi che ha superato in fretta i livelli pre-crisi.

L’importanza dello sviluppo di questi paese è legato al rapporto di reciproca dipendenza tra i quattro di Visegrad e la Germania. Proprio il paese centrale dell’eurozona è quello che più di tutti deve la crescita della propria economia a questi quattro importanti paesi dell’ est Europa, che da soli costituiscono un peso non indifferente nella macchina dell’economia tedesca. Nel complesso il gruppo orientale di Visegrad vale per la Germania 2556 miliardi di euro: una volta e mezza Francia, Stati Uniti e Cina.

Si è evidenziata una certa capacità di iniziativa del Gruppo di Visegrad nell’incontro promosso a Budapest con il capo del governo di Israele Benjamin Netanyahu. La conferenza ha promosso iniziative bilaterali con lo Stato ebraico, nell’ambito delle tante opportunità “non” sfruttate di cooperazione dell’Europa con Israele. Netanyahu, proprio di fronte a un pubblico che in qualche modo avrebbe apprezzato la critica, credendo che i microfoni fossero spenti si lasciava andare a uno sfogo contro Unione europea, accusando Bruxelles di tentare di condizionare la politica di Israele (cosa che altri grandi paesi come Russia o India non farebbero).

Le condizioni economico-sociali simili, poi, che fin dall’inizio hanno caratterizzato i tre (con la Cecoslovacchia) e poi quattro (con Repubblica Ceca e Slovacchia) Paesi della fascia occidentale dell’ex blocco comunista, permettono anche a cechi e slovacchi di far forza sul peso del Gruppo per avanzare richieste a Bruxelles e al nucleo dei paesi fondatori dell’Unione. È stato ultimamente il caso del mercato del lavoro e della differenza del costo salariale, per cui la più bassa retribuzione dei lavoratori dei Paesi centro-orientali funziona come un fattore di social dumping nei confronti dei lavoratori dei Paesi della vecchia Europa.

Il Gruppo di Visegrad, ha mostrato al proprio interno le sintonie di approccio e cultura politica e lasciato in secondo piano i contrasti (come sulle autonomie e sulla concessione della doppia cittadinanza per le comunità minoritarie interne agli Stati, noti ambiti di tensione tra Ungheria e Slovacchia): la resistenza al piano di ricollocazione dei migranti costituisce per i quattro paesi un tema di facile mobilitazione per le opinioni pubbliche nazionali e potrebbe, in qualche modo, anche risultare utile per tentare di evitare la pericolosa affermazione elettorale e di consenso di formazioni neonaziste e movimenti populisti all’interno della fascia geopolitica che va dal Baltico ai Balcani.