giovedì 25 gennaio 2018

I fondi sovrani degli sceicchi



Che cosa sono i fondi sovrani? Strumenti gestiti dai Governi dei Paesi grandi esportatori di petrolio per investire soldi pubblici all’estero, ma con il potere straordinario di staccare assegni a dodici zeri, grandi come il debito pubblico italiano. Così grandi che fanno paura, perché in grado di controllare fette non trascurabili di economie estere (anche europee o statunitensi, banche incluse) ma senza avere quei requisiti di trasparenza che garantiscono stabilità al sistema finanziario.

Un fondo sovrano è un fondo di investimento istituito o posseduto da un governo, un’autorità monetaria nazionale, ovvero un’agenzia pubblica. Essi si inseriscono nel più ampio insieme dei sovereign investment vehicles, nel quale generalmente vengono fatti rientrare soggetti molto diversi tra loro (banche centrali, imprese possedute dallo Stato, ecc.), ma accomunati da una matrice pubblicistica o dalle fonti di finanziamento utilizzate. A partire dal 2007, l’aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime ha consentito ai paesi ricchi di tali beni di accrescere notevolmente le risorse destinate ai fondi sovrani e ciò ha reso i fondi stessi più propensi a diversificare i propri portafogli ed ad investire in strumenti azionari. Allo stesso tempo, la svalutazione del dollaro ha indotto i fondi sovrani a ridurre l’esposizione verso i titoli di stato degli Stati Uniti.

Gli EAU impiegano massicce risorse nei loro dieci fondi sovrani. Si stima che il loro valore complessivo si aggiri intorno ai 900 miliardi di dollari, pari a quasi quattro volte il PIL dello Stato emiratino. La proprietá e spesso anche la gestione di tutti i fondi è collegata direttamente alla famiglia regnante e le risorse loro destinate provengono in modo esclusivo dai surplus originati dall’esportazione del greggio. I fondi operano col fine principale di diversificare il sistema economico del paese e quasi tutti gli investimenti esteri, salvo alcune eccezioni, sono caratterizzati da bassi rischi finanziari. Riguardo gli investimenti interni, essi sono effettuati in tutti i settori dell’economia ed in particolare nei settori considerati volano della crescita economica e generatori di posti di lavoro, quali ad esempio l’industria delle telecomunicazioni ed aeroportuale.

La Abu Dhabi Investment Authority (ADIA) è un fondo sovrano istituito allo scopo di effettuare investimenti per conto del Governo dell’emirato di Abu Dhabi. Benchè ADIA non ha abbia reso noto il valore dei suoi assets, si stima che questi possano aggirarsi tra i 300 e gli 875 miliardi di US$ (fonte The Economist). Il Sovereign Wealth Fund Institute fa una stima di 627 miliardi di US$. Nel 1967 l’emiro di Abu Dhabi istituí il Financial Investment Board che operava di concerto col ministero della finanza ed era responsabile per la gestione degli incassi in eccesso provenienti dalle esportazioni del greggio. Nel 1976, lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, fondatore degli EAU e governatore di Abu Dhabi, decise di fondare la Abu Dhabi Investment Authority e di tenerla separarata dal governo conferendole una amministrazione propria. L’intento era quello di investire i surplus del governo di Abu Dhabi in vari assets a basso rischio. A quel tempo era molto innovativo per un governo investire riserve in assets di lungo periodo. Perfino ad oggi, investimenti di breve periodo ed in oro restano la strategia principale per la maggior parte degli Stati.

L’ADIA gestisce una vasta quantitá di capitali ed è il secondo fondo sovrano piú grande al mondo. Proprio a causa delle sue dimensioni, il fondo ha talvolta influenzato gli andamenti della finanza globale. Nel 2008 ha co-presieduto l’International Working Group di 26 fondi sovrani che ha prodotto un documento, noto come i principi di Santiago, dal titolo “Principi e pratiche dei fondi sovrani generalmente condivisi”. Tali principi furono enunciati al fine di dimostrare agli Stati ed al mercato finanziario internazionale che i fondi sovrani dispongono di robusti frameworks interni, sane pratiche di governance e che i loro investimenti sono decisi solo su basi economiche e finanziarie.

L’International Petroleum Investment Company (IPIC) è una societá di investimento istituita dal governo degli EAU con un decreto federale del 1984. Il suo mandato è quello di fare investimenti a livello globale nel settore energetico ed in quelli connessi. Il governo detiene il 100% della proprietá e nomina i membri del consiglio di amministrazione. IPIC è un investitore strategico di lungo periodo ed al momento è impegnato con 15 investimenti in 10 Stati su 5 diversi continenti. Gli investimenti di portfolio includono:

La completa proprietá di NOVA Chemicals, una societá americana produttrice di prodotti chimici e plastici. La maggioranza di Borealis (primo produttore mondiale di polyolefin), Aabar Investments (societá pubblica di investimenti), e Ferrostaal, un progetto di sviluppo e gestione di petrolio, gas e industrie energetiche.

Notevoli partecipazioni in Compañia Española de Petróleos, S.A (Cepsa), holding spagnola di prodotti petroliferi e petrolchimici. Cosmo Oil Company, societá di raffinazione giapponese, e OMV, holding di societá per l’approvvigionamento di petrolio e gas presente in tutta l’europa centrale ed orientale e basata in Austria.

Inoltre, IPIC sta al momento portando avanti i seguenti progetti strategici:
Il multimiliardario progetto ChemaWEyaat project che coinvolge una serie di joint ventures che ospiteranno un complesso chimico con accesso ai giacimenti di gas e petrolio liquido di Abu Dhabi. Il Habshan–Fujairah oil pipeline, che connette i giacimenti terrestri di Abu Dhabi con un terminal di esportazione locato in Fujairah nell’oceano indiano. La continua espansione del progetto Borogue mira a portare tecnologia d’avanguardia e il piú alto livello di competenza per migliorare e sviluppare le industrie idrocarbure e petrolchimiche di Abu Dhabi.

Il Consiglio di Amministrazione dell’IPIC è presieduto dallo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan e tutti isuoi membri sono nominati per decreto federale, incluso il suo amministratore delegato Khadem al-Qubaisi.

La Mubadala Development Company PJSC (Mubadala) è istitutita nel 2002 come (Public Joint Stock Company) ed è interamente posseduta dal governo di Abu Dhabi. Il suo fine è quello di promuovere la diversificazione dell’economia dell’emirato. Si concentra sull’amministrazione di investimenti a lungo termine ad intensa quantitá di capitale che portano forti proventi finanziari e benefici sociali tangibili per l’emirato. Al momento, Mubadala detiene nove business units che operano in differenti settori strategici ritenuti importanti per l’economia dell’emirato.

Settore aeroportuale
Mubadala mira a trasformare Abu Dhabi in un hub aerospaziale globale attraverso un progetto supportato da una serie di grandi investimenti. L’approccio intergrato al settore coinvolge anche il settore produttivo tramite la previsione di una societá di servizi di manutenzione: la Maintenance Repair Overhaul (MRO), hanno una potenza di fuoco impressionante: 2800 miliardi di dollari, cifra superiore al Pil di Italia e Svizzera messe assieme. Questa montagna di denaro, secondo il Sovereign Wealth Fund Institute, è gestita da soli quattro Paesi attraverso i rispettivi fondi sovrani: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Kuwait. Se poi ci allarghiamo ad altre nazioni come Cina o Norvegia, ecco che nel complesso i “sovereign wealth funds” toccano i 7mila miliardi di dollari, il doppio del Pil tedesco.

Negli ultimi anni, poi, le artiglierie economiche dei Paesi esportatori di petrolio stanno affinando la mira su obiettivi più squisitamente politici. In particolare alle latitudini del Golfo Persico, dove gli sceicchi si sentono sempre più abbandonati dal protettore di un tempo, gli Stati Uniti, il “globocop” (poliziotto mondiale) che da quando è diventato a sua volta esportatore di greggio grazie allo shale oil è diventato più distratto su quel che accade in zona Opec. Dall’accordo sul nucleare in Iran al ritiro militare dall’Iraq fino al relativo disinteresse per la Siria: l’amministrazione Obama, in particolare, ha rappresentato un duro colpo per i Paesi del Golfo.
Così gli sceicchi hanno imbracciato il bazooka dei propri fondi sovrani per fare politica, oltre che business. Quando per esempio nel 2015 il Qatar ha annunciato investimenti negli Stati Uniti per 35 miliardi di dollari affermando di non voler fare politica ma solo affari, ha detto una mezza verità: lo shopping del fondo sovrano in terra americana rappresenta uno strumento per riavvicinare i due Paesi, voluto fortemente dal giovane emiro Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani (classe 1980), in carica dal 2013.

Russia e Asia emergono nettamente come grandi beneficiari dell’attivismo degli sceicchi e dei loro petrodollari. Iniziamo da Mosca, dove le monarchie del Golfo hanno versato almeno 20 miliardi di dollari in ordine sparso, tra investimenti agricoli, infrastrutturali (con focus su aeroporti come il “Pulkovo” di San Pietroburgo, città di Putin) e nel colosso petrolifero Rosneft controllato dallo Stato. Gli aiuti a Mosca permetteranno agli sceicchi di difendere meglio i loro interessi in Iran, Siria, Yemen e Libia, contribuendo a suon di miliardi a “orientare” la politica estera russa, attiva nell’area anche dal punto di vista militare.

Indonesia, Malesia e Thailandia sono invece i maggiori beneficiari asiatici sia dei petrodollari sauditi, con Riyad sempre preoccupata di mantenere un ruolo da leader dell’Islam sunnita, sia del fondo sovrano emiratino, con Abu Dhabi attenta a contrastare il radicalismo islamico. Anche nell’Asia musulmana gli investimenti sono assai generosi: superano complessivamente la trentina di miliardi di dollari distribuiti tra i vari Paesi e settori (dalle telecomunicazioni al turismo, dalla finanza all’immobiliare, senza ovviamente dimenticare petrolio ed energia).


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