mercoledì 19 marzo 2014

URSS: 1991, ultimo atto



Il 1991 è uno di quegli anni passato – per così dire – un po’ in sordina: non evoca svolte epocali, né particolari momenti nella storia collettiva che la memoria ricordi all’istante. Non è insomma il 1945, il 1968, o l’89. Eppure non è escluso che gli storici del futuro decidano di fissare proprio nel 1991 la data in un cui una fase della storia si è conclusa per aprirne un'altra. Nei primi mesi dell’anno, gli Stati Uniti invadono l’Iraq: l’operazione Desert Storm passerà alla storia come la Prima Guerra del Golfo. È anche la prima raccontata in diretta tv.

Tuttavia, in quel 1991, mentre gli occhi del mondo sono catturati dalle prime immagini notturne della guerra trasmesse dalla Cnn, o poco più tardi dallo scandalo che travolge Maradona positivo alla cocaina, o ancora dai tragici fotogrammi dei massacri nei Balcani, è al di là del “Muro” - abbattuto due anni prima- che si verifica un crac di dimensioni inimmaginabili. Il processo riformista avviato da Mikail Gorbaciov nel 1985 si era infatti instradato sulla via di una netta distinzione dalla storia dell’Urss, perlomeno degli ultimi 30 anni.
Tanto netta che finì per travolgere Gorbaciov stesso.

L'ANNO SPARTIACQUE
Un processo, quello della “Glasnost”, che non fu privo di contraddizioni: a gennaio del 1991, la rivolta della Lituania riporta i carri dell’Armata Rossa a Vilnius. Le Repubbliche baltiche erano state nuovamente accese dai mai sopiti fermenti nazionalisti dopo il crollo del muro di Berlino: la crisi si trascinerà fino a settembre, tra interventi armati e referendum per l’indipendenza. Gorbaciov, sfidato apertamente anche dal neo-presidente russo Boris Ieltsin lavora ad una riforma radicale dell’Unione sulla quale ottiene un largo consenso popolare, nonostante diverse ex-Repubbliche boicottino il referendum. A fine giugno, quando Leningrado ha già deciso di tornare all’antico nome di San Pietroburgo, Gorbaciov annuncia che l’intesa è stata raggiunta da nove Repubbliche, sul testo del Trattato dell'Unione “riformata”. Firma prevista il 20 agosto.

Il 19 però le agenzie di tutto il mondo battono una notizia clamorosa: a Mosca c’è stato un golpe, una giunta di emergenza guidata dal vicepresidente dell'Urss, Ianaiev, che comprende tra gli altri il ministro della Difesa, Iazov, ed il capo del Kgb, Kriuchkov, ha assunto il potere. In poco meno di due giorni, le forze schierate per il putsch si rivoltano contro i propri mandanti, ed il tentativo di colpo di stato finisce con produrre l’effetto opposto di quello proclamato: accelerare e non rinviare il processo di dissoluzione dell’Urss.

Il 23 agosto il PCUS è bandito: i manifestanti assaltano le statue di Stalin e Lenin. Il 24 Gorbaciov si dimette da Segretario Generale. Come un diluvio, in quei pochi giorni, tutte le Repubbliche dell’Urss dichiarano la propria indipendenza. In settembre viene alla fine riconosciuta l’indipendenza delle Repubbliche baltiche. La fine è irreversibile: in dicembre, mentre si consuma una crisi economica senza precedenti che si protrae da mesi e incombe sugli eventi di quell’anno, a Minsk nasce la Csi: è l’atto che segna la sconfitta definitiva del progetto disegnato da Gorbaciov. In poche settimane tutte le ex repubbliche dell’Urss, tranne la Georgia e le baltiche, aderiscono alla struttura voluta da Russia, Bielorussia ed Ucraina l’8 dicembre.
Il 25 dicembre 1991 Gorbaciov si dimette anche da presidente dell’Urss: la bandiera sovietica viene ammainata al Cremlino, i poteri ceduti a Ieltsin, i codici nucleari al capo provvisorio dell’esercito della Csi.
Il 26 dicembre il Soviet supremo ratifica e si scioglie, consegnando l’Urss ai libri di storia.

LA MORTE DELL'UTOPIA GORBACIOVIANA
Il 1989, con il crollo del muro di Berlino, ha avuto la funzione, secondo alcuni storici, di detonatore per il crollo dell'Urss: ma molti testimoni diretti vedono l'ultimo atto nel tramonto dell'utopia di Mikhail Gorbaciov sulle possibilità di riforma di quel sistema. L'illusione era ancora viva il 17 marzo del 1991, quando i cittadini sovietici vennero chiamati alle urne per un referendum che doveva pronunciarsi proprio sulla conservazione dell'Urss: il 76% risposero di si.

Già da un anno però era iniziato inesorabile l'iter che avrebbe portato all'esodo delle 15 repubbliche dell'unione, con in prima fila i paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, da sempre refrattari al giogo di Mosca. E la stessa leadership della Russia, presieduta da un combattivo riformatore salito in auge proprio grazie a Gorbaciov, Boris Ieltsin, premeva per disfarsi dell'onnipresente Partito comunista sovietico (Pcus) e della vecchia guardia. Nel gennaio del 1991, l'Armata rossa tentò di ripristinare il controllo sulla ribelle Lituania occupando la sede della televisione di stato: ma la popolazione insorse. Il Cremlino tentò di passare sotto silenzio il colpo di mano, mentre i media di tutto il mondo concentravano la loro attenzione su quel paese fino ad allora poco conosciuto e che rischiava di diventare una nuova Budapest.

Gorbaciov fu alla fine costretto a dichiarare in pubblico di non aver dato alcun ordine di occupazione, e le forze russe restarono nella sede dell'emittente, ma non andarono oltre. Il leader sovietico lavorava intanto a un suo progetto di unione che avrebbe dovuto salvare l'Urss come entità geografica, a prezzo di profonde riforme politiche e di un minore accentramento del potere.

Ma il 18 agosto, un manipolo di golpisti approfittò di una vacanza in Crimea di Gorbaciov per prendere il controllo delle istituzioni. Il “Comitato statale per la situazione di emergenza” riuniva i falchi più intransigenti, fra gli altri il capo del Kgb (i servizi segreti sovietici) Vladimir Kriuckov, il ministro della difesa Dmitri Iasov, quello degli interni Boris Pugo (l'unico a suicidarsi a fallito putsch), il vicepresidente sovietico Ghennadi Ianaev. Gorbaciov venne tenuto prigioniero nella sua dacia di Crimea per tre giorni, mentre i pustchisti preparavano le loro liste di prescrizione. Primo di quell'elenco era Ieltsin, che riuscì però a barricarsi nella sede del parlamento, subito circondata da carri armati. È rimasta nell'immaginario collettivo l'immagine dell'alto, robusto leader che in piedi su un tank arringa la folla per chiamare alla resistenza.

L'appello di Ieltsin non rimase inascoltato: decine di migliaia di moscoviti scesero in piazza contro il golpe. Il “Comitato per la situazione di emergenza” dovette scegliere fra un bagno di sangue comunque difficilmente realizzabile, data la serpeggiante opposizione dei soldati, e la resa.
Lo stesso Ieltsin mandò in Crimea i suoi collaboratori per “liberare” il presidente sovietico e ricondurlo a Mosca, e in quello stesso giorno, il 21, riconobbe unilateralmente l'indipendenza delle repubbliche baltiche. L’URSS aveva iniziato a sfaldarsi.

Il 24 agosto arrivò la dichiarazione di indipendenza dell'Ucraina, fino ad allora la più “sovietica” delle 15 repubbliche: un Gorbaciov sempre più marginalizzato vedeva crollare i suoi residui sogni di riforma. Ma fu l'8 dicembre, nella casina di caccia di Viskuli, a Belovezhkaia Pusha (Bielorussia), che venne definitivamente sancita la fine dell'Urss: Ieltsin e i leader bielorusso Stanislav Shushkevic e ucraino Leonid Kravciuk firmarono un patto che dichiarava sciolta l'Unione sovietica e introduceva al suo posto una ben più blanda Comunità di stati indipendenti (Csi). Il 20 dicembre, in un vertice ad Alma Ata, aderiva alla Csi il Kazakhstan, poi seguito a ruota dalle altre repubbliche, ad eccezione della Georgia che si unì solo nel 1993.

Il 25 dicembre 1991, in un drammatico discorso televisivo, un vistosamente provato Gorbaciov dava le dimissioni. La bandiera sovietica veniva ammainata dal pennone più alto del Cremlino, per lasciare il posto allo stendardo della Federazione russa.

QUEL GIORNO CHE FU AMMAINATA LA BANDIERA ROSSA

"Quando il 25 dicembre 1991 la bandiera rossa sul Cremlino fu sostituita con la bandiera russa, bianca, blu e rossa, sulla piazza vidi solo una troupe giapponese e due ubriachi che spargevano vino sulla neve. Due giorni prima la polizia li avrebbe arrestati per aver profanato un luogo sacro, quella volta invece li lasciò andare". Così Demetrio Volcic, all'epoca corrispondente della Rai a Mosca, ricorda i giorni della fine dell'Unione Sovietica, in un clima di depressione e tra l'indifferenza del cittadino medio.

"Mancavano i viveri - spiega Volcic -, le famiglie monoreddito e i pensionati non riuscivano ad andare avanti. Per molti la libertà non era la principale preoccupazione". Quel giorno Mikhail Gorbaciov aveva presentato le sue dimissioni rivendicando "di aver portato la libertà di stampa, di aver organizzato libere elezioni e di aver avviato l'Unione Sovietica verso la modernità".

Non ci fu un vero e proprio passaggio di consegne con il presidente russo Boris Ieltsin, ricorda ancora Volcic: "Siccome Gorbaciov non lo ringraziò né gli augurò di avere successo, Ieltsin si offese e mandò un maresciallo a ritirare la valigetta nucleare, quella che doveva tenere il Segretario generale per far scattare un'eventuale guerra atomica. Quello - conclude il giornalista - poteva essere il momento giusto per un passaggio ufficiale di poteri".

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