giovedì 30 marzo 2017

Usa di Trump studiano dazi sui prodotti Ue



L'amministrazione Usa sta valutando di imporre dazi punitivi del 100% sugli scooter Vespa (Piaggio), l'acqua Perrier (Nestle', che produce anche la San Pellegrino) e il formaggio Roquefort in risposta al bando Ue sulla carne di manzo Usa di bovini trattati con gli ormoni: lo scrive il Wall Street Journal. Dietro la misura ci sarebbero le proteste dei produttori di carne di manzo americani, secondo i quali l'Ue non ha aperto abbastanza i propri mercati alla loro carne di manzo non trattata con gli ormoni, come prevedeva un accordo del 2009.

Il caso, commenta il Wsj, dovrebbe fornire un primo squarcio sul grado di aggressività che la nuova amministrazione intende adottare nei confronti dei suoi partner commerciali. Già in campagna elettorale Donald Trump aveva attaccato la politica commerciale degli Stati Uniti minacciando più volte di colpire le principali economie mondiali - come la Cina - con pesanti dazi per presunte violazioni dei trattati commerciali. Il Congresso Usa ha approvato una legge nel 2015 che rende più facile l'applicazione di dazi punitivi: sarà uno tra i primi compiti di Robert Lighthizer - il rappresentante Usa per il commercio estero nominato da Trump - decidere sui super-dazi nei confronti dei prodotti Ue se verrà confermato dal Senato.

Il valore delle importazioni sotto esame è comunque relativamente basso, commenta il Wsj ricordando che secondo il Wto gli Usa possono imporre dazi punitivi solo su importazioni per un valore di circa 100 milioni di dollari. Tuttavia, già nel Paese è partita una campagna per scongiurare il pericolo dei super-dazi nel settore delle motociclette di piccola cilindrata provenienti dall'Ue, come appunto la Vespa o le moto da cross prodotte dalla svedese Husqvarna Group e dall'austriaca KTM-Sportmotorcycle. Timori sono stati espressi anche dalla Confederazione dei produttori del formaggio roquefort.

"Il protezionismo per noi è un mezzo disastro, sta nella missione di Facebook di rendere il mondo aperto e connesso, per tanti attori di questo settore e tante piattaforme digitali è un controsenso": così Luca Colombo, country manager di Facebook Italia, sulla stretta di Donald Trump su prodotti di europei e anche sul Made in Italy.

Come si legge sul sito di Bloomberg News, il presidente americano incontrerà i suoi collaboratori, tra cui Gary Cohn, numero uno del National Economic Council, per sentire quali siano le opzioni possibili per portare avanti in tempi brevi la riforma. Una delle questioni chiave sul tavolo saranno proprio i dazi doganali e le tasse sulle importazioni: lo speaker della Camera Paul Ryan ha sostenuto una proposta per sostituire all’attuale aliquota del 35% sugli introiti corporate con un tributo del 20% sulle vendite interne e i beni importati, mentre le esportazioni sarebbero esentate. Secondo indiscrezioni, Trump riceverà anche aggiornamenti su un piano proposto dall’ex deputato Dave Camp nel 2014, che potrebbe essere rispolverato e che prevede la riduzione dell’aliquota corporate al 25% e l’eliminazione di alcuni crediti ficali e deduzioni. La Casa Bianca prenderà in considerazione anche altre opzioni, in modo di arrivare a una bozza di legge in grado di superare le divisioni del Congresso. Il portavoce del presidente Sean Spicer ha fatto sapere che il piano per la riforma fiscale sarà concentrato sulla creazione di posti di lavoro e sulla crescita economica, piuttosto che sul riequilibrio dei conti.

mercoledì 29 marzo 2017

Brexit: Londra consegna la lettera all'Ue



È il giorno della Brexit. Ieri sera Theresa May ha firmato la lettera con cui ha chiesto l'avvio - alla luce dell'ormai famigerato articolo 50 - delle trattative per l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa. L'ambasciatore britannico all'Ue, Tim Barrow, ha consegnato nelle mani del presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, la lettera di notifica dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona.

La Gran Bretagna si avvia a lasciare l'Ue "secondo la volontà del popolo", ha detto alla Camera dei Comuni la premier Theresa May, confermando la consegna della lettera di notifica dell'Articolo 50 a Donald Tusk "pochi minuti fa". "E' un momento storico, non si torna indietro".

La Gran Bretagna non farà parte del mercato unico, uscendo dall'Ue. Lo ha confermato Theresa May, sostenendo che si tratta di una opzione "incompatibile con la volontà popolare" manifestata nel referendum sulla Brexit di restituire al Regno il pieno controllo dei suoi confini e della sua sua sovranità. "L'Ue ci ha detto che non possiamo scegliere" cosa tenere e cosa no, e "noi rispettiamo" questo approccio. Ribadita comunque la volontà di una nuova partnership e di rispettare diritti dei lavoratori e valori liberaldemocratici. La Gran Bretagna non farà parte del mercato unico, uscendo dall'Ue, conferma May sostenendo che si tratta di una opzione "incompatibile con la volontà popolare" manifestata nel referendum sulla Brexit di restituire al Regno il pieno controllo dei suoi confini e della sua sua sovranità. "L'Ue ci ha detto che non possiamo scegliere" cosa tenere e cosa no, e "noi rispettiamo" questo approccio. Ribadita comunque la volontà di una nuova partnership e di rispettare diritti dei lavoratori e valori liberaldemocratici.

Le date chiave del processo che porterà all'uscita della GB dalla Ue
"Una certa dose di incertezza per il business" in Gran Bretagna è "inevitabile" durante la fase negoziale di transizione verso la Brexit, ha riconosciuto la premier conservatrice rispondendo alla domanda di un deputato laburista durante il dibattito fiume alla Camera dei Comuni sull'avvio dell'iter di divorzio dall'Ue. "Quello che possiamo fare - ha aggiunto - è tuttavia dare chiarezza" sugli obiettivi e sui vari passaggi del percorso.

"Questo è un momento storico, da cui non c'è ritorno", ha detto nel suo discorso Theresa May parlando alla Camera dei Comuni pochi minuti dopo la consegna della lettera, "Il Regno Unito lascia l'Unione europea, prenderemo le nostre decisioni e scriveremo le nostre leggi, avremo il controllo delle cose che più ci importano. Coglieremo l'opportunità di costruire un Regno Unito più forte ed equo, dove fioriranno le nuove generazioni. È un'opportunità e andremo in questa direzione. È uno spartiacque nella nostra storia".

"Non c'è ragione di fingere che oggi sia un giorno felice, sia a Bruxelles che a Londra", dice invece il presidente del Consiglio europeo, "In questi negoziati l'Unione agirà unita e preserverà i suoi interessi. La nostra prima priorità sarà di minimizzare l'incertezza causata dalla decisione del Regno Unito per i nostri cittadini, imprese e Stati membri. Avremo un approccio costruttivo e faremo di tutto per trovare un accordo. In futuro speriamo di avere il Regno Unito come partner vicino. Ma se il negoziato fallisce, faremo in modo che l'Unione Europea sia comunque pronta ad un esito del genere, anche se non lo desideriamo". E poi ha concluso il suo discorso con una battuta: "Ci mancate già. Grazie e arrivederci".

Fissa poi i paletti il Parlamento Ue che varerà oggi una risoluzione - anticipata dal Guardian - sulla Brexit: il Regno Unito non otterrà un accordo di libero commercio dall'Ue nei prossimi due anni e una soluzione di transizione per attutire l'uscita dopo il 2019 non potrà durare più di tre anni. Inoltre gli eurodeputati hanno avvisato la May che l'Ue proteggerà i suoi interessi politici, economici e sociali e gestirà la Brexit "in modo ordinato in modo da non colpire negativamente l'Ue, i suoi cittadini e il processo di integrazione europeo".

Critica anche Angela Merkel che boccia la proposta di avviare negoziati in parallelo sia per la Brexit che sui futuri rapporti tra Gran Bretagna e i Ventisette. "Le trattative devono prima chiarire come saranno sciolti le relazioni interconnesse e solo dopo che questa vicenda sarà affrontata e risolta, potremmo subito se tutto sarà andato bene, iniziare a parlare della nostra futura relazione", ha spiegato la Cancelliera tedesca.

Brexit, che cos'è e come funziona: dall'articolo 50 ai negoziati

Il termine Brexit risulta da un gioco di parole fra 'Britain', cioè Regno Unito, ed 'Exit', cioè uscita, e indica appunto l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea. Il divorzio dall'Ue è stato deciso con lo storico referendum del 23 giugno del 2016, convocato dall'allora premier David Cameron, conservatore, che si è dimesso proprio dopo quella consultazione dal momento che aveva appoggiato il no alla Brexit, schierandosi per la permanenza in un'Ue riformata. Alle urne il 51,9% dei cittadini ha votato a favore dell'uscita dall'Ue, mentre il 48% si è espresso a favore della permanenza nel blocco comunitario.  

L'articolo 50 del Trattato di Lisbona è composto da cinque punti e stabilisce il meccanismo per il ritiro di un Paese dall'Unione europea. Dice quanto segue: in primo luogo che "ogni Stato membro potrà decidere, conformemente alle sue norme costituzionali, di ritirarsi dall'Unione"; e in secondo luogo che "lo Stato membro che decida di ritirarsi notificherà la sua intenzione al Consiglio europeo".

Una volta invocato l'articolo 50, comincia un periodo di negoziati formali di due anni tra l'Ue e il Regno Unito per stabilire i termini per la Brexit e fissare le linee guida delle nuove relazioni future tra Londra e Bruxelles.

Se entrambe le parti riusciranno a ottenere un accordo nell'ambito del negoziato, il Regno Unito smetterà di appartenere all'Ue entro la primavera del 2019. Tuttavia questo calendario potrebbe cambiare nel caso in cui le parti si dovessero accordare in modo unanime per estendere il periodo di colloqui. Se questo accordo unanime non ci fosse, i trattati europei smetterebbero automaticamente di essere applicati allo scoccare dei due anni dalla notifica che viene depositata oggi, mercoledì 29 marzo.

Attualmente nel Regno Unito risiedono 3,15 milioni di cittadini comunitari, contro i 900mila espatriati britannici che vivono in diverse parti dell'Ue secondo i dati ufficiali. In entrambi i casi la situazione è incerta. La premier britannica, Theresa May, ha insistito sul fatto che risolvere la loro situazione legale è prioritario, ma nel testo di legge sulla Brexit approvato in Parlamento non compare alla fine alcuna garanzia esplicita in proposito.

Se il Regno Unito, o qualunque altro Stato membro che si è ritirato, chiede nuovamente l'adesione, la sua richiesta viene sottoposta allo stesso procedimento previsto per uno Stato che desideri aderire. Brexit, che cosa succede dopo l'attivazione dell'articolo 50 Il 29 aprile, proprio a seguito della notifica dell'attivazione dell'articolo 50, è in programma un vertice speciale a Bruxelles, in cui saranno formalmente adottate le linee guida per il negoziato che l'Unione europea intenderà seguire. Secondo il Guardian, già da giovedì Tusk comincerà a fare circolare queste linee guida fra i 27 Stati membri. Nel Regno Unito le norme Ue e i trattati resteranno in vigore fino all'uscita effettiva, ma lo Stato che intende divorziare non può partecipare all'attività decisionale né alle discussioni interne dell'Ue relative alla sua uscita. I trattati smetteranno di essere applicati allo Stato in questione dalla data di entrata in vigore dell'accordo sul ritiro o, in caso di mancato accordo e mancata estensione del periodo dei negoziati, due anni dopo la notifica dell'intenzione di uscire dall'Ue. In realtà nessuno sa come funzionerà il procedimento della Brexit, dal momento che il Trattato di Lisbona è entrato in vigore soltanto nel 2009 e finora l'articolo 50 non è mai stato usato. Secondo quanto riporta la Bbc, l'ex ministro degli Esteri britannico Philip Hammond, sostenitore della permanenza nell'Ue, ha suggerito che per terminare i negoziati sulla Brexit potrebbero volerci fino a sei anni; sulle condizioni sull'uscita del Regno Unito dovranno essere d'accordo 27 Parlamenti nazionali, un processo che potrebbe richiedere alcuni anni, ha argomentato.  Dei negoziati e di tutti i nuovi accordi internazionali del Regno Unito si occuperanno, con ruoli diversi, in tre, soprannominati i 'Three Brexiteers'. Si tratta di: il ministro per la Brexit David Davis, che è stato messo dalla premier britannica Theresa May a capo di un dipartimento apposito; l'ex segretario alla Difesa Liam Fox, che è adesso segretario per il Commercio internazionale; e Boris Johnson, attuale ministro degli Esteri. Ma la Bbc sottolinea che l'ultima parola, in ogni caso, spetterà alla prima ministra May.


venerdì 17 marzo 2017

Morto il poeta Derek Walcott premio Nobel nel 1992.



E' morto a 87 anni il poeta Derek Walcott, premio Nobel per la letteratura nel 1992. Lo hanno reso noto i suoi familiari. Nelle sue opere Walcott è riuscito a cogliere l'essenza della sua isola natale, Santa Lucia, nei Caraibi e a diventare uno dei più importanti narratori del XX secolo. Considerato il più grande poeta della storia dei Caraibi, ha pubblicato molte opere tra cui 'In A Green Night: Poems 1948 - 1960' e l'opera epica 'Omeros'. E'  morto questa nella sua casa a Cap Estate, sull’isola di Santa Lucia nelle Piccole Antille. Walcott era malato da tempo ed era stato recentemente dimesso dall’ospedale. Divenuto celebre con la collezione di poesie In a green night pubblicata nel 1962, Walcott vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1992. Considerato il più grande poeta della storia dei Caraibi, ha pubblicato molte opere tra cui "In A Green Night: Poems 1948 - 1960" e l'opera epica "Omeros".

Walcott sapeva benissimo, come aveva anche scritto in un’occasione, che ogni vero poeta è di necessità un poeta provinciale. Sapeva insomma che se talvolta il verbo si fa carne, questo accade anzitutto nella poesia, che di per sé è la meno astratta e generica, e viceversa la più concreta e puntuale, la più esatta delle manifestazione della lingua. Così nei suoi versi ha non solo riversato ma attivato la sua intera esperienza di uomo: percezioni, sensibilità, ragione, senso dei fatti, sogno, corpo, immaginazione. Questo fa sì che il suo discorso poetico sia oltremodo denso, spesso, consistente, anche prensile, ma al contempo sempre poroso, aperto, capace di respirare. Anche quando – ad esempio nel grande poema Omeros (1990), che costituisce uno dei vertici della sua opera di poesia – s’inoltra nell’oscuro, triste retaggio coloniale del suo popolo, non s’inabissa mai in un buco nero di rancore, per così dire, senza ritorno. Al contrario, proprio in quel momento esalta le sua capacità di giudizio, di comprensione, come se la sua vista doppia mantenesse sempre aperto un contro-orizzonte, una possibilità diversa, non una opposizione ma, che è molto diverso, una relazione.

La sua poesia batte davvero sul confine: di civiltà, di storie, di lingue, ma anche di paesaggi, di dimensioni, di realtà. Non a caso la sua poesia è fisica e metafisica insieme: quanto più l’immagine appare determinata, tanto più non si esaurisce in se stessa, non finisce lì, ma rimanda sempre ad altro. Per questo la luce, ovviamente nel suo contrasto col buio, possiede una straordinaria importanza nella composizione di queste immagini. «E l’alveare delle costellazioni riappare, sera dopo sera, / nella tua voce, nel buio canneto dei versi che risplende di vita», così scrive Walcott in una poesia dedicata all’amico Josif Brodskij compresa nella raccolta Prima luce (pubblicata da Adelphi, la traduzione è di Andrea Molesini). Dentro e fuori, alto e basso, epica e lirica, sempre insieme.

E proprio Brodskij, prima ancora che a Walcott fosse assegnato il premio Nobel per la letteratura nel 1992, ha riconosciuto alla sua poesia il merito più grande, offrendone al contempo la definizione forse più precisa, a cominciare dalla relazione a doppio senso di marcia appunto tra particolare e universale. «L’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica», così scriveva Brodskij, «comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già creato». Immaginazione, generosità: in fondo altro non è che un atto (poetico) di devozione verso la propria terra, un inchino fatto al proprio luogo natale in nome della sacertà tutta del mondo creato, e allora di una terra che è anche la nostra terra. «Sii grato di aver scritto bene in questo posto, / fa’ che le poesie strappate si involino da te come uno stormo / di bianche egrette in un lungo ultimo sospiro di liberazione», così scriveva Walcott in una poesia del suo ultimo Egrette bianche (edito anche questo da Adelphi, nella traduzione di Matteo Campagnoli). E a questo punto tra natura e storia, tra esistenza e ideale, tutto appare davvero compiuto, nulla rimasto intentato.

Le sue opere in italiano si trovano nel catalogo Adelphi: "Mappa del Mondo Nuovo" (1992), "Ti-Jean e i suoi fratelli - Sogno sul Monte della Scimmi" (1993), "Prima luce" (2001), "Omeros" (2003), "Il levriero di Tiepolo" (2005), "Isole. Poesie scelte" (1948-2004), "La voce del crepuscolo" (2013), "Egrette bianche" (2015).

martedì 14 marzo 2017

Corte Ue, legittimo vietare velo al lavoro



"Il divieto di indossare un velo islamico, se deriva da una norma interna di un'impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali": lo ha stabilito la Corte di Giustizia Ue pronunciandosi su un caso di una donna musulmana licenziata in Francia per essersi rifiutata di togliere il velo al lavoro.

La sentenza riguarda il caso di una donna musulmana, Samira Achbita, assunta nel 2003 come receptionist dall'impresa G4S in Belgio. All'epoca dell'assunzione, una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Nell'aprile 2006, la signora Achbita ha informato il datore di lavoro del fatto che intendeva indossare il velo islamico durante l'orario di lavoro. La direzione le ha comunicato che non sarebbe stato tollerato, in quanto portare in modo visibile segni politici, filosofici o religiosi era contrario alla neutralità cui si atteneva l'impresa nei suoi contatti con i clienti. La signora ha insistito, e l'azienda ha modificato il regolamento interno per mettere nero su bianco "il divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi". Dopo il rifiuto di rispettare la norma, la signora Achbita è stata licenziata, e ha contestato tale licenziamento dinanzi ai giudici del Belgio, che a loro volta hanno chiamato in causa la Corte Ue.

Secondo la Corte, che ha valutato il caso alla luce della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, "la norma interna non implica una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali". Potrebbe tuttavia, sottolinea la Corte, rappresentare una discriminazione "indiretta", qualora venga dimostrato che l'obbligo di abbigliamento neutrale comporta un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Ma anche in questo caso, la "discriminazione indiretta può essere oggettivamente giustificata da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti".

La decisione è giunta su un doppio ricorso proveniente da due persone, in Belgio e in Francia.
Il primo riguarda una signora musulmana in Belgio, dipendente del gruppo G4S, che è stata assunta nel 2003 senza usare il velo. Successivamente, ha chiesto alla società di poterlo portare. L'azienda ha opposto il suo rifiuto, e la signora Samira Achbita, è stata licenziata perché al momento dell'assunzione una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

In questo caso, l'avvocato generale Juliane Kokott ha considerato che il lavoro della signora Achtiba può richiedere un particolare quadro vestimentario.

Il secondo caso riguarda una signora musulmana in Francia, dipendente della società Micropole. In occasione di un incontro con un cliente, quest'ultimo ha chiesto che ai successivi appuntamenti Asma Bougnaoui non portasse il velo. La dipendente, che si rifiutò di accettare la richiesta, è stata licenziata nel 2009.

“L'applicazione concreta del diritto continuerà a dipendere dal giudice nazionale”
 
Secondo la Corte, in mancanza di una norma che vieti il porto del velo islamico sul luogo di lavoro, «la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio del cliente che i suoi servizi non siano più prestati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata un requisito per lo svolgimento dell'attività lavorativa». L'avvocato generale Eleanor Sharpston ha quindi ritenuto che chiedere di togliere il velo in vista di un appuntamento con un cliente è discriminatorio.
La differenza tra i due casi è che nel primo il divieto era previsto, nel secondo invece non lo era, e l'esito del confronto è parso quindi discriminatorio. In Francia il candidato neogollista alle presidenziali François Fillon ha detto che la sentenza ha fatto chiarezza e contribuirà alla “pace sociale”. Invece, secondo l'associazione Open Society di George Soros la decisione della Corte “indebolisce il concetto di uguaglianza” e potrebbe escludere dal mondo del lavoro molte donne musulmane.

La Corte europea di Giustizia del Lussemburgo è un giudice di legittimità: non valuta le questioni di fatto. In questo senso, l'applicazione concreta del diritto continuerà a dipendere dal giudice nazionale. Le due sentenze sono definitive. Le vicende nel delicato campo del porto del velo islamico in ambito lavorativo devono tenere conto di due libertà non facilmente conciliabili: da un lato la libertà di aderire a una religione e di manifestare la sua appartenenza, dall'altro la libertà d'impresa.



giovedì 9 marzo 2017

Russia pronta alla guerra bianca ovvero il ritorno sull’Artico


La fine dell’epoca sovietica aveva smilitarizzato l’Artico. Ma negli ultimi anni il vento è cambiato. Anzi il vento nuovo che soffia nelle zone più fredde del pianeta ha portato la Russia a progettare un nuovo sistema per presidiare il territorio. Diverse basi lungo la “Northern Sea Route”, che collega lo Stretto di Bering con il mare di Kara, sono recuperate e potenziate dopo anni di abbandono dalla caduta del regime dei soviet.

Il Cremlino sotto la guida di Vladimir Putin ha deciso di rilanciare la presenza militare nell’area. In molti casi con una capacità militare superiore a quella dell’epoca precedente. Il progetto di “riconquista” dell’Artico parte nel 2012 ma si concretizza dal 2015 quando vengono rese operative sei nuove basi, 16 punti di appoggio per i sommergibili atomici e 13 campi di volo. Non solo. Nelle aree occidentali nella penisola di Kola è stato dispiegato un sistema anti missile S-400 a difesa della Flotta del Nord, una delle principali flotte russe.

“Sotto la guida di Gorbachev e Yelsinn il nostro confine artico è stato messo a nudo, ma ora tutto sta per essere ripristinato”. Ne è convinto Pavel Makarevich, capo della società geografica russa. Questo ritorno all’Artico non è passato inosservato dalle parti d Washington. Il nuovo segretario alla difesa James Mattis ha confermato che per gli Usa “è controproducente lasciare questa parte del mondo”. Questa situazione complica non poco i piani dell’amministrazione Trump, che mirava a una distensione con la Russia di Putin. Intanto la prima mossa del Pentagono è stata di inviare 330 Marines in Norvegia. I soldati americani saranno di stanza nella base di Vaernes dover resteranno per sei mesi prorogabili a un anno. Il contingente è molto piccolo, ma è significativo il fatto che per la prima volta, dalla fine della Seconda guerra mondiale, truppe straniere arrivino in Norvegia.

Durante l’Urss la presenza armata sull’Artico si fondava sulla potenza di fuoco nucleare, in particolare con il volo dei grandi bombardieri in un’ottica di deterrenza nucleare. Questo nuovo ritorno tra i ghiacci del Polo ha invece una valenza diversa. Si tratta di un presidio diffuso pensato per un eventuale guerra convenzionale. Paradossalmente se la potenza è diminuita, sono aumentati uomini e mezzi. Sergai Shoigu, il ministro della difesa russo, ha confermato che nel 2017 verranno ripristinate, o create da zero, altre sei strutture militari.

Tra la miriade di basi due sono state completate a tempo di record. Quella ad Alexandra island e quella a Kotelny Island. La prima si trova nell’arcipelago di Franz Josef Land mentre la seconda è ancora più a Est, un’isola del gruppo delle Anžu, l’arcipelago della Nuova Siberia. Alexandra presenta una base che può ospitare 150 truppe che volendo possono sopravvivere in completa autonomia per almeno 18 mesi. La struttura, che ricorda un trifoglio ed è stata colorata con i colori della bandiera della Federazione, verrà presto integrata con una nuova pista di atterraggio. L’idea è quella di renderla ideale sia per i MiG-21 fighters, caccia progettati per abbattere i bombardieri di lungo raggio, che per i bombardieri SU-34.

Stessa struttura a trifoglio anche per Kotelny Island. In questo caso gli investimenti sono stati maggiori. L’isola, a 2.700 miglia da Mosca, ospiterà 250 uomini ben protetti con un sistema di difesa missilistica. Non solo. Sull’isola è stato anche installato un sistema di rilevazione radar per monitorare il traffico in tutto l’Artico orientale. In più è stato migliorato il porto per l’attracco delle navi e si sta ultimando la realizzazione di un aeroporto militare.

Non solo petrolio, una rotta per puntare al commercio
Mikhail Barabanov, responsabile del Moscow Defense Brief ha spiegato a Reuters che «La modernizzazione delle forze nell’Artico e la creazione di strutture sta avvenendo ad un ritmo senza precedenti, mai visto in epoca sovietica». L’investimento imponente voluto da Putin non ha lasciato nulla al caso. Il capo del Cremlino ha infatti promesso di investire 650 miliardi di dollari per modernizzare il 70% dell’esercito russo entro il 2020. Nel 2014 è stato creato un apposito comando l’Arctic Joint Strategic Command, con sede a Severomorsk, un centro sulla penisola di Kara all’imboccatura della ‘Northern Sea Route’. Le forze navali che fanno capo al Comando sono quelle della Flotta del Nord mentre le truppe di terra sono composte dalla 200esima brigata motorizzata e 80esima, che è stata istituita appositamente nel 2015. Nemmeno l’Urss ha mai avuto brigate artiche attrezzate specificatamente per la guerra oltre il Circolo polare. Per la fine del 2017 è prevista la creazione di una terza brigata e la nascita anche di una sorta di guardia costiera artica.

Un altro membro della società geografica russa, Denis Moiseev spiega che «Le nuove basi che abbiamo edificato sono sul territorio russo a differenza di quello che fanno altri Paesi». La scelta di investire così tante risorse al Polo è spiegata così da Moiseev: «Altri Paesi stanno avanzando i propri confini sull’Artico. Il nostro esercito deve essere pronto ad operare in tutto il territorio e in condizioni estreme».

Ma la scelta di Mosca di puntare tutto sull’Artico non deriva solamente da scelte di difesa. I cambiamenti climatici e la progressiva riduzione dei ghiacci apre le porte alle risorse che offre la regione. Secondo la società geologica americana il sottosuolo artico avrebbe un patrimonio di 412 miliardi di barili di greggio per oltre il 22% dell’interno patrimonio di petrolio e gas naturale. Se è vero che le sanzioni dovute alla guerra in Ucraina potrebbero rendere eccessivamente costose le estrazioni, è anche vero che la Russia ha una potenza necessaria a resistere e gli investimenti fatti a Nord fanno parte di una visione a lungo termine.

Ma questi investimenti hanno anche un’altra ragione. La dipartita dello strato di ghiaccio rende la rotta nordica molto appetibile. Il sogno di Mosca sarebbe quello di poterla trasformare in una sorte di nuova Suez. Di far aumentare sempre di più il volume di traffici commerciali dallo Stretto di Bering all’Oceano Atlantico e vice versa, guardando soprattutto a oriente. Una mossa tutt’altro che avventata se pensiamo alla lunghezza del percorso e al rischio pirateria che i mercantili asiatici, specialmente cinesi, devono affrontare passando verso Sud. Non a caso Grigory Stratiy, ex governatore della regione nordica di Murmansk, ha raccontato che c’è un forte interessa nella rotta nordica da parte di nazioni asiatiche anche grazie al piano di costruzione di nuove rompighiaccio che garantirebbe il passaggio marittimo per tutto l’anno.



lunedì 6 marzo 2017

Turchia-Grecia: nuove tensioni su isolette disabitate Egeo



Torna a salire la tensione tra Turchia e Grecia. Dopo la dura reazione di Ankara per la negata estradizione degli 8 militari accusati di aver partecipato al fallito golpe del 15 luglio, aggravata dalla minaccia di una rottura dell'accordo con l'Ue sui migranti, lo scontro si riaccende sulla sovranità di alcune isolette nel mar Egeo.

Nei giorni scorsi, l'area degli isolotti greci disabitati di Imia (Kardak in turco), sulla cui sovranità si sfiorò una grave crisi tra i due paesi nel 1996, è stata visitata prima dai vertici dell'esercito turco e poi dal ministro della Difesa greco, Panos Kammenos, nel 21/mo anniversario della crisi militare sulla loro sovranità. Oggi, poi, il ministero degli Esteri turco, in reazione a notizie di un possibile rafforzamento militare greco nell'isola di Kos nell'Egeo, ha detto: "Invitiamo la nostra vicina Grecia ad abbandonare ogni passo arbitrario contrario al diritto internazionale che possa creare tensioni".

"Volano le accuse mentre greci e turchi evitano una guerra". Titolava così, il 1 gennaio del 1996, un dispaccio dell'Associated Press che raccontava della ritrovata calma nell'Egeo, dove lo status quo era stato restaurato, dopo un confronto tra Atene e Ankara che aveva rischiato di sfociare in una guerra aperta.

Al centro della disputa, risolta grazie all'intervento degli Stati Uniti e dell'allora presidente Bill Clinton, due isolotti egei a poche miglia dalle coste di Grecia e Turchia. Le Imia, per dirla come i greci. Le stesse che nella vicina città di Bodrum chiamano tuttora Kardak, convinti che ad Atene non possano avanzare diritti su quegli scogli così vicini alle loro coste.

Scogli che hanno incrociato la nostra storia, ceduti alla Grecia nel 1947, dopo un breve periodo durante il quale il Dodecaneso aveva sventolato bandiera italiana, sottratti all'Impero ottomano. Isole - le Imia - di nessun valore strategico, tornate nelle pagine dei quotidiani a ventuno anni da quei fatti: ancora contese, pedina di un gioco più grande tra Ankara e Atene. È bastato che il capo di Stato maggiore turco, Hulusi Akar, si avvicinasse in nave da guerra alle isole perché la tensione tornasse ad alzarsi, in giorni in cui i due Paesi confinanti sono già ai ferri corti per vicende diverse, che hanno a che fare con il golpe sventato dello scorso 15 luglio.

Otto militari, fuggiti in elicottero dalla Turchia, atterrati ad Alessandropoli, sono una delle ragioni del contendere per due Paesi che, a partire dall'irrisolto status di Cipro, hanno molto di cui discutere. È stata la decisione della magistratura greca, contraria a un'estradizione, a far adombrare Erdoğan, a far dire che la Grecia "sostiene i golpisti", mentre anche in Germania quaranta militari già sospesi dal servizio chiedevano asilo politico.

Poi la sortita di Hulusi Akar, la prima pagina del quotidiano greco di destra Dimokratia ("Il nemico è alle porte"). E ancora: una corona di fiori lanciata da un elicottero dal ministro della Difesa greco Panos Kammenos, per ricordare i soldati caduti nello schianto di un elicottero durante la crisi degli anni Novanta. E un tweet di Hüseyin Kocabıyık, deputato erdoganiano della non lontana İzmir, sicuro che la Grecia "sia stata salvata da un ammiraglio codardo nel 1996" e pronto "a sparare" contro chi "giocherà la carta delle Kardak".

"Non vogliamo un'escalation della tensione - ha detto al quotidiano Hürriyet Daily News il ministro della Difesa turco Fikri Işık - ma nemmeno piegarci a un fatto compiuto".

È improbabile che la tensione nell'Egeo possa portare a un confronto in armi - ha chiarito al New York Times Sinan Ulgen, ricercatrice di Carnegie Europe. Ma "potrebbero esserci altre conseguenze". È un fatto che la sorte dei soldati golpisti in fuga è per Ankara un tasto dolente e pochi giorni fa le autorità hanno minacciato (di nuovo) la rottura dell'accordo sui migranti, in un momento molto delicato anche per la sorte di Cipro.

Ci mancava solo la disputa sull’isola di Kardak a far salire la tensione tra Grecia e Turchia. Dopo la querelle sulla mancata estradizione dei militari turchi fuggiti in Grecia dopo il golpe dello scorso 15 luglio, ora i due Paesi rivendicano la sovranità sugli «scogli» dell’Egeo, Kardak per i turchi, Imia per i greci, di appena 40 ettari.

La crisi si è riacutizzata dopo una esercitazione esercito-marina del 29 gennaio effettuata dai turchi, cui ha partecipato anche il capo di stato maggiore turco Hulusi Akar. Mercoledì, poi, il ministro della Difesa greco Panos Kammenos ha pensato bene di sorvolare l’isola per lasciare una ghirlanda di fiori in memoria dei tre soldati greci uccisi nel 1996, quando Ankara e Atene furono un passo dal dichiararsi guerra in nome della sovranità sulle isole. «Era un mio obbligo venire qui — ha detto Kammenos — non chiederò il permesso a nessuno. Noi vogliamo la pace ma non ci sarà un aereo che non sarà intercettato. La Turchia dovrebbe smetterla con queste tattiche da cow-boy». Il ministero della Difesa di Atene ha dichiarato di aver registrato 138 violazioni del proprio spazio aereo sopra le isole.

Immediata la replica del ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu che ha invitato il suo omologo greco «a rimettere la testa a posto» mentre un parlamentare del partito di governo Akp, Huseyin Kocabiyik, arrivava a minacciare i greci dicendo di «smetterla di giocare con Kardak, perché potremmo aprire il fuoco». Cavusoglu ha a sua volta accusato i greci di aver violato il territorio conteso: «Non si dovrebbero approfittare della nostra nuova volontà. Noi stiamo agendo con grande maturità».

La Grecia e la Turchia furono a un passo dalla guerra nel 1996 quando un mercantile turco si arenò sulle spiagge delle isole. L’intervento dei soccorsi da entrambe le parti fece scattare la disputa territoriale. Nel momento in cui i greci piantarono la loro bandiera i turchi fecero partire gli incrociatori, prima da Smirne e poi dal Pireo. Nell’ operazione morirono tre soldati greci e per evitare una escalation furono necessarie forti pressioni da parte della comunità internazionale.

In base agli accordi turco-italiani del 1932 le isole, considerate un insieme di scogli, dovrebbero rientrare nella giurisdizione del Paese più vicino. Con la Turchia distante 7 km e la Grecia 5 dovrebbe appartenere a quest’ultima. Ankara tuttavia preme sul fatto che i 7 chilometri costituirebbero una distanza misurata dalla terra ferma, mentre i 5 km di distanza dalla Grecia si riferiscono all’isola di Kalolimnis e non intende pertanto rinunciare all’isolotto.

“La mancata estradizione dei golpisti è una frustrazione per noi”, ha dichiarato il premier turco Yildirim. La questione della presenza dei golpisti turchi in Grecia rimane invece ancora irrisolta, con Atene che non sembra intenzionata a concedere l’estradizione anche in considerazione delle mancate garanzie di un processo equo nel caso i golpisti venissero rimandati in patria. Mentre la Turchia ha presentato una nuova richiesta di estradizione, lo scorso 1 febbraio un tribunale greco ha stabilito che gli otto golpisti devono rimanere in custodia cautelare in Grecia. La mancata estradizione è stata definita da Ankara come "una decisione politicizzata" e il ministero degli Esteri turco ha minacciato ripercussioni nelle relazioni bilaterali con Atene e la possibilità di cancellare l'accordo con l'Unione europea sull'immigrazione. Il governo ellenico ha difeso la decisione sottolineando come si tratti di una sentenza della “giustizia greca indipendente”, che non ha niente a che vedere con la politica.

In ogni caso, al di là della minaccia latente dell’abbandono dell’accordo Ue-Turchia sull'immigrazione, nell'immediato la tensione tra Atene e Ankara sta avendo come effetto concreto la riapertura di un’altra questione bilaterale mai risolta: la demarcazione dei confini greco-turchi nel Mar Egeo. Le autorità di Ankara e lo stesso presidente Erdogan hanno intensificato la loro retorica volta a contestare la validità del trattato di Losanna, che nel 1923 ha stabilito l’attuale divisione dei confini tra Grecia e Turchia. Il presidente greco Prokopis Pavlopoulos ha sempre risposto a tono rimarcando la posizione di Atene sulla necessità di rispettare il diritto internazionale e sottolineando il fatto che mettere in discussione il trattato di Losanna equivale “a minacciare non solo i confini della Grecia ma anche quelli dell’Unione europea”.

Anche il premier turco Yildirim ha commentato le recenti tensioni tra Turchia e Grecia nell'Egeo orientale affermando che il governo di Ankara ha sempre "risposte pronte per gli atteggiamenti ostili". "Nell'Egeo ci sono 130 isolotti grandi e piccoli che non hanno un padrone, non è esplicitamente precisato a chi appartengano. Questa è la situazione che deriva dal passato; i problemi nell'Egeo non sono di oggi ma hanno un lungo passato", ha detto Yildirim, il quale ha aggiunto che la recente visita del ministro della Difesa greco Panos Kammenos nell'isola di Imia "non ha valore" in quanto la sovranità su tale area dell'Egeo orientale non è definita chiaramente. "La geografia è un destino: non possiamo scegliere i nostri vicini", ha detto il premier turco. Anche il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha criticato ieri il ministro della Difesa greco Kammenos per la sua visita dei giorni scorsi nell'isola greca di Imia, a 7 chilometri dalle coste turche di Bodrum e oggetto di una disputa territoriale tra Ankara e Atene. Cavusoglu ha parlato di "incidenti indesiderati" che potrebbero avere conseguenze non desiderate nelle relazioni bilaterali.