giovedì 9 marzo 2017

Russia pronta alla guerra bianca ovvero il ritorno sull’Artico


La fine dell’epoca sovietica aveva smilitarizzato l’Artico. Ma negli ultimi anni il vento è cambiato. Anzi il vento nuovo che soffia nelle zone più fredde del pianeta ha portato la Russia a progettare un nuovo sistema per presidiare il territorio. Diverse basi lungo la “Northern Sea Route”, che collega lo Stretto di Bering con il mare di Kara, sono recuperate e potenziate dopo anni di abbandono dalla caduta del regime dei soviet.

Il Cremlino sotto la guida di Vladimir Putin ha deciso di rilanciare la presenza militare nell’area. In molti casi con una capacità militare superiore a quella dell’epoca precedente. Il progetto di “riconquista” dell’Artico parte nel 2012 ma si concretizza dal 2015 quando vengono rese operative sei nuove basi, 16 punti di appoggio per i sommergibili atomici e 13 campi di volo. Non solo. Nelle aree occidentali nella penisola di Kola è stato dispiegato un sistema anti missile S-400 a difesa della Flotta del Nord, una delle principali flotte russe.

“Sotto la guida di Gorbachev e Yelsinn il nostro confine artico è stato messo a nudo, ma ora tutto sta per essere ripristinato”. Ne è convinto Pavel Makarevich, capo della società geografica russa. Questo ritorno all’Artico non è passato inosservato dalle parti d Washington. Il nuovo segretario alla difesa James Mattis ha confermato che per gli Usa “è controproducente lasciare questa parte del mondo”. Questa situazione complica non poco i piani dell’amministrazione Trump, che mirava a una distensione con la Russia di Putin. Intanto la prima mossa del Pentagono è stata di inviare 330 Marines in Norvegia. I soldati americani saranno di stanza nella base di Vaernes dover resteranno per sei mesi prorogabili a un anno. Il contingente è molto piccolo, ma è significativo il fatto che per la prima volta, dalla fine della Seconda guerra mondiale, truppe straniere arrivino in Norvegia.

Durante l’Urss la presenza armata sull’Artico si fondava sulla potenza di fuoco nucleare, in particolare con il volo dei grandi bombardieri in un’ottica di deterrenza nucleare. Questo nuovo ritorno tra i ghiacci del Polo ha invece una valenza diversa. Si tratta di un presidio diffuso pensato per un eventuale guerra convenzionale. Paradossalmente se la potenza è diminuita, sono aumentati uomini e mezzi. Sergai Shoigu, il ministro della difesa russo, ha confermato che nel 2017 verranno ripristinate, o create da zero, altre sei strutture militari.

Tra la miriade di basi due sono state completate a tempo di record. Quella ad Alexandra island e quella a Kotelny Island. La prima si trova nell’arcipelago di Franz Josef Land mentre la seconda è ancora più a Est, un’isola del gruppo delle Anžu, l’arcipelago della Nuova Siberia. Alexandra presenta una base che può ospitare 150 truppe che volendo possono sopravvivere in completa autonomia per almeno 18 mesi. La struttura, che ricorda un trifoglio ed è stata colorata con i colori della bandiera della Federazione, verrà presto integrata con una nuova pista di atterraggio. L’idea è quella di renderla ideale sia per i MiG-21 fighters, caccia progettati per abbattere i bombardieri di lungo raggio, che per i bombardieri SU-34.

Stessa struttura a trifoglio anche per Kotelny Island. In questo caso gli investimenti sono stati maggiori. L’isola, a 2.700 miglia da Mosca, ospiterà 250 uomini ben protetti con un sistema di difesa missilistica. Non solo. Sull’isola è stato anche installato un sistema di rilevazione radar per monitorare il traffico in tutto l’Artico orientale. In più è stato migliorato il porto per l’attracco delle navi e si sta ultimando la realizzazione di un aeroporto militare.

Non solo petrolio, una rotta per puntare al commercio
Mikhail Barabanov, responsabile del Moscow Defense Brief ha spiegato a Reuters che «La modernizzazione delle forze nell’Artico e la creazione di strutture sta avvenendo ad un ritmo senza precedenti, mai visto in epoca sovietica». L’investimento imponente voluto da Putin non ha lasciato nulla al caso. Il capo del Cremlino ha infatti promesso di investire 650 miliardi di dollari per modernizzare il 70% dell’esercito russo entro il 2020. Nel 2014 è stato creato un apposito comando l’Arctic Joint Strategic Command, con sede a Severomorsk, un centro sulla penisola di Kara all’imboccatura della ‘Northern Sea Route’. Le forze navali che fanno capo al Comando sono quelle della Flotta del Nord mentre le truppe di terra sono composte dalla 200esima brigata motorizzata e 80esima, che è stata istituita appositamente nel 2015. Nemmeno l’Urss ha mai avuto brigate artiche attrezzate specificatamente per la guerra oltre il Circolo polare. Per la fine del 2017 è prevista la creazione di una terza brigata e la nascita anche di una sorta di guardia costiera artica.

Un altro membro della società geografica russa, Denis Moiseev spiega che «Le nuove basi che abbiamo edificato sono sul territorio russo a differenza di quello che fanno altri Paesi». La scelta di investire così tante risorse al Polo è spiegata così da Moiseev: «Altri Paesi stanno avanzando i propri confini sull’Artico. Il nostro esercito deve essere pronto ad operare in tutto il territorio e in condizioni estreme».

Ma la scelta di Mosca di puntare tutto sull’Artico non deriva solamente da scelte di difesa. I cambiamenti climatici e la progressiva riduzione dei ghiacci apre le porte alle risorse che offre la regione. Secondo la società geologica americana il sottosuolo artico avrebbe un patrimonio di 412 miliardi di barili di greggio per oltre il 22% dell’interno patrimonio di petrolio e gas naturale. Se è vero che le sanzioni dovute alla guerra in Ucraina potrebbero rendere eccessivamente costose le estrazioni, è anche vero che la Russia ha una potenza necessaria a resistere e gli investimenti fatti a Nord fanno parte di una visione a lungo termine.

Ma questi investimenti hanno anche un’altra ragione. La dipartita dello strato di ghiaccio rende la rotta nordica molto appetibile. Il sogno di Mosca sarebbe quello di poterla trasformare in una sorte di nuova Suez. Di far aumentare sempre di più il volume di traffici commerciali dallo Stretto di Bering all’Oceano Atlantico e vice versa, guardando soprattutto a oriente. Una mossa tutt’altro che avventata se pensiamo alla lunghezza del percorso e al rischio pirateria che i mercantili asiatici, specialmente cinesi, devono affrontare passando verso Sud. Non a caso Grigory Stratiy, ex governatore della regione nordica di Murmansk, ha raccontato che c’è un forte interessa nella rotta nordica da parte di nazioni asiatiche anche grazie al piano di costruzione di nuove rompighiaccio che garantirebbe il passaggio marittimo per tutto l’anno.



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