lunedì 16 settembre 2013

La storica lettera di Obama a Rohani



Primi contatti fra il presidente americano Barack Obama e il suo avversario iraniano Hassan Rohani che si sono scambiati lettere, come ha detto Obama in una intervista all'emittente televisiva Abc. "Penso che gli iraniani comprendano che la questione del nucleare è un problema molto più importante per noi di quello delle armi chimiche", ha affermato il presidente. "Ciò che dobbiamo trarre da questa lezione (dalla questione siriana, ndr) è che c'è' il potenziale per risolvere tali questioni in modo diplomatico. Il nuovo presidente non renderà le cose improvvisamente facile, ma se insieme a una minaccia credibile della forza c'e' uno sforzo diplomatico rigoroso, allora si riescono a fare accordi", ha sottolineato.

C'è una data che segna la storia del Medio Oriente: il 4 novembre 1979 quando il sequestro dei 52 ostaggi americani nell'ambasciata Usa a Teheran (rilasciati nel gennaio 1981) sancì la rottura delle relazioni diplomatiche tra l'Iran di Khomeini e gli Stati Uniti. Da quel momento gli Stati Uniti hanno sempre visto nella repubblica sciita degli ayatollah un nemico ostinato che minacciava Israele, principale alleato nella regione, e le monarchie petrolifere sunnite del Golfo.

Lo scambio di lettere tra Barack Obama e il presidente Hassan Rohani può cambiare questa storia, soprattutto se sarà seguito da un incontro tra i due ai margini della prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite, come ipotizzano diversi organi di stampa. Obama e Rohani si sono consultati sulla Siria, dove l'Iran rappresenta con gli Hezbollah libanesi il principale sostegno militare del regime di Assad, ma è chiaro che in primo piano c'è il dossier nucleare e il programma iraniano per l'arricchimento dell'uranio, sospettato di avere finalità nucleari.

In questi tre decenni di guerra fredda tra Teheran e Washington iraniani e americani hanno provato a fare diplomazia segreta con risultati disastrosi (l'affare Iran-Contras) o ambigui, durante l'invasione Usa dell'Afghanistan nel 2001 e l'occupazione dell'Iraq nel 2003. Nell'ufficio di Hashemi Rafsanjani, ex presidente e uno dei fondatori della repubblica islamica, un giorno mi fu persino mostrata una Bibbia con una firma di Ronald Reagan (difficile dire se fosse autografa). Ma la questione di fondo è rimasta: non ci può essere stabilità in Medio Oriente fino a quando la superpotenza americana e quella regionale del Golfo non si metteranno d'accordo per ristabilire relazioni diplomatiche.

Certamente anche a Teheran qualche cosa è cambiato: il nuovo presidente Rohani ha nominato uno staff dove sono almeno un paio i ministri che hanno studiato negli Usa e che conoscono bene l'America (uno ha persino la green card e la residenza a New York). Segnali di apertura sono stati colti dal vice ministro degli Esteri italiano Lapo Pistelli, unico rappresentante ufficiale di un governo occidentale a recarsi recentemente a Teheran e con frequenti contatti con la diplomazia americana.

Obama in queste ore ha ridimensionato il tono distensivo usato nella lettera a Rohani che attribuisce un «ruolo decisivo» all'Iran sulla questione siriana: «Credo che gli iraniani comprendano che la questione nucleare è un problema ben più importante per noi che quello delle armi chimiche siriane». Come a dire: ci scriviamo ma resta l'opzione militare per impedire che Teheran abbia l'atomica nei suoi arsenali o la possibilità di costruirla. Eppure questa apertura potrebbe cambiare la direzione degli eventi: se avvenisse davvero sarebbe forse il più importante lascito strategico della politica di Obama in Medio Oriente.

Pubblichiamo l’intervista di George Stephanopoulos su Abc News al presidenete USA Barack Obama

Presidente, solo due settimane fa sembrava pronto ad attaccare la Siria. Ora sta negoziando con la Russia. È quello che si immaginava allora? Crede che ora gli Stati Uniti siano in una situazione migliore? 
«Siamo decisamente in una situazione migliore. Tenga presente che il mio obiettivo è di fare in modo che quello che è successo il 21 agosto non accada ancora. Che non si debbano vedere oltre mille persone, più di 400 bambini, vittime di gas letali. Questa è stata un violazione delle leggi internazionali e della comune decenza. Ora abbiamo l’occasione di fare in modo che non accada più».

Crede che un attacco come quello del 21 agosto non si ripeterà? 
«I russi dicono che il regime di Assad non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. L’hanno detto quando gli ispettori non erano nemmeno ancora arrivati. Come conseguenza della nostra pressione delle ultime due settimane la Siria, che per la prima volta ha riconosciuto di possedere armi chimiche, ha accettato di aderire al trattato che ne vieta l’uso. Ora i russi dicono che convinceranno la Siria a eliminare tutte le armi chimiche. Non abbiamo ancora prove concrete e verificate che il processo sia effettivamente iniziato, ma i progressi fatti in queste due settimane sono notevoli. La reazione di Assad a delle proteste pacifiche ha portato a un conflitto interno che ha causato centomila vittime e sei milioni di profughi. Ma gli Stati Uniti non possono entrare nella guerra civile di qualcun altro. Non manderemo truppe da terra, non possiamo insediarci militarmente in Siria». 

In passato ha detto che invece bisognava andarci, in Siria… 
«Quello che possiamo fare ora è accertarci che le armi peggiori, quelle che non distinguono tra un soldato e un bambino, non siano usate. Se riusciamo in questo compito si potrà iniziare un processo internazionale al quale partecipino anche i Paesi vicini ad Assad, soprattutto Iran e Russia, e che venga riconosciuto che la guerra civile è terribile per il popolo siriano. Occorre arrivare, in modo serio, a una qualche soluzione politica». 
Putin ora è diventato un improbabile partner dell’America. Nell’editoriale che ha suscitato moltissime polemiche qui negli Stati Uniti, ha detto: «Non c’è ragione di credere che ad usare le armi chimiche siano stati i ribelli». Lei crede che potrebbe mentire per proteggere Assad? 
«Nessuno al mondo prende seriamente in considerazione l’ipotesi che siano stati i ribelli a usare i gas. È vero che ci sono estremisti, inclusi i gruppi affiliati ad Al Qaeda, che non si farebbero nessun problema a usare armi chimiche in Siria e fuori. In ogni modo, gli Stati Uniti e la Russia devono lavorare insieme».
In Siria avete gli stessi obiettivi? 
«Non penso che Putin abbia gli stessi valori che abbiamo noi. Ma entrambi abbiamo lo stesso interesse nell’evitare che la Siria precipiti nel caos totale e nel prevenire il terrorismo. La situazione in questo momento è insostenibile. Dovremo lavorare insieme per cercare di trovare un modo in cui gli interessi di tutte le parti - gli alawiti, i sunniti, i cristiani - siano rappresentati, e di portare la temperatura verso il basso in modo che le cose orribili che stanno accadendo nel Paese cessino immediatamente. Nonostante tutte le nostre differenze reciproche mi rallegra che la Russia sia coinvolta, e che potenzialmente, lo possa essere anche l’Iran».

Non pensa che Putin si stia prendendo gioco della situazione e di lei? 
«Sa, Ronald Reagan disse “Fidati, ma verifica”. Penso sia sempre andata così, soprattutto quando si interagiva con i leader sovietici un tempo, i russi oggi. Io e Putin abbiamo forti disaccordi su tutta una serie di questioni, ma possiamo parlare. E abbiamo lavorato insieme su temi importanti, come l’Afghanistan e in operazioni antiterrorismo. Questa non è la guerra fredda. Questa non è una gara tra gli Stati Uniti e la Russia. Se Mosca vuole avere qualche influenza nella Siria post Assad, non colpisce i nostri interessi».

Cosa pensa della posizione dell’Iran? 
«Con gli iraniani comunichiamo in via indiretta. Con il presidente Rohani ci siamo scambiati missive inerenti la situazione in Siria. E credo che comprendano che la questione nucleare è un problema ben più importante per noi che quello delle armi chimiche. La mia idea è che gli iraniani abbiano capito che non devono pensare che, poiché non abbiamo colpito la Siria, non colpiremmo l’Iran. Allo stesso tempo credo che dovrebbero capire che c’è una via di uscita diplomatica». 

Parliamo di economia. Cade in questi giorni il quinto anniversario del crollo della Lehman. I sondaggi dimostrano che i due terzi degli americani pensano che stiamo andando nella direzione sbagliata, che l’economia non è stabile.

Che ne dice di chi pensa che Wall Street abbia vinto, ma la gente comune no? 
«Pensiamo a dove eravamo cinque anni fa. Eravamo sull’orlo di una grande depressione. In qualche modo perfino peggiore di quella degli Anni 30. Abbiamo stabilizzato la situazione, ora sono 42 i mesi consecutivi di crescita, sette milioni e mezzo di nuovi posti di lavoro, 500 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero, 370 mila posti di lavoro in un settore auto che era completamente crollato. Il sistema bancario funziona. Si stanno dando prestiti alle imprese. Il mercato immobiliare ha recuperato. Ma è anche vero che non siamo vicino a dove dovremmo essere». 

Il 95% dei guadagni all’1% della popolazione. È impressionante… 
«Lo è. Nonostante i progressi fatti dopo la crisi, gli americani della classe media e i più poveri non ne hanno beneficiato come l’1% del Paese, i più ricchi. Le classi sociali più basse e la middle class non hanno visto crescere il loro reddito, non solo negli ultimi tre, quattro anni, ma negli ultimi 15. E così tutto quello che ho fatto è stato stabilizzare l’economia e rilanciare la crescita, iniziare a produrre di nuovo posti di lavoro e invertire la tendenza degli ultimi decenni. Ecco perché abbiamo reso il sistema fiscale un po’ più giusto chiedendo ai più ricchi di pagare di più. In questo contesto è inutile che i repubblicani continuino a insistere con altri, eccessivi, tagli al bilancio: produrrebbero solo l’aumento di disparità sul fronte dei redditi».

In un’eventuale sfida alle primarie democratiche tra Hillary Clinton e Joe Biden lei continuerà a rimanere neutrale come ha fatto fino ad ora? 
«È troppo presto per cominciare a parlare delle elezioni presidenziali del 2016. Sono stato rieletto appena da un anno. Adesso il mio interesse è tutto sull’America, lascio a voi preoccuparvi della politica».

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