sabato 5 dicembre 2009

Troppi costi, Obama pensa a una tassa sulla guerra


C’è la crisi, mancano 30 miliardi. I democratici: paghino i ricchi. Dopo i soldati, i soldi. All’indomani dell’annuncio sull’invio di altri 30 mila militari in Afghanistan, negli Stati Uniti è scontro sui finanziamenti alla guerra. I rinforzi costeranno un milione a soldato, ovvero 30 miliardi di dollari in più rispetto ai 130 già inseriti nel budget per la missione che il Congresso voterà nei prossimi giorni.

A Barack Obama spetta il delicato compito di spiegare come pagherà per la guerra vincendo lo scetticismo di quei repubblicani contrari all’escalation e l’opposizione della sinistra liberal e pacifista che chiede il ritiro delle truppe. Dati alla mano, i rinforzi costano 2,5 miliardi di dollari al mese, ovvero almeno 195 dollari a contribuente, abbastanza da far raddoppiare la spesa bellica per l’anno fiscale 2010 rispetto al 2009.

Secondo il Center for Arms control e Proliferation di Washington così solo nel 2010 l’investimento per la missione sarà pari alla metà di quanto gli Usa hanno speso dal 2001 ad oggi.

Cifre enormi che portano a sfondare il tetto dei mille miliardi da quando sono iniziate le guerre in Afghanistan e Iraq gravando sul già pesante debito pubblico, salito quest’anno all’85% del Prodotto interno lordo. Il rincaro arriva inoltre in una fase delicata per l’economia Usa, con una ripresa post-crisi lenta e macchinosa e la disoccupazione oltre il 10%. «Obama e il Congresso ora devono affrontare la questione in modo credibile e veloce», avverte il New York Times in un editoriale, in cui si apprezza tuttavia lo sforzo del presidente di aver fissato un prezzo credibile per la sua escalation, e per aver promesso di lavorare con il Congresso per i fondi, al contrario di quanto ha fatto per anni George W. Bush che «cercato di nascondere il vero costo delle guerre in Afghanistan ed in Iraq».

Il problema è capire dove attingere per evitare voragini di bilancio: si è parlato di tagli su altri capitoli di spesa, o del ricorso all’emissione di War Bond sul modello di quanto fatto da Franklin D. Roosevelt nella Seconda Guerra mondiale. A farsi strada nei giorni scorsi è stata l’idea di una War Tax - un modo per far pagare ai ricchi e alle grandi corporation il peso dei rinforzi - avallata da influenti democratici, ma osteggiata dal presidente della Camera, Nancy Pelosi che teme le ricadute in termini di consensi per l’impopolarità della misura.
Secondo le stime i costi reali pro-capite potrebbero comunque lievitare tra i 400 e i 600 dollari entro i prossimi due anni, e sempre che tutto vada secondo i piani di Obama che da parte sua deve spiegare a quali criteri ricorrere per capire quando l’Afghanistan sarà in grado di stare in piedi da solo. «Sebbene sia una buona idea fissare una scadenza» per il ritiro, sferza il «Times», sono forti i dubbi sul fatto che il presidente «possa rispettare la scadenza annunciata per luglio 2011». Intanto ieri in Senato, durante il capo del Pentagono, Bob Gates, dopo aver firmato l’ordine di dislocamento dei 30 mila militari, ha rivelato che i rinforzi potrebbero salire a quota 33 mila uomini grazie alla flessibilità concessa dal presidente per l’invio di «équipe mediche, intelligence, ingegneri e sminatori: ovvero tutto il personale necessario a salvare la vita dei nostri soldati». Un incremento destinato a gravare di più sul budget e a inasprire il dibattito politico. E mentre per i revisori di Congresso e Casa Bianca si preannunciano tempi difficili, Wall Street si scandisce lo slogan «Finché c’è guerra c’è speranza». I titoli del settore Difesa e Aerospaziale contenuti nello S&P 500 hanno infatti segnato rialzi sin dalla vigilia dell’annuncio di Obama e il trend pare destinato a proseguire visto che il sottoindice di settore è cresciuto del 75% (contro il +1% di quello generale) da otto anni a questa parte, ovvero da quando Washington ha inaugurato la nuova fase bellica.

domenica 20 settembre 2009

Afghanistan: una nuova strategia



E’ facilmente ipotizzabile che ci sia una stretta relazione tra l’attività della guerriglia talebana e la stantia situazione politica in Afghanistan non ancora definita dopo la consultazione elettorale. E’ bene ricordare che i portavoce talebani avevano minacciato in che avrebbero boicottato e minacciato il processo democratico delle elezioni presidenziali dello scorso agosto. E’ altrettanto facile ipotizzare che non è solo una coincidenza l’attentato contro i militari “di pace” a Kabul sia arrivato dopo l’annuncio della Indipendent Election Commission (IEC) sulla vittoria di Hamid Karzai.

Di fronte alla guerra dei sacerdoti talebani ( ) sempre più agguerrita, la NATO ha il dovere politico-militare di adeguare la propria strategia in Afghanistan. A fine agosto il Comando Alleato della missione ISAF in Afghanistan ha diramato le nuove linee guida per le operazioni di counter-insurgency che i comandi militari devono seguire sul terreno. La nuova strategia dovrebbe segnare un significativo cambiamento almeno a livello operativo dopo anni di sforzi nel paese. Il punto focale è l’accantonamento della distinzione tra operazioni di combattimento, operazioni di stabilizzazione e sforzi di ricostruzione. Il counter-insurgency implica che l’obiettivo di tutti gli sforzi Alleati è quello di sottrarre la popolazione locale al controllo dei talebani e guadagnare il loro sostegno a favore del governo afgano. Solo l’isolamento degli insorti può porre fine alla guerra degli integralisti. In queste nuove operazioni proteggere la popolazione civile è più importante che uccidere gli insorti, perché senza il sostegno e la fiducia della popolazione locale la guerra dei sacerdoti talebani può disporre di riserve di combattenti quasi illimitate. Lo scopo della nuova missione deve essere quello di creare un Afganistan dove chi governi non permetta ai terroristi islamici di avere basi e poter fare proseliti.

D’altronde, come ha sostenuto Fareed Zakaria, analista di punta della CNN,che ha sostenuto che in “Afghanistan bisogna tornare all’obiettivo originale della missione ossia impedire ad al Qaeda di ritrovare luoghi sicuri dai quali ordire le sue trame di morte”. E la soluzione potrebbe essere quella adottata dall’ impero britannico del deal making, di comprare e negoziare l’appoggio delle tribu, che hanno sempre avuto un forte peso sociale e politico.

In occasione della fine del ramadam il messaggio del Mullah Omar non si è fatto attendere: “Invasori studiate la storia: dai tempi di Alessandro il Magnifico fino a oggi. Perché non siete mai riusciti a dominarci. E mai ci riuscirete”. Un avvertimento ed una verità Il monito della guida spirituale dell'Afghanistan si rivolge alle truppe Nato, che hanno il dovere di vigilare la difficile situazione e a tutti coloro che “non vogliono imparare dalla storia”. E non “vogliono guardare la realtà con i loro occhi. Avete ottenuto qualcosa in questi otto anni?”. E poi ha aggiunto: “Non ascoltate Obama, sconfiggeremo la Nato”. L'Emirato islamico dell'Afghanistan invita l'opinione pubblica occidentale a non dare ascolto a Obama, che dice che la guerra in Afghanistan è una guerra necessaria.

In questo messaggio, il leader dei talebani ha illustrato anche il suo piano per il futuro del Paese: uno Stato indipendente, imperniato su un "sistema islamico retto", nel rispetto della sharia. Prima di tutto, però, occorre che le truppe straniere lascino il Paese.

Il ministro degli Affari Esteri italiano Frattini riferendosi alle future prospettive in Afghanistan ha auspicato che: "Il nuovo presidente afghano Karzai deve fare un vero e proprio contratto con la comunità internazionale perché non è più il momento di chiedere, ma è necessario che il governo di Kabul si assuma le responsabilità di fronte al suo popolo e a chi sta dando aiuti".

Per dare manforte a questa nuova strategia politico-militare sarà significativo ragionare su un impegno di lungo periodo perché bisogna che crescano, di numero oltre che di fiducia, le forze di polizia afgane e sarà altrettanto indispensabile che i progetti con le aree tribali siano più consolidate, per evitare che la popolazione civile si senta abbandonata nelle mani dei sacerdoti talebani.

mercoledì 25 febbraio 2009

Instabilità globalizzata: il momento del caos



Il presidente statunitense Bush nel suo discorso alla nazione, ormai sette anni fa, lanciò l'allarme sull' “asse del male” che rappresentava “una minaccia per la pace nel mondo”. Questo nuovo club esclusivo vantava tre membri di pimaria impotanza: Iran, Iraq e Corea del Nord. La cattiva notizia per il successore di Bush, Barack Obama, è che oggi si ritrova a fronteggiare un asse assai più esteso e forse anche più preoccupante: l'«asse del caos» globalizzato. Questo asse conta su almeno nove membri, se non di più. Ciò che li accomuna non è l'intento malvagio, quanto l'instabilità, aggravata ogni giorno che passa dalla crisi finanziaria globale. Sfortunatamente, la crisi stessa rende più difficile programmare una risposta americana davanti al nuovo pericolo.

L’instabilità globalizzzata è styata creata da fattori di per sé ..Il primo fattore è stato la disgregazione etnica: la violenza è stata infatti più intensa laddove ribollivano tensioni etniche incontrollabili. Il secondo va ricercato nell'instabilità economica: più grande la magnitudine degli scossoni economici, più probabile lo scoppio del conflitto. E il terzo fattore si annida nel declino degli imperi: il progressivo sgretolamento delle loro strutture ha portato a un inasprimento delle lotte per il potere politico. In almeno una regione del pianeta — il Medio Oriente — due di questi fattori sono presenti già da tempo: gli scontri etnici si susseguono da decenni e a seguito delle difficoltà e degli insuccessi riportati in Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti sembrano sul punto di ridimensionare la loro presenza quasi imperiale nella regione. Una ritirata che proseguirà anche sotto il mandato di Obama. La terza variabile, l'instabilità economica, si riaffaccia oggi sulla scena globale con maggior virulenza che in passato. Dopo quasi un decennio di crescita senza precedenti, si vedrà una sostanziale impennata della disoccupazione in gran parte delle economie nel corso di quest'anno, accompagnata da un doloroso calo dei redditi. E sofferenze economiche di tale portata quasi sempre scatenano conseguenze geopolitiche.

L'incessante anarchia che turba la Somalia, la nuova aggressività russa ed i disordini innescati in Messico dalle guerre tra narcotrafficanti. E siamo solo a tre esempi dei nove sopra menzionati. A Gaza, Israele ha lanciato un raid sanguinoso per indebolire Hamas. Ma qualunque siano i presunti risultati militari, di gran lunga superiore è stato il danno inflitto da Israele alla sua immagine internazionale con la morte di civili innocenti, che i miliziani di Hamas usano come scudi umani. Peggio ancora, le condizioni socioeconomiche a Gaza, già disastrose, oggi appaiono catastrofiche, circostanze che non contribuiranno affatto a rafforzare le posizioni moderate tra i palestinesi. Nel frattempo, l'Iran continua a spalleggiare tanto Hamas quanto la sua controparte sciita in Libano, Hezbollah, e va avanti con il programma di armamenti nucleari che gli israeliani vedono giustamente come minaccia alla loro stessa esistenza. Sul confine orientale dell'Iran, il generale David Petraeus, nuovo comandante in capo dell'esercito americano, oggi si dibatte con il problema molto spinoso di riportare la pace in Afghanistan. Il compito è reso più difficile dall'anarchia che regna nel vicino Pakistan. L'India, intanto, punta il dito contro alcuni vertici in Pakistan, accusandoli di aver organizzato gli attentati terroristici di Mumbai. E non dimentichiamo che le sciabole agitate da indiani e pakistani sono dotate di testate nucleari.

I governi democratici a Kabul e Islamabad sono i più deboli del pianeta. Tra i rischi maggiori che oggi minacciano il mondo c'è quello che uno di questi due Paesi si disintegri sotto crescenti ondate di violenza. La crisi economica AVRà un ruolo cruciale. La classe media pakistana è Già stata stata travolta dal crollo del mercato azionario. Nel frattempo, buona parte dell'immensa popolazione maschile rischia di perdere il lavoro. Non è questo il modo per assicurare la stabilità politica. Il nostro club non è affatto esclusivo. Tra i candidati all'ammissione ricordiamo Indonesia, Thailandia e Turchia, dove già si avvertono i primi segnali che la crisi economica sta esacerbando i conflitti interni. E non dimentichiamo la ripresa della guerra civile nella Repubblica democratica del Congo, la violenza mai sopita nella regione del Darfur in Sudan e il cuore di tenebra rappresentato dallo Zimbabwe sotto la dittatura di Robert Mugabe. L'asse del caos vanta molti membri e non c'è dubbio che la lista si allungherà ancora nel corso dell'anno. Il problema è che, come negli anni Trenta, i Paesi oggi sono troppo preoccupati per i loro affari interni, alle prese con la crisi economica, e non hanno tempo per prestare attenzione alle difficoltà ben più gravi in cui si dibatte il resto del mondo.

Questo è vero anche negli Stati Uniti, talmente assorti dai guai della loro economia che l'idea di intervenire per contrastare gli sconvolgimenti globali sembra un lusso eccessivamente oneroso. Con la previsione di una contrazione del Pil americano tra 2-3 punti percentuali quest'anno e con il tasso ufficiale di disoccupazione che si teme raggiungerà il 10 %, tutta l'attenzione di Washington resterà focalizzata sul pacchetto di aiuti all'economia. Le risorse disponibili per controllare il pianeta subiranno certamente una contrazione, soprattutto se gli investitori stranieri pretenderanno dividendi più elevati sulle obbligazioni statunitensi o se preferiranno addirittura sbarazzarsi dei dollari a favore di altre valute. La volatilità economica va a sommarsi ai conflitti etnici e a un impero in declino: in geopolitica, siamo davanti a una miscela altamente esplosiva. Oggi vediamo una convergenza di tutti e tre i fattori di rischio: l'era del caos comincia adesso.

mercoledì 21 gennaio 2009

Obama: il viaggio è iniziato “sfide senza precedenti”


"L'America ha bisogno di una nuova dichiarazione di indipendenza da ideologie, pregiudizi ed egoismo. Con questi ideali, gli stessi che hanno ispirato la nostra nazione, dobbiamo affrontare sfide senza precedenti". Parole di Barack Obama. Sulle orme dei padri fondatori, Obama ha deciso di iniziare il suo cammino presidenziale ripercorrendo il viaggio compiuto da Lincoln nel 1861, non dimenticando le sfide, difficilissime, che lo aspettano: le guerre in corso, una tregua sofferta, i problemi finanziari mondiali, il riscaldamento globale. “Sfide senza precedenti” ammette. “Ma se i problemi che ci troviamo davanti sono nuovi - aggiunge - non è nuovo quello di cui abbiamo bisogno per superarli” assicura. Per affrontarli e vincerli, dice Obama, bisogna tornare allo spirito con cui i Padri fondatori si riunirono a Filadelfia e firmarono la Dichiarazione d'Indipendenza.

Le sfide che dovrà affrontare in campo internazionale sono molteplici ed alcune al limite dell’arte diplomatica.

Cominciamo con il “cortile di casa”; Cuba rimane da sempre il grosso problema dei presidenti statunitensi, ma c’è una novità: Fidel Castro non è al potere e, per la per la prima volta, si incontrano due nuovi presidenti, Raul Castro e Barack Obama. Entrambi sono delle vere incognite su come vorranno gestire i rapporti tra USA e Cuba e distinguersi dai loro predecessori: dialogo o ostinazione? Ma Cuba ha trovato sulla strada alcuni nuovi alleati, Venezuela e Russia su tutti, e sicuramente questo potrebbe cambiare l’approccio della nuova amministrazione statunitense. Il Los Angeles Times ha auspicato che “Obama potrà beneficiare delle stesse condizioni propizie che hanno mosso Kennedy, Ford, Carter e Clinton verso migliori relazioni con Cuba”. Ed è doveroso sottolineare che questo mese segna sia il 50mo anniversario della rivoluzione cubana che quello della rottura formale delle relazioni tra Washington e l’Avana.

Altra sfida sono le relazioni con un continente ormai indirizzato verso una visione sovietica della politica, e critico nei confronti dell’indirizzo neoliberista dell’ormai ex Presidente USA. La politica dell’amministrazione USA ha forse inconsapevolmente indirizzato Argentina, Brasile, Cile, Uruguay, Paraguay, Bolivia, e Nicaragua verso posizioni populiste di sinistra. Il neo Presidente dovrà fare attenzione alla volontà dei paesi sudamericani, come era successo nel settembre scorso, di allontanare gli ambasciatori USA per creare un rovente clima da guerra fredda.

Le sfide di Obama in Africa sono varie e gli africani probabilmente si aspettano tanto dal nuovo presidente-antenato. Primo fra tutti, la gestione dei conflitti presenti e, al contempo, il dover prevenire quelli futuri: Congo, Somalia, Sudan e altre nazioni a rischio quali la Nigeria. Infine il problema dello Zimbabwe di Mugabe. Come relazionarsi con questo “mostro” della decolonizzaziione ormai isolato da tutti, riuscire ad aprire una reale mediazione internazionale cercando di coinvolgere le nazioni africane, e soprattutto il popolo della Zimbabwe.

Una altra sfida, quella diplomatica per ricucire alcune delle relazioni con paesi dell’Unione Europea quali Spagna, Francia e Germania e soprattutto con la Russia. Come rapportarsi con il risorgere dell’aggressività russa, scegliere la linea della vecchia amministrazione USA o cercare la via diplomatica per reintegrare il paese dello Zar Putin specie in vista delle problematiche da trattare. La posizione di Bush su scudo spaziale; il sostegno sui paesi dell’est europeo rinfocolando la rivalità con la Russia; ambiziose annessioni alla Nato e all’UE di Ucraina e Georgia. La verità è che nell’epoca della globalizzazione il regime russo putiniano si sta risvegliando dalla propria dissoluzione determinata dalla storia politica e ha il desiderio di reintegrare, il territorio ex sovietico sotto il dominio del Cremlino.

In Medio Oriente ci sono in sospeso le questioni più bollenti, per lo più frutto della guerra preventiva e al terrorismo. Lo stesso Obama ha detto che Al Qaeda ed il suo leader “restano la minaccia numero uno” per gli Stati Uniti.
I conflitti in Iraq e Afghanistan  costituiscono il nodo cruciale sui cui si potrà ricucire tutto il rapporto internazionale. Ormai solo con la Gran Bretagna come alleato sul terreno, la presenza in Iraq costituisce un fattore di perdita economica nonostante i successi nella sicurezza ormai un ritiro si impone. Ma se sull’Iraq la strada del ritiro sembra già avviata, rimane l’incognita sul cosa fare con l’Afghanistan e sul dopo Iraq e le conseguenze aperte da questo conflitto probabilmente si manterranno ancora per anni.

Il conflitto tra Israele e Hamas, rappresenta uno dei nodi più difficile ed è l’area attualmente più a rischio nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale per la soluzione del problema di Gaza con gli accordi raggiunti Sharm El Sheikh Sharm.

Una sfida di primo ordine è la corsa nucleare iraniana che si potrebbe “bloccare” con una politica internazionale volta al dialogo e non con la minaccia della guerra che ha spinto il regime di Teheran a pensare che l’arma nucleare possa dissuadere gli Stati Uniti dall’intervento militare. Barack Obama dovrà aprire una trattativa per due ragioni: stabilizzare l’area in vista del futuro ritiro dall’Iraq, riallacciare, con grande difficoltà, le trattative in Palestina con i movimenti estremisti di Hamas ed Hezbollah, finanziati e sostenuti dal regime di Teheran.

Altro nodo sarà come relazionarsi su possibili situazioni di crisi come il conflitto in Kashmir tra India e Pakistan, o la Birmania che costituisce uno dei fallimenti della diplomazia internazionale. Infine i rapporti con la Cina, i quali dovranno fare un salto di qualità passando da semplice cooperazione economica e finanziaria ad una maggiore convergenza politica. La Cina è una superpotenza in maturazione, ed nuove vertice mondiale si rende ormai necessario

Obama sembra consapevole delle difficoltà delle sfide che da affrontare, ma è fiducioso di risolverli anche se ci vorrà “più di un mese o di un anno”.
Barack Obama è il 44mo presidente degli Stati Uniti. Il primo presidente nero nella storia statunitense ha giurato sulla Bibbia di Abramo Lincoln, nel discorso d'insediamento, il neo presidente chiama l'America “a una nuova era di responsabilità” che poggi su valori antichi, come la speranza e la virtù. Resta difficile leggere, nel primo atto della presidenza Obama, percorsi di politica estera, perché non vi sono citazioni di dirette  tranne l'apertura con monito al mondo islamico: “i vostri popoli vi giudicheranno per quello che costruite, non per quello che distruggete” e un riferimento a Iraq e Afghanistan, le guerre da chiudere.

Comunque le sfide del nuovo presidente USA saranno: in primis deve trovare una sua collocazione nel processo di pace in Medio Oriente e poi i rapporti con l’Iran che ha ribadito non solo esporta il terrorismo attraverso le fazioni integraliste islamiche ma sta tentando di ottenere un’arma nucleare che potenzialmente potrebbe scatenare una corsa agli armamenti in Medio Oriente.
Auguriamo un benvenuto al nuovo presidente Usa.