L'Assemblea nazionale del Popolo in Cina ha ritirato i limiti del mandato presidenziale, spianando la strada al presidente Xi Jinping per governare a tempo indefinito. Su 2.963 delegati all'Assemblea nazionale del popolo a Pechino, la sessione parlamentare annuale, 2.958 hanno votato sì al cambiamento della costituzione che poneva il limite di due mandati per il presidente e per il suo vice. Tre si sono astenuti e due hanno votato contro. La decisione afferma Xi Jinping come il leader cinese più potente degli ultimi decenni. Dopo l'era di Mao Zedong era stata introdotta la regola dei due mandati quinquennali, proprio per non ricadere nel rischio di un uomo solo al potere, a vita. Un salto nel passato.
L’emendamento alla Costituzione era stato proposto circa un mese fa dal Partito Comunista della Repubblica Popolare Cinese, al fine di consentire al suo segretario, nonché attuale presidente del Paese Xi, di poter prolungare la sua permanenza al vertice anche oltre i 10 anni, che scadrebbero, nel suo caso, nel 2023.
Xi Jinping, 64 anni, è presidente dal marzo del 2013, allora era stato eletto dal Congresso con un solo voto contrario e tre astensioni: 99,86 per cento di consensi. I numeri oggi non sono cambiati. Xi siede anche sulla poltrona di segretario generale del Partito comunista, di presidente della Commissione centrale militare e di un’altra dozzina di organismi di governo, alcuni costituiti sotto suo ordine.
«La campanella suona nella Grande Sala del Popolo, dalle 28 urne rosse è uscito il risultato della votazione sulla riforma costituzionale», ha annunciato eccitata la anchorwoman della televisione di Stato cinque minuti prima delle 16 ora locale, le 8,55 del 11 marzo del 2018 in Italia. Grande applauso in aula, sotto lo sguardo inespressivo della leadership schierata al completo. Che cosa significa questa riforma che permette a Xi Jinping di restare capo dello Stato oltre il 2023, quando finirà il suo secondo mandato di cinque anni? Ci sono state polemiche anche in Cina dopo l’annuncio della riforma «proposta» al Congresso, il 25 febbraio. Sul web sono circolate critiche, giochi di parole su «Xi Zedong» subito censurati e anche lettere aperte di intellettuali che mettevano in guardia contro il rischio di un nuovo maoismo. Sostiene Wang Chenguang, professore di Diritto della prestigiosa università Tsinghua: «Non si tratta di presidenza a vita, perché sono stati aboliti solo i limiti temporali per la carica presidenziale, non quelli del Congresso che dovrà rieleggerlo». Solo la storia futura della Cina potrà dire se oggi è stato «eletto» un nuovo presidente di lungo termine o un nuovo imperatore a vita.
La preoccupazione dei Paesi Occidentali si è manifestata quasi immediatamente, anche in un clima in cui la democrazia liberale sembra messa in crisi su più fronti. Secondo l’Osservatorio internazionale dei Diritti Umani, il 2017 è stato l’anno in cui la democrazia e le libertà individuali hanno subito un calo notevole di percezione. È il 12esimo anno di fila che questi indici di riferimento sono in calo.
Gli esempi, d’altronde, sono molteplici anche in paesi limitrofi all’Europa. In Turchia, secondo gli osservatori istituzionali, Erdogan sta seguendo lo stesso percorso, e prospettano un simile programma anche in Ungheria, oltre al portabandiera degli spauracchi antidemocratici, Vladimir Putin in Russia, che tuttavia attraverserà la quarta prova elettorale della sua carriera il prossimo 18 marzo, con la staffetta del 2008 con il suo delfino politico Dmitry Medvedev.
Erano tuttavia 40 anni che in Cina era stato introdotto il vincolo di due mandati, risalente al periodo successivo alla morte di Mao Tsetung, proprio per evitare di ripetere l’esperienza fallimentare della rivoluzione maoista, rimpiazzata da leader illuminati come Chou en Lai e Deng Xiaoping.
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