mercoledì 18 giugno 2014

Il francobollo più raro: è del 1856 e vale 9,5 milioni di dollari



Il rarissimo francobollo del XIX secolo, unico esemplare del British Guiana One-Cent Magenta, è stato comprato per la cifra record di 9,5 milioni dollari a New York. In solo due minuti un collezionista anonimo ha concluso l’affare, dopo che la vendita nella gremita sala di Sotheby’s a Manhattan si era aperta con una base d’asta di 4,5 milioni. E’ stato emesso una sola volta, nel 1856. Non esiste al mondo un francobollo più raro del British Guiana One-Cent Magenta – un’unica emissione nel 1856: ognuna delle tre volte che è stato battuto in asta nel passato ha stabilito nuovi record per un francobollo. Scoperto da un ragazzino scozzese di dodici anni in Sudamerica nel 1873, passò nelle più prestigiose collezioni private di francobolli del mondo.

Nel 1873 L. Vernon Vaughan, un ragazzo scozzese di dodici anni che viveva con la propria famiglia nella Guyana Britannica, trovò casualmente il francobollo tra un gruppo di carte di famiglia. Da giovane collezionista, Vaughan non poteva sapere che il One-Cent fosse rarissimo, ma certamente lo inserì nel proprio album, e più tardi lo vendette a un altro collezionista locale per pochi scellini.

Il British Guiana One-Cent giunse in Gran Bretagna nel 1878, e subito dopo fu acquistato dal Conte Philippe la Renotière von Ferrary, forse il più grande collezionista di francobolli di tutti i tempi. La Francia si impossessò della sua collezione, che era stata donata al Postmuseum di Berlino, come parte dell’indennizzo dei danni di guerra, e vendette il francobollo nel 1922: venne acquistato da Arthur Hind, un industriale tessile di New York, che con l’acquisto segnò il primo auction record di 35mila USD, cui seguì l’ingegnere australiano Frederick T. Small, poi un consorzio capitanato da Irwin Weinberg, e infine fu comprato da John Du Pont, erede del famoso gruppo chimico. Du Pont acquistò il francobollo in un’asta nel 1980, pagandolo 935mila USD, attuale record d’asta per il British Guiana.

Spagna, Juan Carlos firma abdicazione



Trentanove anni fa con l'alta uniforme scura di medaglie e di coccarde, diceva “Viva la Constituciòn”, pure quella volta dentro il televisore di ogni casa spagnola, insonni tutti anche se era quasi l'alba, e non si sapeva ancora se il nuovo giorno sarebbe stato ancora una volta il passato che tornava oppure finalmente, e per sempre, il futuro che chiudeva le porte della storia nazionale.

Juan Carlos I non è più re di Spagna. A Palazzo Reale ha controfirmato la legge che rende effettiva la sua abdicazione compiendo l'ultimo atto da capo dello Stato. La norma sarà esecutiva dalla mezzanotte e da quel momento suo figlio Felipe sarà re. Alla firma sono presenti la Regina Sofia e il principe Felipe, in abiti civili come il padre, con la moglie Letizia e le figlie Leonor e Sofia.

Un emozionato Juan Carlos, dopo la controfirma dell'abdicazione e della rettifica da parte del premier spagnolo Mariano Rajoy, ha abbracciato il successore al trono, il figlio Felipe e in un gesto simbolico gli ha ceduto la sua poltrona. Il passaggio di consegne, in presenza di donna Sofia e di Letizia, che dalla mezzanotte sarà regina, e delle infante Leonor di Borbone - l'erede al trono che a sua volta diventa principessa delle Asturie - e Sofia. Al termine dell'atto solenne, davanti a 160 invitati, un'ovazione ha salutato Juan Carlos I, visibilmente emozionato, che è stato baciato dalle nipoti, prima dell'inno nazionale che ha chiuso la cerimonia.

In questi due messaggi a “los pueblos de Espan^a” e “Todos al suelo, con^o”, il primo del 23 febbraio dell'81, è  racchiuso un intero mondo: la parabola di una monarchia, la vicenda di un uomo, il destino di un paese.

L'eredità gli era stata consegnata dallo stesso Francisco Franco, nel tardo mattino del primo ottobre del '75, con un abbraccio che, dal balcone del Palacio de Oriente, siglava il passaggio dei poteri davanti a una folla osannante che sventolava in aria i fazzoletti bianchi di un' appartenenza senza scelte. “E' l'abbraccio della morte”, dicemmo in tanti ch'eravamo venuti a Madrid a vedere un importante pezzo di storia d'Europa che finiva; e in un'intervista perigliosamente clandestina che mi diede, qualche notte dopo, nel silenzio immobile di una anonima casa di periferia, Santiago Carrillo, segretario del partito comunista, l'uomo più odiato e più ricercato del regime, il vecchio “compan^ero” ora senza la parruca che gli proteggeva la clandestinità mi disse con disprezzo: “Passerà alla storia come Juan Carlos il Breve”.

Il cardinale Tarancòn, appena pochi giorni dopo la morte di Franco, il 20 novembre, incoronandolo nella cattedrale de los Jeronimos gli aveva chiesto di essere “il re di tutti gli spagnoli”, si doveva capire che, forse, davvero il disegno della storia sarebbe stato diverso. Sul letto di morte, il Caudillo aveva detto, rassicurante, che lasciava il paese “atado y bien atado”, che tutto era sotto controllo, insomma; e invece ecco che, prima il vecchio cardinale, e poi il Richelieu più ascoltato, Torcuato Fernàndez de Miranda, stavano sussurrando al re appena intronato ben altra storia: che si doveva cambiare, “con juicio”, certo, ma comunque cambiare. E arrivò la designazione di un giovane outsider, Adolfo Suàrez, a capo del governo, con lo sconcerto dell'impalcatura del vecchio regime, poi la legalizzazione dei partiti e non più soltanto l'eterna Falange, poi ancora la nuova Costituzione e, addirittura, perfino la legittimazione del partito comunista. Quello che era stato immaginato “atado” scioglieva, libero, i suoi lacci consunti. L'approdo alla modernità lo aveva pilotato il re di Franco.

Re costituzionale mai dubbioso del proprio ruolo storico, ha rispettato doverosamente il gioco parlamentare, e consegna oggi la Spagna e il principe Felipe ai tempi nuovi d'una democrazia che deve sapersi misurare con le sfide del futuro. Certo, nel privato ne ha fatte di cotte e di crude, è stato uno scavezzacollo sempre dietro gonne al vento, un “mujeriégo” impenitente come dicono a Madrid; ma alla fine sono fatti suoi, e poco del paese, anche se hanno contribuito a deteriorare l'immagine della monarchia, insieme con gli scandali finanziari che hanno agganciato suo genero e la infanta Cristina. Sono storie di oggi, un re che se ne va sa bene che peseranno nel bilancio finale che lo accompagnerà; il 60% degli spagnoli sono nati dopo le pistolettate di Tejero, e sanno poco di quel “Todos al suelo, con^o!” ma sanno tutto dei traffici amorosi di Juan Carlos e dei traffici incerti della sua famiglia.


mercoledì 4 giugno 2014

Oggi 4 giugno 2014: sono passati venti anni senza Massimo Troisi



Massimo Troisi era nato a San Giorgio a Cremano il 19 febbraio 1953. Morì il 4 giugno 1994, a soli 41 anni, il giorno dopo aver finito le riprese de 'Il Postino'. Se uno nasce a San Giorgio a Cremano (alle porte di Napoli ma nel cuore di una periferia disastrata, ancora campagna, non ancora città) e cresce in una casa piccola e sovraffollata (cinque fratelli, due genitori, due nonni e cinque nipoti), o si chiama Massimo Troisi o si rassegna all'anonimato fin dall'infanzia. Troisi era amatissimo sia come comico da quando aveva ottenuto le prime popolarità televisive con il trio della Smorfia (erano lui, Lello Arena ed Enzo Decaro), sia come attore più versatile che arrivò a essere candidato all’Oscar per il Postino due anni dopo la sua morte, nel 1996 (un’altra candidatura la ebbe in quanto coautore della sceneggiatura).

Troisi era napoletano, e il suo personaggio pubblico era intimamente legato alla sua provenienza geografica, sottolineata dal suo accento e dal suo modo di parlare e di riferirsi alle cose, a cavallo tra l’autocommiserazione e la grande lucidità. Ma lo era anche in un modo proprio e opposto al cliché della napoletanità – con personaggi timidi, impacciati, sensibili – che cercava spesso di prendere in giro e criticare. Fu protagonista di film di grandissimo successo (di cui era anche regista) grazie all’associazione tra l’aspetto comico e quello più sentimentale o riflessivo – come Ricomincio da tre e Scusate il ritardo – e soprattutto di una memorabile collaborazione con Roberto Benigni in Non ci resta che piangere, tutti film che hanno consegnato al linguaggio popolare battute e gag poi diffusissime (Yesterday… bom-bom; il tentativo di spostare il secchio; un fiorino!; milleqquattro quasi milleccinque; emigrante?; Mas-si-mi-lia-no; la lettera a Savonarola; ricordati che devi morire; chi parte sa da cosa fugge, ma non sa…).

Troisi decise di far onore al suo nome e di combattere contro un destino difficile, acuito fin dalla giovinezza da dolorose febbre reumatiche che produssero lo scompenso cardiaco alla valvola mitralica che gli sarebbe stato fatale ad appena 41 anni. Il 4 giugno di vent'anni fa, appena 12 ore dopo la fine del suo film più ambizioso e impegnativo, "Il Postino", Massimo scivolava dal sonno alla morte nella casa di sua sorella Annamaria, a Ostia, dove aveva trovato rifugio dopo le fatiche di un set che non avrebbe dovuto affrontare. Alla vigilia del "Postino", Troisi era tornato in America dal chirurgo (De Beckey) che già una volta l'aveva operato in gran segreto al cuore agli inizi della carriera. Sapeva di non poter affrontare il doppio sforzo dell'ideazione e dell'interpretazione (nonostante avesse lasciato la regia a Michael Radford per arrivare alla fine delle riprese) ma scelse di non risparmiarsi per avere l'opportunità di Philippe Noiret nel ruolo del poeta Neruda. Era rassegnato ad andare incontro al suo destino, del resto giocava a nascondino con la morte da sempre e spesso ci aveva fatto dell'ironia tratteggiando personaggi che scompaiono prematuramente ("no, grazie il caffè mi rende nervoso" e perfino intitolando il suo film Tv "Morto Troisi...viva Troisi" (1982).

Il "Pulcinella senza maschera" che il pubblico avrebbe amato fin dall'esordio con "Ricomincio da tre" (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanita' irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della "nuova Napoli" di Pino Daniele e di Roberto De Simone. Col gruppo "I Saraceni" e poi con gli inossidabili amici de "La Smorfia" (Lello Arena ed Enzo Decaro) uscì presto dai confini vernacolari del successo paesano per portare la sua lingua (un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, "l'unica lingua che so parlare, a dire il vero") sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com'era accaduto a Eduardo e a Totò, quella parlata divenne comprensibile a tutti oltre le parole, sinonimo di un sentire universale in cui la maschera diventava volto e il personaggio un paradigma universale.

Il successo fu inatteso, clamoroso, immediato. Erano gli albori di quegli anni '80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovo' un'empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di "Non ci resta che piangere" (1984) in cui il suo surreale "grammelot" faceva da efficace contrappunto alla paradossale cornice storica di un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea. La critica aveva amato di più l'opera seconda del regista Troisi ("Scusate il ritardo", 1983), Manon fu sempre generosa con l'autore, salvo poi tributargli grandi encomi postumi dopo le quattro nominations de "Il Postino" che nel 1996 fruttarono al film l'Oscar per la colonna sonora di Luis Bacalov.

A 20 anni dalla scomparsa, la città di San Giorgio a Cremano (Napoli) ricorda Massimo Troisi, con una serie di eventi che vedranno protagoniste donne impegnate nell'arte, docenti universitari e giovani artisti. L'amministrazione comunale che ogni anno ne celebra l'anniversario della nascita, lo ricorderà con l'iniziativa 'Nel segno di Massimo', un programma diviso in due giornate illustrato a Villa Bruno dall'amministrazione comunale e dall'associazione Circolo Massimo.

lunedì 2 giugno 2014

Cent’anni dopo la Grande Guerra




Il più grande conflitto mai visto, una ecatombe che sconvolse il mondo cambiandone il destino.

L'estate del 1914, cent'anni fa, segnò l'inizio della Prima guerra mondiale, il più grande conflitto mai visto, una ecatombe che coinvolse quasi tutti i continenti, gran parte delle Nazioni e dei loro abitanti, cambiandone per sempre il destino. Tante e tali sono state le novità, le implicazioni, le conseguenze di quel conflitto conclusosi nell'autunno 1918 che solo ad un secolo di distanza il mondo sembra uscire dai solchi che produsse.

Quando furono firmati gli armistizi tra i belligeranti, le vittime si contavano a decine di milioni, mentre i sopravvissuti dovettero adattarsi ad un mondo nuovo e fortemente instabile. Crimini e orrori in vasta scala, armi nuove e micidiali, indifferenza per le spaventose perdite militari e civili hanno accomunato quasi tutti i numerosi fronti aperti.

L'Italia entrò in guerra nel 1915, il 24 maggio. Paese povero e impreparato, si trovò presto in trincea per difendere il proprio territorio.

La disfatta di Caporetto nell'ottobre 1917 fu il momento più difficile, ma la resistenza sulla linea del Piave consentì la riscossa fino alla resa degli austriaci a Vittorio Veneto il 4 novembre. L'entusiasmo per la vittoria durò poco, tanti e tali erano stati i sacrifici imposti al Paese. Un mondo era finito, e la nuova era si presentava assai fosca.

A cento anni dello scoppio della Prima guerra mondiale, l'Italia avvia le celebrazioni della 'Grande Guerra' e il sottosegretario Luca Lotti presenta così la mostra che dal 31 maggio al 30 luglio verrà ospitata al complesso del Vittoriano a Roma. Franco Marini, presidente del comitato per gli anniversari spiega il senso della sede scelta"Per me era inevitabile partire dal Vittoriano, dove c'è il Milite Ignoto", ha detto Marini. L'evento del Vittoriano, però, non esaurisce le celebrazioni, che andranno avanti anche nei prossimi anni fino al 2018. La mostra grazie a foto, filmati storici e documenti originali propone un percorso attraverso quegli anni drammatici, sfruttando anche le opere dei futuristi Balla e Marinetti e contributi sonori di alcuni dei protagonisti di quelle vicende, da Cadorna a Diaz.

«Un’ occasione importante per riflettere sulla storia nazionale e sulla costruzione della nostra identità europea», fa notare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti presentando le iniziative del governo insieme con Franco Marini, a capo del comitato scientifico per gli anniversari di interesse nazionale. Lotti ricorda che l’avvio delle celebrazioni coincide con il semestre di presidenza italiana ormai alle porte (1 luglio 2014) «Siamo dunque, nel nostro paese e fuori di esso, chiamati al dovere della conoscenza - dice - del ricordo dei fatti e dei tanti caduti, ma siamo anche chiamati a svolgere un ruolo non secondario sullo scenario internazionale». Da qui la decisione di partire dal Vittoriano, «monumento simbolo della nostra storia e della nostra identità» e con una rassegna, ribadisce accanto a lui Marini, che si presenta come «il primo atto di questo `fare memoria´ dell’intera nazione».

Iniziative e progetti non mancano, con finanziamenti pubblici che prevedono già per il 2014, anticipa Lotti, 1,5 milioni di euro destinati dalla finanziaria a iniziative culturali e 8 milioni per i restauri di sacrari e musei. Obiettivo, costruire un «grande percorso storico, culturale , espositivo e territoriale destinato a confluire nel Memoriale virtuale della Grande Guerra», non un nuovo luogo fisico, ma una sorta di “portale dei portali” che conservi la memoria anche per le generazioni future.

Intanto, il 21 giugno, si partecipa alla Sarajevo Heart of Europe, la settimana internazionale dedicata alle Commemorazioni, con un concerto dell’Orchestra di Piazza Vittorio. Il 6 luglio in Friuli (trasmesso in diretta su RaiUno) è invece di scena Riccardo Muti, che a Redipuglia, in ricordo di tutte le vittime della guerra, dirige il Requiem di Verdi alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di altri capi di Stato. Il 27 luglio, un giorno prima che scocchino i cento anni esatti dallo scoppio della guerra, sull’ Altopiano di Folgaria in Trentino, è la volta di Paolo Fresu che suonerà “Il Silenzio” in staffetta con altri trombettisti delle altre nazioni coinvolte dal conflitto sparsi in diversi luoghi d’Europa. Ma non solo. Mentre le soprintendenze sono impegnate per individuare ’’100 monumenti’’ da valorizzare, si lavora al restauro e recupero dei luoghi teatro del conflitto, nonché alla creazione o al riallestimento di spazi museali. In tutto nove gli interventi di restauro previsti di concerto con il ministero della Difesa per sei Sacrari in Italia (RediPuglia, Cima Grappa, Asiago, Montello, Caduti d’Oltremarie, Oslavia) e tre cimiteri militari italiani all’estero (Bligny in Francia, Mathausen in Austria, Caporetto in Slovenia). Un “sentiero della pace” al quale stanno lavorando Ministero della Difesa, Istituto Geografico Militare, Associazione Nazionale Alpini e Cnr permetterà poi una ricognizione globale dei luoghi della memoria.