domenica 8 novembre 2020

Fondi europei servono obiettivi limpidi





La Commissione ha dato indicazioni di metodo chiare per i prossimi mesi e anni. Sono limiti di indirizzo che non impediscono a un governo di portare l'obiettivo della giustizia sociale sullo stesso piano di quello della giustizia ambientale.

Gli investimenti nel contesto del RRF sono una spesa per un'attività, un progetto o un'altra azione che dovrebbe portare risultati positivi alla società, nell'ambito del RRF. Il regolamento RRF mira a promuovere misure che, se adottate ora, avrebbero un impatto duraturo sull'economia e sulla società (resilienza), in tutti i suoi aspetti, compresa la sostenibilità (inverdimento), la competitività a lungo termine (transizione digitale) e l'occupazione (Articolo 4 e articolo 16, paragrafo 3, lettera c), della proposta di regolamento RRF). Il regolamento proposto è pertanto coerente con un ampio concetto di investimento come formazione di capitale in settori quali capitale fisso, capitale umano e capitale naturale.

I vertici politici e tecnici della Commissione Europea hanno parlato con forza e in relativa sintonia sulle priorità della nostra Unione e sull'uso della Recovery and Resilience Facility (RRF), la punta di diamante della strategia “Nuova Generazione UE”.  E' bene che l'Italia presti forte attenzione cogliendo novità, opportunità e punti deboli. Ci serve per disegnare con intelligenza il Piano italiano, perché esso risponda alle aspirazioni e alle necessità di ridisegno dei piani di vita di milioni di noi Italiani. Il Discorso sullo Stato dell'Unione della Presidente Ursula von der Leyen rompe la tradizione della non-politica degli ultimi anni. Coglie i dolori, i fremiti e il desiderio di certezze di 450 milioni di Europei e con un linguaggio robusto prende impegni chiari: su hub europeo della salute, trasformazione verde e digitale, idrogeno, salario minimo, razzismo. Non mette al centro disuguaglianze e giustizia sociale, ma ne tiene conto nella strategia sul fronte digitale. Coglie, infine, solo parzialmente le esperienze e le nuove strade che vengono da migliaia di pratiche sociali e comunitarie nei territori di tutta Europa.


Questi tratti sono riflessi nei documenti prodotti dalla Commissione per indirizzare l'uso della RRF (Bozza di Regolamento, Guida per i Piani di ripresa e resilienza, Strategia annuale per lo sviluppo sostenibile 2021). La debolezza di attenzione alla missione sociale e alla dimensione territoriale viene qui significativamente temperata sul piano giuridico dall'individuazione della coesione economica, sociale e territoriale come obiettivo generale. E soprattutto questi documenti fissano un metodo di utilizzo della RRF che apre speranze e opportunità. Per tre ragioni: rendono chiaro che non dai progetti bisogna partire, ma da strategie che, unendo investimenti e riforme, identifichino obiettivi motivati, espressi in termini di risultati attesi, cadenzati e monitorati nel tempo; mettono un forte accento sulle condizioni istituzionali e di contesto necessarie per fare accadere davvero le cose: confermano che la Commissione sarà assai più presente che in passato nell'accompagnare e valutare tutto ciò. Vediamo in dettaglio, partendo dalle priorità strategiche.

Sulla transizione energetica si esprime tutta la forza e la concretezza di un mandato politico coeso, un'opportunità che ci invita e obbliga a obiettivi ambiziosi. Non così sul fronte sociale. Pesa il (dichiarato) continuismo con l'impianto tradizionale del “Semestre Europeo”. Nello specificare i 4 “key principles” – sostenibilità ambientale, produttività e trasformazione digitale, equità e stabilità macro – la declinazione di equità in “fairness” si concretizza nel riferimento alle opportunità di accesso al lavoro e allo spostamento delle tasse dal lavoro ad altri cespiti, ma resta debole nelle opportunità di accesso a servizi di qualità. La “coesione economica, sociale e territoriale”, nel muovere verso gli obiettivi concreti, scivola progressivamente a comprimario di secondo piano. E soprattutto il principio sociale evapora quando si tratta di indicare i 7 “obiettivi primari” a cui mirare – in ambito ambiente, digitale e istruzione – visto che persino nel descrivere l'istruzione il solo divario preso in considerazione è quello digitale.

Nel dettagliare, poi, gli obiettivi sul fronte digitale il testo tecnico fa un passo indietro rispetto allo stesso discorso della Presidente. Assieme al Cloud Europeo e alla copertura digitale delle aree rurali, Ursula von der Layen ha posto l'obiettivo di assicurare un uso controllato e regolato degli algoritmi: non solo, dunque, sovranità nazionale sul digitale … ma “sovranità popolare”. E invece, anche negli “obiettivi primari” tutto pare risolversi con la “digitalizzazione” - “digital” prende il posto di “smart” come parola ammiccante, che può coprire ogni cosa - senza guardare ai suoi effetti sulla qualità di vita delle persone. Un obiettivo che invece deve essere centrale nel Piano italiano.


Sono limiti di indirizzo che non impediscono a un governo “progressista” di portare l'obiettivo della giustizia sociale sullo stesso piano di quello della giustizia ambientale, anche come metro ultimo di ogni trasformazione digitale. E di farlo avendo davanti l'articolo 3 della Costituzione che assegna alla “Repubblica” il compito di “rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana”, ossia a quella libertà sostanziale che è la più avanzata definizione di giustizia sociale. E, nel farlo, si ricordi che quei due obiettivi sono la condizione anche per una ripresa della produttività: obiettivo importante per un paese dove - a causa delle stesse disuguaglianze – la produttività si è fermata da tempo e il cui incremento deve aiutarci a produrre le risorse con cui ripagare i debiti accumulati. E allora, su questa strada, arriva da Bruxelles la buona notizia. I materiali della Commissione disegnano un metodo di governo della RRF che ci può aiutare assai. Se sapremo applicarlo.

Sei sono le carte da giocare che leggiamo nei documenti. Primo: in ogni “componente” del Piano si supera la tradizionale segmentazione settoriale, combinandosi molteplici misure di riforma e di investimento che siano rivolte ad un comune obiettivo in termini di benessere collettivo; l'intero Piano dovrà essere coerente e complementare con le misure finanziate da altre risorse comunitarie. Secondo: la rendicontazione non dovrà riguardare solo la spesa – con riguardo a costi stimati “ragionevoli” – ma realizzazioni e risultati attesi e loro tappe di attuazione (rivedibili in modo motivato); è una svolta per l'Italia, visto che i pagamenti bi-annuali verranno effettuati in relazione alle “prove dei progressi compiuti” a ogni tappa. Terzo: viene data forte enfasi alle condizioni di contesto necessarie per assicurare attuazione ed efficacia; e fra le raccomandazioni fatte all'Italia nel 2019 e 2020, accanto a requisiti da lasciare nel passato – come ulteriori flessibilità nel lavoro! – spicca il rinnovamento della PA, condizione di quella “capacità amministrativa” che la Commissione torna ora a chiederci di dimostrare. Quarto: la democraticità del processo decisionale; nel Piano dovrà essere indicato come i partner sociali e le organizzazioni della cittadinanza attiva, da un lato, e il Parlamento e le istituzioni regionali o locali “hanno contribuito al disegno del Piano” stesso. Quinto: presidio unitario del disegno strategico e responsabilità dell'attuazione; il Piano deve fare capo a un unico soggetto coordinatore con forti poteri e documentata capacità di svolgere tale funzione, mentre la responsabilità di attuare le singole componenti può essere assegnata a singole “entità responsabili”. Sesto: forte presidio tecnico e politico da parte della Commissione; essa presidierà il lavoro di programmazione e attuazione di ogni paese per mezzo di una Task Force articolata per paesi che, pur prevedendo un ruolo della Direzione finanziaria – dove si concentra il continuum culturale col passato - farà capo direttamente alla Presidente della Commissione.

Si tratta di indicazioni chiare di metodo per il lavoro dell'Italia tutta nelle prossime settimane e mesi. Lo schieramento di forze della Commissione ci dice che al suo filtro non passerebbe certo un Piano che fosse palesemente frutto di una macedonia di progetti priva di strategia e obiettivi chiari e condivisi o che non indicasse un radicale rinnovamento degli strumenti attuativi. Sono indicazioni che si sposano e valorizzano ciò che il ForumDD lo scorso 24 luglio ha proposto al Governo e a tutto il paese in un suo Documento. Assieme ne escono chiare raccomandazioni al Governo, a Regioni e Comuni e all'intero partenariato. Che così riassumiamo:

 Completare la rimozione dal tavolo di lavoro della massa di progetti che il Governo ha raccolto nella sua “falsa partenza” per ripartire dall'individuazione di obiettivi prioritari, proseguendo nella strada di ravvedimento intrapresa con le Linee Guida italiane da poco prodotte. Nel farlo, tenere conto dei contributi strategici che il ForumDD e molte altre alleanze sociali e centri di competenza hanno messo e stanno mettendo sul tavolo. Alcuni esempi di cosa intendiamo per “obiettivi”: Abbattere la povertà educativa; Assicurare a tutti una cura socio-sanitaria di prossimità; Prevenire e renderci resilienti alle catastrofi naturali; Superare emergenza, sovraffollamento e degrado abitativo; Aprire alle PMI l'accesso all'innovazione tecnologica; Orientare la trasformazione digitale alla giustizia sociale, garantendo la sovranità popolare; Accelerare la transizione energetica, prima di tutto a favore dei più vulnerabili; Assicurare a tutti una mobilità flessibile e sostenibile; Adattare gli spazi collettivi aperti e chiusi alle nuove esigenze. Fatto questo passo, i progetti sin qui raccolti potranno essere riconsiderati insieme a molti altri, ma solo in relazione alle priorità e obiettivi stabiliti.

Dare unitarietà effettiva al governo del Piano coinvolgendo tutte le risorse umane del centro competenti nella programmazione comunitaria e aprire un dialogo quotidiano, con Regioni e Comuni.

Le norme sugli aiuti di Stato si applicano  pienamente le norme sugli aiuti di Stato. Nel preparare e attuare i propri piani di risanamento e di resilienza e proporre riforme e investimenti, gli Stati membri devono tenere debitamente conto dell'articolo 107 TFUE e del quadro degli aiuti di Stato e delle sue restrizioni. I fondi dell'UE erogati attraverso le autorità degli Stati membri diventano risorse statali e possono costituire aiuti di Stato se tutti gli altri criteri dell'articolo 107 sono soddisfatti. Come regola generale, gli aiuti di Stato devono essere notificati e autorizzati dalla Commissione prima di essere concessi. Il regolamento generale di esenzione per categoria (regolamento (UE) n. 651/2014) esonera gli Stati membri da questo obbligo di notifica, purché siano soddisfatti tutti i criteri del regolamento generale di esenzione per categoria. Quando i finanziamenti dell'Unione sono combinati con aiuti di Stato, solo questi ultimi saranno presi in considerazione per determinare se le soglie di notifica e le intensità massime di aiuto sono rispettate o, nel contesto di questo quadro, soggetti a una valutazione di compatibilità (articolo 8 del regolamento generale di esenzione per categoria). Per un sostegno che non soddisfa questi criteri, gli Stati membri devono notificare i loro regimi alla Commissione (DG Concorrenza) che valuterà se soddisfano le condizioni di cui all'articolo 110 TFUE e, in tal caso, li dichiara compatibili con il mercato. 




martedì 12 maggio 2020

Baarle Nassau, il borgo che taglia coronavirus (e doveri) in due





Passare da una stanza all’altra e varcare il confine, dormire nello stesso letto eppure essere in due paesi diversi: per gli abitanti della cittadina di Baarle-Nassau è la normalità. L’anomalia geografia deriva da una lunga tradizione di contese interne, che risalgono fin dal medioevo, fra due case aristocratiche: Baarle-Nassau era di proprietà della casata belga Naussau, ma al suo interno un pezzo di terra, la cosiddetta Baaler-Hertog, era in mano al duca olandese di Brabant. 

La più strana e complicata enclave europea è quella di Baarle-Hertog. Un insieme di pezzetti di territorio belga, immersi nel territorio olandese, vicino al confine fra i due Paesi. Essi formano un mosaico, ed hanno delle particolarità molto strane. 

Questa strana situazione è presente fin dal lontano 1479 nella cittadina di Baarle, che è suddivisa fra Hertog, in Belgio, e Nassau, in Olanda. La cittadina è percorsa da strade e piazze, come in tutti i centri abitati, ma queste strade sono talvolta tagliate dal confine, o per lungo o trasversalmente. Se il confine corre lungo la mezzeria, di qua abbiamo abitazioni belghe e di là case appartenenti ai Paesi Bassi. Si passa da uno Stato all'altro, e il cambiamento di sovranità del suolo calpestato dall'ignaro visitatore può avvenire molte volte durante una breve passeggiata.

La quarantena imposta dal Governo di Bruxelles ma non da quello dell’Aja ha evidenziato un confine che fino ad oggi era ininfluente sulla vita dei cittadini.

Potreste provare un senso di pena, oppure di rabbia, tristezza e compassione o, perché no, di invidia.

Se vi sentite così prendete il treno, l’aereo o la macchina e raggiungete Baarle-Nassau, una cittadina dei Paesi Bassi che conta 6.701 anime, nella provincia del Brabante settentrionale. Al suo interno si trova l’exclave belga di Baarle-Hertog, che a sua volta circonda diversi territori olandesi. Insomma, un labirinto.

Come dite? Le restrizioni del Governo vi obbligano a stare a casa e non potete neppure portare fuori il cane perché non lo avete? Allora accontentatevi di provare pena, rabbia o invidia per chi, al confine del confine tra Olanda e Belgio, si trova a fare i conti con due pesi e due misure indotte dal coronavirus, anche se vive spesso sotto lo stesso tetto.

Non è un modo di dire. La regola generale a Baarle-Nassau è che se il portone si trova esattamente sulla linea di confine è l’inquilino a decidere dove registrare il proprio domicilio: Paesi Bassi o Belgio.

È accaduto però in questo borgo, che i cittadini si siano trovati di fronte al dilemma di una casa costruita a cavallo del confine: come ristrutturare la casa al suo interno e rifare l’intonaco esterno se il solo ingresso ricade in territorio olandese? Le leggi dei Paesi Bassi sono molto più restrittive di quelle belghe. E allora come si fa? Semplice, apro una seconda porta ingresso sul suolo belga, dove le normative sono più permissive. Et voilà: casa riverniciata e architettura rivista.

Certo, direte voi: vallo a fare con le strade o sul suolo pubblico tagliato a metà da un confine che zigzagando taglia edifici, piazze e mercati e sarebbe invisibile se non fosse per quelle mattonelle che da un lato sono affiancate dalla lettera “B” (Belgio ) e dall’altra dal dittongo “Nl” (Paesi Bassi)? E difatti accade che asfaltare le strade diventi un problema, da risolvere con l’armonia e il buon senso. I sindaci – ovviamente – sono due ma decidono di comune accordo le questioni che riguardano viabilità, illuminazione e fognatura.

Ora, accade che a dividere in due questo villaggio perfettamente bilingue e dove la maggior parte dei cittadini è dotato di doppio passaporto e vive pacifica e serena  intervenga la quarantena imposta dal Governo di Bruxelles. Limitazioni per le uscite e attività commerciali, birrerie e negozi chiusi.

Peccato che quelli a un passo dalle mattonelle di confine, nel territorio olandese, restino (almeno per il momento) aperti. L’età legale per bere alcoolici è 18 anni nei Paesi Bassi e 16 in Belgio.

Non solo. Per evitare di trovarsi a fare i conti con i pendolari della benzina – in Belgio il carburante costa meno che nei Paesi Bassi – è fatto divieto agli olandesi di rifornirsi nelle stazioni “dall’altra parte” del confine. La sanzione per gli olandesi che non rispettano le regole va dai 350 ai 4mila euro.

I controlli di fatto sono inesistenti (la convivenza pacifica tollera molte distrazioni) ed un giornalista olandese della testata Omroep Brabant lo ha provato sul campo. Questa anomalia geografica è il frutto di conflitti – risalenti al Medioevo – tra dinastie aristocratiche. Baarle-Nassau era di proprietà della casata belga Breda-Naussau ma al suo interno Baaler-Hertog, era di proprietà del duca olandese di Brabant. Il Belgio ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1831 ma i confini non sono stati definiti prima del 1995.

Nel 1959 la Corte di Giustizia dell’Aia ha confermato la sovranità del Belgio su quelle porziuncole in territorio olandese che occupano circa otto chilometri quadrati, sanando così il contenzioso fra i due Paesi confinanti. 

Al turista (prima dell’emergenza da coronavirus) tutto ciò non interessava e, come del resto i residenti, saltella indifferentemente da una parte all’altra. Si rende conto dell’esistenza dei due Stati se fa caso alle differenze tra i bus, le cabine telefoniche (di fatto sparite con l’avvento della telefonia mobile), gli uffici postali o se presta, chissà perché, attenzione alle targhe dei veicoli.

venerdì 27 marzo 2020

Coronavirus, Mario Draghi al Financial Times: il debito pubblico è l’unica leva che i governi hanno per gestire



Draghi, ex presidente della Banca centrale europea non usa mezzi termini: «Ci troviamo di fronte a una guerra contro il coronavirus e dobbiamo muoverci di conseguenza»: la sfida è «come agire con sufficiente forza e velocità per prevenire che una recessione si trasformi in una prolungata depressione, resa ancora peggiore da una pletora di default che lasciano danni irreversibili».

«È già chiaro che la risposta» alla guerra contro il coronavirus «deve coinvolgere un significativo aumento del debito pubblico» afferma Draghi. «La perdita di reddito del settore privato - scrive l’ex presidente della Bce sul Financial Times – dovrà essere eventualmente assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci dei governi. Livelli di debito pubblico più alti diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnata da una cancellazione del debito privato».

Per Draghi «di fronte a circostanze non previste un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di chi la soffre. Il costo dell'esitazione potrebbe essere irreversibile. La memoria delle sofferenze degli europei negli anni 20 del ’900 sono un ammonimento».

«La velocità del deterioramento dei bilanci privati, causata da uno shutdown che è inevitabile e opportuno» deve incontrare «un'uguale velocità nel dispiegare i bilanci dei governi, mobilitare le banche e, come europei, sostenerci uno con l'altro in quella che è evidentemente una causa comune», aggiunge Draghi definendo «coraggiose e necessarie» le misure prese dai governi per prevenire che il sistema sanitario sia sopraffatto.

Si tratta di azioni che «vanno sostenute» anche se comportano un «alto e inevitabile costo economico. Giorno dopo giorno le notizie economiche peggiorano». Nel suo intervento Draghi sottolinea: «È l'appropriato ruolo dello stato quello di dispiegare il suo bilancio per proteggere i cittadini e l'economia contro shock di cui il settore privato non è responsabile e non può assorbire», aggiunge Draghi mettendo in evidenza che le «guerre sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Draghi ricorda anche che tutte "guerre sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale in Italia e in Germania fra il 6 e il 15 per cento delle spese di guerra in termini reali sono state finanziate con le tasse". E conclude affrontando il ruolo della Ue in questa guerra. "L'Europa è ben equipaggiata" per affrontare questo "shock straordinario. Ha una struttura finanziaria capace di far confluire fondi in ogni parte dell'economia. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta rapida". Per l'ex presidente della Bce, proprio "la velocità è essenziale per l'efficacia della risposta".

È ancora il concetto di rapidità quello che evoca l’ex presidente della Bce. Sotto diversi punti di vista «l'Europa è ben equipaggiata» per affrontare questo «shock straordinario. Ha una struttura finanziaria capace di far confluire fondi in ogni parte dell'economia. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta rapida. La velocità è essenziale per l'efficacia» della risposta al coronavirus.

Agire subito per evitare depressione. Le parole che l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha usato dalle colonne del «Financial Times» non lasciano molti margini di interpretazione: il debito pubblico è l’unica leva che i governi hanno per gestire le fasi di guerra.

È il segno di un’emergenza che ha bisogno di pensiero nuovo per essere affrontata, perché il congelamento di una parte consistente delle attività economiche, in un sistema fortemente intrecciato, come quello europeo, non può essere gestito se non in modo condiviso. Nelle guerre conta la linea di comando, la linea che porta gli ordini e le decisioni fino all’ultimo reparto. In questo caso è decisivo il modo nel quale le garanzie pubbliche ai finanziamenti, gli aiuti e i sostegni al reddito, l’utilizzo delle risorse pubbliche, in grado di garantire che la liquidità non si fermi, funzionino. Uno sforzo enorme per le burocrazie, quella nazionale e quella europea, che dovranno fare in pochi giorni quello che di solito sono abituati a realizzare nell’arco di qualche mese. Visione e velocità, come Draghi riuscì a fare otto anni fa.



martedì 24 marzo 2020

Emergenza in Russia: tra disinformazione e crisi



Un dossier di 9 pagine, rivelato dal Financial Times, avverte: è in corso un’operazione di disinformazione su Internet. Dispiegati gli stessi account usati durante la Brexit.

Nove pagine. Per provare a districarsi tra migliaia di messaggi e notizie sparsi su Internet che vogliono diffondere «confusione, panico, paura» legati al Covid-19. L’Unione Europea è convinta che la Russia stia mettendo in campo le stesse armi digitali già dispiegate durante le campagne di disinformazione attorno a referendum sulla Brexit britannica, alle rivolte dei gilet gialli in Francia o per la sistematica diffamazione dei Caschi Bianchi in Siria, il gruppo di pronto soccorso creato nelle aree controllate dai ribelli (Mosca è intervenuta militarmente in sostegno del regime di Bashar Assad).

Il dossier – redatto dal Servizio europeo per l’azione esterna, è stato rivelato dal quotidiano Financial Times – illustra i tentativi di sfruttare le reazioni dei cittadini europei alla pandemia: «L’obiettivo globale del Cremlino è quello di aggravare la crisi nei Paesi occidentali minando la fiducia nel sistema sanitario nazionale e ostacolando così una risposta efficace all’emergenza». Implicati nella disinformatia sarebbero gli stessi account (legati alla struttura statale russa) già usati in altre operazioni: dal 22 gennaio pubblicano messaggi in italiano, inglese, spagnolo, tedesco, francese.

Petrolio in calo, coronavirus, fuga dal rublo: Vladimir Putin sembra avere più conflitti al suo interno. Dal 2014 a oggi, sotto il peso delle sanzioni internazionali e ricordando la crisi finanziaria del 2008, le autorità russe hanno accumulato risorse per i giorni difficili, costruendo una fortezza che rendesse il Paese impermeabile ai fattori esterni. Le riserve della Banca centrale hanno così superato i 570 miliardi di dollari, quarto posto nel mondo; mentre il Fondo di riserva nazionale - alimentato dai guadagni del petrolio - si appoggia su liquidità di 170 miliardi. Davanti a queste cifre, e a un debito estero tra i più bassi al mondo, gli investitori stranieri erano tornati.

Putin contava di attingere a tutto questo per rimediare almeno in parte agli squilibri sociali, per rilanciare la crescita con grandi progetti infrastrutturali e rinvigorire la propria popolarità. Improvvisamente, però, le ragioni per mettere mano al tesoro di casa si sono moltiplicate, tutte nello stesso tempo. C’è bisogno di soldi per sostenere il rublo e tenere a bada l’inflazione, per affrontare l’emergenza sanitaria e attutire l’impatto sui conti pubblici di un petrolio sotto i 30 dollari al barile; senza contare la fuga dei capitali, di nuovo spaventati, e gli interventi a sostegno di famiglie e imprese nella crisi che rischia di scatenarsi. Per un presidente che sta per mettere ai voti l’idea di restare al Cremlino a tempo indeterminato, la tempesta non poteva arrivare in un momento peggiore.

Putin, il suo governo e la Banca centrale russa ostentano sicurezza, nel nome di una stabilità finanziaria che non considerano in pericolo: né possono permettere che sia messa a rischio quella politica, incarnata dal presidente. Le risorse raccolte in questi anni consentono di far fronte a un prezzo del petrolio a 25/30 dollari il barile per 6/10 anni, dice il ministro delle Finanze, Anton Siluanov. Prezzi così bassi non fanno certo piacere, ammette il portavoce del presidente, Dmitrij Peskov, ma non sono catastrofici: la Russia è in grado di reggere l’impatto. È tutto sotto controllo, ripete Putin. Al punto, scrive l’agenzia Bloomberg, che il presidente russo non ha alcuna intenzione di cedere per primo nella sfida ingaggiata con i sauditi, a chi resiste di più con il petrolio così basso.

«La situazione è cambiata drammaticamente, nell’economia globale, sui mercati delle commodities e su quelli finanziari», ha riconosciuto Elvira Nabiullina, presidente della Banca centrale e ha spiegato la decisione di lasciare invariati al 6% i tassi di interesse. L’incertezza è evidenziata dalla scelta «rara» tra le opzioni considerate dal consiglio di Bank Rossii: abbassare i tassi, alzarli o lasciarli invariati. Diversamente dalle banche centrali di mezzo mondo, infatti, alla minaccia di un rallentamento dell’economia, la Russia unisce la necessità di proteggere il rublo, bersagliato dal calo del petrolio: a marzo, la moneta ha già perso il 19%. Nelle ultime settimane, per sostenerlo, la Banca centrale aveva così ripreso le vendite di valuta estera, per incoraggiare invece l’attività economica, Nabiullina ha annunciato un pacchetto di iniziative a sostegno delle piccole e medie imprese, con la possibilità di accedere a prestiti agevolati a un tasso del 4%.



domenica 23 febbraio 2020

Voto storico in Irlanda



Venti di rivoluzione in Irlanda, secondo gli exit poll delle elezioni anticipate di ieri. La sinistra nazionalista del Sinn Fein, paladina dei sogni di riunificazione con l'Ulster, alimentati anche dai possibili contraccolpi della Brexit sul grande vicino britannico, è per la prima volta in corsa per il traguardo di primo partito della Repubblica da un secolo: e, anche se la maggioranza assoluta resta fuori portata e non potrà andare al governo, appare in grado di condizionare l'agenda futura del Paese.

Lo scrutinio è iniziato stamani, procede a rilento e si concluderà non prima di lunedì, ma gli exit diffusi dalla tv pubblica Rte indicano un testa a testa all'ultima scheda. Con il Sinn Fein di Mary Lou McDonald - la leader 50enne subentrata a Gerry Adams e protagonista del cambio generazionale che ha portato quello che fu il braccio politico della guerriglia dell'Ira da forza di riferimento della trincea repubblicana nel solo Ulster a partito competitivo pure a Dublino - che avanza al 22,3%. E i due partitoni filo-Ue di centro-destra che da sempre si contendono il potere nell'isola, il Fine Gael del premier uscente Leo Varadkar (Ppe), il più giovane nella storia irlandese, oltre che il primo gay dichiarato e figlio di padre immigrato, e il Fianna Fail di Micheal Martin (liberali), rispettivamente al 22,4 e al 22,2%.

Dato il margine di errore, si tratta di una parità virtuale che i risultati reali potrebbero far oscillare. Mentre resta da decidere l'assegnazione dei seggi secondo un complicato sistema proporzionale trasferibile (con indicazione delle seconde e terze preferenze) destinato alla fine a lasciare comunque spazio a una coalizione fra Fianna Fail e Fine Gael (che in campagna elettorale hanno escluso accordi con il partito della McDonald) o un governo retto dalla stampella di gruppi minori come i Verdi e i Laburisti.

Ma il Sinn Fein (in gaelico Noi Stessi), pur avendo presentato solo 42 candidati a fronte degli 80 seggi necessari per la maggioranza assoluta, sarà comunque il vincitore morale: ovvero, la risposta di una parte non piccola d'irlandesi sia alla sfida della Brexit, sia soprattutto ai problemi sociali. Un partito la cui ascesa rompe un tabù sull'isola verde, quello dei vecchi legami con la disciolta Ira e la lotta armata durante la sanguinosa stagione dei 'troubles', a oltre 20 anni dall'accordo di pace del Venerdì santo. E mette quanto meno sul tavolo del confronto una piattaforma radicale che invoca un referendum sulla riunificazione entro 5 anni, problematico e ad alto rischio di conflitto, ma meno aleatorio del passato sullo sfondo dei potenziali effetti sull'Irlanda del Nord del divorzio del Regno Unito dall'Ue; nonché un programma economico e sui diritti civili di sinistra-sinistra, ispirato agli spagnoli di Podemos o a Jeremy Corbyn su dossier quali la spesa pubblica, la sanità, l'edilizia popolare.

Nuova lega anseatica coalizione anti brexit



La Lega anseatica (nota come Hansa, termine germanico usato nel senso di “raggruppamento”) fu un’alleanza commerciale fondata nel XII secolo (tardo Medioevo), tra mercanti dell’Europa settentrionale.

L’alleanza aveva sedi in numerose città che si affacciavano sul mare del Nord e sul mar Baltico. Ne facevano parte Lubecca, Colonia, Brema e Amburgo in Germania; Stettino e Danzica in Polonia; Stoccolma e Visby in Svezia; Riga, Tallinn e Tartu in Lettonia ed Estonia; Novgorod in Russia e molte altre città. La sede principale dell’Hansa fu Lubecca.

Grazie alle navi appartenenti ai mercanti dell’Hansa, un’infinità di prodotti di diversa provenienza raggiungeva tutte le città dell’alleanza, originando enormi profitti commerciali. Nelle città anseatiche questa ricchezza favorì inoltre lo sviluppo di fiorenti attività artigianali.

Un nuovo soggetto politico si aggira per l’Europa da quasi due anni, nato dalle ceneri di Brexit e desideroso di far sentire forte la propria voce. È la cosiddetta Nuova lega anseatica, una coalizione tra Olanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Lituania, Lettonia, Estonia e Irlanda che - ispirandosi ai fasti dell’alleanza tra città dell’Europa settentrionale e del Baltico che dominò il commercio tra il tardo Medio Evo e il XVI secolo – punta a difendere gli interessi, anche commerciali, dei suoi membri. E a improntare le riforme dell’Eurozona, come suggerisce il logo: uno stemma medievale dove, insieme alle bandiere, compare il simbolo dell’euro.

Promotore del progetto l’Olanda, chiare sin dal documento costitutivo – una lettera dei ministri delle Finanze del febbraio 2018 - le intenzioni: richiamare l’Eurozona prima di tutto al rispetto delle regole di bilancio e spingere perché si concentri sul completamento delle riforme già avviate (dall’unione bancaria al mercato unico) piuttosto che su un ulteriore trasferimento di competenze.

In questa presa di posizione, come sottolinea Greg Lewicki, PhD e autore per il Polish Economic Institute dello studio “Hansa 2.0. Un ritorno all’Età dell’oro del commercio?”, c’è prima di tutto un messaggio alla Francia di Macron «che cerca di attuare una fuga in avanti, allo scopo di contrapporre successi internazionali a una grave instabilità interna, evidenziata dalla protesta dei Gilets gialli. Di qui l’idea di un budget separato per la Francia e gli altri Paesi dell’Eurozona». Non sorprende perciò il fatto che proprio con Parigi si siano già verificati contrasti vivaci, con il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire che, ricevendo nel novembre scorso il suo omologo olandese Wopke Hoekstra, definì la Lega anseatica 2.0 un «club chiuso» che minacciava l’unità europea.

Diverso il rapporto con la Germania, più vicina al conservatorismo rigorista in materia di conti pubblici di questi Paesi e per la quale, come sottolinea ancora Lewicki, l’alleanza è «un utile strumento per controbilanciare le idee francesi che non piacciono alle élite tedesche. Anche se nessuno probabilmente lo ammetterebbe ufficialmente».

Illustrando le relazioni della Nuova lega anseatica con Francia e Germania, un’altra considerazione si impone. Nelle prese di posizione di questi Paesi ci sono i timori innescati dalla grave crisi del debito che l’Europa ha dovuto affrontare, ma il primo motore appare senza dubbio Brexit, con la perdita di un alleato chiave e campione del liberismo come la Gran Bretagna. «È fondamentale notare – evidenzia Lewicki – che, nei negoziati su questioni economiche, il sistema europeo funzionava come uno spinner, un meccanismo imperniato su tre poli rappresentati da Francia, Germania e Regno Unito. Ma il Regno Unito è quasi uscito. Perciò l’Olanda e i suoi alleati vogliono presentarsi come l’equivalente funzionale di Londra, un gruppo con obiettivi ben definiti in grado di bilanciare, collettivamente, l’approccio franco-tedesco».

La Nuova lega anseatica finirà dunque per indebolire il progetto europeo, come denunciano i francesi? Per Greg Lewicki è il contrario: «Credo che senza idee come quelle di questi Paesi siamo condannati. In passato la diversità all’interno di una stessa civiltà era un vantaggio, ma oggi la tendenza è opposta: la diversità politica significa con tutta probabilità confini e i confini significano che l’impatto a livello globale viene limitato. La Lega anseatica ci dà la vaga speranza che l’Europa un giorno sarà capace di competere economicamente a livello globale».

La Nuova lega anseatica è una delle tante manifestazioni di quella che lo studio del Polish Economic Institute definisce la “nuova medievalizzazione dell’Europa”, fondata su «strutture a più livelli e multipolari, le corporazioni, e altre reti internazionali che oltrepassano i confini». «Come una volta una miriade di gilde e associazioni prosperavano sotto le insegne della Cristianità – conclude Lewicki – oggi, sotto la bandiera dell’Unione europea, vediamo l’emergere di numerose iniziative locali e finalizzate all’obiettivo , come la Nuova lega anseatica o l’Iniziativa dei Tre Mari (l’unione di 12 Paesi Ue per contrastare la minaccia russa lanciata nel 2015, ndr)».

Ma ciò che li accomuna è chiaro: sono i falchi fiscali d’Europa. Liberisti fino al midollo. Araldi del pari in bilancio. Nemici giurati dell’interventismo e del gigantismo statale. Contrari a stanziare soldi dei propri contribuenti per soccorrere Stati membri in difficoltà. Basti ricordare che nel 2011 la Finlandia chiese l’Acropoli e le isole egee a titolo di garanzia per sottrarre la Grecia alla bancarotta. Aggiunge al tutto una punta d’ironia l’adesione al club dell’Irlanda, uscita nel 2013 proprio da tre anni di programma di salvataggio.

Per sincerarsi degli orientamenti ideologici è sufficiente scorrere uno dei documenti prodotti di recente: «La prima linea di difesa dovrà sempre essere al livello nazionale, sotto forma di politiche fiscali prudenti nel rispetto del Patto di stabilità e crescita e di decise riforme strutturali che rafforzino l’economia in generale e le finanze pubbliche.

La coalizione possiede un preciso sostrato geopolitico. In formula: la nuova lega anseatica è una reazione all’addio del Regno Unito, un ostacolo ai piani della Francia e uno strumento utile alla Germania. Scomponiamo i tre fattori.

Il Brexit sta rimuovendo uno dei vertici del triangolo Berlino-Parigi-Londra attorno al quale si erano adagiati negli ultimi decenni i membri più piccoli dell’Ue, in particolare quelli settentrionali. Primi fra tutti i l’Olanda, centro geometrico di questa figura oggi sbilanciata.

L’Aia, per esempio, trovava conveniente mandare avanti Londra per chiedere un maggiore coinvolgimento decisionale dei parlamenti nazionali, una riduzione dei benefit per gli immigrati e un alleggerimento della burocrazia per le imprese.

Il bersaglio principale dei neoanseatici è Parigi. Più precisamente, un’Europa trainata da francesi e tedeschi. Ad Aquisgrana, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno voluto rinnovare il trattato dell’Eliseo per nascondere le reciproche debolezze dietro un’artificiosa unità d’intenti sull’Ue. Una sceneggiata. Ma che ha comunque adirato gli otto paesi, secondo i quali la Commissione europea ha esternalizzato il proprio ruolo di iniziativa a Francia e Germania.

Comprensibilmente, nessuno vuol vedersi recapitare decisioni già concordate in altre stanze. In particolare quelle avanzate dai transalpini, sempre ammantate di luccicanti ambizioni – vedi il ministro dell’Economia e delle Finanze Bruno Le Maire che vorrebbe fare un nouvel empire dell’Europa, con la Grande nation quale ovvia guida spirituale.

Così, la coalizione nordeuropea ha speso il 2018 a sabotare la proposta di Parigi di dotare l’Eurozona di un ministro delle Finanze e di un bilancio separato, da impiegare anche per aggiustare gli squilibri degli Stati che adottano la valuta comune. Finendo per farla deragliare del tutto: del ministro neanche l’ombra, il budget sarà una voce di quello generale dell’Ue e il capo delle Finanze olandesi Wopke Hoekstra ha fatto rimuovere dopo ore di estenuanti trattative con Le Maire ogni riferimento all’uso del bilancio a scopi di stabilizzazione, troppo in odore di pietismo mediterraneo.

La nuova lega anseatica si oppone ai progetti francesi di aumentare l’integrazione nell’Eurozona anche perché riconosce l’intento di Parigi di spostare più a sud-ovest, ossia verso di sé, il baricentro decisionale dell’Ue, ora coincidente con il cuore dello spazio germanico. Dando una veste geopolitica alla moneta comune, l’Esagono avrebbe potuto ergersi a campione dei membri mediterranei, Italia compresa, le cui casse hanno più bisogno di respirare. Aggiustando così a proprio favore gli sbilanciati rapporti di forza con la Germania.

Come evidente nel caso dell’Irlanda in cerca di alleati contro la tassa digitale che minaccia l’esodo delle tante multinazionali extraeuropee stanziate nell’isola. O ancora nella strenua opposizione alla riforma delle regole della competitività e della concorrenza avanzate, di nuovo, da francesi e tedeschi per creare dei campioni europei, cioè imprese dotate della taglia e della mentalità imprenditoriale per resistere ai concorrenti cinesi e americani.

Logico che i paesi piccoli siano contrari, poiché più hanno da perdere da un rilassamento delle regole sul monopolio – di cui non a caso è stata finora protettrice una commissaria danese, Margrethe Vestager.

Non s’intravedono molte concrete politiche comunitarie su cui questi Stati membri possano convergere con un approccio costruttivo. Sembra semmai accomunarli un orientamento ancora molto generico sul mantenere leggera l’Ue, sulla difesa della mano invisibile dell’economia dalle ingerenze delle burocrazie centrali e sull’approfondimento dei flussi commerciali (tutti intendono sviluppare digitalizzazione, mercato unico dei capitali, accordi di libero scambio).

Questo scenario è sempre presente nei piani d’emergenza tedeschi poiché risponde all’imperativo strategico, costante nella storia dei popoli germanici, di circondarsi di un’area in cui commerciare il surplus produttivo della nazione, pena il tracollo economico. Contrastare un simile sviluppo è prioritario per gli Stati Uniti, che da cento e due anni intervengono in Europa per scongiurare l’espansionismo dello spazio germanico o la sua conquista da parte di terzi.