mercoledì 25 febbraio 2009
Instabilità globalizzata: il momento del caos
Il presidente statunitense Bush nel suo discorso alla nazione, ormai sette anni fa, lanciò l'allarme sull' “asse del male” che rappresentava “una minaccia per la pace nel mondo”. Questo nuovo club esclusivo vantava tre membri di pimaria impotanza: Iran, Iraq e Corea del Nord. La cattiva notizia per il successore di Bush, Barack Obama, è che oggi si ritrova a fronteggiare un asse assai più esteso e forse anche più preoccupante: l'«asse del caos» globalizzato. Questo asse conta su almeno nove membri, se non di più. Ciò che li accomuna non è l'intento malvagio, quanto l'instabilità, aggravata ogni giorno che passa dalla crisi finanziaria globale. Sfortunatamente, la crisi stessa rende più difficile programmare una risposta americana davanti al nuovo pericolo.
L’instabilità globalizzzata è styata creata da fattori di per sé ..Il primo fattore è stato la disgregazione etnica: la violenza è stata infatti più intensa laddove ribollivano tensioni etniche incontrollabili. Il secondo va ricercato nell'instabilità economica: più grande la magnitudine degli scossoni economici, più probabile lo scoppio del conflitto. E il terzo fattore si annida nel declino degli imperi: il progressivo sgretolamento delle loro strutture ha portato a un inasprimento delle lotte per il potere politico. In almeno una regione del pianeta — il Medio Oriente — due di questi fattori sono presenti già da tempo: gli scontri etnici si susseguono da decenni e a seguito delle difficoltà e degli insuccessi riportati in Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti sembrano sul punto di ridimensionare la loro presenza quasi imperiale nella regione. Una ritirata che proseguirà anche sotto il mandato di Obama. La terza variabile, l'instabilità economica, si riaffaccia oggi sulla scena globale con maggior virulenza che in passato. Dopo quasi un decennio di crescita senza precedenti, si vedrà una sostanziale impennata della disoccupazione in gran parte delle economie nel corso di quest'anno, accompagnata da un doloroso calo dei redditi. E sofferenze economiche di tale portata quasi sempre scatenano conseguenze geopolitiche.
L'incessante anarchia che turba la Somalia, la nuova aggressività russa ed i disordini innescati in Messico dalle guerre tra narcotrafficanti. E siamo solo a tre esempi dei nove sopra menzionati. A Gaza, Israele ha lanciato un raid sanguinoso per indebolire Hamas. Ma qualunque siano i presunti risultati militari, di gran lunga superiore è stato il danno inflitto da Israele alla sua immagine internazionale con la morte di civili innocenti, che i miliziani di Hamas usano come scudi umani. Peggio ancora, le condizioni socioeconomiche a Gaza, già disastrose, oggi appaiono catastrofiche, circostanze che non contribuiranno affatto a rafforzare le posizioni moderate tra i palestinesi. Nel frattempo, l'Iran continua a spalleggiare tanto Hamas quanto la sua controparte sciita in Libano, Hezbollah, e va avanti con il programma di armamenti nucleari che gli israeliani vedono giustamente come minaccia alla loro stessa esistenza. Sul confine orientale dell'Iran, il generale David Petraeus, nuovo comandante in capo dell'esercito americano, oggi si dibatte con il problema molto spinoso di riportare la pace in Afghanistan. Il compito è reso più difficile dall'anarchia che regna nel vicino Pakistan. L'India, intanto, punta il dito contro alcuni vertici in Pakistan, accusandoli di aver organizzato gli attentati terroristici di Mumbai. E non dimentichiamo che le sciabole agitate da indiani e pakistani sono dotate di testate nucleari.
I governi democratici a Kabul e Islamabad sono i più deboli del pianeta. Tra i rischi maggiori che oggi minacciano il mondo c'è quello che uno di questi due Paesi si disintegri sotto crescenti ondate di violenza. La crisi economica AVRà un ruolo cruciale. La classe media pakistana è Già stata stata travolta dal crollo del mercato azionario. Nel frattempo, buona parte dell'immensa popolazione maschile rischia di perdere il lavoro. Non è questo il modo per assicurare la stabilità politica. Il nostro club non è affatto esclusivo. Tra i candidati all'ammissione ricordiamo Indonesia, Thailandia e Turchia, dove già si avvertono i primi segnali che la crisi economica sta esacerbando i conflitti interni. E non dimentichiamo la ripresa della guerra civile nella Repubblica democratica del Congo, la violenza mai sopita nella regione del Darfur in Sudan e il cuore di tenebra rappresentato dallo Zimbabwe sotto la dittatura di Robert Mugabe. L'asse del caos vanta molti membri e non c'è dubbio che la lista si allungherà ancora nel corso dell'anno. Il problema è che, come negli anni Trenta, i Paesi oggi sono troppo preoccupati per i loro affari interni, alle prese con la crisi economica, e non hanno tempo per prestare attenzione alle difficoltà ben più gravi in cui si dibatte il resto del mondo.
Questo è vero anche negli Stati Uniti, talmente assorti dai guai della loro economia che l'idea di intervenire per contrastare gli sconvolgimenti globali sembra un lusso eccessivamente oneroso. Con la previsione di una contrazione del Pil americano tra 2-3 punti percentuali quest'anno e con il tasso ufficiale di disoccupazione che si teme raggiungerà il 10 %, tutta l'attenzione di Washington resterà focalizzata sul pacchetto di aiuti all'economia. Le risorse disponibili per controllare il pianeta subiranno certamente una contrazione, soprattutto se gli investitori stranieri pretenderanno dividendi più elevati sulle obbligazioni statunitensi o se preferiranno addirittura sbarazzarsi dei dollari a favore di altre valute. La volatilità economica va a sommarsi ai conflitti etnici e a un impero in declino: in geopolitica, siamo davanti a una miscela altamente esplosiva. Oggi vediamo una convergenza di tutti e tre i fattori di rischio: l'era del caos comincia adesso.
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