giovedì 25 aprile 2024

Il 25 aprile è una data spartiacque o una festa?




Sicuramente il 25 aprile è una data simbolo molto divisoria che negli anni più che una giornata di festa per tutti si è presentata come la festa degli “anti”.... Il simbolo della Nazione deve essere unico ed indivisibile, certo con le loro sfaccettature e le loro diversità. Pensare sempre “anti” non porta nulla di buono nel senso che non mette in evidenza dei concetti quanto esaspera i toni verso chi ha creduto, giustamente o ingiustamente a dei principi o dei valori. Che comunque sono stati la culla di molti anni per i giovani italiani.


Dalla Treccani prefisso anti-, “apparentemente lo stesso per tutti i moltissimi derivati, può avere due origini diverse: dal greco antí che significava 'contro', o dal latino ante che voleva dire 'davanti' nello spazio o 'prima' nel tempo. In italiano il prefisso greco antí esprime due significati: 'contro' e 'il contrario di' “. Quindi esprimere un concetto contro un aspetto politico che ha segnato un’epoca risulta essere estremamente riduttivo.


Quindi possiamo asserire che il concetto del 25 aprile in Italia è molto esasperato. Sarebbe stato più lucido parlare della liberazione dallo straniero invece che accattivare gli animi come se in gioco ci fossero i buoni ed i cattivi di una stessa Nazione, concetto difficilmente asseribile.  


Negli anni «Nessuna festa nazionale in Italia è mai stata fattore di unità, neppure il 25 aprile» parole dello storico Emilio Gentile.


Come giustamente e felicemente asserito lo spirito degli italiani è sempre stato intriso di concetti “contro”. Le feste nazionali non hanno fortuna nel creare consenso attorno alle istituzioni, ma tutti se ne avvalgono per fare politica, dal 25 aprile al 2 giugno.  


Non esiste uno spirito unitario a meno che si parli delle feste pagane, altra storia. 

Quando siamo di fronte ad una festa Nazionale l’unica bandiera che dovrebbe sventolare è quella italiana, ed è l’unica che dovrebbe sventolare nella ricorrenza della festa del 25 Aprile.




martedì 25 aprile 2023

Tratto da Rosso e Nero di DE FELICE a cura di Pasquale Chessa


Rifacciamo la resistenza




La caduta del governo Parri, il dicembre 1945, mise fine al sogno della “Resistenza al potere”. Fu proprio nei pochi mesi dopo il 25 aprile, che si giocarono i destini dell’Italia futura. Infatti saranno due partiti Democrazia Cristiana e partito comunista, a conquistare il consenso delle masse. E dietro di loro due grandi potenze: la Russia di Stalin e il Vaticano di PIO XII.

…….Ferruccio Parri aveva sempre pensato che la rivoluzione politica della Resistenza avesse come nerbo il PCI e il Pd’a. Durante la guerra partigiana aveva finito per sacrificare un partito, il suo Partito d’azione, sull’altare del mito dell’ ”unità” antifascista. Per reggere la situazione ci sarebbe voluta ben altra tempra politica. 

  In realtà, dai combattenti comunisti non fu mai accetta l’idea partigiana dovesse essere combattuta solo per tornare alla “democrazia parlamentare borghese prefascista. L’obiettivo ultimo del PCI, fino alla fine, rimase la “democrazia popolare”  o come si preferì chiamarla nella versione italiana, la “democrazia progressiva”, fondata sull’unità della Resistenza intesa  come passaggio verso il mito della dittatura del proletariato.  


In relazione  al mito resistenziale, gli anni del terrorismo fecero emergere un altro problema, decisivo per bi destini ideologici della estrema sinistra armata: quando e quanto l’uso della violenza, fuori da un quadro istituzionale, potesse legittimare la lotta politica. Perché   contro il fascismo della Repubblica di Salo’ si, mentre contro la la Democrazia Cristiana di Moro no?

Ricorda nel testo intervista che l’8 settembre 1943 fu la “morte della patria” e in merito De FELICE, da grande scienziato della storia, ha consigliato di leggere “De profundis”, straordinario racconto verità di Salvatore SATTA. 

Questo esposto è una brevissima parentesi che si riferisce alle 167 pagine dell’intervista di Pasquale Chessa allo storico. Renzo De Felice - è riconosciuto come massimo storico dell'epoca fascista, prova ne sono le sue opere. L'impostazione del libro, in collaborazione con un giornalista che formula domande multiple, rende agevole la lettura.

Visto l’interesse dell’argomento e nonostante siano passati quasi 30 anni dalla pubblicazione il testo risulta essere ancora valido e contemporaneo.




domenica 24 gennaio 2021

Russia, sollevazione per Navalny, arrestati centinaia di minorenni




Sui social circola un video in cui si vede un agente che prende a calci una donna durante la manifestazione a San Pietroburgo: secondo i media, la 54ene ha subito un trauma cranico ed ora è ricoverata in coma.


La polizia russa ha arrestato numerosi sostenitori dell'oppositore Alexei Navalny, scesi in piazza dopo il suo appello a protestare contro il presidente Vladimir Putin. 


Le prime proteste si sono svolte in Estremo Oriente e in Siberia, comprese Vladivostok, Khabarovsk e Chita, dove diverse migliaia di persone sono scese in piazza, hanno detto i sostenitori di Navalny. Nella capitale, piazza Pushkin e nelle aree dello shopping e nelle strade principali sono apparse barricate. Tra i fermati molti portavano cartelli con scritto "Io non ho paura", citazione dello stesso Navalny e diventata uno degli slogan della giornata. 


"Il prossimo fine settimana terremo nuove proteste in tutto il Paese. Alexey Navalny deve essere immediatamente rilasciato dalle grinfie dei suoi assassini e le nostre richieste, assolutamente giuste, devono essere soddisfatte". Lo ha detto su Twitter Leonid Volkov, coordinatore della rete regionale del Fondo Anti-Corruzione di Navalny.


A Mosca la polizia ha iniziato a fermare i manifestanti pro-Navalny ancora prima dell'inizio della protesta contro l'arresto dell'oppositore. Secondo la testata online Meduza. Gli agenti trattengono chi ha in mano cartelli con slogan pro-opposizione come "Libertà per i prigionieri politici". 


Un allarme è stato lanciato poi dal commissario per i diritti dei bambini, che afferma che tra gli arrestati vi sono almeno 300 minorenni. Decine di migliaia di russi hanno partecipato a proteste che si sono svolte in almeno 100 città in tutta la Russia per chiedere il rilascio del dissidente russo e protestare contro Vladimir Putin. I sostenitori di Navalny parlano di almeno 40mila dimostranti per la manifestazione di Mosca, parla di una "grandiosa azione tutta russa" e promette di continuare la protesta.


Navalny è stato incarcerato al suo rientro dalla Germania dove si trovava da agosto scorso in seguito a un avvelenamento. Il giorno della protesta dei sostenitori di Alexei Navalny, rivale numero uno di Vladimir Putin, sono scesi in piazza, nonostante il freddo polare. Si tratta di manifestazioni non autorizzate dalle autorità. Sarebbero almeno 40.000 le persone che si sono unite alle proteste a Mosca per chiedere il suo rilascio per quella che sembra essere una delle più grandi azioni di protesta anti-Putin nel paese. La miccia: la pubblicazione di un video di quasi due ore, in cui il blogger attribuisce al presidente russo Vladimir Putin spese folli per una tenuta sul Mar Nero. Secondo i cronisti di Afp durante la marcia nella capitale, la polizia ha usato pesantemente la forza per disperdere i dimostranti, utilizzando i manganelli. 


Intanto il mondo guarda attonito e reagisce con diverse dichiarazioni che richiamano al rispetto dei diritti civili. L'Europa "Seguo gli eventi in corso in Russia con preoccupazione. Deploro le detenzioni" dei manifestanti da parte della polizia, "l'uso sproporzionato della forza, l'interruzione delle connessioni internet e delle reti telefoniche", scrive su Twitter l'Alto rappresentante dell'Ue, Josep Borell. "Lunedì discuteremo i prossimi passi" da intraprendere nei confronti di Mosca "con i ministri degli esteri degli stati membri", aggiunge. 


Proteste anche al quartier generale dell'FSB, i servizi di sicurezza interni eredi del KGB, situato sulla Lubyanka. I manifestanti urlano lo slogan "Russia senza Putin".  Tra i fermati anche la dissidente Liubov Sobol, una delle più strette collaboratrici di Aleksey Navalny. Lo riporta la testata online Meduza rimandando a un video della tv Dozhd. Sobol era stata fermata anche giovedì e multata per 250.000 rubli (circa 2.750 euro) da un tribunale di Mosca. 


E' stata rilasciata dopo l'arresto a Mosca anche la moglie di Navalny, Yulia che manifestava a Mosca. Sul suo profilo Instagram ha postato una foto scattata all'interno di un van della polizia: "Scusate la bassa qualità. Una luce terribile nella camionetta della polizia". Lo riporta il sito di Mbkh media.  A San Pietroburgo Arresti anche in piazza del Senato, a San Pietroburgo. "Mi vergognerei di restare a casa. Ho bisogno di parlare, ho bisogno di esprimere la mia posizione", dice Galina Fedosseva, 50 anni. "La gente è stanca di Putin, (è stato presidente) tutta la mia vita. È ora di fare spazio agli altri. (...) Non voglio vivere sotto una dittatura ", ha detto il ventenne Alexeï Skvortsov. 


Le forze dell'ordine di Mosca hanno già detto che le proteste verranno considerate come "una minaccia all'ordine pubblico" e saranno "immediatamente represse". Il Cremlino ha ribadito per l'ennesima volta che sono "inammissibili" e la Procura generale ha avvertito che chi vi prende parte potrà essere perseguito penalmente per "disordini di massa". Intanto il Comitato Investigativo ha già aperto un procedimento penale per aver lanciato l'appello a scendere in piazza e con l'aggravante del coinvolgimento di minori. 




domenica 17 gennaio 2021

Guerra del Golfo, l'ambasciatore italiano: "Io, Saddam e i nostri ostaggi"




Intervista Adnkronos


Franco Tempesta racconta l''avventura' a Baghdad: "Ho temuto di essere usato come scudo umano", La crisi degli italiani in ostaggio del governo iracheno, l'incontro con Saddam Hussein, la paura di essere usato come scudo umano, il ritorno a Roma ed i colloqui con De Michelis e Cossiga. Franco Tempesta fu l'ambasciatore italiano a Baghdad durante la prima guerra del Golfo, di cui domani ricorre il trentesimo anniversario. In un'intervista ad Aki-Adnkronos International racconta quel periodo in Iraq concitato e "stimolante" dal punto di vista professionale, che - non nasconde - lo coinvolse "emotivamente moltissimo".


Tempesta arrivò a Baghdad nel maggio del 1990. Quello stesso mese incontrò il rais Saddam Hussein, cui sottopose le credenziali di ambasciatore. "Era un signore elegante, aveva un sarto portoghese nel suo staff - inizia il racconto Tempesta - Aveva un modo di fare molto pacato che, si scoprì in seguito, nascondeva dei segreti orribili e sanguinari, ma da buon cristiano ho provato grande compassione quando lo impiccarono".


Durante quel colloquio, che durò alcuni minuti, "Saddam parlò poco, si limitò ad un saluto e ad annuire, mentre io feci un piccolo pistolotto in cui utilizzai molto il nome del presidente Andreotti, che era apprezzato in Medio Oriente, e nominai tutti gli esponenti del governo più attivi nel mondo arabo".



L'esperienza dell'ambasciatore a Baghdad, tuttavia, fu segnata senza dubbio dalla vicenda dei circa 600 italiani che dal 2 agosto 1990, giorno dell'invasione del Kuwait da parte delle forze irachene, furono trattenuti dal regime per evitare di subire attacchi nella capitale. Quella situazione si sbloccò solo quattro mesi dopo, all'inizio di dicembre, con la partenza di tutti gli ostaggi.


"Il mio primo contatto con gli ostaggi fu l'8 agosto in un teatro all'interno dell'Istituto di cultura - afferma Tempesta - Arrivai e la sala era strapiena di gente nervosissima, in gran parte tecnici di aziende petrolifere. Il direttore dell'Istituto di cultura aveva organizzato una cattedra con tutte le sedie davanti, ma io decisi di sedermi in mezzo a loro e questo credo che li spiazzò. Le mie prime parole furono 'Vi posso assicurare che presto partirete dall'Iraq, ma quando partirete io non lo farò perché voi siete ostaggi di Saddam e io sono il vostro'. Queste parole cambiarono radicalmente il loro atteggiamento nei miei confronti".


Il lavoro dell'ambasciata italiana in quei mesi fu frenetico per soddisfare le richieste e le esigenze di tutti gli ostaggi, che erano riuniti in gran parte nell'Hotel Babilon sotto la sorveglianza delle forze irachene, mentre altri "più controllati" si trovavano in un altro albergo soprannominato "La Botola", prosegue l'ambasciatore che cita alcuni episodi di autolesionismo di cui furono protagonisti alcuni italiani nel tentativo di ottenere il via libera per lasciare l'Iraq.



"Ci giunse notizie che un paio di giovani si stavano nutrendo di chili e chili di zucchero per risultare diabetici, altri si facevano visitare dall'oncologo sostenendo di essere malati di tumore. Un gruppo di milanesi scapparono di nascosto e furono arrestati alla frontiera con la Siria dalla polizia irachena che per fortuna me li riconsegnò in ambasciata", ricorda Tempesta.


Tutti i Paesi occidentali si mobilitarono per la liberazione dei loro ostaggi, ricorrendo anche ad artisti e personalità che ritenevano potessero giovare alla causa. Gli Stati Uniti, ad esempio, mandarono Cassius Clay, che era diventato musulmano. Per l'Italia arrivò "Mario Capanna, ma combinò ben poco", mentre il governo fermò all'ultimo la partenza di Maria Pia Fanfani, allora presidente del Comitato nazionale femminile della Croce rossa, rimarca Tempesta, elogiando la linea seguita da Roma - allora presidente di turno dell'Ue - in quella crisi.


"Il governo fece molto bene, fu inflessibile nel non trattare con i sequestratori e tutti i Paesi europei seguirono questa regola. Al contrario di quanto fatto da Conte e Di Maio che hanno passato in rassegna le truppe di Haftar" per ottenere il rilascio dei pescatori trattenuti a Bengasi, osserva l'ambasciatore.



In quei mesi a Baghdad ci furono momenti molto duri per Tempesta. "Mi mise molta preoccupazione la voce fatta circolare dal governo iracheno che in caso di attacco occidentale gli ambasciatori sarebbero stati portati al fronte e sistemati come scudi umani", evidenzia, sottolineando lo spirito con il quale la missione italiana lavorava: "Ci sentivamo protagonisti di qualcosa di utile, ci si aiutava, mentre alcuni ambasciatori scapparono con la coda tra le gambe".


Quel conflitto fu il primo trasmesso in diretta dai network di tutto il mondo e, secondo Tempesta, in un certo senso cambiò il rapporto delle persone con la guerra, avvicinandola a uno "show'. "Per tutto quel periodo ho avuto contatti quotidiani con decine giornalisti, ma due su tutti - Fabrizio Del Noce e Lucia Annunziata - mi hanno lasciato un'impressione estremamente positiva. Poi c'era un nugolo di reporter che erano lì per fare titoli e che facevano domande discutibili agli ostaggi. Molti non degni del nome di giornalista", dichiara.


Secondo Tempesta, la Guerra del Golfo fu una guerra delle Nazioni Unite perché fu scatenata sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzò l'uso della forza per ripristinare l'ordine internazionale. "La finalità era liberare il Kuwait e per questo motivo - spiega - alla fine del conflitto Bush padre, che era un diplomatico di carriera, non detronizzò Saddam".



L'ambasciatore conclude ricordando il suo incontro con il presidente Cossiga al rientro in Italia, dove l'allora ministro degli Esteri De Michelis lo aveva richiamato nel gennaio del 1991 per consultazioni sullo scoppio imminente della guerra. "Mi ricevette pochi minuti mentre stava incontrando i parenti del giovane Augusto De Megni, che era stato liberato in Sardegna, e mi presentò come l'eroe di Baghdad. Cossiga mi fu vicino per tutta la crisi".


De Michelis voleva che Tempesta tornasse a Baghdad per dare un segnale alla comunità internazionale di disponibilità al dialogo con Saddam e l'8 gennaio l'ambasciatore si recò in aeroporto per volare alla volta dell'Iraq.


"Ad un tratto dall'altoparlante sentì che ero desiderato al telefono. Era l'allora direttore generale della Farnesina che mi chiedeva di restare a Roma su pressioni dell'allora segretario di Stato americano, James Baker. Tornai al ministero degli Esteri e diedi disposizioni per evacuare l'ambasciata a Baghdad - conclude - Da lì a un mese l'Iraq ruppe i rapporti diplomatici con l'Italia ed i nostri interessi a Baghdad vennero curati dall'ambasciata ungherese".




domenica 8 novembre 2020

Fondi europei servono obiettivi limpidi





La Commissione ha dato indicazioni di metodo chiare per i prossimi mesi e anni. Sono limiti di indirizzo che non impediscono a un governo di portare l'obiettivo della giustizia sociale sullo stesso piano di quello della giustizia ambientale.

Gli investimenti nel contesto del RRF sono una spesa per un'attività, un progetto o un'altra azione che dovrebbe portare risultati positivi alla società, nell'ambito del RRF. Il regolamento RRF mira a promuovere misure che, se adottate ora, avrebbero un impatto duraturo sull'economia e sulla società (resilienza), in tutti i suoi aspetti, compresa la sostenibilità (inverdimento), la competitività a lungo termine (transizione digitale) e l'occupazione (Articolo 4 e articolo 16, paragrafo 3, lettera c), della proposta di regolamento RRF). Il regolamento proposto è pertanto coerente con un ampio concetto di investimento come formazione di capitale in settori quali capitale fisso, capitale umano e capitale naturale.

I vertici politici e tecnici della Commissione Europea hanno parlato con forza e in relativa sintonia sulle priorità della nostra Unione e sull'uso della Recovery and Resilience Facility (RRF), la punta di diamante della strategia “Nuova Generazione UE”.  E' bene che l'Italia presti forte attenzione cogliendo novità, opportunità e punti deboli. Ci serve per disegnare con intelligenza il Piano italiano, perché esso risponda alle aspirazioni e alle necessità di ridisegno dei piani di vita di milioni di noi Italiani. Il Discorso sullo Stato dell'Unione della Presidente Ursula von der Leyen rompe la tradizione della non-politica degli ultimi anni. Coglie i dolori, i fremiti e il desiderio di certezze di 450 milioni di Europei e con un linguaggio robusto prende impegni chiari: su hub europeo della salute, trasformazione verde e digitale, idrogeno, salario minimo, razzismo. Non mette al centro disuguaglianze e giustizia sociale, ma ne tiene conto nella strategia sul fronte digitale. Coglie, infine, solo parzialmente le esperienze e le nuove strade che vengono da migliaia di pratiche sociali e comunitarie nei territori di tutta Europa.


Questi tratti sono riflessi nei documenti prodotti dalla Commissione per indirizzare l'uso della RRF (Bozza di Regolamento, Guida per i Piani di ripresa e resilienza, Strategia annuale per lo sviluppo sostenibile 2021). La debolezza di attenzione alla missione sociale e alla dimensione territoriale viene qui significativamente temperata sul piano giuridico dall'individuazione della coesione economica, sociale e territoriale come obiettivo generale. E soprattutto questi documenti fissano un metodo di utilizzo della RRF che apre speranze e opportunità. Per tre ragioni: rendono chiaro che non dai progetti bisogna partire, ma da strategie che, unendo investimenti e riforme, identifichino obiettivi motivati, espressi in termini di risultati attesi, cadenzati e monitorati nel tempo; mettono un forte accento sulle condizioni istituzionali e di contesto necessarie per fare accadere davvero le cose: confermano che la Commissione sarà assai più presente che in passato nell'accompagnare e valutare tutto ciò. Vediamo in dettaglio, partendo dalle priorità strategiche.

Sulla transizione energetica si esprime tutta la forza e la concretezza di un mandato politico coeso, un'opportunità che ci invita e obbliga a obiettivi ambiziosi. Non così sul fronte sociale. Pesa il (dichiarato) continuismo con l'impianto tradizionale del “Semestre Europeo”. Nello specificare i 4 “key principles” – sostenibilità ambientale, produttività e trasformazione digitale, equità e stabilità macro – la declinazione di equità in “fairness” si concretizza nel riferimento alle opportunità di accesso al lavoro e allo spostamento delle tasse dal lavoro ad altri cespiti, ma resta debole nelle opportunità di accesso a servizi di qualità. La “coesione economica, sociale e territoriale”, nel muovere verso gli obiettivi concreti, scivola progressivamente a comprimario di secondo piano. E soprattutto il principio sociale evapora quando si tratta di indicare i 7 “obiettivi primari” a cui mirare – in ambito ambiente, digitale e istruzione – visto che persino nel descrivere l'istruzione il solo divario preso in considerazione è quello digitale.

Nel dettagliare, poi, gli obiettivi sul fronte digitale il testo tecnico fa un passo indietro rispetto allo stesso discorso della Presidente. Assieme al Cloud Europeo e alla copertura digitale delle aree rurali, Ursula von der Layen ha posto l'obiettivo di assicurare un uso controllato e regolato degli algoritmi: non solo, dunque, sovranità nazionale sul digitale … ma “sovranità popolare”. E invece, anche negli “obiettivi primari” tutto pare risolversi con la “digitalizzazione” - “digital” prende il posto di “smart” come parola ammiccante, che può coprire ogni cosa - senza guardare ai suoi effetti sulla qualità di vita delle persone. Un obiettivo che invece deve essere centrale nel Piano italiano.


Sono limiti di indirizzo che non impediscono a un governo “progressista” di portare l'obiettivo della giustizia sociale sullo stesso piano di quello della giustizia ambientale, anche come metro ultimo di ogni trasformazione digitale. E di farlo avendo davanti l'articolo 3 della Costituzione che assegna alla “Repubblica” il compito di “rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana”, ossia a quella libertà sostanziale che è la più avanzata definizione di giustizia sociale. E, nel farlo, si ricordi che quei due obiettivi sono la condizione anche per una ripresa della produttività: obiettivo importante per un paese dove - a causa delle stesse disuguaglianze – la produttività si è fermata da tempo e il cui incremento deve aiutarci a produrre le risorse con cui ripagare i debiti accumulati. E allora, su questa strada, arriva da Bruxelles la buona notizia. I materiali della Commissione disegnano un metodo di governo della RRF che ci può aiutare assai. Se sapremo applicarlo.

Sei sono le carte da giocare che leggiamo nei documenti. Primo: in ogni “componente” del Piano si supera la tradizionale segmentazione settoriale, combinandosi molteplici misure di riforma e di investimento che siano rivolte ad un comune obiettivo in termini di benessere collettivo; l'intero Piano dovrà essere coerente e complementare con le misure finanziate da altre risorse comunitarie. Secondo: la rendicontazione non dovrà riguardare solo la spesa – con riguardo a costi stimati “ragionevoli” – ma realizzazioni e risultati attesi e loro tappe di attuazione (rivedibili in modo motivato); è una svolta per l'Italia, visto che i pagamenti bi-annuali verranno effettuati in relazione alle “prove dei progressi compiuti” a ogni tappa. Terzo: viene data forte enfasi alle condizioni di contesto necessarie per assicurare attuazione ed efficacia; e fra le raccomandazioni fatte all'Italia nel 2019 e 2020, accanto a requisiti da lasciare nel passato – come ulteriori flessibilità nel lavoro! – spicca il rinnovamento della PA, condizione di quella “capacità amministrativa” che la Commissione torna ora a chiederci di dimostrare. Quarto: la democraticità del processo decisionale; nel Piano dovrà essere indicato come i partner sociali e le organizzazioni della cittadinanza attiva, da un lato, e il Parlamento e le istituzioni regionali o locali “hanno contribuito al disegno del Piano” stesso. Quinto: presidio unitario del disegno strategico e responsabilità dell'attuazione; il Piano deve fare capo a un unico soggetto coordinatore con forti poteri e documentata capacità di svolgere tale funzione, mentre la responsabilità di attuare le singole componenti può essere assegnata a singole “entità responsabili”. Sesto: forte presidio tecnico e politico da parte della Commissione; essa presidierà il lavoro di programmazione e attuazione di ogni paese per mezzo di una Task Force articolata per paesi che, pur prevedendo un ruolo della Direzione finanziaria – dove si concentra il continuum culturale col passato - farà capo direttamente alla Presidente della Commissione.

Si tratta di indicazioni chiare di metodo per il lavoro dell'Italia tutta nelle prossime settimane e mesi. Lo schieramento di forze della Commissione ci dice che al suo filtro non passerebbe certo un Piano che fosse palesemente frutto di una macedonia di progetti priva di strategia e obiettivi chiari e condivisi o che non indicasse un radicale rinnovamento degli strumenti attuativi. Sono indicazioni che si sposano e valorizzano ciò che il ForumDD lo scorso 24 luglio ha proposto al Governo e a tutto il paese in un suo Documento. Assieme ne escono chiare raccomandazioni al Governo, a Regioni e Comuni e all'intero partenariato. Che così riassumiamo:

 Completare la rimozione dal tavolo di lavoro della massa di progetti che il Governo ha raccolto nella sua “falsa partenza” per ripartire dall'individuazione di obiettivi prioritari, proseguendo nella strada di ravvedimento intrapresa con le Linee Guida italiane da poco prodotte. Nel farlo, tenere conto dei contributi strategici che il ForumDD e molte altre alleanze sociali e centri di competenza hanno messo e stanno mettendo sul tavolo. Alcuni esempi di cosa intendiamo per “obiettivi”: Abbattere la povertà educativa; Assicurare a tutti una cura socio-sanitaria di prossimità; Prevenire e renderci resilienti alle catastrofi naturali; Superare emergenza, sovraffollamento e degrado abitativo; Aprire alle PMI l'accesso all'innovazione tecnologica; Orientare la trasformazione digitale alla giustizia sociale, garantendo la sovranità popolare; Accelerare la transizione energetica, prima di tutto a favore dei più vulnerabili; Assicurare a tutti una mobilità flessibile e sostenibile; Adattare gli spazi collettivi aperti e chiusi alle nuove esigenze. Fatto questo passo, i progetti sin qui raccolti potranno essere riconsiderati insieme a molti altri, ma solo in relazione alle priorità e obiettivi stabiliti.

Dare unitarietà effettiva al governo del Piano coinvolgendo tutte le risorse umane del centro competenti nella programmazione comunitaria e aprire un dialogo quotidiano, con Regioni e Comuni.

Le norme sugli aiuti di Stato si applicano  pienamente le norme sugli aiuti di Stato. Nel preparare e attuare i propri piani di risanamento e di resilienza e proporre riforme e investimenti, gli Stati membri devono tenere debitamente conto dell'articolo 107 TFUE e del quadro degli aiuti di Stato e delle sue restrizioni. I fondi dell'UE erogati attraverso le autorità degli Stati membri diventano risorse statali e possono costituire aiuti di Stato se tutti gli altri criteri dell'articolo 107 sono soddisfatti. Come regola generale, gli aiuti di Stato devono essere notificati e autorizzati dalla Commissione prima di essere concessi. Il regolamento generale di esenzione per categoria (regolamento (UE) n. 651/2014) esonera gli Stati membri da questo obbligo di notifica, purché siano soddisfatti tutti i criteri del regolamento generale di esenzione per categoria. Quando i finanziamenti dell'Unione sono combinati con aiuti di Stato, solo questi ultimi saranno presi in considerazione per determinare se le soglie di notifica e le intensità massime di aiuto sono rispettate o, nel contesto di questo quadro, soggetti a una valutazione di compatibilità (articolo 8 del regolamento generale di esenzione per categoria). Per un sostegno che non soddisfa questi criteri, gli Stati membri devono notificare i loro regimi alla Commissione (DG Concorrenza) che valuterà se soddisfano le condizioni di cui all'articolo 110 TFUE e, in tal caso, li dichiara compatibili con il mercato. 




martedì 12 maggio 2020

Baarle Nassau, il borgo che taglia coronavirus (e doveri) in due





Passare da una stanza all’altra e varcare il confine, dormire nello stesso letto eppure essere in due paesi diversi: per gli abitanti della cittadina di Baarle-Nassau è la normalità. L’anomalia geografia deriva da una lunga tradizione di contese interne, che risalgono fin dal medioevo, fra due case aristocratiche: Baarle-Nassau era di proprietà della casata belga Naussau, ma al suo interno un pezzo di terra, la cosiddetta Baaler-Hertog, era in mano al duca olandese di Brabant. 

La più strana e complicata enclave europea è quella di Baarle-Hertog. Un insieme di pezzetti di territorio belga, immersi nel territorio olandese, vicino al confine fra i due Paesi. Essi formano un mosaico, ed hanno delle particolarità molto strane. 

Questa strana situazione è presente fin dal lontano 1479 nella cittadina di Baarle, che è suddivisa fra Hertog, in Belgio, e Nassau, in Olanda. La cittadina è percorsa da strade e piazze, come in tutti i centri abitati, ma queste strade sono talvolta tagliate dal confine, o per lungo o trasversalmente. Se il confine corre lungo la mezzeria, di qua abbiamo abitazioni belghe e di là case appartenenti ai Paesi Bassi. Si passa da uno Stato all'altro, e il cambiamento di sovranità del suolo calpestato dall'ignaro visitatore può avvenire molte volte durante una breve passeggiata.

La quarantena imposta dal Governo di Bruxelles ma non da quello dell’Aja ha evidenziato un confine che fino ad oggi era ininfluente sulla vita dei cittadini.

Potreste provare un senso di pena, oppure di rabbia, tristezza e compassione o, perché no, di invidia.

Se vi sentite così prendete il treno, l’aereo o la macchina e raggiungete Baarle-Nassau, una cittadina dei Paesi Bassi che conta 6.701 anime, nella provincia del Brabante settentrionale. Al suo interno si trova l’exclave belga di Baarle-Hertog, che a sua volta circonda diversi territori olandesi. Insomma, un labirinto.

Come dite? Le restrizioni del Governo vi obbligano a stare a casa e non potete neppure portare fuori il cane perché non lo avete? Allora accontentatevi di provare pena, rabbia o invidia per chi, al confine del confine tra Olanda e Belgio, si trova a fare i conti con due pesi e due misure indotte dal coronavirus, anche se vive spesso sotto lo stesso tetto.

Non è un modo di dire. La regola generale a Baarle-Nassau è che se il portone si trova esattamente sulla linea di confine è l’inquilino a decidere dove registrare il proprio domicilio: Paesi Bassi o Belgio.

È accaduto però in questo borgo, che i cittadini si siano trovati di fronte al dilemma di una casa costruita a cavallo del confine: come ristrutturare la casa al suo interno e rifare l’intonaco esterno se il solo ingresso ricade in territorio olandese? Le leggi dei Paesi Bassi sono molto più restrittive di quelle belghe. E allora come si fa? Semplice, apro una seconda porta ingresso sul suolo belga, dove le normative sono più permissive. Et voilà: casa riverniciata e architettura rivista.

Certo, direte voi: vallo a fare con le strade o sul suolo pubblico tagliato a metà da un confine che zigzagando taglia edifici, piazze e mercati e sarebbe invisibile se non fosse per quelle mattonelle che da un lato sono affiancate dalla lettera “B” (Belgio ) e dall’altra dal dittongo “Nl” (Paesi Bassi)? E difatti accade che asfaltare le strade diventi un problema, da risolvere con l’armonia e il buon senso. I sindaci – ovviamente – sono due ma decidono di comune accordo le questioni che riguardano viabilità, illuminazione e fognatura.

Ora, accade che a dividere in due questo villaggio perfettamente bilingue e dove la maggior parte dei cittadini è dotato di doppio passaporto e vive pacifica e serena  intervenga la quarantena imposta dal Governo di Bruxelles. Limitazioni per le uscite e attività commerciali, birrerie e negozi chiusi.

Peccato che quelli a un passo dalle mattonelle di confine, nel territorio olandese, restino (almeno per il momento) aperti. L’età legale per bere alcoolici è 18 anni nei Paesi Bassi e 16 in Belgio.

Non solo. Per evitare di trovarsi a fare i conti con i pendolari della benzina – in Belgio il carburante costa meno che nei Paesi Bassi – è fatto divieto agli olandesi di rifornirsi nelle stazioni “dall’altra parte” del confine. La sanzione per gli olandesi che non rispettano le regole va dai 350 ai 4mila euro.

I controlli di fatto sono inesistenti (la convivenza pacifica tollera molte distrazioni) ed un giornalista olandese della testata Omroep Brabant lo ha provato sul campo. Questa anomalia geografica è il frutto di conflitti – risalenti al Medioevo – tra dinastie aristocratiche. Baarle-Nassau era di proprietà della casata belga Breda-Naussau ma al suo interno Baaler-Hertog, era di proprietà del duca olandese di Brabant. Il Belgio ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1831 ma i confini non sono stati definiti prima del 1995.

Nel 1959 la Corte di Giustizia dell’Aia ha confermato la sovranità del Belgio su quelle porziuncole in territorio olandese che occupano circa otto chilometri quadrati, sanando così il contenzioso fra i due Paesi confinanti. 

Al turista (prima dell’emergenza da coronavirus) tutto ciò non interessava e, come del resto i residenti, saltella indifferentemente da una parte all’altra. Si rende conto dell’esistenza dei due Stati se fa caso alle differenze tra i bus, le cabine telefoniche (di fatto sparite con l’avvento della telefonia mobile), gli uffici postali o se presta, chissà perché, attenzione alle targhe dei veicoli.

venerdì 27 marzo 2020

Coronavirus, Mario Draghi al Financial Times: il debito pubblico è l’unica leva che i governi hanno per gestire



Draghi, ex presidente della Banca centrale europea non usa mezzi termini: «Ci troviamo di fronte a una guerra contro il coronavirus e dobbiamo muoverci di conseguenza»: la sfida è «come agire con sufficiente forza e velocità per prevenire che una recessione si trasformi in una prolungata depressione, resa ancora peggiore da una pletora di default che lasciano danni irreversibili».

«È già chiaro che la risposta» alla guerra contro il coronavirus «deve coinvolgere un significativo aumento del debito pubblico» afferma Draghi. «La perdita di reddito del settore privato - scrive l’ex presidente della Bce sul Financial Times – dovrà essere eventualmente assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci dei governi. Livelli di debito pubblico più alti diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e sarà accompagnata da una cancellazione del debito privato».

Per Draghi «di fronte a circostanze non previste un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che ci troviamo ad affrontare non è ciclico. La perdita di reddito non è colpa di chi la soffre. Il costo dell'esitazione potrebbe essere irreversibile. La memoria delle sofferenze degli europei negli anni 20 del ’900 sono un ammonimento».

«La velocità del deterioramento dei bilanci privati, causata da uno shutdown che è inevitabile e opportuno» deve incontrare «un'uguale velocità nel dispiegare i bilanci dei governi, mobilitare le banche e, come europei, sostenerci uno con l'altro in quella che è evidentemente una causa comune», aggiunge Draghi definendo «coraggiose e necessarie» le misure prese dai governi per prevenire che il sistema sanitario sia sopraffatto.

Si tratta di azioni che «vanno sostenute» anche se comportano un «alto e inevitabile costo economico. Giorno dopo giorno le notizie economiche peggiorano». Nel suo intervento Draghi sottolinea: «È l'appropriato ruolo dello stato quello di dispiegare il suo bilancio per proteggere i cittadini e l'economia contro shock di cui il settore privato non è responsabile e non può assorbire», aggiunge Draghi mettendo in evidenza che le «guerre sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Draghi ricorda anche che tutte "guerre sono state finanziate da aumenti del debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale in Italia e in Germania fra il 6 e il 15 per cento delle spese di guerra in termini reali sono state finanziate con le tasse". E conclude affrontando il ruolo della Ue in questa guerra. "L'Europa è ben equipaggiata" per affrontare questo "shock straordinario. Ha una struttura finanziaria capace di far confluire fondi in ogni parte dell'economia. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta rapida". Per l'ex presidente della Bce, proprio "la velocità è essenziale per l'efficacia della risposta".

È ancora il concetto di rapidità quello che evoca l’ex presidente della Bce. Sotto diversi punti di vista «l'Europa è ben equipaggiata» per affrontare questo «shock straordinario. Ha una struttura finanziaria capace di far confluire fondi in ogni parte dell'economia. Ha un forte settore pubblico in grado di coordinare una risposta rapida. La velocità è essenziale per l'efficacia» della risposta al coronavirus.

Agire subito per evitare depressione. Le parole che l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha usato dalle colonne del «Financial Times» non lasciano molti margini di interpretazione: il debito pubblico è l’unica leva che i governi hanno per gestire le fasi di guerra.

È il segno di un’emergenza che ha bisogno di pensiero nuovo per essere affrontata, perché il congelamento di una parte consistente delle attività economiche, in un sistema fortemente intrecciato, come quello europeo, non può essere gestito se non in modo condiviso. Nelle guerre conta la linea di comando, la linea che porta gli ordini e le decisioni fino all’ultimo reparto. In questo caso è decisivo il modo nel quale le garanzie pubbliche ai finanziamenti, gli aiuti e i sostegni al reddito, l’utilizzo delle risorse pubbliche, in grado di garantire che la liquidità non si fermi, funzionino. Uno sforzo enorme per le burocrazie, quella nazionale e quella europea, che dovranno fare in pochi giorni quello che di solito sono abituati a realizzare nell’arco di qualche mese. Visione e velocità, come Draghi riuscì a fare otto anni fa.