lunedì 25 aprile 2016
Serbia: elezioni anticipate premier Vucic vince col 52%
Alle elezioni in Serbia ha vinto il partito del premier Aleksandar Vučić. I conservatori del Partito del progresso serbo (Sns) hanno vinto nettamente le elezioni anticipate, raccogliendo il 49 per cento dei voti. La vittoria è stata confermata dallo stesso Vučić.
Il Partito del premier Aleksandar Vucic ha vinto le elezioni politiche anticipate in Serbia con il 52,1%, secondo dati preliminari diffusi dal sito online del quotidiano Blic. Il Partito radicale serbo (Srs) dell'ultranazionalista Vojislav Seselj torna alla grande nel parlamento di Belgrado con il 9,9%. I socialisti rimangono il secondo partito con l'11,5% dei voti secondo lo stesso quotidiano.
Soddisfazione è stata espressa alla Ue per la larga e convincente vittoria elettorale in Serbia del premier Aleksandar Vucic e del suo partito del progresso serbo, fautori di una linea veramente riformista e europeista. Dopo le congratulazioni nella notte del commissario all'allargamento Johannes Hahn, stamane a felicitarsi con Vucic è stato David McAllister, relatore sulla Serbia al Parlamento europeo. "La Serbia ha un ruolo chiave nel garantire la stabilità nei Balcani occidentali", ha detto McAllister in un comunicato di cui riferiscono i media a Belgrado. "Grazie all'approccio costruttivo del premier Vucic nelle relazioni con i paesi vicini, progressi sostanziali sono stati fatti nella cooperazione regionale, e sono stati creati rapporti più stretti con l'Unione europea", ha aggiunto l'eurodeputato tedesco.
Anche il ministro degli esteri austriaco Sebastian Kurz si è felicitato con il premier serbo Aleksandar Vucic per la vittoria elettorale del suo Partito del progresso serbo (Sns, conservatore), auspicando un rapido progresso nel cammino europeo della Serbia. Kurz ha scritto il messaggio di congratulazioni a Vucic su Twitter in inglese e in serbo, in caratteri cirillici.
Alcuni partiti di opposizione hanno denunciato brogli e hanno chiesto l’accesso al materiale elettorale. “Piano piano andiamo verso una situazione migliore, credo che stiamo andando nella giusta direzione”, afferma un residente di Belgrado.
Diversa l’opinione di un’altra abitante della capitale serba: “Non sono felice per come viviamo qui, chiediamo una situazione migliore e differente”.
La situazione economica serba è fragile: il tasso di disoccupazione si aggira attorno al 20%, nel 2015 il Paese ha ottenuto un prestito dal Fondo Monetario Internazionale e il governo di centro-destra ha attuato politiche di austerità, che hanno incluso il taglio delle pensioni, e si è impegnato a privatizzare imprese statali.
domenica 24 aprile 2016
Libertà stampa: l’Italia scende di quattro posizioni
"L'interferenza sui media da parte dei governi - si legge nel rapporto - è una realtà in molti Paesi dell'Unione europea. Ciò è dovuto alla concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione in poche mani e nell'assenza di trasparenza sui proprietari". Inoltre "la Ue non ha regole sulla distribuzione degli aiuti di Stato ai media".
L'Italia perde quattro posizioni nella classifica di Reporters sans Frontieres sulla libertà di stampa nel 2016, scendendo dal 73/o posto del 2015 al 77/o (su un totale di 180 Paesi). Fra i motivi che - secondo l'organizzazione con base in Francia - pesano sul peggioramento, il fatto che "fra i 30 e i 50 giornalisti" sarebbero sotto protezione della polizia per minacce di morte o intimidazioni.
Nel rapporto è indicizzata la libertà di stampa di 180 paesi. Al primo posto c’è la Finlandia, all’ultimo l’Eritrea. L’Italia, settantasettesima preceduta dalla Moldova e seguita dal Benin, perde alcune posizioni rispetto all’anno scorso, a causa del numero di giornalisti sotto protezione e di quelli sottoposti a procedimenti giudiziari.
L'Italia è il fanalino di coda della Ue, seguita soltanto da Grecia, Cipro e Bulgaria. In Italia nei primi dieci mesi del 2014 si sono verificati 43 casi di aggressione fisica e sette casi di incendio doloso a case o auto di giornalisti. I processi per diffamazione "ingiustificati", secondo i dati Rsf raccolti dall'associazione "Ossigeno per l'informazione" che da anni registra notizie sui giornalisti minacciati in Italia, sono aumentati da 84 nel 2013 a 129 nei primi dieci mesi del 2014. Fra i motivi che - secondo l’organizzazione con base in Francia - pesano sul peggioramento, il fatto che «fra i 30 e i 50 giornalisti» sarebbero sotto protezione della polizia per minacce di morte o intimidazioni. Nel rapporto vengono citati anche «procedimenti giudiziari» per i giornalisti che hanno scritto sullo scandalo Vatileaks.
I giornalisti in maggiore difficoltà in Italia, dunque, sono quelli che fanno inchieste su corruzione e crimine organizzato. Stupisce che in graduatoria il nostro Paese sia superato anche da Paesi come l'Ungheria del discusso premier Orban (65esimo posto) o come Burkina Faso e Niger (46esimo e 47esimo posto). Peggio dell'Italia in Europa è riuscita a fare solo Andorra, caduta in un anno di 27 posizioni a causa delle difficoltà incontrate dai giornalisti nel raccontare le attività delle banche del piccolo Paese tra Francia e Spagna. In Africa situazione migliore dell'America La libertà di stampa è peggiorata quasi ovunque nel 2015.
Per la prima volta, da quando Rsf ha cominciato nel 2002 a realizzare la sua classifica, l’Africa mostra una situazione migliore che l’America, piagata dalla «violenza crescente contro i giornalisti in Latinoamerica», mentre l’Asia continua a essere il continente peggio valutato.
L’Europa rimane l’area in cui i media sono più liberi, anche se Rsf nota un indebolimento del suo modello. Dei 180 Paesi valutati, la Finlandia continua ad essere quello in cui le condizioni di lavoro per i giornalisti sono migliori (è in cima alla classifica accade dal 2010; seguita da l’Olanda, che guadagna due posti.
Situazione peggiora in tutto il mondo La situazione è in peggioramento in tutto il mondo: il rapporto parla di "una regressione brutale" della libertà di stampa nel 2014, conseguenza in particolare delle operazioni terroristiche dello Stato islamico e di Boko Haram e in generale dell'aumento dei conflitti armati. Un "deterioramento globale" legato a diversi fattori, con l'esistenza di "guerre d'informazione" e "l'azione di gruppi non statali che si comportano come despoti dell'informazione", ha dichiarato Christophe Deloire, segretario generale di Rsf. L'indicatore globale annuale, che misura il livello delle violazioni della libertà di informazione, è arrivato a 3719 punti, quasi l'8% in più rispetto al 2014 e il 10% in più se paragonato al 2013. Il peggioramento più grave riguarda l'Unione europea e i Balcani.
Pesa l'interferenza dei governi sui media "L'interferenza sui media da parte dei governi - si legge nel rapporto - è una realtà in molti Paesi dell'Unione europea. Ciò è dovuto alla concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione in poche mani e nell'assenza di trasparenza sui proprietari". Inoltre "la Ue non ha regole sulla distribuzione degli aiuti di Stato ai media". Nel rapporto si parla del controllo dei mezzi di informazione che nelle aree di conflitto è diventato un vero e proprio strumento di guerra: in particolare lo Stato islamico sta usando i media come uno strumento di propaganda e di reclutamento. L'Is controlla cinque stazioni televisive a Mosul in Iraq e due nella provincia siriana di Raqqa. Tra i paesi dell'Ue, la Bulgaria è quello più indietro (106esima posizione).
Gli Stati Uniti si trovano al 49esimo posto (in calo di tre posizioni), la Russia al 152esimo, appena davanti alla Libia (154). I Paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti sono risultati invece l'Eritrea (180esimo posto), la Corea del Nord (179), il Turkmenistan (178) e la Siria (177). In questo speciale indice di Reporter senza frontiere, l'Iraq sconvolto dai jihadisti dello Stato islamico occupa il 155esimo posto, la Nigeria dove agisce Boko Haram il 111esimo.
venerdì 15 aprile 2016
Referendum anti trivelle di domenica 17 aprile, è meglio andare a votare
Il quesito recita: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”. Il merito: sono materia di referendum esclusivamente le trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa.
Il 17 aprile gli italiani potranno votare per il referendum sulle trivellazioni in mare per la ricerca e l'estrazione di idrocarburi (petrolio e gas). Il testo è stato proposto da nove Regioni, ma a pochi giorni dalla chiamata alle urne c'è ancora molta confusione su cosa prevede effettivamente e sugli effetti che potrà portare. Molte le polemiche tra i sostenitori del "sì" (chi cioè vuole "fermare" le trivelle) e quelli del "no", soprattutto in materia di rischi ambientali e ripercussioni sul turismo.
Ecco un quadro per prepararsi al voto.
Il quesito è stato posto dalla Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Le associazioni e i comitati ambientalisti che appoggiano il "sì" si oppongono alla strategia energetica del governo. Tra loro ci sono tutte le maggiori organizzazioni ambientaliste: da Legambiente a Greenpeace al Wwf. Da sempre molto attivo il ruolo del comitato "No Triv".
Agli italiani verrà chiesto se vogliono abrogare una norma che consente alle società petrolifere di estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane fino all'esaurimento del giacimento, senza limiti di tempo. In altre parole verrà chiesto se, quando scadranno le concessioni, si vuole che vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c'è ancora gas o petrolio.
Il referendum riguarda solo le attività già in corso entro le 12 miglia marine dalla costa, non quelle sulla terraferma. Nuove attività entro la stessa distanza sono già state vietate dal codice dell'ambiente. Votando "sì", si esprime la volontà di abrogare l'attuale norma; votando "no" si manifesta la volontà di mantenere la normativa esistente.
Fimo ad oggi nei mari italiani, entro le 12 miglia, sono presenti 35 concessioni di coltivazione di idrocarburi, di cui tre inattive, una è in sospeso fino alla fine del 2016 (al largo delle coste abruzzesi), 5 non produttive nel 2015. Le restanti 26 concessioni, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi, sono distribuite tra mar Adriatico, mar Ionio e canale di Sicilia. Di queste, 9 concessioni (per 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza ma con proroga già richiesta; le altre 17 concessioni (per 41 piattaforme) scadranno tra il 2017 e il 2027 e in caso di vittoria del Sì arriveranno comunque a naturale scadenza. Il referendum avrebbe conseguenze già entro il 2018 per 21 concessioni in totale sulle 31 attive : 7 sono in Sicilia, 5 in Calabria, 3 in Puglia, 2 in Basilicata e in Emilia-Romagna, una in Veneto e nelle Marche. Il quesito referendario riguarda anche 9 permessi di ricerca, quattro nell'alto Adriatico, 2 nell'Adriatico centrale davanti alle coste abruzzesi, uno nel mare di Sicilia, tra Pachino e Pozzallo, uno al largo di Pantelleria.
Perché sia valido, il referendum dovrà raggiungere il quorum, ovvero la partecipazione del cinquanta per cento più uno degli aventi diritto. La data è stata decisa dal Consiglio dei ministri che ha suscitato polemiche tra i sostenitori del "sì" per il mancato accorpamento del referendum alla tornata amministrativa di fine primavera. Per partecipare i cittadini italiani che hanno compiuto il 18esimo anno di età dovranno recarsi nel proprio seggio di appartenenza con tessera elettorale e documento di identità.
Una vittoria del "sì" obbligherebbe le attività petrolifere a cessare progressivamente la loro attività secondo la scadenza "naturale" fissata originariamente al momento del rilascio delle concessioni, al di là delle condizioni del giacimento. Lo stop, quindi, non sarebbe immediato, ma arriverebbe solo alla scadenza dei contratti già attivi. Se passa il "sì", inoltre, si potranno comunque ancora cercare ed estrarre idrocarburi al di là delle 12 miglia e sulla terraferma.
Con il "no" o il mancato raggiungimento del quorum le attività di ricerca ed estrazione non avrebbero una data di scadenza certa, ma potrebbero proseguire fino all'esaurimento dei giacimenti interessati. Le concessioni attualmente in essere avevano una durata di trent'anni con la possibilità di due successive proroghe, di dieci e di cinque anni. Con una modifica apportata al testo in materia dall'ultima legge di Stabilità potrebbero però rimanere "per la durata di vita utile del giacimento".
Con il "no" questa possibilità rimarrebbe, ovviamente nel rispetto delle valutazioni di impatto
ambientale che andranno in ogni caso fatte in caso di richiesta di rinnovo.
I comitati per il Sì ammettono che per una serie di ragioni tecniche è impossibile che in Italia si verifichi un disastro come quello avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico, quando una piattaforma esplose liberando nell'oceano 780 milioni di litri di greggio. A preoccupare sono le operazioni di routine che provocano un inquinamento di fondo provocato dal catrame. Secondo un'indagine dell'Ispra, inoltre, il mare italiano accanto alle piattaforme estrattive presenta sedimenti con livelli di inquinamento oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie.
Chi si oppone al referendum, tra cui il comitato "Ottimisti e Razionali", costituito da soggetti provenienti soprattutto dal mondo delle imprese, afferma che ridurre l'estrazione di idrocarburi dai nostri giacimenti comporta maggiori importazioni. Oltre all'impatto negativo sull'economia, sul versante ambientale aumenterebbe il numero di petroliere in transito nei mari italiani, con evidenti conseguenze in termini di inquinamento. L'estrazione del gas, maggiore rispetto a quella del petrolio, è sicura e non danneggia l'ambiente, le piattaforme sono aree di ripopolamento ittico.
La diatriba davanti alla scheda di domenica di domenica 17 la si può riassumerla così: è meglio arricchire possibili acquirenti (Secondo le stime il petrolio presente nei mari italiani sarebbe pari a 700 milioni di tonnellate. Il nostro consumo attuale all’anno è 58 milioni di tonnellate) o evitare di deturpare le nostre bellezze marine (un mare chiuso come il Mediterraneo il disastro ambientale sarebbe amplificato)?
L'Associazione per lo studio del picco del petrolio (ASPO Italia) ha ricordato poi a tutti che già il presente è -e dovrà esserlo ancor di più- rinnovabile, e che la Conferenza mondiale sul clima a Parigi, COP21, ha prodotto in tal senso raccomandazioni precise. Citando ricerche autorevoli -pubblicate su Nature all’inizio del 2015- ha poi ribadito che “se si vuole mantenere l'aumento di temperatura globale ben al di sotto dei 2°C, come raccomandato nel documento finale della COP21 di Parigi nello scorso novembre, un terzo delle riserve di petrolio e la metà di quelle di gas non dovrebbero essere estratte”.
“Per quale ragione le riserve italiane dovrebbero fare eccezione?”, si è chiesta l’associazione, smontando pezzo per pezzo la retorica di un’Italia simile ad “una specie di Arabia Saudita del Mediterraneo, che rinuncia ad una fortuna per motivi futili”. “La realtà dietro alle affermazioni pubblicitarie fatte da politici e agenti di pubbliche relazioni delle compagnie petrolifere travestiti da esperti -ha spiegato ASPO- mostra che i tanto auspicati aumenti produttivi possibili potrebbero essere mantenuti per un periodo non superiore agli 8 anni, e anzi quasi certamente inferiore ai 5”.
Dunque, non toccare gli idrocarburi è un’azione saggia: “Tutti i benefici relativi agli idrocarburi non estratti (occupazione, proventi per la collettività) possono essere lasciati ai nostri figli e nipoti che ce ne saranno grati”, perché “gli idrocarburi non hanno solo usi energetici, ma sono materie prime fondamentali in vasti campi di applicazione dell’industria petrolchimica come la produzione di polimeri (plastiche), farmaci e fertilizzanti”.
domenica 3 aprile 2016
Migranti, il sindaco di Riace tra i più influenti al mondo
Mimmo Lucano, primo cittadino di Riace: per Fortune è tra le 50 persone più influenti del mondo. "Grazie ai migranti il mio paese è rinato".
C'è un solo italiano fra i 50 personaggi più influenti al mondo. Non ha incarichi di governo, né è a capo di una grande azienda. A Riace tutto arriva nel mare. I pirati turchi nell'antichità, i due guerrieri nudi modellati da Fidia o da maestri della sua bottega - quei sensazionali Bronzi rinvenuti sui fondali da un sub a 8 metri di profondità - e un veliero carico di curdi, che nel 1998 ha trasformato uno sbarco di profughi in un'opportunità. Era estate, le 4 del mattino, e la costa ionica calabrese non sarebbe stata più la stessa: l'immigrazione di quegli 800 uomini (e donne e bambini), provenienti da Afghanistan e Iraq, ha risvegliato un borgo fantasma. Che oggi è un esempio di accoglienza.
Domenico Lucano allora era a capo dell'associazione Città Futura, dedicata a don Giuseppe Puglisi, ma già elaborava nuove forme di convivenza. Oggi, che è sindaco di Riace da tre mandati, è per il Fortune Magazine uno dei 50 leader più influenti del mondo. Un quarto dei suoi concittadini non sono nati in Calabria: arrivano dall'Afghanistan, dal Senegal, dal Mali, hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo e a Riace hanno trovato una casa.
"Qui non ci sono centri d'accoglienza, qui ai migranti diamo una casa vera", dice orgoglioso Lucano, sindaco della cittadina che neanche i Bronzi - statue di guerrieri del V secolo a. C. ritrovate in mare negli anni '70 - hanno salvato da povertà e desertificazione. Lo hanno fatto i profughi: strade e case svuotate dall'emigrazione sono state ripopolate da una comunità multietnica che ha riportato in vita anche gli antichi mestieri. Hanno riaperto laboratori di ceramica e tessitura, bar, panetterie e persino la scuola elementare. È stato avviato un programma di raccolta differenziata con due asinelli che si inerpicano nei vicoli del centro, e il Comune ha assunto mediatori culturali "che altrimenti avrebbero dovuto cercare lavoro altrove ". Un modello che, scrive Fortune, "ha messo contro Lucano la mafia e lo Stato, ma è stato studiato come possibile soluzione alla crisi dei rifugiati in Europa".
Non è snobismo o falsa modestia, ma il suo modo per restare visionario: “Non ne sapevo nulla e mi chiedo come abbiano fatto i giornalisti della rivista americana a scoprire questa estrema periferia del mondo”, afferma concitato (come sempre), mentre scende alla marina dal centro storico. Domenico Lucano, 59 anni, ex maestro di scuola, “ha realizzato un modello di ospitalità studiato in tutta Europa”, si legge nel profilo dei World's 50 Greatest Leaders. Un programma di integrazione sostenibile che ha rivitalizzato l'economia e il tessuto sociale di un borgo destinato a svuotarsi.
“Non ci sono ricette, misure, programmi definiti. Non so nemmeno se quello che ho fatto è replicabile altrove. Forse è tutto una casualità, un'avventura umana di cui all'inizio non conoscevo i rischi e nemmeno i limiti. E' stata l'occasione che mi ha guidato”. Mimmo, detto “u curdu”, però va fiero dei risultati: “La mia è una comunità felice, perché l'inclusione conviene a tutti. Ne godono i residenti, qui riaprono scuole e ristoranti. La natalità supera la mortalità. Ne gioiscono i rifugiati che trovano case e botteghe. Tessono, ricamano, lavorano il vetro, il legno, il cioccolato. Così è rinato il centro storico. E io sono felice di sentirmi utile: non voglio poltrone, ma solo fare il bene della mia gente”.
Che Lucano avesse stoffa, se ne era accorto anche Wim Wenders. Il regista avrebbe dovuto girare le riprese del suo cortometraggio in 3D “Il volo” a Scilla. Storie di rifugiati, di una Locride ospitale, di un altro Sud. Voleva simulare uno sbarco sulle coste e aveva bisogno di reclutare naufraghi. Il sindaco di Riace si mette a sua disposizione, lo porta nel suo borgo, a 8 chilometri dal mare. Gli presenta Ramadullah, il bambino afghano di 8 anni che durante la fuga dal suo paese ha perso tutta la famiglia. Ha tanto da raccontare, però non è disposto a spostarsi ogni giorno a Scilla per fare il cinema. Così Wenders si trasferisce con la troupe a Riace. Ben Gazzara nella prima parte del docufilm è Mimmo Lucano. Nella seconda, il regista tedesco intervista il sindaco in persona. Presentando il suo lavoro a Berlino, Wenders ha dichiarato che “in Calabria cadono muri ancora più importanti di quello abbattuto 27 anni fa in Germania”.
L'esperienza di Riace è contagiosa: Caulonia e Stignano aprono ai profughi le case disabitate. Offrono assistenza sanitaria e legale. Tutt'intorno si allarga la Rete dei comuni solidali. Diverse associazioni lavorano per l'integrazione: A sud di Lampedusa, Il Girasole, Real Riace e Riace Accoglie. Più di 6000 i rifugiati accolti negli anni nel paesino dell'alta locride, 400 quelli presenti in pianta stabile nel centro storico. Sono il 50% della popolazione locale. Il flusso è continuo: i progetti di solidarietà di Riace sono legati al Sistema di protezione dei richiedenti asilo del ministero degli Interni. Sempre connessi alla rinascita del paese. Ed è boom di turismo solidale: i visitatori della costa ionica possono soggiornare nelle case recuperate del borgo, condividendo parte della proprie giornate con gli abitanti del luogo, compresi quelli di 20 etnie diverse.
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