domenica 23 febbraio 2020

Voto storico in Irlanda



Venti di rivoluzione in Irlanda, secondo gli exit poll delle elezioni anticipate di ieri. La sinistra nazionalista del Sinn Fein, paladina dei sogni di riunificazione con l'Ulster, alimentati anche dai possibili contraccolpi della Brexit sul grande vicino britannico, è per la prima volta in corsa per il traguardo di primo partito della Repubblica da un secolo: e, anche se la maggioranza assoluta resta fuori portata e non potrà andare al governo, appare in grado di condizionare l'agenda futura del Paese.

Lo scrutinio è iniziato stamani, procede a rilento e si concluderà non prima di lunedì, ma gli exit diffusi dalla tv pubblica Rte indicano un testa a testa all'ultima scheda. Con il Sinn Fein di Mary Lou McDonald - la leader 50enne subentrata a Gerry Adams e protagonista del cambio generazionale che ha portato quello che fu il braccio politico della guerriglia dell'Ira da forza di riferimento della trincea repubblicana nel solo Ulster a partito competitivo pure a Dublino - che avanza al 22,3%. E i due partitoni filo-Ue di centro-destra che da sempre si contendono il potere nell'isola, il Fine Gael del premier uscente Leo Varadkar (Ppe), il più giovane nella storia irlandese, oltre che il primo gay dichiarato e figlio di padre immigrato, e il Fianna Fail di Micheal Martin (liberali), rispettivamente al 22,4 e al 22,2%.

Dato il margine di errore, si tratta di una parità virtuale che i risultati reali potrebbero far oscillare. Mentre resta da decidere l'assegnazione dei seggi secondo un complicato sistema proporzionale trasferibile (con indicazione delle seconde e terze preferenze) destinato alla fine a lasciare comunque spazio a una coalizione fra Fianna Fail e Fine Gael (che in campagna elettorale hanno escluso accordi con il partito della McDonald) o un governo retto dalla stampella di gruppi minori come i Verdi e i Laburisti.

Ma il Sinn Fein (in gaelico Noi Stessi), pur avendo presentato solo 42 candidati a fronte degli 80 seggi necessari per la maggioranza assoluta, sarà comunque il vincitore morale: ovvero, la risposta di una parte non piccola d'irlandesi sia alla sfida della Brexit, sia soprattutto ai problemi sociali. Un partito la cui ascesa rompe un tabù sull'isola verde, quello dei vecchi legami con la disciolta Ira e la lotta armata durante la sanguinosa stagione dei 'troubles', a oltre 20 anni dall'accordo di pace del Venerdì santo. E mette quanto meno sul tavolo del confronto una piattaforma radicale che invoca un referendum sulla riunificazione entro 5 anni, problematico e ad alto rischio di conflitto, ma meno aleatorio del passato sullo sfondo dei potenziali effetti sull'Irlanda del Nord del divorzio del Regno Unito dall'Ue; nonché un programma economico e sui diritti civili di sinistra-sinistra, ispirato agli spagnoli di Podemos o a Jeremy Corbyn su dossier quali la spesa pubblica, la sanità, l'edilizia popolare.

Nuova lega anseatica coalizione anti brexit



La Lega anseatica (nota come Hansa, termine germanico usato nel senso di “raggruppamento”) fu un’alleanza commerciale fondata nel XII secolo (tardo Medioevo), tra mercanti dell’Europa settentrionale.

L’alleanza aveva sedi in numerose città che si affacciavano sul mare del Nord e sul mar Baltico. Ne facevano parte Lubecca, Colonia, Brema e Amburgo in Germania; Stettino e Danzica in Polonia; Stoccolma e Visby in Svezia; Riga, Tallinn e Tartu in Lettonia ed Estonia; Novgorod in Russia e molte altre città. La sede principale dell’Hansa fu Lubecca.

Grazie alle navi appartenenti ai mercanti dell’Hansa, un’infinità di prodotti di diversa provenienza raggiungeva tutte le città dell’alleanza, originando enormi profitti commerciali. Nelle città anseatiche questa ricchezza favorì inoltre lo sviluppo di fiorenti attività artigianali.

Un nuovo soggetto politico si aggira per l’Europa da quasi due anni, nato dalle ceneri di Brexit e desideroso di far sentire forte la propria voce. È la cosiddetta Nuova lega anseatica, una coalizione tra Olanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Lituania, Lettonia, Estonia e Irlanda che - ispirandosi ai fasti dell’alleanza tra città dell’Europa settentrionale e del Baltico che dominò il commercio tra il tardo Medio Evo e il XVI secolo – punta a difendere gli interessi, anche commerciali, dei suoi membri. E a improntare le riforme dell’Eurozona, come suggerisce il logo: uno stemma medievale dove, insieme alle bandiere, compare il simbolo dell’euro.

Promotore del progetto l’Olanda, chiare sin dal documento costitutivo – una lettera dei ministri delle Finanze del febbraio 2018 - le intenzioni: richiamare l’Eurozona prima di tutto al rispetto delle regole di bilancio e spingere perché si concentri sul completamento delle riforme già avviate (dall’unione bancaria al mercato unico) piuttosto che su un ulteriore trasferimento di competenze.

In questa presa di posizione, come sottolinea Greg Lewicki, PhD e autore per il Polish Economic Institute dello studio “Hansa 2.0. Un ritorno all’Età dell’oro del commercio?”, c’è prima di tutto un messaggio alla Francia di Macron «che cerca di attuare una fuga in avanti, allo scopo di contrapporre successi internazionali a una grave instabilità interna, evidenziata dalla protesta dei Gilets gialli. Di qui l’idea di un budget separato per la Francia e gli altri Paesi dell’Eurozona». Non sorprende perciò il fatto che proprio con Parigi si siano già verificati contrasti vivaci, con il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire che, ricevendo nel novembre scorso il suo omologo olandese Wopke Hoekstra, definì la Lega anseatica 2.0 un «club chiuso» che minacciava l’unità europea.

Diverso il rapporto con la Germania, più vicina al conservatorismo rigorista in materia di conti pubblici di questi Paesi e per la quale, come sottolinea ancora Lewicki, l’alleanza è «un utile strumento per controbilanciare le idee francesi che non piacciono alle élite tedesche. Anche se nessuno probabilmente lo ammetterebbe ufficialmente».

Illustrando le relazioni della Nuova lega anseatica con Francia e Germania, un’altra considerazione si impone. Nelle prese di posizione di questi Paesi ci sono i timori innescati dalla grave crisi del debito che l’Europa ha dovuto affrontare, ma il primo motore appare senza dubbio Brexit, con la perdita di un alleato chiave e campione del liberismo come la Gran Bretagna. «È fondamentale notare – evidenzia Lewicki – che, nei negoziati su questioni economiche, il sistema europeo funzionava come uno spinner, un meccanismo imperniato su tre poli rappresentati da Francia, Germania e Regno Unito. Ma il Regno Unito è quasi uscito. Perciò l’Olanda e i suoi alleati vogliono presentarsi come l’equivalente funzionale di Londra, un gruppo con obiettivi ben definiti in grado di bilanciare, collettivamente, l’approccio franco-tedesco».

La Nuova lega anseatica finirà dunque per indebolire il progetto europeo, come denunciano i francesi? Per Greg Lewicki è il contrario: «Credo che senza idee come quelle di questi Paesi siamo condannati. In passato la diversità all’interno di una stessa civiltà era un vantaggio, ma oggi la tendenza è opposta: la diversità politica significa con tutta probabilità confini e i confini significano che l’impatto a livello globale viene limitato. La Lega anseatica ci dà la vaga speranza che l’Europa un giorno sarà capace di competere economicamente a livello globale».

La Nuova lega anseatica è una delle tante manifestazioni di quella che lo studio del Polish Economic Institute definisce la “nuova medievalizzazione dell’Europa”, fondata su «strutture a più livelli e multipolari, le corporazioni, e altre reti internazionali che oltrepassano i confini». «Come una volta una miriade di gilde e associazioni prosperavano sotto le insegne della Cristianità – conclude Lewicki – oggi, sotto la bandiera dell’Unione europea, vediamo l’emergere di numerose iniziative locali e finalizzate all’obiettivo , come la Nuova lega anseatica o l’Iniziativa dei Tre Mari (l’unione di 12 Paesi Ue per contrastare la minaccia russa lanciata nel 2015, ndr)».

Ma ciò che li accomuna è chiaro: sono i falchi fiscali d’Europa. Liberisti fino al midollo. Araldi del pari in bilancio. Nemici giurati dell’interventismo e del gigantismo statale. Contrari a stanziare soldi dei propri contribuenti per soccorrere Stati membri in difficoltà. Basti ricordare che nel 2011 la Finlandia chiese l’Acropoli e le isole egee a titolo di garanzia per sottrarre la Grecia alla bancarotta. Aggiunge al tutto una punta d’ironia l’adesione al club dell’Irlanda, uscita nel 2013 proprio da tre anni di programma di salvataggio.

Per sincerarsi degli orientamenti ideologici è sufficiente scorrere uno dei documenti prodotti di recente: «La prima linea di difesa dovrà sempre essere al livello nazionale, sotto forma di politiche fiscali prudenti nel rispetto del Patto di stabilità e crescita e di decise riforme strutturali che rafforzino l’economia in generale e le finanze pubbliche.

La coalizione possiede un preciso sostrato geopolitico. In formula: la nuova lega anseatica è una reazione all’addio del Regno Unito, un ostacolo ai piani della Francia e uno strumento utile alla Germania. Scomponiamo i tre fattori.

Il Brexit sta rimuovendo uno dei vertici del triangolo Berlino-Parigi-Londra attorno al quale si erano adagiati negli ultimi decenni i membri più piccoli dell’Ue, in particolare quelli settentrionali. Primi fra tutti i l’Olanda, centro geometrico di questa figura oggi sbilanciata.

L’Aia, per esempio, trovava conveniente mandare avanti Londra per chiedere un maggiore coinvolgimento decisionale dei parlamenti nazionali, una riduzione dei benefit per gli immigrati e un alleggerimento della burocrazia per le imprese.

Il bersaglio principale dei neoanseatici è Parigi. Più precisamente, un’Europa trainata da francesi e tedeschi. Ad Aquisgrana, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno voluto rinnovare il trattato dell’Eliseo per nascondere le reciproche debolezze dietro un’artificiosa unità d’intenti sull’Ue. Una sceneggiata. Ma che ha comunque adirato gli otto paesi, secondo i quali la Commissione europea ha esternalizzato il proprio ruolo di iniziativa a Francia e Germania.

Comprensibilmente, nessuno vuol vedersi recapitare decisioni già concordate in altre stanze. In particolare quelle avanzate dai transalpini, sempre ammantate di luccicanti ambizioni – vedi il ministro dell’Economia e delle Finanze Bruno Le Maire che vorrebbe fare un nouvel empire dell’Europa, con la Grande nation quale ovvia guida spirituale.

Così, la coalizione nordeuropea ha speso il 2018 a sabotare la proposta di Parigi di dotare l’Eurozona di un ministro delle Finanze e di un bilancio separato, da impiegare anche per aggiustare gli squilibri degli Stati che adottano la valuta comune. Finendo per farla deragliare del tutto: del ministro neanche l’ombra, il budget sarà una voce di quello generale dell’Ue e il capo delle Finanze olandesi Wopke Hoekstra ha fatto rimuovere dopo ore di estenuanti trattative con Le Maire ogni riferimento all’uso del bilancio a scopi di stabilizzazione, troppo in odore di pietismo mediterraneo.

La nuova lega anseatica si oppone ai progetti francesi di aumentare l’integrazione nell’Eurozona anche perché riconosce l’intento di Parigi di spostare più a sud-ovest, ossia verso di sé, il baricentro decisionale dell’Ue, ora coincidente con il cuore dello spazio germanico. Dando una veste geopolitica alla moneta comune, l’Esagono avrebbe potuto ergersi a campione dei membri mediterranei, Italia compresa, le cui casse hanno più bisogno di respirare. Aggiustando così a proprio favore gli sbilanciati rapporti di forza con la Germania.

Come evidente nel caso dell’Irlanda in cerca di alleati contro la tassa digitale che minaccia l’esodo delle tante multinazionali extraeuropee stanziate nell’isola. O ancora nella strenua opposizione alla riforma delle regole della competitività e della concorrenza avanzate, di nuovo, da francesi e tedeschi per creare dei campioni europei, cioè imprese dotate della taglia e della mentalità imprenditoriale per resistere ai concorrenti cinesi e americani.

Logico che i paesi piccoli siano contrari, poiché più hanno da perdere da un rilassamento delle regole sul monopolio – di cui non a caso è stata finora protettrice una commissaria danese, Margrethe Vestager.

Non s’intravedono molte concrete politiche comunitarie su cui questi Stati membri possano convergere con un approccio costruttivo. Sembra semmai accomunarli un orientamento ancora molto generico sul mantenere leggera l’Ue, sulla difesa della mano invisibile dell’economia dalle ingerenze delle burocrazie centrali e sull’approfondimento dei flussi commerciali (tutti intendono sviluppare digitalizzazione, mercato unico dei capitali, accordi di libero scambio).

Questo scenario è sempre presente nei piani d’emergenza tedeschi poiché risponde all’imperativo strategico, costante nella storia dei popoli germanici, di circondarsi di un’area in cui commerciare il surplus produttivo della nazione, pena il tracollo economico. Contrastare un simile sviluppo è prioritario per gli Stati Uniti, che da cento e due anni intervengono in Europa per scongiurare l’espansionismo dello spazio germanico o la sua conquista da parte di terzi.